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    Lavorare per il futuro dell'uomo: verso dove? (libro "Scommettiamo nell'educazione")


    CSPG, Scommettiamo nell'educazione, Elledici 1988

     

    Lavorare per il futuro dell'uomo: verso dove?
    Mario Pollo
    (pp. 117-130)

    Questa riflessione non ha la pretesa di essere una interpretazione storica autentica dell'antropologia educativa sottostante al pensiero ed all'azione di don Bosco ma, molto più semplicemente, una riflessione sul progetto d'uomo che la storia educativa che in lui ha avuto inizio consegna a chi oggi ha responsabilità educative.
    Infatti la fonte di accesso a don Bosco non è esclusivamente costituita dai documenti storici ma anche, se non soprattutto, dalla tradizione viva che in don Bosco ha avuto inizio e che la Congregazione da lui fondata ha conservato e sviluppato in questo secolo che separa i contemporanei dalla sua morte.
    Don Bosco, da questo punto di vista, è presente, magari per un piccolo frammento, in tutte le persone che hanno incontrato la fedeltà della sua opera educativa, anche se alcune decine di anni dopo la sua scomparsa. E questa presenza si fa storia ogni giorno, ogni qualvolta la persona che la esprime cerca, pur nella radicale novità del suo tempo e della sua cultura, di manifestare, magari inconsapevolmente, un atto di fedeltà ad essa.
    È questo uno dei caratteri distintivi della santità di don Bosco, quello per cui egli è compreso ed amato, con semplicità, da migliaia di persone in tutto il mondo, e quello attraverso cui egli viene riconosciuto come portatore di una proposta educativa che ha ancora qualcosa da dire anche alla cultura della società postmoderna.
    Per una persona che abbia vissuto l'esperienza educativa del mondo salesiano parlare dell'uomo e del suo futuro, cercando di interpretare la lezione di don Bosco alla luce della cultura attuale, è anche parlare un po' della propria vita e del proprio vissuto, dei propri sogni e delle proprie speranze, del proprio lavoro e della propria fede.
    Forse questo modo di rapportarsi alla figura e all'opera di don Bosco non sarà certamente un esempio di applicazione del metodo scientifico, ma sarà di sicuro una testimonianza vera perché esistenzialmente autentica.

    «ESSERE ONESTI CITTADINI» IN UN TEMPO DI CRISI DELL'UTOPIA, DELLA PROGETTUALITÀ E DELL'ETICA PERSONALE E SOCIALE

    È talmente noto che il ripeterlo rischia di apparire banale, che la santità di don Bosco si è manifestata nell'accettazione del quotidiano, della realtà sociale ed economica in cui è vissuto e nel suo conseguente impegno, attraverso il lavoro, di redenzione e di trasformazione della stessa realtà.
    Don Bosco non è un mistico, ma un uomo che si impegna dentro le contraddizioni del proprio tempo al fine di superarle. Un uomo che ha avuto ed ha trasmesso ai suoi discepoli la fede nell'azione redentrice del lavoro.
    Il suo modello di uomo che cercava di trasmettere ai suoi ragazzi era quello sintetizzato dall'espressione: «Buoni cristiani e onesti cittadini». Un cittadino, quello del suo modello, che sapeva adattarsi all'ordine sociale esistente fecondandolo e trasformandolo però con la propria testimonianza cristiana e con il proprio lavoro fatto con «Fede, Speranza e Carità».
    Proprio perché convinto dell'azione trasformatrice del lavoro, don Bosco non è pregiudizialmente chiuso al progresso tecnico-scientifico ed al nuovo sul piano dell'organizzazione e della cultura sociale, nonostante che il nuovo fosse sovente portatore di scristianizzazione come, purtroppo, l'avvento della società industriale evidenzia anche drammaticamente.
    Don Bosco sosteneva infatti, al contrario dei nemici a priori del moderno, che «la Chiesa non debba pregiudizialmente opporsi al nuovo e lasciarsi perciò sorprendere dai mutamenti voluti dai 'moderni novatori', ma approntare efficaci strumenti di educazione popolare capaci di essere concorrenziali con le iniziative intraprese da quanti concepivano l'educazione secondo prospettive areligiose o, addirittura, irreligiose». (G. Chiosso, «L'oratorio di don Bosco ed il rinnovamento educativo del Piemonte carloalbertiano», in Braido P. (a cura di), Don Bosco nella Chiesa a servizio dell'umanità, Las-Roma 1987, p. 99).

    Trasformare la realtà

    La sua posizione, quindi, era quella di accettare la realtà al fine di modificarla per renderla aderente ai valori del Cristianesimo. Egli vedeva nell'educazione lo strumento ideale per realizzare questa trasformazione.
    In don Bosco la fede nell'efficacia del lavoro non è che un risvolto della fiducia nell'educabilità di ogni giovane e, quindi, di ogni persona umana.
    Questa fiducia appare alla mentalità odierna meno ampia di quanto potesse apparire agli occhi dei contemporanei di don Bosco. Essa era però, in rapporto all'epoca, forse più grande di quella che manifestano oggi alcune figure che misurano il loro impegno sociale di cristiani con le frontiere più lontane dell'emarginazione.
    Basti pensare, a titolo di esempio, che nell'epoca in cui visse don Bosco si affermava il Lombroso che, accanto a interessanti innovazioni, introduceva anche una teoria organicistica e determinista del comportamento, specialmente nei riguardi di quello deviante.
    Era anche l'epoca, questa, in cui i confini tra le varie classi sociali erano estremamente rigidi e in cui era diffusa la convinzione che gli appartenenti alle classi più agiate avessero delle qualità morali superiori a quelle degli appartenenti alle classi sociali inferiori. Questa convinzione costituiva quasi una legittimazione della diversità sociale.
    Oltre a queste condizioni vi era poi nel Piemonte dell'epoca una sorta di determinismo del destino umano che trova origine nel giansenismo che, come è noto, ebbe in questa regione uno dei luoghi di maggiore diffusione.
    La fiducia nell'educabilità dei giovani sicuramente svantaggiati e marginali, e sovente già quasi alle soglie della devianza delinquenziale, costituiva in quel contesto storico un atto di fiducia nell'uomo veramente controcorrente.
    Nonostante il buio che sovente affliggeva il presente, don Bosco credeva nel futuro dei singoli giovani e della società. Le stesse polemiche, a volte roventi, che ingaggiava con i suoi avversari e contro certe trasformazioni sociali, erano, in definitiva, il segno di un uomo che non rinunciava un solo istante a lottare per un futuro migliore. Erano il segno, per qualche contemporaneo forse eccessivo, di una assunzione piena di responsabilità nei confronti della società e della cultura sociale in cui viveva.
    Responsabilità a cui chiamava tutti attraverso la sua azione educativa. Questa responsabilità in don Bosco nasceva dal suo sentirsi parte, autonoma sin che si vuole ma sempre parte, di una società. Ciò che mediava questa appartenenza era il suo sentirsi membro di un popolo. Dove il concetto di popolo in don Bosco stava ad indicare: «un organismo guidato da un complesso di consuetudini che, anche se non raccolte in un testo scritto, erano vive ed attive nella coscienza collettiva». (G. Chiosso, p. 105). Ogni persona era radicata in questo insieme di valori, di credenze, ecc.
    Come si vede chiaramente, il concetto di popolo in don Bosco è per molti versi equivalente a quello odierno di «cultura» in senso antropologico.

    Educazione e azione sociale

    L'azione di trasformazione attraverso l'educazione, ma anche attraverso l'azione sociale, doveva sempre nascere all'interno della cultura e, quindi, del sentire più profondo delle persone.
    Questo aspetto è importante per due motivi.
    Il primo deriva dalla constatazione che nell'epoca in cui il nascente urbanesimo e il decollo industriale sradicavano le persone dalla loro cultura locale e dalle loro tradizioni, per inserirle nell'anonimato della condizione urbana industriale, don Bosco operava invece per restituire alle stesse persone la dignità culturale profonda delle loro radici e della loro appartenenza solidale ad un popolo.
    Il secondo motivo è quello della viva attualità di questo pensiero educativo, in quanto il bisogno di radicamento delle persone all'interno di una cultura sociale autenticamente popolare è uno dei problemi che ogni educatore deve affrontare ancora oggi, anche se in termini nuovi rispetto a quelli dell'epoca di don Bosco.
    Tuttavia il problema esiste, tanto è vero che l'animazione culturale lo ha assunto come uno dei suoi tre grandi obiettivi strategici.
    Ritornando a don Bosco, risulta con chiarezza come l'apertura al nuovo in lui sbocciasse dalla accettazione più profonda delle sue radici culturali. Il nuovo può essere accettato senza pericoli solo se chi lo accetta ha memoria di se stesso e del popolo in cui è nato e cresciuto.
    La fiducia nella redimibilità del presente e del futuro attraverso l'educazione e il lavoro, che è tipica di don Bosco, si fonda sull'accettazione delle radici che ogni persona ha nella cultura sociale che lo ha plasmato. Questa concezione, che senza troppe forzature si può ricavare dall'analisi della vita e dell'opera di don Bosco, rafforza la sua immagine di santo che si colloca con «Fede, Speranza e Carità» dentro la storia contraddittoria del mondo e degli uomini che lo abitano, perché è convinto che lì si gioca la salvezza del cristiano.

    La preghiera nel quotidiano

    Questa sottolineatura non deve però far pensare a un don Bosco che risolve la vita dell'uomo tutta all'interno della storia. Questo sarebbe profondamente sbagliato, perché don Bosco è anche un mistico, un santo che ha «visioni», e che ha nella preghiera la fonte prima del suo agire nella storia.
    La sua preghiera però non è mai una fuga dalla responsabilità del quotidiano; una delle sue formule preferite, infatti, era quella che invitava a fare del lavoro la preghiera. Pregare per lui era anche, se non soprattutto, dedicare e dare un senso religioso particolare al lavoro. Il suo lavoro, la sua azione nel quotidiano si inscrivevano però in un disegno tracciato dalla fede e che gli si rendeva esplicito in esperienze squisitamente mistiche.
    Basti pensare al ruolo che nella sua opera hanno giocato i sogni e le visioni che gli indicavano le direttrici e il senso del suo agire. Si potrebbe addirittura dire che don Bosco è stato fedele ai suoi sogni e che, per questo, è stato grande.
    Il suo quotidiano, proprio perché letto anche attraverso la filigrana dei sogni e delle visioni in cui si manifesta a lui la volontà divina, ha uno spessore e un senso del tutto particolari: quelli che consentono al lavoro, appunto, di divenire una autentica esperienza mistica.
    Il segno di questo misticismo è segnato in don Bosco anche dal ruolo particolare di mediazione con Dio che la Madonna svolge nella sua vita. In don Bosco, quindi, l'ideale dell'uomo è quello di un essere impegnato con il suo lavoro nella trasformazione del quotidiano, vissuto però all'interno di quell'amore di carità che apre all'esperienza mistica del cogliere il senso del proprio agire all'interno del disegno divino.
    Nell'amore di carità, nella solidarietà per gli altri, don Bosco coglie la porta stretta che porta al cuore dell'amore di Dio. Non per nulla dice che l'amore di carità è la sintesi della vita teologale.
    Questa esigenza di dare una dimensione di spiritualità profonda al quotidiano è una esigenza, anzi, ancor più attuale che ai tempi in cui il Santo ha vissuto.
    L'apertura del quotidiano al trascendente è ancora un obiettivo educativo fondamentale e non è, quindi, un caso che l'animazione culturale lo abbia posto come obiettivo strategico del suo metodo educativo. È il segno anche della fedeltà dell'animazione alla filosofia educativa di don Bosco.
    La visione del lavoro e dell'azione del cristiano nel mondo in don Bosco viene ulteriormente illuminata di modernità allorché egli afferma: «Il mondo è divenuto materiale, perciò bisogna lavorare e far conoscere il bene che si fa. Se uno fa anche miracoli pregando giorno e notte nella sua cella, il mondo non ci bada e non crede più. Il mondo ha bisogno di vedere e di toccare. Il mondo attuale vuole vedere le opere, vuole vedere il clero lavorare» (P. Brocardo, Don Bosco, Las-Roma 1985, p. 91).
    A proposito del lavoro, è giusto sottolineare come nel pensiero di don Bosco esso non sopraffaccia mai la dignità dell'uomo, ma sia sempre considerato una viva espressione della carità e dello spirito di servizio. Il lavoro è un assoluto solo nella misura in cui non tradisce la dignità della persona ed è uno strumento della realizzazione del disegno di Dio nel mondo. La carità, nome ottocentesco dell'amore, appare lo strumento privilegiato dell'espressione di questo disegno.
    In una società come quella contemporanea in cui l'apparire all'interno dei canali di comunicazione di massa diviene quasi sinonimo dell'essere, una formulazione di questo genere appare attualissima. L'essere protagonisti dei processi di comunicazione assume oggi lo stesso valore del fare. Non si può influire rapidamente sulla cultura sociale se non si è, in qualche modo, protagonisti della comunicazione.
    L'uomo di don Bosco, tra cui in primo luogo quello consacrato dalla missione religiosa, deve agire restando però in relazione con la società attraverso l'uso della comunicazione di massa e personale. L'uomo di don Bosco è un uomo che fa il bene in modo visibile ed è protagonista della comunicazione sociale. In questa visione don Bosco anticipa profeticamente i tempi e compie un salto dal proto-industriale al post-industriale.

    Sofferenza e sacrificio

    Un'ultima considerazione sul modo di concepire l'uomo da parte di don Bosco riguarda il ruolo della sofferenza e del sacrificio nella vita umana.
    Per prima cosa occorre notare che nella sua concezione il lavoro, per poter essere realmente strumento dell'ascesi dell'uomo verso Dio, deve essere sempre accompagnato dalla temperanza.
    La temperanza in senso moderno può essere intesa come una vita austera ed essenziale lontana dalle suggestioni del consumismo. Una vita in cui l'uomo consuma l'essenziale per la sua sopravvivenza e la sua autorealizzazione, rifugge dalle passioni, dalle mode e dagli idoli del suo tempo per conquistare una appartenenza al mondo caratterizzata dal distacco di chi non è del mondo pur abitandolo e pur lavorando senza posa per la sua salvezza. La temperanza è il segno, ma anche la via, della conquista di quel distacco che non si risolve nell'estraneità o nella fuga dal mondo.
    In questa pratica dell'ascesi il passo successivo che don Bosco propone è quello della mortificazione; dove questa più che una sorta di autoflagellazione è la partecipazione viva al mistero della croce di Cristo e alla follia dell'amore ad ogni costo e nonostante tutto.
    Quindi in don Bosco la mortificazione significa fondamentalmente la capacità di vivere la fedeltà al proprio impegno di fede nel mondo sopportando serenamente il dolore che questo può provocare; ma non solo, essa significa anche la capacità di farsi carico delle sofferenze che affliggono le persone con cui si condivide l'avventura esistenziale.
    Il sogno del «pergolato di rose» esprime pienamente questa concezione di don Bosco. È da notare come questo suo modo di pensare alla mortificazione realizzi, di fatto, anche una sorta di contrappeso alla sua concezione del lavoro e della comunicazione riportandola interamente all'interno della logica della Croce, alla logica per cui il successo passa attraverso la porta stretta dello scacco, della sofferenza e anche del fallimento.
    Per l'uomo che vive e lavora nella storia non c'è bisogno di ricercare la mortificazione, è sufficiente vivere con fedeltà il proprio dovere e il proprio impegno per la trasformazione in senso cristiano della realtà del mondo.
    La novità che don Bosco però introduce, in un'epoca in cui l'impegno e la serietà sembra debbano necessariamente accompagnarsi alla tristezza, è la gioia di vivere manifestata attraverso l'allegria. La temperanza e la mortificazione non debbono uccidere l'allegria, che diviene anzi un cardine centrale del suo metodo educativo e pastorale, e non devono mettere in crisi il dono della salute, che è un dono inestimabile dell'amore di Dio.
    In don Bosco è proprio l'accettazione della logica della croce che libera in tutta la sua pienezza la gioia e l'amore per la vita. Don Bosco ama la vita e insegna ad amarla anche quando tutto sembra svalutare e svilire il valore della stessa vita.
    Il suo, però, è un amore alla vita non vacuo o illusorio, ma quello vero che nasce dall'esplorazione dei confini della sofferenza, là dove la notte è più profonda e fredda. Le sue capacità taumaturgiche nascono in questa sua capacità di immersione nel dolore e nella disperazione che affliggono, come condanna, l'esistenza umana. La sofferenza e il dolore sono una esperienza che don Bosco deve affrontare sin dalla sua infanzia e fanciullezza e che segneranno, come autentico segno della santità nel nome della croce, anche gli ultimi anni della sua esistenza.
    Proprio perché ha accolto e santificato l'esperienza del dolore don Bosco ha potuto alleviare, attraverso il dono di una grazia divina, il dolore che compariva in altre esistenze umane. Il dolore è la via stretta che prova con il fuoco l'autenticità dell'amore alla vita: e don Bosco questa strada l'ha percorsa.

    SENTIERI EDUCATIVI VERSO IL FUTURO DELL'UOMO E DEL COSMO

    Il breve far memoria di don Bosco della parte precedente non aveva altro scopo che quello di aprire il presente alla speranza del futuro. Infatti, riprendendo una affermazione dello scrittore Isaac Singer, si può affermare che solo chi coltiva la memoria del passato ha futuro.
    Fare memoria non è però solo il riportare alla coscienza presente il ricordo di un passato più o meno recente; è invece reinterpretare il presente e il sogno del futuro alla luce della vita autentica che si è sedimentata nel passato.

    Quale identità e progettualità nell'attuale cultura sociale?

    Qual è allora il sogno di futuro possibile che la vita e l'opera di don Bosco consegnano alle nuove generazioni che abitano il presente della nostra storia?
    La prima risposta che viene spontanea è quella di dire che la cultura sociale attuale non propone ai giovani un futuro da costruire secondo un progetto, ma solo un presente da consumare. Il futuro, oggi, non è che il presente successivo reso possibile e condizionato dall'azione del consumare precedente.
    La lezione di don Bosco sembra, perciò, alla cultura di oggi inattuale e fuori tempo. Tuttavia essa è sentita come vera nella parte più profonda di ogni persona.
    Infatti questa logica attuale del tempo va contro la dimensione costitutiva stessa dell'essere umano, perché nega la sua caratteristica precipua: un essere non determinato a priori e che si costruisce giorno per giorno in quel particolare scorrere del tempo che è la storia.
    Ebbene, don Bosco ci dice che l'uomo è educabile a divenire protagonista della sua storia individuale e di quella collettiva in cui ha la ventura di sperimentare il dono della vita cosciente. E questo egli lo ha dimostrato in un'epoca in cui la gioventù delle classi sociali più povere sembrava non avere diritto ad alcuna speranza e ad alcuna possibilità di realizzarsi secondo un proprio personale disegno.
    Raccogliendo questa «inattuale» e perciò urgente «memoria» di don Bosco, si può affermare che il sentiero del futuro anche per i giovani dell'attuale società complessa va cercato dietro la siepe della riscoperta della capacità dell'essere umano di vivere e di abitare il tempo.
    E questo, sul piano educativo, significa la necessità di aiutare i giovani a comprendersi come il frutto di una storia che non è cominciata con la loro nascita ma, bensì, con i primi abitanti della cultura sociale che ha segnato il loro emergere alla vita individuale e sociale. Ogni uomo è il frutto complesso di una storia personale, che è però sempre segnata da quella del gruppo sociale in cui è nato e vissuto.
    Il giovane deve perciò essere messo nella condizione di dare profondità alla ricerca della propria identità personale collocando questa all'interno di quella storico-culturale. Ma non solo. Il giovane deve poter realizzare, con gli strumenti che la cultura gli fornisce per il controllo di sé e della realtà in genere, la emancipazione della propria coscienza dalle pressioni manipolatorie che gli giungono sia dalle profondità della sua psiche che dall'ambiente sociale esterno.
    La novità in questo processo di costruzione dell'identità è che la culturasociale attuale esige che il giovane realizzi, accanto alla stabilità di un progetto coerente di sé, che affonda le proprie radici nella storia e che guarda al futuro, anche la capacità di vivere il provvisorio, il precario e l'instabile con una enorme flessibilità.
    In altre parole, al giovane d'oggi una educazione che voglia raccogliere l'eredità viva di don Bosco, propone l'obiettivo di una progettualità che si realizza all'interno di una sorta di precarietà esistenziale e di un sistema di riferimento della cultura sociale privo di punti focali a cui indirizzare lo sguardo.
    È indubbiamente questa una impresa ardua, ma che l'educatore che crede al valore della persona umana e al valore redentivo del lavoro umano nella storia deve perseguire con decisione.
    D'altronde molti educatori, in ambito ecclesiale e non, attraverso la scelta dell'animazione culturale, lo stanno faticosamente ma felicemente realizzando. Le radici nella memoria collettiva, la capacità di costruire un dominio soddisfacente su se stessi, la capacità di vivere il precario e l'instabile pur perseguendo un progetto esistenziale coerente e, infine, la capacità di sentire lo scorrere del tempo, come possibilità di capire il senso dell'agire umano nella storia, sono la porta di accesso che l'educazione nello stile dell'animazione propone al cammino dei giovani che vogliono essere signori del loro futuro.
    Prima si era però detto che questo era solo l'inizio del sentiero verso il futuro. Non essendo possibile esplorare tutto il sentiero, la sua descrizione si limiterà alla tappa intermedia e a quella finale.

    Solidarietà sociale e «azione politica»

    La tappa intermedia, con qualche semplificazione, può essere centrata sulla scoperta della partecipazione alla vita sociale nel segno della solidarietà e dell'impegno alla sua trasformazione attraverso il lavoro e «l'azione politica» in senso lato.
    L'attuale cultura sociale, e in modo particolare quella del mondo giovanile, sembra essersi ripiegata in un soggettivismo che percorre in modo precario il bordo del narcisismo; questa cultura sembra, quindi, ridurre la dimensione della realizzazione della persona umana alla sola realizzazione della dimensione soggettiva della vita individuale.
    Ora se è una conquista la riscoperta della soggettività, dopo che per lunghi anni il dominio di ideologie anti-individualistiche l'aveva pressoché negata, è una perdita per la vita umana l'oscuramento del valore del sociale. La stessa realizzazione personale rischia di non avvenire al livello delle possibilità potenziali di cui l'individuo è portatore.
    Un uomo monco di una piena partecipazione alla vita sociale ed alle conseguenti responsabilità che questa comporta è un uomo che rinuncia a sviluppare con pienezza se stesso, oltre a rinunciare a realizzare il suo sogno di futuro. Infatti il futuro dell'individuo passa necessariamente attraverso la dimensione sociale della sua esistenza.
    Nessun uomo può prescindere dal Noi, costituito dalla cultura, dall'economia, dai rapporti di potere e dalle relazioni sociali, nella propria autocostruzione, in quanto è proprio il Noi a fornirgli gli strumenti concreti attraverso i quali egli realizza se stesso.
    È illusoria la pretesa di una persona che viva la vita quotidiana così da non farsi in alcun modo condizionare dal «sociale». L'unico modo concreto che l'uomo ha per non farsi condizionare dal sociale è quello di lavorare per la sua trasformazione, specialmente a livello etico.
    Partecipare alla vita sociale non significa però solo prendersi cura della propria realizzazione personale (sarebbe questo ancora una volta un atto esclusivamente soggettivo), ma esercitare la propria responsabilità verso gli altri uomini, sia di quelli che abitano il presente, e sono quindi prossimo, sia di quelli che hanno abitato il passato e di quelli che abiteranno il futuro.
    Responsabilità la cui fonte prima è nella Croce di Cristo che ha liberato per ogni uomo la speranza della redenzione all'interno della storia e, quindi, della vita sociale in cui compie il suo tragitto nello spazio-tempo del mondo.
    Come si è visto facendo memoria, don Bosco ha costituito un esempio imitabile di come il cristiano debba assumersi sino in fondo la propria responsabilità di «cittadino» del sistema sociale, di come non possa darsi una esistenza cristianamente piena senza l'azione sia per modificare la società che per manifestare concretamente la propria solidarietà al prossimo. La speranza che don Bosco lascia ai giovani di oggi è quella che il loro futuro sarà fatto anche dal loro lavoro odierno, dalla loro capacità di assumersi la responsabilità oltre che di se stessi anche degli altri.
    Questa responsabilità per essere realmente efficace non deve essere sentita solo come un dovere da compiere, ma come la forma dell'espressione dell'amore nei rapporti sociali, come la solidarietà che nasce dall'amore che ogni persona ha, o potrebbe avere, simultaneamente per se stessa e per gli altri.
    La solidarietà umana prima di essere una scelta razionale della volontà cosciente è una espressione dell'amore e, quindi, della dimensione affettiva della vita umana. L'educazione alla responsabilità passa attraverso l'educazione alla capacità di amare, alla capacità, cioè, di vivere in modo non egocentrico la propria affettività e di offrire un risvolto altruistico alla propria emotività.
    Don Bosco, con la sua lezione della amorevolezza come forma estrema della capacità dell'educatore di vivere positivamente la dimensione emotiva del rapporto, ha indicato la strada per coniugare il dovere con l'amore.

    Lavoro vissuto con amore e responsabilità verso la natura

    Il lavoro vissuto con amore è l'altra strada che la persona ha a disposizione per assumersi la responsabilità nei confronti della vita sociale. Infatti il lavoro, oggi purtroppo mercificato e ridotto a puro strumento per ottenere beni materiali, è lo strumento che l'uomo ha a disposizione per cooperare al piano della redenzione che Dio attraverso Gesù ha introdotto nella storia umana.
    Il lavoro, da strumento alienato e alienante di acquisizione di beni materiali quale è oggi, deve essere riproposto al giovane come realizzazione di quella responsabilità data da Dio all'uomo nei confronti del mondo e della storia. Il lavoro come manifestazione concreta dell'amore dell'uomo per la vita e per il suo creatore e come manifestazione della sua volontà di emancipazione, è anche la forma prima di esercizio della responsabilità dell'uomo verso la vita sociale.
    Il lavoro deve essere risacralizzato, nel senso che ad esso deve essere restituita la sua componente di via attraverso cui l'uomo percorre nel quotidiano la strada del suo riscatto dalla condizione di finitudine in cui il peccato lo tiene prigioniero.
    Sia chiaro che non si vuole dire che il lavoro da solo emancipi l'uomo, ma solo che il sacrificio di Gesù ha ridato un senso nuovo al lavoro, che gioca quindi un suo ruolo nell'economia della redenzione umana.
    Tuttavia oggi, pur continuando ad essere importanti, la partecipazione sociale e lo stesso lavoro non esauriscono più da soli l'area della responsabilità perché c'è un nuovo tipo di responsabilità che la persona deve esercitare se vuole realmente essere protagonista del suo futuro.
    Questa responsabilità è quella verso la natura. È finito, infatti, il tempo in cui la responsabilità umana poteva esaurirsi nel microcosmo della vita del gruppo sociale in cui si svolgeva, oppure all'interno di questi sistemi sociali parziali come l'economia, la politica, la salute, la cultura. Il livello di degrado dell'ambiente naturale provocato da questo esercizio parziale di responsabilità richiede alle persone l'esercizio di una responsabilità complessa e nuova.
    Infatti, oggi, la responsabilità di soggetto della persona umana deve intrecciarsi, oltre che con quella che gli deriva dall'essere una parte del sistema sociale, anche con quella che nasce dalla sua scoperta di essere una parte solidale del sistema della natura.
    Senza un'azione che nasca direttamente da questa consapevolezza l'uomo, ed in modo particolare il giovane, non tutela affatto il proprio desiderio di futuro, ovvero il sogno della propria vita. Questo significa che la coscienza dell'individuo, in questa fase dello sviluppo umano, non può essere ristretta alla dimensione del soggettivo, ma deve essere espansa, passando attraverso la partecipazione sociale, al rapporto solidale che lo interrela con la natura.
    Questa espansione della coscienza, che pone al centro il rapporto individuo-cosmo, è l'obiettivo educativo che una corretta frequentazione della memoria di don Bosco pone a chi, come gli educatori, lavori per il futuro dell'uomo.

    Dimensione etica dell'azione umana e della politica

    La memoria di don Bosco, per ciò che attiene alla partecipazione alla vita sociale, dice anche che è necessario che ogni persona percepisca che gli atti della vita sociale hanno una precisa dimensione etica, che ogni azione dell'uomo non può, cioè, essere giudicata solo dai risultati immediati, utilitaristici, che essa produce, ma anche che essa deve essere compresa per gli effetti che ha sulla natura profonda dell'essere umano e dei suoi rapporti con il senso della vita individuale e sociale. Quante cose apparentemente utili si rivelano distruttive per la persona umana e per il senso e la felicità profonda della sua vita?
    Educare al sociale oggi vuol dire anche dare senso etico alle realizzazioni collettive.
    Per questo motivo è necessario educare il giovane ad un rapporto con il potere, strumento necessario ad ogni realizzazione sociale, che gli faccia comprendere che solo se saprà odiare il potere, che pur deve utilizzare, potrà subordinare questo ad un disegno che ha nella dimensione etica la sua matrice.
    Di fatto questa educazione apre al giovane i sentieri della politica. Tuttavia la politica nella sua accezione tradizionale appare poco appetibile per un giovane oggi, in quanto essa è, prevalentemente, il luogo del culto di un potere fine a se stesso, che non si nutre più della linfa vitale costituita dai valori. Un luogo dove l'amore stenta ad essere onorato e anche la persona più forte rischia di perdersi.
    Come è possibile allora offrire al giovane una possibilità di realizzazione compiuta senza farlo cadere in questa mortifera palude?
    La risposta per fortuna è semplice in quanto è già stata data da una minoranza di giovani. C'è un nuovo modo di far politica che sta nascendo e che passa attraverso la strada di intense esperienze di solidarietà. Ilvolontariato, ad esempio, è una di queste.
    Dalla frequentazione di queste esperienze, dall'impegno nei confronti dei più poveri, dei più svantaggiati e dei più sofferenti, unitamente alla ricerca di una vita che abbia un più armonico rapporto con la natura, può nascere il seme di una nuova politica in grado di rigenerare anche quella che gli adulti hanno così corrotto ed imbarbarito.
    Educare il giovane alla politica in senso etico è l'imperativo che l'educatore con lo sguardo proteso al futuro deve accogliere. Don Bosco lo avrebbe accolto.

    L'apertura alla trascendenza e alla fede

    Dopo questa tappa intermedia si apre l'ultima, quella che è in grado di dare al futuro del giovane il sorriso della speranza e del senso esistenziale profondo; di dare al giovane, cioè, un senso in grado di mobilitare tutte le sue energie vitali verso la realizzazione del sogno del futuro.
    Questa ultima tappa del sentiero ha il nome, segreto e familiare allo stesso tempo, di «apertura alla trascendenza della fede». Infatti il punto di arrivo e di partenza del sentiero che conduce il giovane verso il traguardo di un futuro in cui possa realizzare la sua redenzione personale è costituito dalla fede che Gesù è il Signore della vita.
    Educare al futuro deve avere, oltre ai passaggi dell'educazione all'identità personale e alla politica, intesa come realizzazione piena della partecipazione alla vita sociale, la sua ricapitolazione nella comprensione del senso che è oltre le frontiere del qui ed ora del quotidiano.
    La fede è ciò che dà la forza viva ed il senso all'amore dell'uomo per la propria vita e per quella degli altri, che legge in filigrana gli esiti del potere nella vita sociale per consegnarli al piano in cui ciò che ha senso è il rispetto profondo per la dignità di ogni vita umana. Al piano in cui l'uomo può, pur all'interno della sua debolezza e della sua precarietà, riconoscersi figlio di Dio.
    Una fede che non si manifesta solo nell'interiorità, ma che si rivela profonda nell'amore che la persona ha per gli altri e, quindi, per se stessa. Una fede incarnata nella sollecitudine e nell'amore per i più svantaggiati e per i più deboli, nell'amore per la giustizia e per la verità, intesa come capacità di aderire all'amore gratuitamente donato da Dio all'uomo attraverso il sacrificio pasquale di Gesù.
    Dire quest'ultima tappa, in un percorso di educazione alla fede che riattualizzi quello di don Bosco, vuol dire riscoprire una fede fatta di gesti di amore concreti all'interno della vita quotidiana.
    Una fede intessuta di lavoro, di amore, di impegni nel politico, ma che trova sempre la propria sintesi nella preghiera e nella partecipazione alla vita sacramentale della comunità cristiana.
    Una fede disincarnata dall'impegno nella storia e nella vita sociale è estranea alla memoria viva di don Bosco. Allo stesso modo un lavoro ed una responsabilità sociale privi di fede costituiscono una limitazione della loro reale efficacia.
    Su questa lezione di una fede incarnata nel quotidiano non muoiono però le più profonde aspirazioni al trascendente del giovane, viste come desiderio dell'esperienza misteriosa e numinosa del totalmente altro.
    Infatti nessun Santo fu come don Bosco così totalmente immerso nel quotidiano e nello stesso tempo così assiduo frequentatore di quelle misteriose dimensioni del sacro che si aprono solo all'esperienza dei grandi mistici.
    Il linguaggio del sogno, della visione e della profezia appartiene, infatti, al quotidiano di don Bosco ed è anzi lo strumento che egli utilizza per la comprensione del senso più profondo della sua esistenza e della realtà nella quale essa si svolge.
    I giovani della cultura contemporanea sovente così affascinati da una esperienza del religioso fortemente mistica ma disancorata dalla vita quotidiana possono, senza rinunciare all'esperienza del numinoso, riversare la loro sete di illuminazione nella vita quotidiana dando ad essa il volto concreto dell'amore per gli altri.
    Si può essere mistici e vivere sino in fondo la responsabilità del quotidiano: è questa la lezione che il far memoria a cento anni dalla sua conclusione la vita di don Bosco ci offre. Il traguardo di un quotidiano aperto al mistero del trascendente è veramente lo sbocco di quel sentiero che può aprire il giovane alla speranza di un futuro redento dalla Croce.

    CONCLUSIONE

    Don Bosco come maestro del futuro, don Bosco come segno di speranza nel ruolo dell'educazione, don Bosco come scommessa che l'uomo può raggiungere la propria salvezza senza fuggire dalla vita quotidiana ma anzi vivendo in essa a tempo pieno, don Bosco come segno del mistero che sorride all'uomo oltre le porte della fede, don Bosco come segno dell'amore agli ultimi.
    Sono queste alcune dimensioni che la sua memoria consegna a chiunque operi nel difficile terreno dell'educazione e della pastorale. Le riflessioni sviluppate in queste brevi note vogliono essere la testimonianza che fare memoria non significa imbalsamare il passato, ma generare futuro.


    T e r z a
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