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    Vivere l’interiorità


    Interiorità ed educazione /2

    Marisa Musaio

    (NPG 2012-05-20)


    Tematica in sé vasta e tale da richiedere la definizione dei confini entro i quali ci si intende muovere, soprattutto se ci si propone di individuare delle piste di riflessione pedagogica e delle tracce sul piano dell’azione educativa, il tema dell’interiorità si presenta oggi quanto mai incalzante se si vuole educare la persona a scoprire e ad accrescere i nuclei più profondi di sé.[1]
    L’idea che fa da sfondo alla stessa concezione antropologica classica considera l’interiorità come la sintesi unitaria della persona, e contiene gli spunti iniziali di una pedagogia dell’interiorità sin da quando Socrate faceva leva sul maestro interiore contrapponendosi alla influenza di una certa pedagogia della persuasione e dell’opinione praticata invece dai sofisti.
    Il messaggio educativo socratico, contribuendo a radicare l’educazione all’interno di una visione dell’uomo e della ricerca della verità, propone un processo di apprendimento che avvia l’uomo ad aver cura di se stesso, a generarsi sempre maieuticamente in una pienezza d’essere attraverso l’aiuto dell’educatore che agisce nei suoi confronti alla stessa maniera di un’ostetrica: così come l’ostetrica non genera, ma aiuta a generare, alla stessa maniera l’educatore aiuta l’educando a «prendere dimestichezza» con quanto risiede in se stesso, per essere in grado di realizzare un adeguato ingresso nella realtà.

    UN PUNTO DI PARTENZA: L’EDUCABILITÀ DI OGNUNO

    Nell’interpretazione delle scienze psicologiche, il rimando alla parte profonda di noi stessi richiama solitamente la psiche del soggetto, ma l’ipotesi di una lettura dell’interiorità come sede della nostra continua e mai compiuta educabilità, ci orienta verso la considerazione non solo della componente psicologica, ma in senso più ampio di una natura umana che si declina in senso esistenziale, etico e spirituale, e che concorre a delineare una interiorità in divenire presente sin dalle fasi iniziali della nostra vita.
    L’educabilità è il proprium di ogni persona, che rinvia a qualcosa di originario, di iniziale, intrinsecamente legata alla forma nell’uomo. Il richiamo alla forma nell’uomo implica il riferimento a quella legge della possibilità interna che rinvia alle attuazioni e alle trasformazioni di carattere perfettivo che l’uomo tende ad attuare all’interno di sé. Tendere verso l’attuazione della propria forma umana vuol dire mettere in atto il richiamo al possibile, alla possibilità, non nel senso di un’astratta potenza o materia chiamata ad attuarsi, ma come attuazione di sé in termini di movimento esplicativo, cambiamento e possibilità di muovere verso qualcosa in grado di riflettere tutta la complessità e la ricchezza del nostro essere. La forma di noi stessi «dice» pertanto il farsi, il compiersi stesso dell’uomo e del senso della sua vita, l’attuazione dei suoi fini che può avvenire in modi diversi e che definisce l’attuabilità della persona.
    Se l’educabilità ha pertanto attinenza con la vita stessa dell’uomo sotto la sfera del possibile e della possibilità, essa è volta a consentire alla natura umana di manifestarsi in tutte le sue forme anche come interiore modalità del farsi di ognuno. L’uomo viene educandosi sempre a partire da una valutazione intima e interiore del senso della vita che egli ricerca attraverso realizzazioni e trasformazioni differenti, ma che riguardano pur sempre l’ambito della sua coscienza, e che implicano valutazioni di carattere perfettivo volte a consentire di perfezionare ulteriormente la natura stessa dell’uomo.
    L’educabilità come condizione di partenza delinea la possibilità di ognuno di divenire ciò che egli è già dentro di sé, come portatore di potenzialità, attitudini, caratteristiche proprie che chiedono di essere educate e formate per permettere al soggetto di attuare la forma di se stesso. Sin dalle primissime fasi dell’infanzia il bambino, all’interno di quello che è il continuo fluire della vita, non fa che divenire e prendere forma sia in una successione temporale sia in una successione spaziale che procede dall’interno verso l’esterno, si pensi ai processi di socializzazione e alla graduale capacità di relazionarsi agli altri; ma anche attraverso un movimento che procede dall’esterno verso l’interno attraverso i processi di interiorizzazione delle esperienze, dei modelli e dei valori che il soggetto compie.
    Da questo ultimo punto di vista possiamo sostenere che la forma personale di ognuno si sviluppa attraverso tutto ciò che attiene alla profondità e all’interiorità della persona. La forma personale è l’immagine di sé che l’uomo viene costruendo muovendo dalle proprie profondità:

    «In ogni momento, ciascun uomo avverte, intenso, il bisogno di ancorare il proprio continuo movimento a un principio unico e identico al quale ricondurre il senso e il significato di quella molteplicità di mutamenti che segna l’esistenza».[2]

    Nel formarsi l’uomo avverte la necessità di ricondurre la molteplicità del fluire delle cose e delle esperienze con le quali viene in contatto ad un principio di identità unico e identico, avverte cioè l’esigenza di formarsi un’identità unica, ma non come struttura statica e sempre uguale a se stessa, ma che possa emergere nella sua singolarità, diversità e irripetibilità, come identità che non si confonde e né si sovrappone a quella di altri.

    Rintracciare la forma personale

    La riflessione intorno all’educabilità come rimando all’attuarsi interiore delle potenzialità del soggetto, sul piano dell’azione educativa comporta l’attenzione a due componenti essenziali: il prendere forma dell’essere originale di ciascuno; e il richiamo all’educazione come compito. Il prendere forma rinvia all’attuarsi dell’educabilità iniziale che si traduce via via in una possibilità concreta e che viene definendo al tempo stesso la vita del soggetto come compito da attuare e realizzare.
    La persona educabile, delineandosi in termini di potenzialità iniziale, è chiamata sia ad attuare tutta se stessa, sia a configurare la propria vita come compito da realizzarsi pienamente affinché possa realizzarsi come soggetto d’umanità nella pienezza di tutto il suo essere e con l’umanità di cui è parte.[3] Attraverso un iter che procede dall’educabilità, attraverso l’educazione verso la formazione completa di sé, l’uomo è chiamato ad un impegno totale verso se stesso, che coinvolge e definisce ogni sua possibilità di essere.
    La dimensione del compito di divenire se stessi, di riconoscersi e attuarsi in quanto essere umano, fa sì che l’educabilità potenziale diventi possibilità concreta, e in quanto tale, si tratta di un compito che impegna l’uomo in tutta la sua interezza e per la totalità della sua esistenza, compito che non può essere suddiviso o frazionato poiché non è possibile frazionare l’essere e il senso dell’essere, così come non è possibile sospendere il prendere forma [4] essendo la persona incessantemente tesa a perfezionare se stessa.
    Il discorso intorno all’educabilità, come alimento interno della nostra interiorità, ha il merito di farci percepire qual è il punto di avvio, qual è l’origine, quel punto dal quale si sviluppa un dinamismo che si apre alla relazionalità di un essere che si rivela strutturalmente come essere in relazione. Porre attenzione all’educabilità significa riconoscere implicitamente la centralità che riveste il soggetto da educare, significa interrogarsi sulla sua individualità, unicità, originalità, significa riconoscere l’attenzione per l’uomo come tema centrale di una riflessione pedagogica ed educativa, poiché quando si educa si fa sempre riferimento ad una prospettiva e ad una visione sull’uomo, sulla sua natura e sul significato della sua stessa esistenza.
    Tema complesso, profondo, inesauribile, la domanda intorno all’uomo ci apre, sul piano della teoresi pedagogica, alla problematica della soggettività contemporanea e alla difficoltà di definire un soggetto sempre più in crisi; dall’altro, sul piano della pratica educativa, ad affrontare una ricerca e un «viaggio» da compiere intorno e dentro quella realtà che è la persona, e che in educazione si svela e si rivela, ma che ci chiama al tempo stesso a saperla ‘leggere’, guardare, ascoltare. E nell’avviare questo viaggio, ogni educatore ha modo di accorgersi come educare non significa fermarsi in superficie, ma discendere nell’interiorità dell’altro.
    Ma come fare e da dove prendere avvio?

    «VIVERE » COME PERSONA

    Delineati i termini della questione intorno all’interiorità, si pone il problema di come accompagnare un lavoro di introspezione e di conoscenza di sé considerando che questo percorso si ricollega ad ogni indagine dell’uomo su se stesso e all’incontro che egli realizza con la propria soggettività, nella consapevolezza che un tale percorso è in grado di condurci ad incontrare le forme più intime e inaccessibili del nostro essere.
    Ma quando parliamo di esperienza interiore ci riferiamo in particolare ad un’esperienza vissuta, immediatamente rivolta al soggetto, al suo cogliersi in maniera immediata, perché «L’introspezione è per essenza un lavoro che ognuno deve svolgere in proprio, interpretando le proprie esperienze vissute»,[5] come esperienza che lo coinvolge completamente nella sua vita, dove per vita si intende non semplicemente quella in senso biologico, fisico o materiale, ma quel modo di essere integrale dell’uomo.
    A tal proposito risultano interessanti alcune sottolineature del filosofo Paul Landsberg quando afferma che il compimento dell’esperienza interiore è parte del divenire del soggetto personale che diviene ancora più insostituibile e autonomo, più interiore a se stesso, egli «non permane semplicemente in se stesso, ma percorre la ‘via misteriosa’ (Novalis) del divenire-se-stesso e dell’umanizzazione. La legittima conoscenza del Sé ne trasforma la storia, ma in direzione della verità sua propria».[6]

    Insieme essere e divenire persone

    Quando conosciamo noi stessi interiormente non stiamo attuando una forma di conoscenza neutra, come quando conosciamo un oggetto esteriore, ma mettiamo in atto un movimento di acquisizione della nostra essenza di persona, un movimento di personalizzazione, come direbbe Mounier, un divenire sempre più noi stessi, una continua umanizzazione che richiama la tendenza incessante verso la realizzazione, verso il farsi della persona come processo e non come una sostanza statica:

    «solo l’essere umano in senso essenziale può essere più o meno uomo, più o meno se stesso, più o meno persona in un momento della sua vita piuttosto che in un altro. […] la persona è persona e nello stesso tempo diviene persona. Colmare la distanza che intercorre tra ciò che si è e ciò che si può divenire, significa compiere il proprio dovere e realizzare la propria vocazione. In quanto soggetto ragionevole, dotato di volontà e autocosciente, la persona non è consegnata al determinismo, ma al contrario, come “unità che diviene”, è in grado di autoconfigurarsi mediante atti unici e irripetibili».

    Mounier affermava che la persona è «un’attività vissuta come auto creazione, comunicazione e adesione, che si coglie e si conosce nel suo atto, come movimento di personalizzazione».[7] In quanto inoggettivabile e trascendente, essa non si può definire, sfugge ad ogni definizione: da ciò il suo emergere attraverso i suoi caratteri creativi di movimento che viene esplicandosi, di essere sempre in divenire.
    A tal proposito Gabriel Marcel parlava della persona nella sua fedeltà creatrice come atto con cui la persona crea se stessa,[8] mentre il filosofo Paul Ricoeur ha evidenziato la persona come «centro di una attitudine».[9] Tutte queste sottolineature vanno nella direzione di accrescere la nostra consapevolezza di doverci conoscere come persone in quanto esito di una conquista, da realizzare come compito continuo, come ciò che si autocrea, pur dinanzi alla consapevolezza della fragilità, dei limiti e dell’essere esposti al mondo.
    Ora, tale rapporto di esposizione e di risonanza tra la persona e la realtà, implica la considerazione di uno spazio di elaborazione personale che ognuno compie su di sé attraverso una dialettica continua tra attività e passività che apre alla possibilità di essere effettivamente se stessi proprio perché liberi.

    Educarci ed educare a conoscersi in profondità

    Posti in tal senso i termini della questione dell’interiorità, che è tale solo se implica anche il discorso correlativo della relazionalità, occorre interrogarsi sui percorsi riflessivi e operativi idonei allo sviluppo di tale dimensione che non può darsi se non all’interno della totalità dell’esperienza che la persona vive, avendo come obiettivo la piena integrazione tra interiorità, vita di relazione e ricerca veritativa.
    Aver cura dell’interiorità implica come educatori sviluppare la consapevolezza dei problemi, delle paure e degli smarrimenti che l’uomo avverte di fronte a se stesso, al senso della vita, dell’amore e della morte, ma anche nei confronti della ricerca della verità, in considerazione del fatto che l’educazione non coincide con l’individuazione di risposte predeterminate valide per tutte le situazioni né con affermazioni di principio prive di ricadute sulla vita personale.
    Per un’educazione all’interiorità valgono quelle indicazioni che aiutano a salvaguardare la persona sia da identificazioni che tendono ad assorbirla in un tutto indistinto di cose e relazioni privandola della sua singolarità e disperdendola in una molteplicità dal carattere indefinito, sia da identificazioni che, concentrando l’attenzione su una soggettività ripiegata intimisticamente su se stessa e staccata da ogni alterità, ne impediscono la realizzazione più autentica.

    Imparare a riconoscere i diversi luoghi dell’interiorità

    Certamente acquistare dimestichezza con la nostra interiorità significa avvicinarsi alla parte di noi stessi identificabile in una sorta di «fondo invisibile», da ascoltare come un fiume sommerso che «libera il mio pensiero».[10]
    In ognuno di noi c’è un luogo che tendiamo a considerare come nostro, unico, intimo, nel quale tendiamo a riconoscerci per mantenere la fiducia e la certezza nella nostra esistenza. Mentre ci identifichiamo con noi stessi, le cose, le esperienze e le relazioni concorrono a costituire la nostra vita interiore quasi come un contenitore attraverso il quale riusciamo a sentirci, pensarci, pur riconoscendo che in ogni caso una parte di noi ci sfugge e non siamo in grado in molti casi di portarla alla luce.
    Lo studioso Eugenio Borgna fa rilevare come avvertiamo dentro di noi una sorta di predisposizione naturale e spontanea al sentimento di autocoscienza di noi stessi soprattutto allorché percepiamo la nostra unicità e la sentiamo come un valore da difendere e da salvaguardare, tanto da sentire con certezza di averla dentro.[11] È per tale ragione che l’interiorità può essere a noi presente sia come luogo fisico sia come luogo simbolico di noi stessi, nel senso che essa ci è presente tanto come oggetto quanto come soggetto orientato a confrontarsi con la parte più intima di sé, con quegli aspetti che in molti casi si manifestano come parti sotterranee di noi, mutazioni, trasformazioni e trasalimenti del nostro essere.
    A tal proposito il mondo della produzione poetica e artistica ha contribuito ad alimentare metafore e immagini che definiscono efficacemente il mondo interiore, attraverso una scrittura lirica dell’io che cerca se stesso. Quando l’interiorità è resa liricamente si manifesta in una molteplicità di maschere, di personificazioni, di finzioni, di immagini, ma pur sempre senza mai tradire quel legame o patto che la lega al soggetto.
    Se le modalità liriche e poetiche ci riforniscono indubbiamente di metafore e modalità di conoscenza ed espressione dell’interiorità, rimane pur sempre fermo quel punto rappresentato dall’identità del soggetto che scrive se stesso nell’attesa di un tempo, racchiuso in uno spazio che lo vede pienamente esistente mentre sviluppa il racconto personale di sé attingendo in gran parte alle risonanze interiori prodotte dalle relazioni e dalle esperienze vissute.
    Seguendo alcune sollecitazioni rintracciabili nel pensiero della filosofa Maria Zambrano, risulta possibile evidenziare alcuni significati che la nostra vita interiore tende ad assumere in relazione a quel processo d’integrazione che la persona viene sviluppando intorno a se stessa per divenire sempre più protagonista della propria vita e al fine di attuare il possesso del proprio spazio interiore.[12]
    A tal proposito la Zambrano ci aiuta a distinguere i diversi luoghi dell’interiorità perché lo spazio interiore della persona tende in un certo senso a delinearsi attraverso l’integrazione di movimenti e tempi differenti: quello della psiche, al quale corrisponde il movimento dell’ambiguità, che è segno di mancanza di tempo, «necessità di estensione temporale, tensione senza movimento»; quello della coscienza, al quale corrisponde il movimento intenzionale del legare e dello slegare, del tenersi uniti in sé e dell’aprirsi all’altro; quello della persona che è invece un «movimento a spirale, integratore, aperto indefinitamente, e quindi mai privo di centro».[13]
    È a fronte anche di tali dimensioni interne, che siamo indotti a chiederci se l’interiorità possa essere pensata, come spesso ci accade di sentire dentro di noi, in relazione ad un luogo nel quale riuscire a rintracciare le tracce e i segnali di una nostra vita interiore, manifestazione della nostra personalità più autentica.

    PERCORSI ANTROPOLOGICI, CULTURALI E SPIRITUALI

    Il pedagogista Marcello Peretti ponendo attenzione ai «fattori formali» dell’educazione affermava che l’analisi della nostra esperienza interiore è il luogo dove si dispiega la dinamica dell’educazione nell’integralità dei suoi fattori e delle sue condizioni.[14] A ben guardare non è sempre facile attuare una trasposizione dell’interiorità in termini spaziali, perché questa operazione si rivela più che altro una metafora attraverso la quale poterci interrogare su quale sia l’interno o l’esterno rispetto al quale si configura l’educabilità della persona.
    Quando parliamo di ciò che è interno o esterno a noi siamo in grado di definire più facilmente cosa intendiamo per esterno dal punto di vista dello spazio, ma non riusciamo a fare altrettanto nel definire il punto di vista interno, perché difficilmente l’interiorità è individuabile in un luogo. «La vita segreta e interiore – rileva Demetrio – è una metafora, un simbolo e una manifestazione, […] del sentire»,[15] ad essa noi ci rivolgiamo alla ricerca di un rapporto sia con il sentimento sia con il pensiero di noi stessi.
    Secondo il punto di vista di questo autore l’educazione interiore costituisce l’apice dell’educazione personale come cammino e movimento dell’interiorità che ognuno compie sin a partire dai primi momenti della vita.
    Se comunemente l’educazione interiore viene fatta coincidere con un percorso e una ricerca intorno alla dimensione spirituale del proprio sé, essa porta al suo interno anche il richiamo ad una ricerca di carattere soggettivo, autobiografico, ad una ricerca di risposte che possono essere espressione dell’io interno, dell’inconscio personale, di quella irripetibilità di ognuno che tende ad esprimersi non direttamente ma «per indizi», che non tende a chiuderci in noi stessi in una sorta di difensiva narcisistica, ma che si profila invece come tentativo di «custodire» sempre più e sempre meglio noi stessi:

    «L’educazione è interiore se il suo autore, protagonista indiscusso di flussi di coscienza interrotti, ha un estremo bisogno di conoscere quanto ancora non gli appartiene. Non per edificare la sua trincea, […], la “cittadella interiore” dalla quale spiare quel che succede, ma piuttosto per uscire allo scoperto e far conoscere il suo sentire».[16]

    Certamente per il credente l’educazione interiore si inserisce in un cammino più ampio che rinvia ad dialogo con l’Altro da sé, con il divino, ma essa riveste un significato essenziale anche nella vita del non credente dal momento in cui diviene motivo essenziale per avviare un dialogo con il proprio pensare e riflettere intorno a se stessi, così come tende ad assumere valore e importanza nei momenti di crisi e di difficoltà, nei momenti di prova e di sofferenza, perché corrisponde ad una sorta di dialogo continuo che la persona sviluppa con sé e che può trovare alimento in forme e modalità diverse: dalla cultura, all’arte, alla riflessione filosofica, avvalendosi di strumenti diversi come la scrittura autobiografica, la musica, la contemplazione della natura e della bellezza in tutte le sue forme.
    Il ricorso alla metafora spaziale per figurarci l’interiorità come il luogo interno della nostra educabilità, può «funzionare» però a patto che si riconosca il rapporto essenziale e fondativo che intercorre tra interno ed esterno della persona: la persona trova certamente i suoi elementi costitutivi nel pensiero, nella coscienza, nell’anima, in definitiva rientrando in se stessa, ma questi elementi vanno intesi anche nella loro espressione verso l’esterno, come se la persona fosse una sorta di estensione di sé all’esterno, un’estensione all’esterno di ciò che concorre a delineare il proprio nucleo interiore.
    Solo in tal modo, tenendo bene presente questa duplicità di aspetti tra interno ed esterno, è possibile non far venire meno l’attenzione per ciò che ne costituisce il significato più profondo e, pur nella sua necessità di relazionarsi all’esterno, di coglierne l’esigenza intrinseca di esteriorizzarsi.
    Solo se si tiene in considerazione che la persona è un interno che necessita anche di esteriorizzarsi, risulta possibile porre i fondamenti di un’educazione in grado di compiersi non semplicemente rimanendo in superficie, ma scendendo nella profondità della persona ponendosi in ascolto ed esercitando la facoltà dell’attenzione, come direbbe Simone Weil, nei confronti del suo nucleo personale più intimo e, parallelamente, ponendo le condizioni idonee affinché la specificità e l’unicità della persona possa trovare idonea e autentica realizzazione. In tale direzione le diverse etimologie e definizioni mostrano del resto come il concetto stesso di persona sia legato ad una tensione verso l’esterno, alla necessità di esercitare uno sguardo rivolto innanzi, al risuonare, attraverso la maschera (prosopon), del carattere e dell’interiorità che si cela dietro il significato di persona come maschera teatrale.

    L’interiorità come percorso intenzionale di apertura

    L’interiorità, quale proprietà esclusiva della persona, non possiede una portata solo di carattere psicologico avente a che fare con la mente, la memoria e la coscienza di noi stessi. Essa si delinea piuttosto come la manifestazione del fatto che il nostro essere non essendo tutto in superficie secondo un’estensione e una durata, si dà anche nella dimensione del profondo e dell’intimità.
    Non è soltanto nella dimensione dell’extensio con cui l’uomo si protende verso l’ordine delle cose temporali e mutevoli, né nella distensio con cui si egli si dilata verso gli spazi e gli altri, ma nella dimensione della intentio con cui l’uomo tende a concentrarsi verso l’interno, ed è qui, soprattutto, che la sua esperienza si traduce in esistenza dal carattere interiore.
    Se all’interno di una educazione vissuta all’insegna dei presupposti fondanti di una visione cristiana, l’interiorità risulta essere una categoria decisiva che consente di diventare consapevoli che esistiamo come esseri umani dinanzi a Dio, dal punto di vista più strettamente antropologico essa si delinea come quella categoria universale, quindi appartenente e propria di tutti gli uomini, attraverso la quale la persona attua la presa di consapevolezza nei confronti di se stessa e della ricerca del vero all’interno della sua vita. Pertanto quanto più l’uomo si trasforma, si perfeziona, progredisce nella scienza e nella conoscenza delle cose, tanto più è chiamato ad accrescere sul piano dell’autoconoscenza rivolta verso di sé e verso la propria interiorità.
    Ma che la determinazione della natura propria della nostra vita interiore risulti di difficile definizione non costituisce certamente una novità: un intreccio tra pensiero, vita emotiva e affettiva, aspettative proprie della nostra natura desiderante, ma anche della nostra tensione ideale, etica e spirituale, rendono indubbiamente complessa la conoscenza di noi stessi. Così come non si può trascurare di considerare che quando si parla di interiorità in riferimento alla persona è facile cadere in una prospettiva dualistica come se all’interno di noi vengano delineandosi due persone diverse e contrapposte: quella interna e quella visibile all’esterno.

    L’apertura all’Altro da sé

    Questo modo di intendere, e in un certo senso di «visualizzare» l’interiorità, non aiuta a coglierne la relazione intrinseca che essa intrattiene con la persona nella sua complessità, ne accentua piuttosto fratture e scissioni non solo a livello personale ma anche interpersonale laddove un’autentica promozione di sé avviene non attraverso la centratura sul proprio io come realtà chiusa e circoscritta, ma solo attraverso l’apertura agli altri e all’Altro da sé.
    Se come abbiamo già rilevato, la trasposizione in termini spaziali si rivela più che altro una metafora attraverso la quale poterci interrogare su quale sia l’interno o l’esterno rispetto al quale si configura la nostra educabilità, occorre pur sempre avere ben chiaro che l’interno e l’esterno alla persona sono nozioni sì distinte ma in stretta relazione tra loro:
    – quella interiore, rinvia più strettamente a quel mondo interno sede del nostro io, della coscienza, al mondo delle emozioni, dei sentimenti e degli affetti, ma anche a ricerche più ampie e di carattere veritativo che mettiamo in atto;
    – quella esteriore, riflette la realtà esterna fatta di cose, immagini, azioni, relazioni tra persone, aventi pur sempre un rapporto di risonanza con il nostro interno.
    In quanto rimando alla realtà della persona, l’interiorità ne rispecchia certamente il carattere non oggettivabile: la persona non è una realtà che si possa conoscere allo stesso modo delle cose del mondo esteriore; ad essa si applica il modello dell’esperienza interiore nel senso che la persona è esibizione di contenuti inoggettivabili. Solo in tal senso si può attuare il riconoscimento anche di un’anima dell’uomo e, di conseguenza, assumere che possa essere a noi accessibile una modalità di conoscenza di carattere interiore differente e attinente con l’essenza più intima della nostra natura.
    La confusione e la difficoltà di distinguere questi due aspetti della nostra natura si può far risalire certamente agli effetti prodotti dal cartesianesimo, mentre ha misconosciuto la specificità dell’esperienza interiore e posto l’attenzione sostanzialmente sull’esperienza oggettiva ed esterna.
    Per Cartesio infatti anche il pensiero diventa una res mentre distingue tra res cogitans e res extensa su un piano di differenziazione ontica e non ontologica: in tal senso l’esperienza interiore non è che una semplice modalità dell’esperienza esteriore priva però di una sua speciificità.
    Ma l’esperienza interna di noi stessi non può essere identificata nei termini e attraverso modalità proprie dell’esperienza esterna: essa ci fa accedere decisamente ad un altro tipo di esperienza e si avvale di modalità che le sono proprie.
    Quando parliamo di noi stessi e del nostro «dentro», non ci limitiamo a parlarne solo in termini di spazio percepibile: essa effettivamente rimanda ad un interno che riconosciamo come parte essenziale, di noi, inalterabile, immodificabile, proprio in quanto realtà ontologicamente determinata.
    Tra i caratteri propri di questa esperienza vi è indubbiamente il suo accompagnarsi all’accadere della nostra vita: essa è effettivamente esperienza vissuta (Erlebnis) in quanto il soggetto fa esperienza di se stesso, del proprio essere in divenire e del proprio percorso di umanizzazione; ma l’esperienza interiore non necessariamente coincide con il proprio Io: infatti accade che anche la nostra esperienza esterna contenga riferimenti propri del nostro Io, così come non tutto ciò che rientra e fa parte della nostra esperienza interiore coincide con il nostro Io, mentre è vero che per poter attuare un’autentica comprensione di noi stessi e dell’altro, è possibile diventare simile e sentirsi vicini proprio all’interno dell’esperienza vissuta che fa sì che l’altro diventi parte di noi.
    Soltanto all’interno dell’esperienza vissuta colgo l’altro come a me vicino nella sfera dell’esperienza interiore.
    Tra gli altri caratteri distintivi dell’esperienza interiore vi è il carattere reale ed effettivo di tale esperienza, se si pensa che gli stati d’animo interiori, come per esempio gli stati di angoscia, solitudine, preoccupazione, noia, malinconia, felicità, gioia, sono irriducibili a tempi e condizioni che riguardano i fenomeni esterni: essi possono verificarsi unicamente all’interno dell’esperienza concreta che ognuno ne fa, nel lavoro faticoso che l’uomo compie per interagire e resistere alla realtà esterna, per dominare se stesso all’interno di un impegno che implica l’esercizio di una prassi e di un’educazione attenta all’interiorità.

    Educare tra esteriorità, interiorità e relazione

    Se si assume l’interiorità come dimensione essenziale della persona che si alimenta della sua educabilità, si comprenderà come tale richiamo non sia da intendersi come attenzione esclusiva per il proprio interno, come ripiegamento o fuga dagli altri quando siamo in difficoltà con noi stessi e nelle relazioni, perché l’educabilità, condizione che consente di definire la persona come possibilità dal carattere nascente, e poi progressivamente in termini di educabilità sempre più perfezionata, necessita della relazione per manifestarsi.
    Il rapporto io-tu si regge su dinamiche differenti che si intersecano con la componente interna di noi stessi sia sul piano intrapersonale sia sul piano interpersonale:
    – il piano dell’interiorità definito dalla prevalenza di una dinamica in, considera l’altro come inserito dentro di noi attraverso una dinamica ben definita nel processo di costruzione della nostra personalità. Si pensi a quell’ermeneutica del sé sviluppata da Paul Ricoeur quando spiega come l’identità soggettiva non emerga e non venga costituendosi semplicemente in termini di trasparenza e riflessione dell’io alla prima persona, vale a dire dell’ego cogito, ma come un sé, come processo attraverso il quale il soggetto torna a sé non come semplice, ma come un sé che incontra l’altro;
    – il piano dell’interrogazione e della domanda definita dalla dinamica del tra, in quanto l’altro è colui che è di fronte a noi, fuori di noi, è lì dinanzi ad interpellarci con il suo volto e la sua differenza, ma al tempo stesso a dare significato alla nostra esistenza. Si pensi alle indicazioni che giungono dalla filosofia dell’altro elaborata da E. Lévinas nell’evidenziare come ogni relazione educativa avvenga in un incontro che si attiva inizialmente attraverso lo sguardo e il volto dell’altro. Una relazione in grado di corrispondere all’altro che ho di fronte anche arrivando a riconoscere la mia soggettività come «esposizione all’altro».[17] Secondo la prospettiva sviluppata da Lévinas bisogna

    «comprendere l’essere a partire dall’altro dell’essere. Essere, a partire dalla significazione dell’approssimarsi, è essere con altri per o contro il terzo; con altri e il terzo con sé».[18]

    Si tratta di una prospettiva che recupera e accede all’essere attraverso la prossimità, perché è a partire dalla prossimità che l’essere assume sempre più il giusto senso. Il soggetto è per Lévinas un io che si approssima all’altro, che comprende se stesso soltanto a partire dall’altro;
    – il piano della condivisione definito dalla dinamica con, nel senso che l’altro, insieme a noi, delinea l’ambito dell’incontro e della condivisione. Diversi sono i contributi che definiscono il senso di una relazione e di una comunità fondate sulla condivisione, si pensi a titolo riassuntivo al contributo di Mounier quando elabora l’idea di una società della persona fondata sul senso di partecipazione e di condivisione. Il costitutivo relazionale della persona si concretizza infatti nella solidarietà, nella responsabilità e nell’impegno verso gli altri: la comunità fra gli uomini nasce quando dal semplice stare accanto di esistenze, da tante solitudini interiori, si passa all’essere uno nella distinzione, nel senso che ciascuno è e diventa se stesso solo nella misura in cui si dona agli altri e si fa carico in modo solidale degli altri.
    Nell’attività esercitata da ogni educatore, il richiamo alla persona non equivale ad una risposta, non è una soluzione definitiva da adottare di volta in volta, ma è più che altro una via da percorrere per radicare il rispetto per l’essere umano considerato nella sua titolarità e dignità originaria. Una distinzione essenziale intorno alla relazionalità che ci costituisce è quella che considera i diversi modi della relazione a seconda che la si interpreti come mossa soltanto da principi razionali e da codici legati all’universalità della ragione, oppure, dal codice del riconoscimento.
    Secondo il parere di Carmelo Vigna, il riconoscimento è il «primo codice trascendentale» e, al tempo stesso, il codice di relazione più efficace perché si riferisce all’intero dell’esistenza di un essere umano, riguarda l’essenza dell’umano, vale a dire «l’orizzonte di soggettività trascendentale che ogni uomo è da sempre (quindi il suo libero rapporto al bene e alla verità) e l’individuazione empirica»18, in definitiva il rispetto del suo essere come singolarità personale. La relazione di riconoscimento, all’opposto della relazione di possesso e di dominio verso l’altro, è l’unica nella quale due o più soggetti possono convivere nella loro trascendentalità: ciò significa che ogni soggettività viene ad essere riconosciuta «come orizzonte di senso».[19]
    La relazione, complessa e faticosa da vivere, ma pur sempre necessaria per la realizzazione completa e autentica della persona, va colta non tanto in termini di composizione o di eliminazione delle polarità perché, come sostiene Lizzola, essa è «un’avvicinanza, non una facile conciliazione senza ulteriorità»,[20] ma un movimento continuo che come educatori ci richiede di saper esercitare la giusta distanza, il giusto coinvolgimento pur nelle sofferenze, attraverso un agire che non è mai rigido e determinato, ma sempre dinamico.


    NOTE

    [1] La tematica indicata nel sottotitolo è sviluppata in 3 diversi contributi. Il primo (Pensare l’interiorità) è comparso in NPG 9/2011, pp. 20-30. Il terzo sarà pubblicato dopo l’estate e avrà come titolo «Educare all’interiorità».
    [2] S. Nosari, L’educabilità, La Scuola, Brescia 2004, pp. 62-63.
    [3] Ibidem.
    [4] Ibi, p. 128.
    [5] F. Olivetti, Paul Ludwig Landsberg. Una filosofia della persona tra interiorità e impegno, PLUS, Pisa 2007, p. 215.
    [6] Ibi, p. 298.
    [7] E. Mounier, Il personalismo, Ave, Roma 1987, p. 11.
    [8] Cf G. Marcel, La fedeltà creatrice, in Id., Dal rifiuto all’invocazione, Città Nuova, Roma 1976, pp. 183-210.
    [9] P. Ricoeur, La persona, Morcelliana, Brescia 1997.
    [10] Cf F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, Feltrinelli, Milano 1996.
    [11] Cf E. Borgna, L’attesa e la speranza, Feltrinelli, Milano 2005; Id., Noi siamo un colloquio: gli orizzonti della conoscenza e della cura in psichiatria, Feltrinelli, Milano 1999.
    [12] M. Zambrano, Il sogno creatore, B. Mondadori, Milano 2002, p. 28.
    [13] M. Peretti, Autorità e libertà nell’educazione contemporanea, La Scuola, Brescia 1975, p. 21.
    [14] D. Demetrio, L’educazione non è finita, pp. 139-140.
    [15] Ibi, p. 143.
    [16] E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983, p. 71.
    [17] Ibid., pp. 21-22.
    [18] C. Vigna, Libertà, giustizia e bene, in C. Vigna (a cura di), Libertà, giustizia e bene in una società plurale, Vita e Pensiero, Milano 2003, p. 18.
    [19] Ibi, p. 16.
    [20] I. Lizzola, cit.


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