Pastorale Giovanile

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    Mario Russotto

    NEL SEGNO DI GIONA


    Profeti e passione per la vita


    Elledici 1998

    russotto


    Introduzione

    Una biblioteca per dire Dio '

    PROFETI ...

    Il coraggio della parola debole
    La responsabilità di una vocazione
    L'ardire di una coscienza critica
    In cattedra i non credenti. Giona a lezione di fede
    Nel perdono la gioia. La triste esperienza di Giona
    Per una fede che si fa storia. L'impegno del profeta Isaia
    Le cicatrici della salvezza. L'anonimo profeta della debolezza
    Dalle ceneri una nuova civiltà. Isaia e la rinascita della speranza
    Quando la vita è un simbolo. Geremia e la difficile missione
    Il dramma della responsabilità. Geremia fra resistenza e resa
    Contro la corruzione del sistema. Amos: il profeta ruggente
    L'inquietudine simbolica dell'amore. La strana esperienza del profeta Osea
    Una donna contro la violenza. L'esperienza di Giuditta

    PASSIONE PER LA VITA...

    Creati per amare
    Due corpi per danzare l'amore
    Custodire la vita
    Nella relazione la perfezione
    Per te ho creato ogni cosa
    Il non-senso della vita. L'esperienza di Giobbe
    Quando è in gioco la vita. L'amarezza di Giobbe
    La vita: ferita e benedizione. Dalla disperazione alla speranza

    Conclusione
    Gesù Cristo pienezza e offerta di vita

    Introduzione
    UNA BIBLIOTECA PER DIRE DIO

    La riscoperta della centralità della parola di Dio nella Chiesa rappresenta una delle grandi intuizioni del Concilio Vaticano II. La parola di Dio, infatti, è sempre viva ed efficace, capace di penetrare fino agli intimi recessi dello spirito; è sempre utile ad istruire, a convincere, a correggere, a formare in noi l'uomo di Dio perfetto: chi la ascolta e la custodisce nel cuore è beato!

    Dalla parola scritta alla Parola viva

    La Bibbia, piccola biblioteca di 73 libretti, è l'annotazione umana-scritta della parola di Dio, che alle volte può rappresentare un ostacolo duro al raggiungimento della Parola viva e vivente. Tuttavia, la Parola abbreviata nello scritto e fissata una volta per sempre rende un servizio alla Parola viva, in quanto mette in marcia la capacità di ascolto e la ricerca dell'uomo, in ogni luogo e in ogni tempo. Il rapporto fra Parola viva e Parola scritta si regge su un delicato equilibrio, in quanto l'annotazione scritta della parola non coincide con la parola di Dio. Questa infatti è una realtà che trascende la Scrittura, per cui si può dire che il libro sacro non è la parola di Dio! La Scrittura, in un certo senso, è come uno spartito musicale: esso non è la sinfonia, ma un insieme di segni che attendono di essere decifrati e interpretati per elevarsi a suono melodioso.
    Per i Padri della Chiesa lo «scritto» della Parola appare come un velo o una nube che copre il sole, o un terreno arido necessario da attraversare per giungere all'oasi della Parola viva. Per questo non bisogna sottrarsi alla fatica dell'impatto con la letteralità della Parola, anche perché se si riesce a scavare profondamente in essa, si scopre la pura sorgente della Parola viva. «Come dalla fredda pietra percossa dal martello scaturiscono scintille ardenti, così dalla lectio della Parola divina, per ispirazione dello Spirito Santo, si sprigiona il fuoco... E indispensabile perciò conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio!» (Gregorio Magno).

    La risposta alla Parola

    Custodia e memoria del Verbo abbreviato, la Bibbia sollecita la capacità interpretante del lettore credente, soprattutto attraverso l'esercizio sapienziale e attento del quotidiano ascolto: «Ascolta, Israele... Tu amerai...» (Dt 6,4- 5). Questa dichiarazione è la sintesi di tutta la religione biblica, che si caratterizza come «religione dell'ascolto». Per la Bibbia, la fede nasce dall'ascolto. Ascoltare è l'atteggiamento attivo della persona e del popolo dinanzi a Dio che parla e, nella Parola, si rivela e si comunica. Ascoltare è aprire il cuore e la mente per accogliere il dono e il mistero dell'Altro. E l'atto fondativo dell'ascolto è il silenzio. L'ascolto richiede fiducia in Colui che parla ed attende una risposta: «O Signore, io ti amo. Non ho dubbio, sono certo che ti amo. Tu hai percosso il mio cuore con la tua parola e ti ho amato» (S. Agostino). L'ascolto esige una apertura totale dell'uomo a Dio e una profonda disposizione di amore. Non esiste ascolto senza amore! Amare Dio e ascoltare la sua voce sono due aspetti di un'unica realtà,due diverse formulazioni dello stesso comandamento fondamentale: «Ascolta... Amerai...». L'esperienza del silenzio, culla dell'ascolto della Parola, trova il suo naturale estuario nella testimonianza e nell'annuncio. Se l'ascolto richiede il coraggio di lasciarsi contestare dalla Parola, l'annuncio esige il coraggio della coerenza, della franchezza, della verità: «Parlerò, parlerò. Che la spada della parola di Dio passi anche attraverso me stesso per arrivare a trafiggere il cuore del prossimo. Parlerò, parlerò. Che la parola di Dio si faccia sentire attraverso me, sia pure contro di me» (Gregorio Magno).

    PROFETI

    IL CORAGGIO DELLA PAROLA DEBOLE

    Tante sono le parole di origine biblica «tradite» o inflazionate, al punto da perdere la forza e il significato originario. Fra queste la profezia. Se ne fa un gran parlare e un uso smisurato oggi. Tanti si autoproclamano «profeti», molti vengono venerati come tali, alcuni si autopongono negli areopaghi della storia pensando di fare elemosina della verità, di cui ritengono di possedere la totalità e l'esclusività. Alcuni si rinchiudono con timidezza o eccessivo rispetto nella casa della loro personale esistenza distillando le parole per non offenderne il valore e la verità.
    Ma cos'è la profezia, chi è il profeta? Attraverso una rivisitazione dei testi biblici tenteremo di offrire alcune piste di riflessione che aiutino a fare chiarezza sui termini, l'esperienza e la ministerialità della profezia. Lettore e ascoltatore attento della Sacra Scrittura, così Romano Guardini scrisse a questo proposito: «C'è qualcosa che si potrebbe definire come una profezia storica. In questa profezia parlano uomini che avvertono le correnti profonde del grande movimento della storia e vedono la direzione in cui esse vanno. Può succedere così che questi uomini, ad un dato momento, quando tutti quanti si sentono tranquilli e sicuri nella condizione dominante, debbano annunciare la dissoluzione di questa condizione, e il farsi avanti di una nuova forma di esistenza che preme dal grembo della storia».

    Predire o proclamare?

    Il termine profeta deriva dal greco profetes. La particella «pro» la si intende generalmente in senso temporale: «prima», da cui deriverebbe il significato di «pre-dire». Profeta sarebbe colui che è capace di anticipare o dire prima qualcosa che accadrà nel futuro. Il «pro» viene tradotto anche con «in nome di», «al posto di». In questo caso profeta è colui che parla al posto o in nome di qualcuno. Ma in origine il termine «profeta», attestato nel greco classico (V sec. a.C.) da Pindaro e da Erodoto, aveva il significato di «colui che annuncia qualcosa davanti a» un'assemblea, un gruppo, una persona. Originariamente dunque la particella «pro» era intesa in senso «locale» (davanti a) e non in senso temporale (prima di): profeta sarebbe colui che proclama un messaggio davanti a qualcuno.
    In seguito profetes acquisì una certa ambivalenza includendo tutti e due i significati. Nel NT, per esempio, da un lato le antiche profezie vengono «adempiute», il che presuppone in chi le aveva annunciate la capacità di «pre-dire» avvenimenti del futuro anche remoto; dall'altro la presenza di «profeti» nella Chiesa primitiva, di persone cioè che annunciavano la parola di Dio per l'oggi della storia, dimostra che il senso originario del termine non era andato perduto. Tuttavia, con la progressiva estinzione della profezia nella Chiesa primitiva restò soltanto il significato temporale e il termine acquistò sempre più il senso che anche oggi comunemente assume: chi possiede la capacità di predire determinati avvenimenti, in nome della divinità.
    La versione greca dell'AT (LXX) traduce sempre con profetes tre termini ebraici quasi sinonimi eppur differenti: veggente, visionario, profeta. Il terzo è il termine più usato nell'AT. Viene dall'accadico e probabilmente dal termine «nominare-chiamare», da cui deriva iI sostantivo “il chiamato”, colui che ha ricevuto una nomina in vinta di una determinata missione, che nell'AT riguarda l'annuncio al popolo della parola di Dio, in genere attraverso la predicazione, talvolta anche mediante azioni simboliche.

    La parola debole

    «Per mezzo di uomini e alla maniera umana Dio parla a noi, perché parlando così ci cerca» (S. Agostino). Dio, attraverso la parola, ricerca l'uomo e si comunica a lui servendosi dei suoi messaggeri: i profeti. Tale comunicazione avviene «alla maniera umana». Cosa vuol dire? Noi sappiamo che nulla è più debole della parola: essa è vento che vibra, limitato dalla distanza, confinato nelle frontiere delle lingue, di durata istantanea. È debole l'uomo che la pronuncia perché può fuggire (Giona), o tacere (Geremia); perché con l'essere pronunciata cessa di esistere; perché chi deve udirla può chiudere le orecchie o indurire il cuore; perché si rivolge ai cuori umani torpidi o fiacchi, ostinati o codardi.
    Simile debolezza è componente ineludibile della parola umana; umanizzandosi, la parola di Dio diventa debole, quasi svuotata: è la kenosi del Verbo. Pietro Cantore, teologo francese del XII secolo esprime così il rapporto fra la Scrittura e l'incarnazione del Verbo: «Due volte il Padre ha "abbreviato" il suo Verbo: nella Parola della Sacra Pagina e nel piccolo grembo della Vergine». Tuttavia la parola di Dio in questa debolezza mostra la sua forza mettendo in marcia la libertà umana. Risuonando e venendo ascoltata, la parola profetica si trasforma in componente incancellabile della storia, le azioni che seguiranno non possono ormai essere neutre: saranno esecuzione o rifiuto.

    Il profeta, uomo della parola

    Portatori della parola di Dio sono molte volte dei personaggi paradossali. Appartengono alle personalità più vigorose dell'AT e il loro carattere può essere marcato dalla debolezza o dalle contraddizioni. Incontriamo il proprietario terriero o l'allevatore che Dio strappa al suo mestiere e invia a profetizzare all'estero (Amos); c'è il marito beffato che scopre Dio nella propria umiliazione (Osea); il profeta che si va consumando goccia a goccia nel fallimento della sua missione (Geremia); il profeta per forza (Giona); e perché nulla manchi, perfino un profeta muto (Ezechiele). Se questo è poco, sorgono anche i profeti falsi, che con le loro lusinghe bugiarde confondono il pubblico, screditano il profeta autentico e neutralizzano in un certo senso la parola di Dio. Ezechiele li chiama «profeti mentecatti che s'inventano profezie, cose che non videro mai, seguendo la loro ispirazione» (13,3.6). Ed è necessario menzionare tante debolezze e resistenze da parte di uditori, autorità, popolo. Gli uni dicono ai profeti: «Non profetizzate sinceramente, diteci cose allettanti, profetizzate illusioni» (Is 30,10); altri prendono il profeta per un cantante di moda (Ez 33,31-33) , gli proibiscono di parlare (Am 7) , lo accusano di falsità e lo perseguitano a morte (è il caso di Geremia).
    Tuttavia il vero profeta, come ogni autentico evangelizzatore, «non tradisce né dissimula mai la verità per piacere agli uomini, per stupire o sbalordire, né per originalità o desiderio di mettersi in mostra. Egli non rifiuta la verità; non offusca la verità rivelata per pigrizia nel ricercarla, per comodità o per paura. Non trascura di studiarla; la serve generosamente senza asservirla» (Paolo VI).
    Il profeta è chiamato ad assimilare la parola divina (1^:z 2,8-9), ma nello stesso tempo cade sotto il suo dominio (Is 8,11), egli non può opporsi alla parola di Dio e alla sua forza (Am 3,8). Annunciare la parola di Dio non è facile; spesso al profeta apporta solo vergogna e disonore, perciò egli vorrebbe astenersi dall'annunciarla, ma non la può trattenere perché gli sta dentro come un fuoco divorante che brucia le ossa (Ger 20,9). Essere profeta è il peso più grave e insieme la gioia più profonda.

    Interrogativi per me
    • Il mio concetto di «profeta» è diverso da quello che mi è stato ora presentato? Perché?
    • Quale valore do alle parole che dico? Corrispondono sempre a quello che penso?
    • Quali difficoltà incontro nel dire e nel fare la verità con le mie parole e le mie azioni?
    • Che cosa effettivamente mi impedisce di essere me stesso e di dire ciò che ritengo sia la verità nel rapporto con gli altri?

    Preghiera
    Gesù Signore,
    Tu che dinanzi a Pilato non hai avuto paura a testimoniare la verità anche a costo della tua vita,
    aiutami ad essere sempre me stesso,
    dammi il coraggio di dire e di fare la verità,
    perché possa vivere nell'armonia fra i miei pensieri e le mie parole
    e possa essere cercatore e testimone della Verità.

    Nella memoria del quotidiano
    Il vero profeta non tradisce né dissimula mai la verità per piacere agli uomini, per comodità o per paura.

    LA RESPONSABILITÀ DI UNA VOCAZIONE

    Uomo di Dio, uomo della «parola», il profeta è radicato nella storia ma non è uno storico. Chiamato a dire le parole di Dio con una pluralità di linguaggi, unisce passato e futuro perché è un critico della storia, giudica gli eventi con gli occhi di Dio, sotto il cui sguardo la storia è un eterno presente. Illuminato dalla parola di Dio che gli brucia dentro, il profeta non può tacere e anche quando l'autorità civile e religiosa vuole mettergli la museruola, la sua vita diviene testimonianza eloquente di una Parola che nessuna istituzione o legge umana riesce a incatenare.

    Con Dio nella storia

    «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata» (Is 55,10-11). È la più chiara e forte definizione biblica della profezia: seminare nella terra – assetata e bruciata – la pioggia della parola di Dio, dono ricevuto e da offrire, acqua fecondante capace di operare ciò che significa e produrre nuovi germogli nei solchi aridi della storia.
    Il profeta unisce dunque il mistero di Dio e il mistero della terra. Il silenzio è spezzato. «Il Dio del silenzio ha aperto la sua solitudine» (Quasimodo), ma ha bisogno di uomini e donne attenti alla sua misteriosa voce, in grado di assumersi la responsabilità dell'ascolto e della parola. Dio infatti «ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati. Il Signore Dio mi ha aperto l'orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro» (Is 50,4-5) . Orecchio che ascolta lingua che parla, il profeta – uomo o donna – «appartiene» a Dio e da Lui si lascia plasmare, educare... violentare!
    Ma il profeta è anche uomo degli uomini radicato nella storia. Egli è spesso l'eco del dramma, degli smarrimenti, dell'attesa e della sofferenza della sua nazione. È il cittadino e il credente innamorato del suo popolo, di cui sente di doverne portare il peso e le lacerazioni: «I miei occhi grondano lacrime notte e giorno, senza cessare, perché da grande calamità è stata colpita la figlia del mio popolo, da una ferita mortale» (Ger 14,17-18) . Il profeta non si pone al di sopra o al di fuori della comunità, ma è profondamente inserito nel tessuto vitale della sua società. Nel dramma è capace di suonare anche la tromba della speranza
    e mentre la città è tutta macerie e rovine, egli alza lo sguardo e invita il popolo a vederla ricostruita e abitata da Dio:
    «e il nome della città sarà: Yhwh è là!» (Ez 48,35) .

    Il rischio di Dio

    «Mentre andavano per strada... un tale disse: Ti seguirò, Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa. Ma Gesù gli rispose: Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio» (Lc 9,61-62). La vocazione è un esodo, un «uscire», Di uno sradicarsi da una situazione accettata, forse amata, per imbarcarsi in un'avventura, in un rischio con Dio. Come per Abramo, come per quei pescatori del lago di Tiberiade... L'uscire della vocazione è un partire senza guardare indietro. Altrimenti si è come la moglie di Lot, che «guardò indietro e divenne una statua di sale» (Gn 19,26), la statua dell'uomo indeciso ed esitante.
    La Bibbia per definire l'intero arco dell'esistenza umana usa una coppia significativa di verbi: «entrare-uscire» (cf Sal 121,8). Nel passaggio da uno stato all'altro, da un'esperienza all'altra, si racchiude tutto il dinamismo della vita umana. Ma questo movimento è bivalente. Come per il bambino che nasce. Uscendo dal grembo materno respira l'aria della libertà, acquista l'autonomia dell'inserirsi nello spazio ampio e illimitato del mondo; ma perde la sicurezza, la tranquillità dei mesi in cui tutto gli era assicurato dalla madre, in cui le sue ore e il suo vivere erano paralleli a quelli della persona che lo aveva generato. Anche per il profeta, come per Israele, l'inizio è rischio, è lotta che genera facilmente lo scoraggiamento e la stanchezza. Ma egli non deve mollare, perché la «missione» come la «parola» non è sua. La profezia è vocazione!
    «Che cosa siete andati a vedere nel deserto?». È una domanda che Gesù rivolge ai Giudei a proposito della strana figura di Giovanni Battista. Gesù continua: «Una canna sbattuta dal vento? Un uomo avvolto in morbide vesti? Un profeta? Sì, vi dico, anche più di un profeta» (Mt 11,7-9). E difficile tracciare un profilo unico della personalità dei profeti: il profeta può levarsi in piedi nella corte dichiarando colpevole il monarca, oppure nascondersi fuggitivo nel deserto; come un giunco squassato dai propri insuccessi può invocare la morte. Il profeta viene invocato nel palazzo e viene anche espulso dal paese. Egli è portatore e testimone di un messaggio «senza tempo» radicato nel tempo.

    La vocazione profetica

    A rendere tale un uomo è la vocazione. Essa nasce all'interno del popolo «eletto»; suo scopo è guidare Israele perché cammini alla presenza del Signore nella fede e nella fedeltà alla sua vocazione. Gli uomini e le donne chiamati da Dio a sì alta responsabilità, nella gran parte dei casi non hanno alcuna naturale inclinazione a tale missione. Per questo i profeti, quando si sentono mandati da Dio, come prima reazione sperimentano la loro incapacità, sicché resistono fortemente e ricusano l'offerta di Dio, fino a che non si sentono costretti da una forza interiore che quasi li piega e fa loro violenza (cf Ger 20,7).
    Il profeta è tale perché sopra di lui lo Spirito di Yhwh piomba con potenza e lo trasforma: «Lo spirito del Signore investirà anche te e ti metterai a fare il profeta insieme con loro e sarai trasformato in un altro uomo» (1 Sam 10,6). Lo Spirito dì Yhwh in-spira un uomo qualunque, vuoto, spesso spogliato di ogni virtù e capacità, che non aspetta nulla, non spera nulla e lo trasforma in un profeta. Lo Spirito invade, cade-sopra di lui, lo riveste, dominandolo e trasformandolo suo malgrado (cf Ez 11,5). Il
    profeta non ha nulla di efficace per ottenere quell'unione con lo Spirito che lo rende profeta: di suo ha solo il vuoto assoluto. Perché non è mai il profeta che cerca Dio, ma è Dio che chiama il suo profeta, come un fulmine a ciel sereno, in modo brusco, con mano potente (cf Is 8,11).
    In Israele si diventa profeta quando e dove Dio decide.
    Ma la risposta del «chiamato» può essere assai differente.
    C'è chi dice subito: «Sì, va bene!» (Amos, Osea...) e risponde a Dio in modo abramitico senza obiettare: «il Signore disse ad Abram: "Vattene dal tuo paese...". Abram partì come gli aveva ordinato il Signore» (Gn 12,1-4). C'è chi instaura un lungo dialogo, fatto di domande e obiezioni e dice: «Sì, ma...». È il caso di Geremia: «Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare, perché sono giovane» (Ger 1,6). C'è chi, posto dinanzi ad una difficile situazione, pone volontariamente la sua candidatura dicendo: «Ecco, manda me!»: è il caso di Isaia. C'è infine chi ha bisogno di un tempo più lungo per capire e dice: «Ripeti, io ascolto... »: è la situazione in cui si trova Samuele. Nell'uno e nell'altro caso l'iniziativa è sempre di Dio. Egli parla per primo. Ma la risposta del «chiamato» varia secondo il suo carattere e la sua formazione: nel primo caso si tratta di un carattere dinamico e radicale; nel secondo di una persona esitante e timorosa; il terzo sottolinea la spontaneità dell'offerta di sé; l'ultimo caso presenta la crescita nella percezione e nell'approfondimento della vocazione. In ogni modo, il profeta - come ogni uomo - ha al proprio interno «un'originaria forza di iniziare e per questo deve rispondere di ciò che fa in quel modo specifico che è la responsabilità» (R. Guardini).

    Interrogativi per me
    • Quale spazio do nella mia giornata all'ascolto della parola di Dio?
    • Sento di «appartenere» a Dio? Le mie parole e le mie azioni sono in sintonia con la mia fede?
    • Come vivo il mio rapporto con gli altri? Mi interesso dei problemi della mia città? Mi sento «radicato» nella storia?
    • Mi pongo la domanda circa la mia vocazione e il mio futuro? Ho il coraggio di vivere fino in fondo la mia «avventura» con Dio?
    • Dinanzi alle «richieste» di Dio la mia risposta è pronta, tentennante, dialogante, negativa? Sento la «responsabilità» di essere testimone di Gesù Cristo?

    Preghiera
    Gesù Signore,
    apri il mio cuore all'ascolto,
    fa' che possa percepire e capire
    il suono della tua Parola
    e dammi la forza per vivere la vita come vocazione
    e di saper rischiare con responsabilità tutta la mia esistenza.

    Nella memoria del quotidiano
    Il profeta deve rispondere di ciò che fa in quel modo specifico che è la responsabilità.

    L'ARDIRE DI UNA COSCIENZA CRITICA

    Orecchio che ascolta, coscienza che discerne, bocca che parla: i profeti si presentano al popolo come annunciatori-testimoni-difensori dell'unicità di Dio. Essi, infatti, rispondono all'impegno di richiamare e far rispettare il patto che Dio, durante l'Esodo, aveva stipulato con il suo popolo. Mediatori fra Dio e Israele, sentono addosso tutta la responsabilità della «tradizione» mosaica, quale «consegna» del patrimonio vivo del popolo di Dio e perciò sono difensori dell'antico più che innovatori, conservatori più che rivoluzionari. Tuttavia non permettono che le vecchie istituzioni facciano la crosta e induriscano. Non sono amanti delle «novità di moda», formulano nuovamente e con senso critico le antiche tradizioni, approfondendole, adattandole e immettendole nella vita reale.

    Il Dio dei profeti

    Il comandamento di Es 20,3: «Non avrai altri dèi di fronte a me», diventa fondamentale nella predicazione profetica. Solo Yhwh è Dio; gli idoli dei pagani sono una vanità. Soltanto Yhwh ha arricchito la sua sposa Israele di ogni sorta di gioielli che essa, scioccamente e invano, tentava di ottenere dai «ba'alim», suoi amanti (Os 2,8-15). Il Dio dei padri, pur avendo un amore particolare per Israele, è il Creatore e il Signore del cosmo e dunque Dio dei popoli, vicino alla famiglia umana – soprattutto ai poveri e agli ultimi – ma resta tuttavia il totalmente Altro. Egli è il Creatore della luce (Is 9,1) , della pace universale (Is 11,6- 9) , dei cieli nuovi e della terra nuova (Is 51,16), il Dio di tutte le nazioni (Am 9,7) . Tutti, ebrei e pagani, devono rispondere a Lui del proprio operato (Am 1) . I profeti appartengono al popolo di Israele, ma la loro missione è senza confini, si estende alle nazioni tutte (Ger 1,5).

    In spirito e verità

    Il Santo (= separato) eppur Dio-con-noi va cercato e incontrato in spirito e verità. E tale ricerca illumina, plasma e orienta tutta la vita del credente. Perché culto e vita etica sono inseparabili. Se i profeti parlano contro il culto non è perché non accettano tale culto, bensì perché esso a volte è un cerimoniale esterno tipico dei popoli pagani o cananei, i quali a furia di sacrifici pensavano di piegare gli dèi ai loro voleri. Yhwh invece non se ne fa niente dei sacrifici se non sono accompagnati dalla pratica della giustizia, della misericordia e dell'umile sottomissione del credente a Lui (Mic 6,6) . Una costante del ministero profetico è la «lotta» per liberare il culto dagli usi superstiziosi popolari e paganeggianti e dal ritualismo magico.
    I profeti si sono sempre opposti all'ipocrisia del clero ignorante e di quei fedeli che nel culto cercavano un alibi alla loro immoralità e ingiustizia (Os 4,6; Ez 22,26; Ger 2,8; Mic 3,11) Al culto deve sgorgare dal profondo del cuore (Ger 31,31) , deve essere espressione dell'incontro con Dio in una alleanza nuova scritta nel cuore, deve essere anche espressione di un'etica politica, sociale e personale in sintonia con la Legge di Yhwh.

    Profeti e politica

    Un campo nel quale i profeti sono particolarmente attivi è quello della politica, estera e interna. Alle volte affiancano i re come consiglieri della corona (Samuele con Saul; Natan con Davide). Alcuni (Elia ed Eliseo) giungono addirittura al punto di tramare e organizzare una rivolta, vero e proprio colpo di stato, che detronizzò in Israele la casa di Omri, mettendo al suo posto il generale Jehu (2 Re 9). Dal sec. VIII in poi però i profeti si distanziano criticamente da simili rivolte e, pur criticando spesso severamente la monarchia e le sue istituzioni, non si prestano ad avallare con la loro partecipazione azioni violente del genere. Isaia si occupa parecchio di politica e con lui abbiamo una vera e propria teologia politica (Is 2,12-22; 20,1ss.): l'appoggio dato alle alleanze politiche viene considerato una prova della mancanza di fede. Al re Acaz, indeciso se cedere alle truppe coalizzate del Nord oppure invocare l'aiuto assiro contro di loro, Isaia propone una terza via: confidare in Yhwh e nelle sue promesse (Is 7,lss.). Dietro l'apparente quietismo abbiamo qui un'esortazione a prendere sul serio le promesse divine e ad agire in coerenza con questa fede. Coscienza critica e voce di Dio, i profeti non sono dei politologi: essi restano sempre uomini di fede radicati nella storia, con l'indice puntato e pronti a richiamare all'ordine divino anche la monarchia e gli organi dello Stato.

    Profeti e problema sociale

    1 Sam 12 presenta il profeta Natan, che perora la causa della vittima di un grave sopruso da parte del re (Davide-Uria) ; 1 Re 21 (l'episodio di Nabot e della sua vigna), denuncia nel monarca l'intreccio fra gli interessi della corona e quelli personali, sostenuti a spese di un povero israelita. Nei due casi i re accettano il rimprovero e si pentono del male commesso, anche se la morte della vittima rende ormai impossibile un'adeguata riparazione. Dietro a questi due episodi si nasconde una triste realtà per Israele: la monarchia ha prodotto una situazione di sempre maggiore disuguaglianza, creando strutture di potere concentrate intorno al palazzo. Tali strutture operavano con un meccanismo perverso che rendeva sempre più ricchi i ricchi e sempre più poveri i poveri. Le invettive dei profeti, specialmente quelli dell'VIII sec. a.C., ci presentano una struttura sociale deteriorata, anzi si tratta di un sistema allo stesso tempo corrotto e repressivo che ha
    sostituito quello di relativa uguaglianza proprio delle società patriarcali. Il «palazzo» costituiva un centro dal quale emanava il potere reale, che si rafforzava ricompensando i propri fedeli seguaci con terre e con altri benefici. Le invettive dei profeti in campo sociale segnalano, con tragica monotonia, la corruzione dei tribunali (il che impediva a chi avesse subito un torto – specialmente se povero – di ottenere quanto gli era dovuto per via legale); la violenza nei confronti degli economicamente deboli, la spoliazione del povero (che avveniva spesso salvaguardando formalmente la legge, per esempio in seguito a prestiti concessi ad interesse usuraio) , arricchimenti illeciti, lusso sfrontato (tipico del nuovo ricco). Per i profeti il problema è di natura essenzialmente teologica: il popolo ha abbandonato la fede yahvista dei padri, e proprio per questo si è corrotto.

    Tratti del profeta

    La maggior parte dei profeti, e tutti quelli di cui sono stati conservati i libri, sono uomini. Tuttavia ci sono state anche delle profetesse nel corso della storia di Israele: Myriam sorella di Mosè (Es 15,20); Debora (Gdc 4,4); la moglie di Isaia; Culda a cui lo scriba Safan, il gran sacerdote Chelkia e il re Giosia ricorrono per sapere cosa fare dopo aver scoperto un libro della Legge (2 Re 22).
    Molti profeti erano sposati (Osea, Isaia), qualcuno celibe (Geremia) o vedovo (Ezechiele). C'erano dei giovani (Samuele, Geremia), degli intellettuali (Isaia), dei lavoratori (Amos). La maggior parte dei profeti erano laici, qualcuno sacerdote (Ezechiele, Zaccaria). I profeti vengono da svariate condizioni sociali e praticano mestieri diversi: Elia appartiene ai «coloni»; Sallum è guardarobiere; Amos mandriano; Isaia appartiene all'aristocrazia regale; Sofonia è principe a Gerusalemme.
    Il profeta è un appassionato di Dio, un mistico in continua ricerca di Dio anche nella «notte oscura». Il profeta però non cerca, come il mistico, innanzitutto la sua perfezione, ma è orientato verso il mondo. Anche se è l'amico di Dio, il profeta è sempre un messaggero, una sentinella, una vedetta per la comunità. Il profeta non parla di un Dio presente nel suo cuore, ma di un Dio che si rivela nella storia.
    Il profeta è un artista, ha talento e ispirazione; è un originale, la cui opera suscita interrogativi e interpella i suoi contemporanei: egli infatti osserva e conosce bene la società del suo tempo. Il profeta vive il suo servizio come un compito e una missione, mai come un mestiere!

    Interrogativi per me
    • Chi o quali sono i miei idoli? Hanno un posto importante nella mia vita? E Dio?
    • Cosa vuol dire per me «cercare il Signore in spirito e verità»? Il culto (Messa, preghiere, ecc.) ha incidenza nella mia vita, mi aiuta ad essere migliore? E la mia vita che peso ha nel culto?
    • Il mio essere credente mi spinge a «sentire» i problemi
    sociali attuali? Cosa faccio e cosa potrei fare (anche insieme ad altri miei amici) per costruire una società migliore?
    • Sento di essere «amico di Dio»? Come coltivo questa amicizia? So rintracciare i segni della Sua presenza nella mia vita e nella storia?

    Preghiera
    Gesù Signore,
    tu che alla Samaritana hai detto
    che bisogna adorare Dio in spirito e verità;
    tu che hai smascherato l'ipocrisia dei farisei
    e hai condannato chi sfruttava i poveri,
    aiutami a non piegarmi ad alcun idolo;
    illumina la mia strada perché possa cercarti e incontrarti
    nel povero che mi passa accanto,
    nell'amico smarrito che ha bisogno di ascolto, nel nemico ferito che ha bisogno di perdono.
    Dammi la gioia di esserti amico
    e il coraggio di non vergognarmi mai di questa amicizia.

    Nella memoria del quotidiano
    Il profeta non parla di un Dio presente nel suo cuore, ma di un Dio che si rivela nella storia.

    IN CATTEDRA I NON CREDENTI
    Giona a lezione di fede

    Popolo eletto, popolo privilegiato e amato da Dio in modo speciale: è la convinzione comune a tutte le religioni. Questa coscienza di una scelta speciale può essere vissuta in atteggiamento di umile gratitudine a Dio; ma può anche portare a sentimenti di disprezzo e di intolleranza verso quanti non condividono la stessa fede: era il caso di molti ebrei nel periodo di restaurazione post-esilica. La conflittualità fra l'intolleranza religiosa verso gli altri popoli e il riconoscimento di una salvezza universale dovuta all'azione dell'unico onnipotente Dio è il tema di fondo (lel racconto didattico che va sotto il nome di «Giona».
    Il profeta Giona visse nel VII sec. a.C. (cf 2 Re 14,25), ma il racconto che lo vede protagonista è posteriore all'esilio babilonese (V sec. a.C.), scritto dunque in un tempo in cui la città di Ninive non era che un lontano ricordo. Filo rosso del racconto è l'amore di Dio, dono gratuito offerto a tutti e quindi anche agli abitanti, pagani e peccatori, di Ninive. Se uno agisce contrariamente a quanto gli è chiesto da Dio, come fa Giona nel corso del racconto, sbaglia tutto ed è di ostacolo sia al progetto di Dio, sia alla piena realizzazione della terra e dei popoli.

    Un cammino in discesa

    «Fu rivolta a Giona figlio di Amittai questa parola del Signore: "Alzati, va' a Ninive la grande città e in essa proclama che la loro malizia è salita fino a me". Giona però...» (1,1-3). L'ordine di Dio è chiaro: il profeta deve alzarsi e far conoscere alla città di Ninive che Dio conosce il male che in essa si commette. Si tratta di una specie di «avviso di garanzia»: Dio non ha emesso alcuna sentenza di condanna verso la «grande città». Giona invece, vuole salire in cattedra e insegnare a Dio la giustizia: «Perciò mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato» (4,2).
    Il profeta, così, tradisce la sua missione e invece di alzarsi per proclamare la parola di Dio, scende sempre più in basso, preferisce il silenzio cercando di fuggire lontano da Dio. Fugge a Tarsis nella direzione opposta a Ninive; scende a Giaffa, poi scende in mare e si imbarca in una nave di marinai pagani. Quando Dio scatena una tempesta sul mare, Giona scende «nel luogo più riposto della nave»; infine viene gettato nel fondo degli abissi e scende nel ventre di un pesce. Rimane «sepolto» nel grembo del cetaceo per tre giorni e tre notti.
    Dio gli aveva ordinato di «alzarsi» perché voleva sollevare dal male la grande città. Il profeta, invece, si chiude sempre più in se stesso, rifiuta Dio e sceglie il sonno –«dormiva profondamente» (1,5) – come anestetico della coscienza. Se Ninive – la grande città – è simbolo di corruzione, di complesso dilagare del male, dell'umanità; Giona è il simbolo di Israele, il popolo «santo»! E Giona il vero peccatore del racconto. Egli cerca di mettere tra sé e Dio il deserto e il mare – simboli del male –, il sonno come morte della coscienza, lontananza dalla Presenza, scelta di oblio. Dormendo, Giona evita di pensare, di avere consapevolezza di quello che gli succede e gli viene chiesto, di dimenticare ogni cosa e la propria responsabilità. Ma... «è ormai tempo di svegliarvi dal sonno!» (Rm 13,11).

    La fede dei non credenti

    Giona viene risvegliato dai marinai a causa della tempesta. Le tempeste dell'umanità servono a svegliarci dal sonno. Giona deve portare il messaggio di salvezza ai pagani, ma sono i pagani che gli portano un messaggio di salvezza: lo svegliano alle sue responsabilità, a prendere coscienza del suo peccato, addirittura lo invitano a pregare. Giona deve portare i pagani a Dio e invece sono i pagani che portano Dio a Giona! Giona, il credente, è l'unico che sulla nave non prega! Mentre Giona dorme i pagani pregano: «... invocavano ciascuno il proprio dio...» (1,5). Addirittura è il capo dell'equipaggio a farsi prossimo al profeta di Yhwh e gli dice: «Alzati, invoca il tuo Dio! Forse Dio si darà pensiero di noi e non periremo» (1,6).
    I marinai, pagani, intuiscono che nella tempesta c'è un segno di Dio. E così era. La tempesta scuote i pagani e rende indifferenti i credenti che purtroppo seguono la loro strada, non capiscono i segni di Dio. Giona si risveglia alle sue responsabilità: «È colpa mia!». È anche colpa (lei credenti se ci sono le tempeste nel mondo. Di fronte a Giona che si assume la colpa, i marinari cercano di salvare se stessi e la nave, ma anche Giona. Capiscono che è colpa sua, capiscono che stanno per morire perché egli ha tradito il suo Dio e, malgrado ciò, tentano ugualmente di salvarlo. Se il mondo è nelle tenebre è perché noi non lo illuminiamo, se è senza sapore è perché noi non siamo sale.

    La grazia di scomparire

    Giona capisce e accetta di essere buttato a mare perché i marinai possano fare la loro strada. Essere credenti vuol dire accettare di scomparire. La vera vita di Giona comincia nel momento in cui i marinai lo buttano in mare: un pesce lo ingoierà, dopo tre giorni e tre notti lo vomiterà sulla spiaggia, e Dio gli ripeterà di nuovo l'invito: «Va' a Ninive...!». Toccare il fondo del mare-male significa per Giona cominciare a risorgere!
    Ninive è il centro di tutta l'azione di Dio. Città pagana, maledetta dai profeti, ritenuta il centro del potere malefico, incontro di ricchezze, potere e autoritarismo: è proprio Ninive la città che Dio vuole salvare. Dio educa il suo popolo ad aprirsi allo «straniero»!
    Dio ha fatto sì che Giona fosse assorbito dal mare per farlo rinsavire, per fargli capire che la sua missione era ancora da compiere. Giona è dovuto scendere nell'abisso, nella realtà più nera delle tenebre per poter portare con sé alla luce tutte le tenebre; egli non può salvare il male da lontano, ne deve essere partecipe, deve essere abbandonato al male. La Chiesa non salverà nessuno se non attraverso l'esperienza di Giona: «Nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta» (Mt 12,40).
    Proprio attraverso il male (mare) Giona ritrova il senso della sua missione e della preghiera. Il cristiano trova il senso della sua missione entrando dentro alle contraddizioni, non togliendole; entrando dentro al male, assumendolo, prendendolo su di sé, e non semplicemente combattendolo. Finché la comunità cristiana non sarà una «comunità in diaspora» non potrà annunciare Dio e il suo Vangelo; annuncerà per sé ma non salverà nessuno. Quando morirà potrà salvare, quando scomparirà potrà rinnovare, quando sarà perseguitata porterà la salvezza. Quando il credente sembra perdere ogni sostegno è perché Dio vuole che sperimenti le debolezze del mondo e le porti su di sé.
    Giona è punito: quello che doveva succedere a Ninive è successo a lui. Il vero peccato che questo racconto denuncia non è quello di Ninive, ma il peccato di Giona, che scappa e porta su di sé il peccato di tutti i niniviti. Il profeta sostituisce la città peccatrice, e libera dalla morte proprio i suoi nemici. Deve pagare per i suoi nemici! Solo nell'abisso del mare Giona accetta l'invito del capo dei marinai e prega il suo Dio. La sua missione ricomincia proprio dalla preghiera e dall'abisso. «Se l'amico di Dio non fosse perseguitato, se la Chiesa non fosse messa a morte, il mondo finirebbe» (Origene).

    Interrogativi per me
    • Qual è il mio atteggiamento verso i non credenti: pregiudizio, timidezza, vergogna, condanna?
    • Sono aperto ai problemi della mia città e del Paese? Mi chiudo nel guscio di una fede intimistica e semplicemente «interiore»? La mia fede mi aiuta a vivere meglio la relazione con gli altri? Ho la consapevolezza di dover adempiere una missione nel mondo?
    • Ascolto i «suggerimenti» della mia coscienza credente oppure cerco di far finta di nulla, di non ascoltarne la voce... e i richiami?
    • Ho il coraggio di «scomparire» perché l'altro sia? So vivere il mio servizio nel gruppo, nella Chiesa, nella società senza cercare gratificazioni e primi posti?
    • Sono disposto a pagare di persona per il Vangelo... e anche per coloro che considero «nemici»?

    Preghiera
    Signore mio Dio,
    Tu che sei Padre e Creatore di ogni uomo,
    aiutami ad accogliere tutti e ciascuno
    senza pregiudizi, senza barriere di razza, di cultura, di religione.
    Dammi la grazia
    di non fuggire mai dinanzi alle responsabilità
    e il coraggio di assumermi
    le lacerazioni, gli smarrimenti e le fragilità
    di coloro che Tu mi fai incontrare, disposto anche a pagare di persona.

    Nella memoria dei quotidiano
    Se l'amico di Dio non fosse perseguitato, se la Chiesa non fosse messa a morte, il mondo finirebbe.

    NEL PERDONO LA GIOIA
    La triste esperienza di Giona

    Gratuità e perdono

    La missione che Dio affida a Giona non è di condanna, bensì di salvezza. L'annuncio, infatti, è una buona notizia: «Se vi convertirete, sarete salvati». Giona invece tradisce il pensiero di Dio e profetizza un disastro, una catastrofe, l'annientamento di questa città «grande» soprattutto per il peccato: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta» (3,4).
    L'annuncio di Dio è un'alternativa totalizzante, un'alternativa globale, del profondo. A Ninive tutto si ferma: nessuno, dal re fino alle bestie, tocca né cibo né acqua: un'esagerazione? Ninive dà un giudizio su se stessa e Dio la salva. Se Ninive non si giudica, Dio la condanna e la dist rugge, perché è l'unico modo per redimerla. Così è stato per Giona: l'unico modo per essere se stesso è stato il «morire» tre giorni e tre notti dentro al ventre del pesce, el fondo del mare... il morire a se stesso.
    Il profeta Giona annuncia una distruzione, ma la glorificazione di Dio, la sua gioia, è nel perdono.
    Il problema di Giona è voler «essere qualcuno» facendolo pagare agli altri. Se si fossero realizzate in pieno le sue parole: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta», Giona si sarebbe sentito veramente il profeta di Dio, colui che aveva da Lui ricevuto una parola da annunziare; l'aveva annunziata e la parola si era realizzata. Giona si vantava di essere colui che poteva condannare. Ma Dio non ha mai dato questa missione a nessun profeta, a nessuna persona. Anzi, Gesù chiederà di amare i nemici più dei propri parenti.
    La salvezza di Ninive, a causa del suo ravvedimento, trascina al pentimento e alla salvezza tutta la creazione: «Uomini e animali, grandi e piccoli, non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua... Ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani» (3,7-8). Non è una favola, ma il simbolo di una realtà: come nel peccato l'uomo trascina nella sua situazione l'intera natura, così pure la trascina nella salvezza. Nella natura inquinata vediamo con i nostri occhi il nostro stesso peccato fatto realtà. È proprio vero che siamo in stato di peccato: basta vedere l'acqua inquinata; abbiamo trascinato il mondo con noi! Noi cerchiamo di mettere pezze dappertutto, ma non è qui il problema. Ere di Ninive capisce che non è il caso di rappezzare, comprende che la natura tutta è coinvolta nel cambiamento.
    All'annuncio di Giona tutti si pentono. L'unico ad essere triste è Giona che «uscì dalla città e sostò a oriente di essa. Si fece lì un riparo di frasche e vi si mise all'ombra in attesa di vedere ciò che sarebbe avvenuto nella città» (4,5). Ma rimane deluso, perché si aspettava l'umiliazione dei suoi nemici.
    Qual è l'atteggiamento dei niniviti di fronte all'annuncio di Giona? «Chissà che Dio non cambi, si impietosisca...» (3,9; cf Ger 36). «Chissà che Dio...»: «Se il tuo cuore ti rimprovera qualcosa, Dio è più grande del tuo cuore» (1 Gv 3,20) ... «Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e noti lo fece» (3,10). Dio cambia. E proprio questo cambiamento fa imbestialire Giona, perché... non è da Dio cambiare idea! Se aveva promesso di distruggere Ninive doveva distruggerla!

    Lo scandalo di Dio

    Il narratore presenta allora uno stupendo dialogo tra il profeta e Dio sulla misericordia e sul perdono. Giona esprime a Dio le sue riserve per il modo in cui ha deciso (li trattare Ninive. Giona se ne dispiace, si ribella a questa decisione divina, disapprova questa compassione di Dio per una città «potente nel peccato» e dice di preferire la morte alla vita: «Signore, non era forse questo che dicevo quand'ero nel mio paese? Perciò mi affrettai a fuggire a Farsis; perché so che sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!» (4,2-3). Giona si scandalizza di questo Dio misericordioso!
    E la stessa reazione che proveranno gli «operai della prima ora» nei confronti del padrone che aveva dato la stessa paga anche agli operai dell'ultima ora nella parabola evangelica; e la risposta sarà: «Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?» (Mt 20,15).
    Il Signore allora risponde giustificando il suo atteggiamento e scusando Ninive perché «non sanno quello che è bene e quello che è male». È una delle situazioni più frequenti dentro la vita dell'umanità. Il profeta non capisce perché Dio si comporti così addirittura con i nemici di Israele. Praticamente viene abolita in questo modo la distinzione fra il popolo eletto, il popolo santo, e i pagani: basta vedere in tutto il racconto chi prega e chi non prega, chi crede e chi non crede, chi si comporta secondo Dio e chi no.

    Il gioco di Dio

    Giona vuole la distruzione della città. È un uomo serio, che prende sul serio le cose. Dio risponde alla serietà dell'uomo giocando; Dio scherza, ride... povero Giona! Gliene sono capitate di tutti i colori, perfino la sua profezia non si è realizzata! Dio va contro il suo profeta per salvare una città. Non gli importa che il suo profeta faccia bella figura, a Lui sta a cuore che la gente sia salva. A Dio non importa che i credenti abbiano ragione, a Lui sta a cuore che tutti gli uomini riconoscano di essere figli suoi. Ed è la tragedia dei credenti!
    Dio scusa l'uomo: «Non sanno quello che è bene e quello che è male». Viene anticipata così l'esperienza di Gesù sulla croce: «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Giona non riesce ad annunciare e a capire un Dio così fatto e pretende di salire in cattedra a far da maestro: «Già prima di uscire da casa lo dicevo che sarebbe andata a finire così». Giona lo sapeva ma sosta fuori città per assistere (almeno spera) alla vendetta di Dio. Non è capace di entrare in città a far festa con i niniviti convertiti: si comporta come il figlio maggiore che non accetta la gioia misericordiosa del padre nella parabola di Lc 15,11-32.
    Dopo la conversione di Ninive è Giona che sta a cuore a Dio, è Giona che deve essere salvato dal suo egoismo. Ed è molto più difficile salvare il credente egoista che il più grande peccatore non credente. Il credenti insuperbito... anche Dio fatica a convertirlo! Al Signore allora non resta che il gioco come strumento di conversione. Giona è diventato l'egoista, quello da convertire, perché avendo annunciato a Ninive il suo peccato non si è sentito anch'egli parte di quel peccato, se n'è distaccato. Giona si è comportato come il fariseo che Gesù non assolverà, perché si sentiva «giusto» e disprezzava il pubblicano consapevole e umiliato per il suo peccato (cf Lc 18,10-14).
    Quando Dio opera nel mondo sconcerta l'uomo credente che non ne capisce più il comportamento. Spesso noi non capiamo che Dio è libero e non è possesso di nessuno. Dinanzi a Dio non ci sono credenti e non credenti. Ognuno di noi crede in qualcosa. Siamo tutti in cammino verso una verità più grande di quella che già possediamo. Ma spesso siamo alla ricerca di una giustizia, forse, non di una misericordia. E la misericordia più difficile da avere è quella con noi stessi. Non ci perdoniamo mai. E non abbiamo misericordia con gli altri perché non l'abbiamo con noi stessi.

    Interrogativi per me
    • Con il mio comportamento, le mie parole, il mio atteggiamento sono annunciatore e testimone di speranza e di gioia nel mio gruppo, fra gli amici, nell'ambiente in cui vivo? Oppure creo un clima pesante, diffidente, triste?
    • Sono riuscito qualche volta a perdonare un torto subito? Rivivendo quell'esperienza, quali sentimenti ho av-
    vertito dentro di me: gioia, felicità, vittoria...? Che cosa blocca in me alle volte il coraggio di perdonare?
    • Dio è misericordioso e non un giudice spietato: qual è la mia idea su Dio? Come lo sento nei miei confronti?
    • Ho coscienza che il bene o il male che compio ha una segreta, misteriosa risonanza negli altri e nella natura? Come vivo il mio rapporto con il creato: rispetto, trascuratezza...?
    • Riesco a gioire per i successi degli altri, so condividere la felicità di chi ottiene delle vittorie nella vita... anche diverse dalle mie previsioni?

    Preghiera
    Signore Dio,
    dammi la grazia di cercare e scoprire il tuo volto di misericordia,
    di saper giocare e gioire con te. Concedimi la fiducia
    nei successi degli altri
    e la grazia di essere
    presenza e testimonianza di gioia e speranza
    fra i miei amici, nella mia famiglia...
    Liberami dall'egoismo e dalla tristezza, metti le ali al mio cuore
    perché sappia essere trasparenza
    del tuo perdono e del tuo sorriso.

    Nella memoria del quotidiano
    È molto più difficile salvare il credente egoista che il più grande peccatore non credente.

    PER UNA FEDE CHE SI FA STORIA
    L'impegno del profeta Isaia

    Su 17 pelli di capra cucite insieme (7 m x 20 cm) sono incise 54 colonne di alta letteratura ebraica: è il celebre rotolo di Isaia ritrovato nel 1947 nelle grotte di Qumran, vicino al Mar Morto. Sottoposto a tecniche sofisticate, il rotolo ha rivelato uno scritto a «tre mani» di tre diversi periodi della storia di Israele: sec. VIII-VI-V (regno assiro-esilio babilonese-ritorno degli esuli). Tre differenti stili letterari, tre le idee teologiche sottese al testo: fede che si a storia, canti del Servo di Yhwh, consolazione e ricostruzione della comunità. Il libro che va sotto il nome di Isaia risulta dunque diviso in tre parti: cc. 1-39; 40-55; 5666. Solo la prima parte – di elevato livello poetico – sarebbe stata scritta dal profeta Isaia, mentre le altre due sarebbero opera di alcuni eminenti discepoli della sua «scuola», sopravvissuta alle intemperie della storia per quasi tre secoli.

    Un aristocratico sacerdote-profeta

    Scarse sono le notizie sulla persona e la vita di Isaia, il cui nome (Je'sha'jahfi) significa «Yhwh salva». Di questa salvezza – come liberazione nella e della storia –, operata ( la Yhwh a favore del suo popolo, Isaia si fece per 40 anni circa messaggero e promotore (cf Sir 48,20).
    «Nell'anno della morte del re Ozia» (6,1), avvenuta nel 740-739 a.C., il giovane aristocratico sacerdote di Gerusalemme, durante una solenne liturgia nel tempio, riceve la vocazione profetica che lo apre a un mondo nuovo: dalla pietà giovanile e dalle verità tradizionali passa a captare il grande piano di Dio, che gli si va rivelando nell'ordinarietà della storia e delle vicende politiche del suo popolo. Ancor giovane contrae matrimonio con una donna, da lui semplicemente chiamata «la profetessa» (8,3), dalla quale avrà due figli che chiamerà Maher Shalal-Hash Baz (Veloce Saccheggio-Pronta Devastazione) e Shear Jashub (Un resto ritornerà-si convertirà) Al nome del primo figlio contiene una minaccia ed è simbolo del giudizio di Dio; il nome del secondo invece è latore della promessa di consolazione e apre alla speranza di una novità possibile, attraverso la fedeltà di un piccolo gruppo di Israeliti.
    Teatro dell'attività di Isaia è Gerusalemme, capitale politica e religiosa, di cui conosce tradizioni e persone, cultura e culto. Isaia ha un carattere deciso e non ama le mezze misure. Avvertendo la gravità di quell'ora della storia, si offre con passione al compito che Dio gli presenta, capace di generosa assunzione di responsabilità: «Poi io udii la voce del Signore che diceva: "Chi manderò e chi andrà per noi?". E io risposi: "Eccomi, manda me!"» (6,8).

    Dal diritto al delitto

    Tenendo alta la coscienza della sua missione, nonostante il fallimento dei suoi tentativi di convertire il popolo e di indurre sacerdoti e governanti a non offuscare la fede con interessi e alleanze politiche di parte, non si lascia mai abbattere né cadere nello sconforto. Isaia, infatti, confida nella compagnia del Signore, che egli chiama «Emmanuele» (Dio-con-noi). Nemico dell'anarchia, di ogni strumentalizzazione della fede, di un ritualismo vuoto e privo di incisività nella vita, Isaia si rivolge con franchezza contro i gruppi dominanti: autorità, giudici, politici, latifondisti, e tratta con durezza e ironia le donne della classe alta di Gerusalemme (cf 3,16-17). L'aristocratico sacerdote-profeta difende con passione gli oppressi, le vedove e gli orfani, i cittadini sfruttati e traviati dai governanti, e non per populismo o filantropia ma perché crede e lotta per la giustizia e la solidarietà, prendendo a cuore la sorte del suo popolo: «Popolo mio, le tue guide ti traviano... Qual diritto avete di opprimere il mio popolo, di pestare la faccia ai poveri?» (3,12-15). Da Gerusalemme il profeta accusa una sorta di ateismo pratico mascherato di religiosità di facciata e di liturgie prive di fede. E proprio dal tempio pronuncia una sferzante omelia posta ad apertura del suo libro: «Smettete di presentare offerte inutili... I vostri noviluni e le vostre feste io detesto... sono stanco di sopportarli... Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. I vostre mani grondano di sangue... Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova... Come mai è diventata una prostituta la città fedele?» (1,13-21).
    Israele viene paragonato a una vigna menzognera e falsa (5,1-7), perché la sua è una storia di delusione. Dio, infatti, «si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi» (5,7). Alle attese di giustizia e rettitudine il popolo amato risponde con l'ingiustizia, il sopruso e l'oppressione. È una storia di ostinata infedeltà, «di un popolo privo di intelligenza; per questo non ne avrà pietà chi lo ha creato, né chi lo ha fatto ne avrà compassione» (27,11).

    La fede anima della politica

    Uomo di grande cultura, Isaia allarga il suo sguardo anche alla scena politica internazionale dominata dall'Assiria di Tiglet Pileser III. Acaz, re di Giuda, poco lungimirante e afferrato dalla paura dell'espansione assira, si lascia aggrovigliare da una rete di interessi e, dimentico di Dio e delle sue promesse, cerca di salvarsi salendo sul carro del vincitore. E il trionfo di un giorno: il re assiro sognato come liberatore si trasformerà in distruttore. Le vie che Dio usa per vincere e convincere il suo popolo sono tante... ma solo un piccolo gruppo – il «resto di Israele» – capirà (10,20). E Isaia aveva avvertito. Ma il potere acceca e quando la politica diviene interesse e la fede viene chiusa nel cassetto, l'intelligenza cede il passo alla stupidità e la gloria si riveste di vergogna... Perciò «ritornate, Israeliti, a colui al quale vi siete così a fondo ribellati» (31,6), perché «nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell'abbandono confidente sta la vostra forza» (30,15) . Non è quietismo, né rifugio nel privato, ma una specie di «scelta religiosa», un appoggiarsi sulle certezze di Dio, un richiamo agli ideali religiosi e culturali del popolo ebraico per ritrovare la propria autonomia politica e la lucidità di scelte lungimiranti, all'insegna di quella fede che si fa storia nel concreto snodarsi degli eventi.
    A garanzia della sua proposta, Isaia offre un segno (7,10-15), che il re Acaz con un pretesto evasivo cerca di rifiutare: la sua apparente religiosità («non voglio tentare il Signore») è un paravento per celare un vuoto di fede. Affatto intimidito, il profeta pronuncia il suo oracolo: la bontà di Dio supera l'ipocrisia dilatoria di Acaz; il segno è nel grembo della giovane moglie del re: la salvezza viene da un bambino nel cui nome –Emmanuele – germoglia la speranza, perché Dio si fa compagno di viaggio del suo popolo.

    L'utopia della pace

    La tragicità dell'ora presente non impedisce a Isaia di sognare la pace, di «contemplare» l'aurora di un nuovo giorno in cui «il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce... Poiché un bambino è nato per noi... e la pace non avrà fine» (9,1-8). In quel giorno «il lupo dimorerà insieme con l'agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà» (11,6). Se ora il popolo, fuorviato dai suoi governanti, è incapace di distinguere il bene dal male e di riconoscere i più elementari dei valori umani e sociali (5,20-21), giorni verranno in cui la piccola collina di Sion in Gerusalemme diverrà un monte altissimo, luogo di convergenza e di incontro fra tutti i popoli, trono di giustizia e di pace, città che uccide le armi per far nascere la vita, riconciliando l'uomo con la sua ragione e favorendo lo sviluppo dell'economia e la pace internazionale (2,1-5). La pace, opera della giustizia, esige una radicale conversione di ogni uomo e di tutti i popoli. Conversione difficile. Conversione possibile?

    Interrogativi per me
    • Quante volte mi chiedo dove cercare e incontrare Dio. Ho mai provato a «leggere» i segni della sua presenza nella quotidianità e «banalità» della mia vita? Ho mai cercato di individuare le tracce del passaggio di Dio nella storia e nelle vicende di cui sono protagonista o testimone?
    • Isaia si offre volontariamente e spontaneamente a collaborare con Dio nel suo progetto di salvezza: so assumere con generosità e disponibilità le responsabilità alle quali sono chiamato o sollecitato? Come le porto avanti?
    • Dinanzi alle difficoltà come reagisco? Cado nello sconforto, mi abbatto... oppure reagisco con più energia e impegno? Come e dove cerco la forza per superarle?
    • Se la storia è un libro che mi parla di Dio, è anche vero che la mia fede deve farsi storia: come vivo - personalmente e insieme agli amici del gruppo - il mio impegno sociale per la giustizia?
    • Mi sento ancora capace di «sognare»? Credo che la pace nel mondo sia possibile? Cosa faccio in concreto?

    Preghiera
    Dio, Padre di tenerezza,
    perdona le mie gelosie e le mie invidie,
    tirami fuori da una fede piccina e gretta
    e apri il mio sguardo alla luce del tuo amore. Concedimi la forza
    di superare ogni difficoltà, soprattutto quelle mie interiori, e dammi la grazia
    di sognare e operare insieme agli altri per la pace e la giustizia.

    Nella memoria del quotidiano
    Non si lascia mai abbattere né cadere nello sconforto chi confida nella compagnia del Signore, l'Emmanuele, il
    Dio-con-noi

    LE CICATRICI DELLA SALVEZZA
    L'anonimo profeta della debolezza

    Nel 588 a.C. Nabucodonosor, re di Babilonia, assedia Gerusalemme. Dopo un anno e mezzo di assedio, costretta dalla fame, la capitale si arrende. È il 19 luglio del 586. I I 15 agosto dello stesso anno Gerusalemme viene rasa al suolo e molti giudei vengono deportati nei campi di concentramento babilonesi. Israele così perde tutto: la terra promessa, la città santa, il tempio, l'indipendenza.., la fede. Non gli resta, infatti, nemmeno la speranza del ritorno, né la sicurezza di essere il popolo eletto e amato da Dio. Tuttavia, questo tempo di esilio sarà uno dei più creaitivi della storia di Israele: un seminare tra le lacrime che produce un raccolto tra canti di gioia. Verso la fine di questa epoca, quando ormai si profila il ritorno in patria, un poeta anonimo della scuola del grande Isaia scrive i cc. 40-55, all'interno dei quali si trovano i famosi quattro canti del Servo di Yhwh (Is 42,1-7; 49,1-9; 50,4-9; 52,13-53,12).

    Silenzio della voce, forza della debolezza

    Il titolo Servo di Yhwh indica una completa sottomissione alla volontà di Dio, ma soprattutto il legame affettivo che unisce Dio col Servo. Dio infatti ha formato con amore utto speciale il suo Servo, lo ha chiamato fin dal seno materno e ora lo sostiene: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni» (42,1).
    L'attività del Servo non è limitata al popolo di Israele: essa non conosce barriere nazionali o razziali; anzi tutti i continenti sono descritti come in ansiosa attesa, pronti ad accogliere il messaggio dell'inviato divino e a tributargli ogni onore. Compito del Servo è diffondere la parola e la giustizia di Dio. La sua vita sarà sommamente difficile, piena di incomprensione e di disprezzo; la sua morte apparirà oltremodo vergognosa, ma altrettanto onorifica sarà la sua glorificazione successiva. L'insuccesso apparente è in pratica l'avvenimento più grandioso e più saturo di conseguenze per l'umanità: si tratta della vittoria sulle colpe di tutti, sul peccato, sulla morte. Il Servo realizzerà tale impresa non con le armi, né con la forza, ma con un nuovo stile dello Spirito: soavità e mansuetudine con il debole e il vacillante, fermezza nel soffrire e tenacia nel realizzare la missione; non spezzerà il debole, ma nemmeno lui si spezzerà: «Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta...» (42,2-4).
    Le negazioni escludono tutte un fare chiassoso o clamoroso; quindi si avrà un'attività umile e silenziosa che evita gli atteggiamenti di posa, capaci di attirare l'attenzione degli ascoltatori o spettatori, ma spesso inefficaci se non addirittura controproducenti. Il Servo inoltre agirà evitando ogni violenza: non si impianta la giustizia calpestando il debole, o spegnendo il piccolo frammento di speranza coperto dalla cenere della delusione. Perciò il Servo istituirà un regno di pace, di giustizia e di verità, in cui non vi è posto per l'oppressione dei deboli. Anzi, egli viene inviato per aprire gli occhi ciechi di chi non vuole aprirsi alla speranza di una nuova possibilità di vita nella sua esistenza, per liberare l'umanità dai legami dell'ingiustizia, dell'odio, della chiusura alla fede, definiti «tenebra» perché portano nel baratro della morte e del nonsenso. Un giorno Gesù di Nazareth dirà: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orec( hi» (Lc 4,21).

    L'eloquente linguaggio dell'amore

    Il profeta è l'uomo della parola, ma il Servo di Yhwh vive di. ascolto, perché non dispone a piacere di una sua provvista di parole; ciò che egli annuncia è dono ricevuto e accolto con la fatica dell'ascolto: «Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati. Il Signore I )io mi ha aperto l'orecchio e io non ho opposto resistenza...» (50,4-5). Il credente ha l'obbligo di ascoltare e studiare come «scolaro» le Scritture per leggere con esse la storia, per interpretarla e illuminarla alla luce della parola di Dio. Annunciare il Vangelo, infatti, richiede una accoglienza della Parola maturata a lungo nel cuore e coltivata incessantemente nel quotidiano cammino della fede, perché il «Mistero» attraverso la voce di chi lo annuncia dischiuda nuovi orizzonti di speranza.
    Ma tale missione è intrisa di fatica e difficoltà, perciò il Servo deve saper porre nel suo zaino il coraggio della sofferenza: «Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la laccia agli insulti e agli sputi...» (50,6). Come non resiste alla parola del Signore, così il Servo non oppone resistenza alle ingiurie umane; è un sofferente, un perseguitato. È colpito alla schiena come uno stolto: egli, il sapiente per eccellenza perché portavoce della Parola, è trattato come un buffone. E il Servo protesta con la non-violenza: non si abbatte né reagisce praticando la legge del taglione, ma considera tutto come parte integrante della sua missione. Fiducia in Dio e non-violenza: è linguaggio eloquente della forza dell'amore!

    La tomba della vita

    Il 4° canto del Servo di Yhwh (52,13-53,12) è il più ricco di dottrina, il più lungo e il più difficile. Dio stesso fa un brevissimo sunto della straordinaria biografia del misterioso personaggio: avrà successo e sarà esaltato, anche gli uomini più gloriosi del mondo assumeranno un atteggiamento di stupore e di riverenza davanti a lui; ma l'esaltazione è la conseguenza di una profonda umiliazione e di sofferenze indicibili. Il Servo di Yhwh è uno come noi. Anzi, più povero di noi. Egli è per eccellenza l'umiliato. Il profeta lo descrive come se fosse un volto dai contorni macerati, tutto sanguinante. Eppure sono proprio queste cicatrici la nostra salvezza. Egli ci salva anche se noi lo umiliamo e
    gli gettiamo addosso i nostri peccati e tutto l'odio del mondo. Egli cade e precipita in una fossa comune, dimenticato da tutti. Eppure Dio, attraverso il suo martirio, salva noi tutti. Quel germe di sofferenza diventa principio di salvezza.
    Il Servo cresce sotto lo sguardo e la compiacenza di Dio. È una presenza viva nel mondo morto e desolato del peccato umano. È un germoglio, ma a stento la terra riesce ad alimentarlo. È un uomo, ma sfigurato. Vive in una società, ma disprezzato. Ai dolori e alle sofferenze corporali si unisce l'abbandono degli altri, che ne interpretano la sofferenza come un castigo di Dio e si coprono il volto per proteggersi da lui. E l'uomo dei dolori non parla, il suo silenzio è significativo: le sofferenze dimostrano sì l'esistenza di un peccato, ma non di colui che soffre, bensì di quelli che lo vedono soffrire. Il castigo è «nostro», il dolore è «suo»; e il dolore è salutare non per un'azione meccanica e quasi magica, ma perché egli ci ha condotti al pentimento e al perdono. È il paradosso di un castigo che risana, di cicatrici che fanno guarire.
    La donazione del Servo è totale e docile come per l'agnello sacrificale che vede irrompere su di sé la spada del sacrifico. Ciò che l'attende è la morte e la sepoltura, sigillo di una vita di dolore e di disprezzo. Anche se il suo cadavere è buttato nella fossa comune dei giustiziati, una lapide ideale è posta sulla sua tomba: «Non ha commesso violenza, non ci fu inganno nelle sue parole» (53,9) . È l'intuizione comunitaria che la salvezza nasce da questo mistero di morte. La sua tomba sarà il grembo e la fonte dell'universale salvezza. La morte fa fiorire il mistero di fecondità che quel virgulto conteneva. Il Servo trionfa per la sua passione silenziosa. La sua vita, passione e morte sono state una «intercessione» che il Signore ha accettato; il suo silenzio è una preghiera ascoltata, il suo dolore è stato la nostra riconciliazione con Dio.
    Salendo anche noi sulla carrozza dell'eunuco di Candace, facciamo nostra la sua domanda: «Ti prego, di quale persona il profeta dice questo?». Filippo prese la parola e, a partire da quel passo della Scrittura, gli diede la buona notizia di Gesù (At 8,34-35). Questa trama di umiliazione «nella condizione di Servo... fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,7-8) e di esaltazione «per attirare l u tti a sé» (Gv 12,32), per i cristiani ha un nome: Gesù Cristo. È, infatti, attraverso questa misteriosa figura regale e profetica che gli evangelisti hanno meditato, compreso e interpretato il mistero di vita, morte e gloria che nella Pasqua di Gesù si era compiuto.

    Interrogativi per me
    • Come vivo i miei fallimenti? So avere la lucidità interiore della fede che mi apre alla speranza?
    • Riesco a vivere il mio rapporto con gli altri con discrezione e mansuetudine, senza aggressività e nervosismo? So vivere l'arte della non-violenza dinanzi alle contrarietà e difficoltà della vita?
    • Come mi comporto dinanzi a chi, più o meno volontariamente, si chiude nella sua cecità interiore e si lascia vincere dal dolore e dalla delusione? Cosa posso fare per aprire il suo cuore alla speranza?
    • Nel confronto parola-ascolto spesso do troppo peso alle parole e non riesco ad «ascoltare» con attenzione Dio, me stesso, gli altri. Come posso maturare la mia capacità di ascolto? La «lettura» della Bibbia trova spazio nella mia giornata?
    • Quando sofferenza e difficoltà vengono a visitarmi so reagire con coraggio? Riesco a porre la mia fiducia in Dio e ad affidarmi nella preghiera a Lui?

    Preghiera
    Signore Gesù,
    tu che con coraggio hai offerto il dorso ai flagellatori,
    tu che hai reagito con il silenzio di chi ama
    alle ingiurie e alle offese,
    aiutami a vivere la virtù della mansuetudine,
    a reagire con la non-violenza
    a chi mi fa del male.
    Donami la luce della speranza e la forza della fede
    perché sappia consolare chi è nell'afflizione
    e aprire gli occhi di chi ha ucciso la speranza.
    Accetta anche le mie fragilità e accogli il mio impegno
    ad essere sempre più un volto trasfigurato dall'amore.

    Nella memoria del quotidiano
    Non si impianta la giustizia calpestando il debole, o spegnendo il piccolo frammento di speranza coperto dalla cenere della delusione.

    DALLE CENERI UNA NUOVA CIVILTÀ
    Isaia e la rinascita della speranza

    La terza parte del libro di Isaia (cc. 56-66) non ha un autore conosciuto, anzi è plausibile che si tratti di un'antologia di oracoli differenti, un mosaico di testi diversi quanto ad autori e a datazione, raccolti insieme da un redattore postesilico.

    La speranza delusa

    Israele 50 anni dopo. Nel 538 a.C. un editto di Ciro, re di Persia, permette il ritorno in patria degli Ebrei deportati. Si conclude la triste ma feconda prigionia nei campi di concentramento babilonesi. E il «popolo eletto» ripercorre lo stesso itinerario che circa 1300 anni prima aveva seguito Abramo: da Ur dei Caldei fino alla terra promessa. Stessa strada, stesso itinerario di fede. È un altro lungo lento esodo, una nuova creazione. Un cammino alla ricerca di una nuova identità di popolo, di nazione, di credenti; una tensione alla ricerca della «madre», cioè la terra da cui si era partiti e a cui si ritorna, il seno che accoglie e genera alla vita, che ti fa essere un popolo con il proprio destino e il proprio compito da assolvere. Nel cammino di liberazione del popolo della Bibbia, ogni uomo può vedere configurato il proprio. Ognuno ha bisogno di liberarsi dai diversi e spesso pesanti condizionamenti che gli impediscono di essere pienamente se stesso, per acquisire una più matura coscienza di sé e del proprio destino, per scoprirsi «popolo» libero, accompagnato dall'Invisibile presente.
    L'entusiasmo dei primi rimpatriati però si scontra ben presto con una situazione difficile, che in molti produce un'amara delusione: Gerusalemme è deserta e il tempio è in rovina; i pochi «sopravvissuti» praticano culti idolatrici. Quel che resta della gloriosa capitale è in mano a «guardiani ciechi, cani muti» (56,10) che lasciano perire il giusto: «Perisce il giusto, nessuno ci bada» (57,1). L'ingiustizia dilaga. Anarchia, scetticismo e delusione abitano le rovine della città-simbolo di Israele. La coscienza è a brandelli, gli antichi ideali non trovano ospitalità, la speranza è beffarda amarezza.

    Per una nuova società

    «Lo spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l'unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati... a promulgare l'anno di misericordia del Signore... Ricostruiranno le vecchie rovine, rialzeranno gli antichi ruderi, restaureranno le città desolate... Poiché io sono il Signore che amo il diritto e odio la rapina e l'ingiustizia... come la terra produce la vegetazione e come tu' giardino fa germogliare i semi, così il Signore Dio farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutti i popoli» (61,1-11).
    È il passo centrale del Terzo Isaia, l'annuncio di una svolta storico-salvifica costituita dall'«anno di misericordia del Signore» e fondata sulla giustizia. Il profeta si fa voce della comunità di Gerusalemme e annuncia che Io «spirito del Signore», effuso su re e sacerdoti mediante l'unzione, ora viene dato a tutto il popolo: lo Spirito del Signore dà origine a un'epoca nuova della storia. Non saranno dunque gli uomini a produrre la novità, a mettere in atto la liberazione, ma ciò sarà dono di Dio.
    Agli Israeliti appena rimpatriati, titubanti e scettici, delusi e scoraggiati, le parole del profeta vogliono ridare fiducioso entusiasmo, speranza coraggiosa e ardita. Dio vuole e può cambiare realmente la qualità della loro vita. Ma all'interno della comunità giudaica deve avvenire un mutamento profondo: il primato della giustizia e della solidarietà fattiva. Una comunità è «giusta» quando non ci sono miseri, afflitti, prigionieri, schiavi, cuori spezzati. Tale è la società nuova e solidale che Dio vuole. Israele sarà così un popolo di «sacerdoti del Signore» e di «ministri del nostro Dio» (61,6). Ciò non significa che tutti i Giudei saranno sacerdoti, ma che essi avranno una funzione sacerdotale da svolgere nei confronti del mondo: annunciare e testimoniare il «Vangelo», l'impossibile possibilità della speranza fondata su Dio, di un giardino che nel deserto della storia può rifiorire. La missione è questione di fede: non si tratta di costruire uno Stato più potente degli altri, bensì una nuova società fraterna e libera, giusta e solidale sotto la signoria di Dio. La prospettiva non è politica, bensì religiosa. Gerusalemme è la città luminosa posta sul monte per illuminare tutti i popoli.

    Luce di luce

    «Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te... Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere. Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te...» (60,1-9).
    Per gli esiliati giudei la città di Babilonia rappresentava il simbolo del potere politico oppressivo e schiavizzante, era come una tomba per la dignità della persona umana. Là, da quella città mortale, i Giudei cominciarono a sognare una nuova città, simbolo di una nuova società. Gerusalemme è riempita della luce e della gloria del Signore: non brilla di luce propria, ma è portatrice della presenza di Dio. La città è invitata a far propria la luce che viene da Dio: «Alzati, rivestiti di luce». Come un faro che attira nelle tenebre i naviganti verso il porto, così la «città posta sul monte» e trasfigurata dalla presenza luminosa di Dio attira e accoglie tutti i popoli nel suo grembo dilatato dall'Infinito.
    Che i pagani vengano attratti al popolo di Dio è dovuto soltanto a Dio. E tuttavia la luce di Dio non può irradiare davvero se Israele non splende esso stesso come luce di Dio. Non si tratta di volontà di dominio dei Giudei sul mondo, né di affanno proselitistico, né di spregiudicatezza «manageriale» per mettersi alla guida delle sorti del inondo. È Dio a volere la salvezza di tutti ed Egli instaura un dialogo amicale con gli uomini e le donne trasfigurando il più fragile dei popoli in luce del mondo. Israele, i 'd'atti, non è riempito di luce per se stesso, ma perché nel segno dell'offerta e della condivisione divenga trasparenza del Divino nella storia, custodia ed epifania dell'Eterno nel tempo. Se Gerusalemme diventa una comunità vera, Allora attirerà a sé i popoli, non per una frenetica azione missionaria, ma per «fascinazione contagiosa». La società nuova che deve splendere nel mondo è totalmente opera di Dio, che libera non soltanto l'individuo ma anche la dimensione sociale del vivere umano.

    Giustizia e solidarietà

    «Ecco, nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari, angariate tutti i vostri operai. Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui... Se toglierai di mezzo a te l'oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se offrirai il pane all'affamato, se sazierai chi è digiuno, allora brillerà fra le tenebre la ma luce...» (58,3-12).
    La situazione di Giuda è miserabile. È descritta come una «ferita», come «oppressione» e «tenebra»; non ci sono che «antiche rovine», fondamenta di epoche lontane. Come può un popolo essere luce per gli altri popoli se oggi è avido di guadagni anche a costo di oppressioni e ingiustizie, se vive sterili conflitti e lotte fra fazioni con «pugni iniqui»? La «città comune» che Dio sogna e vuole è fondata sulla giustizia e la libertà. Deve dunque essere eliminato ogni atteggiamento oppressivo, in qualunque campo: sociale, economico, politico o religioso. La fede in Dio esige la rinuncia all'egoismo con gesti concreti di fraternità: spezzare il pane con l'affamato,e introdurre in casa i miseri, i senza tetto, vestire gli ignudi, interessarsi del prossimo chiunque esso sia; acquisire non una mentalità di dominio ma di servizio, rispettare ed educare alla libertà liberante e al dialogo sincero; rinunciare alla corsa affannosa verso una produttività sempre maggiore e a un'insaziabile avidità di guadagno, per costruire la civiltà della solidarietà e del primato della persona.
    È assurdo erigere le mura della città per celare tensioni e discordie o voler costruire un tempio di pietra per acquietare la coscienza, un un uomo luogo sacro dove «uno sacrifica e poi uccide , uno brucia incenso e poi venera l'iniquità» (66,3). Il vero tempio che Dio vuole è una comunità nuova, una società di donne e uomini onesti e responsabili, capace di partorire nella gioia e nell'amicizia figli liberi e sereni (cf 66,7-14). Se Israele, in quanto popolo dei credenti, rinasce e si rinnova divenendo trasparenza di Dio, allora tutti i popoli verranno al «monte di Sion», si metteranno alla ricerca di Dio.

    Festa di Dio, festa con Dio

    Il mondo nuovo creato da Dio non è né illusione né una moda passeggera; è quello che deve risplendere nella nuova società dei Giudei quale segno per tutto il mondo; è la società che fa spazio a Dio mediante la festa, dono e compito affidato alla libertà e responsabilità umana. Allora il sabato, giorno di incontro con Dio e celebrazione di una libertà ricevuta in dono ma mai data per sempre, diviene il giorno della festa di Dio, perché il Creatore gioisce nel vedere l'uomo, capolavoro del crea-o, elevarsi nell'amore, nel riposo e nella preghiera alla sua primigenia dimensione: essere immagine del Crea-core. Il settimo giorno è anche il giorno della festa con Dio, in quanto l'uomo ne assapora la divina Compagnia
    lo rimette al centro, quale fonte e culmine, della propria vita. La festa dell'amicizia con Dio e con gli altri si presenta come una tensione fra esodo e avvento: è coi aggio ad uscir fuori da sé e umiltà ad accogliere l'Altro rune dono.

    Interrogativi per me
    • Da che cosa sento il bisogno di liberarmi? Che cosa pesa in questo momento sulla mia coscienza che vorrei eliminare?
    • Nella cresima ho ricevuto la pienezza dello Spirito Santo: come ne vivo i doni di sapienza, fortezza, scienza, consiglio, intelletto, pietà, timore del Signore?
    • Nel Battesimo ho ricevuto il dono del «sacerdozio comune»: qual è la mia funzione sacerdotale nei confronti del mondo? Mi «ricordo» degli altri e dei problemi del mondo nella mia preghiera?
    • Riesco ad essere nel mio piccolo e nel quotidiano luce del mondo e sale della terra... nonostante la mia fragilità?
    • So rinunciare al mio egoismo e ai miei interessi personali per vivere e creare fraternità con gesti concreti?

    Preghiera
    Signore Gesù,
    liberami da me stesso,
    dal peso della ricerca del mio «io»,
    dei miei interessi, delle mie comodità.
    Dammi la libertà interiore dello Spirito Santo perché sappia confortare chi è deluso e triste,
    illuminare chi è smarrito e disorientato, sostenere chi è vacillante e abbattuto.
    Ti ringrazio, Signore,
    perché mi hai donato il mondo da amare,
    la fede da donare,
    l'amore da condividere.
    Aiutami a testimoniare il fascino e la gioia di una vita che trova senso solo in Te.

    Nella memoria del quotidiano
    La fede in Dio esige la rinuncia all'egoismo con gesti concreti di fraternità.

    QUANDO LA VITA È UN SIMBOLO
    Geremia e la difficile missione

    Geremia, il cui nome significa «Dio esalti» o «Dio ha liberato il grembo», nasce verso il 650 a.C. ad Anatòt a pochi chilometri da Gerusalemme. Giovane timido e impacciato, emotivo e sensibile, idealista e romantico, Geremia rivela un animo introverso e amante di gioie semplici e domestiche. Ma a vent'anni riceve la vocazione profetica e, suo malgrado, si trova immerso nel turbolento mondo della politica e della vita sociale. I suoi ideali crollano uno dopo l'altro ed è «costretto» ad agire e a parlare contro t uno ciò che ama: la famiglia, la patria, il tempio. La sua via è una sequenza di contraddizioni fra ciò che desidera fare e dire e ciò che invece la sua missione gli impone. La sua parola è scomoda, persino bruciante. Colpisce gli inetti, i soddisfatti e gli illusi, nel tentativo di liberarli dai loro sogni e dai loro miti. Ma resta la coscienza inascoltata e calpestata del suo popolo nei 40 lunghi anni durante i quali esercita il ministero profetico.

    Segno di contraddizione

    Nonostante il suo animo poetico e sensibile, il ministero lo attrezza di una parola sferzante e piena di franchezza e i suoi compatrioti gli appioppano un appellativo che lo ba: «Magor missabib – terrore dappertutto» (6,25). Geremia ci ha lasciato un diario dei tormenti del suo animo nei capitoli 10-20 del suo libro: è la testimonianza di una personalità sensibilissima che coniuga in modo lacerante gioia e dolore, slanci e disperazione, lodi e imprecazioni. La vita del profeta è il dramma di un intellettuale affezionato al suo paese, alla sua religione, alla famiglia e all'amore, costretto ad essere la Cassandra della nazione.
    Pur essendo di famiglia sacerdotale, subisce lo scandalo della scomunica e viene giudicato reo di morte perché aveva osato pronunciare parole dure contro il tempio e contro Gerusalemme: «Devi morire! Perché hai predetto nel nome del Signore: Questo tempio diventerà come Si- lo e questa città sarà devastata, disabitata» (26,8-9). Ma la parola del profeta non può tacere e Geremia da quel giorno manderà al tempio il suo segretario Baruc con il compito di leggere le sue lettere indirizzate al popolo, sperando nella conversione (36,5-7).
    Le sue parole tuttavia sembrano cadere nel vuoto: il re fa bruciare le lettere e la risposta ai suoi appelli è la persecuzione da parte dei suoi concittadini (11,18-12,6). Desideroso di autentici e semplici rapporti umani, è invece circondato solo da odio, maledetto e perseguitato, percosso e torturato; spesso oggetto di attentati (18,18) è costretto ad essere randagio. Vorrebbe trovare conforto nell'amore di una donna, ma Dio lo costringe a sposare il celibato e la solitarietà e a rinunciare al matrimonio: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: Non prendere moglie, non aver figli né figlie in questo luogo...» (16,1-4). Geremia è un giovane idealista che ha orrore per la corruzione del suo popolo (9,1), ma ne annuncia con dolore la rovina imminente (4,19-21) e viene accusato di collaborare con il nemico per interesse privato (17,16). La sua vita è un segno di contrad dizione, «oggetto di litigio e di contrasto per tutto il paese», (15,10) . La fedeltà alla vocazione profetica è per lui estremamente difficile, è una conquista quotidiana che conosce dubbi e crisi e talora gli pesa come una maledizione, soprattutto quando Dio tace o sceglie il silenzio come sua unica forma di comunicazione. E allora Geremia non risparmia accuse nemmeno a questo Dio «infido e incostante»: «Perché il mio dolore è senza fine e la mia piaga incurabile non vuol guarire? Tu sei diventato per me un torrente infido, dalle acque incostanti» (15,18).
    Per Geremia la vita è un'impresa estremamente faticosa, sofferta e drammatica, ma nonostante tutto non si ripiega nella disperazione: anche nella forma di protesta tiene alta la fede in Colui che, suo malgrado, lo ha voluto profeta e continua a sperare nell'impossibile possibilità di Dio.

    Dalla parola ai simboli

    Il vero dramma di Geremia è la solitudine, l'essere con-t i i piamente circondato da un muro di ostilità che soffoca ogni suo tentativo di dialogo. E Dio non gli risparmia alcuna sofferenza, anzi sembra trovare godimento nell'infierire contro il suo portavoce.
    Il tormento del profeta sta nell'intuire la tragica fine del suo popolo e nel constatare come questi invece si illude di vivere una stagione storica esaltante, proprio in quei dieci anni che precedono il crollo di Gerusalemme (587 ,t.( .). Già nel 597, infatti, era cominciata quella tragica teoria di amarezza che si ripeterà altre volte nella storia di Israele: deportazione e campi di concentramento. Il re Nabucodonosor aveva deportato in Babilonia la classe dirigente di Israele: alti funzionari dello Stato, sacerdoti, intellettuali. La nazione è prostrata, ma ciò nonostante vive nella folle convinzione di potersi riorganizzare e schiacciare da sola la grande Babilonia: comincia l'avventura del nazionalismo alimentato da un'orgia di illusioni. L'unico ad avere il coraggio di criticare questo complesso di sogni è la coscienza critica di Geremia che rimane sempre più solo, ironizzato e umiliato. E quando la parola non basta, il profeta ricorre a dei gesti simbolici per cercare di scuotere la coscienza dei suoi concittadini.
    La cintura: Geremia ne compra una nuova e si fa vedere dai suoi concittadini, poi la nasconde fra le pietre sulla riva del fiume. Dopo molto tempo va a riprenderla: la cintura è completamente marcita: «Allora mi fu rivolta questa parola del Signore: ...In questo modo ridurrò in marciume la grande gloria di Giuda e di Gerusalemme. Questo popolo malvagio che rifiuta di ascoltare le mie parole... diventerà come questa cintura, che non è più buona a nulla...» (13,1-11).
    La brocca: Geremia ne acquista una di terracotta, raduna gli anziani del popolo e i sacerdoti e rivolge loro un discorso chiaro e duro sul tragico futuro del popolo, poi spezza la brocca perché «Così dice il Signore degli eserciti: Spezzerò questo popolo e questa città, così come si spezza un vaso di terracotta, che non si può accomodare» (19,1-13).
    Il giogo: il profeta è costretto a procurarsi dei capestri e un giogo da schiavo che si pone sul collo. Agli ambasciatori delle nazioni vicine, al re e ai notabili di Israele, Geremia dice che quella sarà la loro fine se non si arrenderanno al dominio di Babilonia e li invita a non dare ascolto ai profeti di menzogne che vendono illusioni (27-28).

    La speranza possibile

    Nonostante viva a Gerusalemme in uno stato di insicurezza e di paura e senta addosso il respiro dei suoi calunniatori e persecutori, Geremia non desiste dall'annunciare l'imminente giudizio di Dio il quale, tuttavia, non si rassegna a perdere il suo popolo dal cuore ostinato. Il profeta così pone all'orizzonte della sua predicazione non la disperazione ma la speranza: dalle macerie nascerà una nuova città e un nuovo popolo, perché Dio è l'eterno innamorato: «Mi ricordo di te, dell'affetto della tua giovinezza, dell'amore al tempo del tuo fidanzamento quando mi seguivi nel deserto» (2,2). Ma Israele è una cammella in calore, che aspira l'aria per sentire l'odore del maschio e correre dietro i suoi amanti. Tuttavia, Dio non si rassegna. Egli ha nostalgia del suo popolo e cerca la sposa infedele ricorrendo anche alla frusta per farla tornare in sé.
    E così, quando l'esercito babilonese cinge d'assedio Gerusalemme, Dio ordina a Geremia – che il re aveva fatto rinchiudere in prigione – di comprare un terreno ad Ananit. Nel carcere il profeta firma il contratto d'acquisto fra l'ilarità degli altri prigionieri e dei suoi concittadini: a che serve acquistare un campo quando invece è più logico vendere dal momento che presto tutto cadrà in mano dei nemici? Anche Geremia si pone l'interrogativo e Dio gli risponde chiarendo il senso di questo gesto simbolico: “Come ho mandato su questo popolo tutto questo grande male, così io manderò su di loro tutto il bene che ho promesso. E compreranno campi in questo paese... In questo luogo, di cui voi dite: Esso è desolato... si udranno ancora grida di gioia e grida di allegria, la voce dello sposo e quella della sposa e il canto di coloro che dicono: Lodate il Signore degli eserciti, perché è buono, perché la sua grazia di Ira sempre...» (32,42-33,11).
    Di Geremia si può dire quello che Bonhoeffer scrisse nel Natale del 1944: «Non capisco le tue vie, ma tu sei l'unico che sa quale è la mia strada».

    Interrogativi per me
    • Nella mia vita trova più spazio la verità o la menzogna?
    • Mi sforzo dí dire e fare la verità anche se mi costa?
    • La mia vita è «segno di contraddizione», un andare controcorrente rispetto al pensare comune e alle «mode» del tempo?
    • Come vivo la fedeltà al Vangelo, agli impegni assunti con me stesso e con gli altri?
    • Il mio rapporto con Dio è vissuto all'insegna di timidezza e paura oppure di franchezza e schiettezza?
    • So fidarmi di Dio anche quando non capisco le sue vie, i suoi progetti, la sua volontà?

    Nella memoria del quotidiano
    Non capisco le tue vie, Signore, ma tu sei l'unico che sa quale è la mia strada.

    Preghiera
    Signore Gesù,
    ti ringrazio per aver posto in me ideali alti
    e la'capacità di sognare un mondo migliore.
    Dammi la grazia
    di saper giocare fino in fondo la mia vita
    per Te e per il Vangelo,
    fa' che possa credere fino in fondo
    in questa scommessa
    e che nulla mi faccia venire meno
    al mio impegno.
    Fammi dono della franchezza,
    del coraggio della verità
    e fa' che, come un bambino,
    sappia abbandonarmi fiducioso
    alla tua volontà.

    IL DRAMMA DELLA RESPONSABILITÀ
    Geremia fra resistenza e resa

    In apertura del suo libro Geremia pone il «ricordo» di un evento che ha radicalmente cambiato il corso della sua vita. È l'irruzione prepotente di Dio che lo chiama ad essere profeta delle genti. «Come un martello che frantuma la pietra», la parola divina esige dal giovane Geremia una pronta assunzione di responsabilità e, se lascia spazio a repliche e interrogativi, non concede la benché minima possibilità di deroga e di delega. «... ti ho stabilito profeta delle nazioni. Risposi: Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare, perché sono giovane. Ma il Signore mi disse: Non dire: sono giovane, ma va' da coloro a cui ti manderò e annunzia ciò che io ti ordinerò. Non temerli...» (1,4-10).

    Un'antropologia della parola

    Nella solitudine della sua coscienza, Geremia si ritrova «bocca a bocca» con Dio: sfogliando le pagine della sua memoria non trova visioni né rapimenti estatici, ma un lungo e faticoso conversare con Dio, una parola esigente e tagliente che costituisce la trama di un dialogo senza testimoni. Il giovane profeta ascolta la Parola, ma si ribella, cerca di articolare pensieri verbali per comunicare alla pari con Dio... fino all'imprecazione. Perché con Dio bisogna essere franchi... fino all'accusa. Anche se poi si deve cedere il passo a Colui il cui dire tutto ha creato, al Signore che parlando fa dell'uomo un essere capace di proferire parola.
    Se la filosofia greca ha definito l'uomo come un essere pensante, per la cultura semitica, che presenta una scarsa predisposizione alla introspezione e all'astrazione filosofica, l'uomo è un essere parlante! Parlando l'uomo si rivela come soggetto e, contemporaneamente, pone colui che ascolta come un soggetto: la parola è la rivelazione di una relazione e della distinzione tra due soggetti. Nel mondo biblico viene affermata un'antropologia della parola: l'uomo pone se stesso come uomo nella misura in cui entra in comunicazione con un altro. Non esiste un uomo che sia un soggetto in sé a prescindere dalla comunicazione e comunione con gli altri.
    Ora la Bibbia dice che Dio parla. Il Mistero indicibile si pone come un soggetto che entra in relazione con il soggetto umano, con l'intenzione di costituire una comunione con gli uomini senza confusione: perché Dio resta Dio e l'uomo resta uomo. Parlando Dio rivela se stesso e, proprio perché Egli è l'origine di tutto, non può che parlare per primo. Il desiderio di Dio di instaurare una comunione con gli uomini è talmente forte da aver creato gli uomini capaci di rispondergli parlando, cioè di tessere comunione.

    Resistenza e resa

    «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto... ti ho consacrato, ti ho costituito profeta» (1,5). L'esistere in quanto corpo di Geremia è preceduto dall'intenzione di Dio di costituirlo profeta e uomo della parola. Per questo la volontà di Dio è il suo comando rivolto al giovane di parlare. Il profeta è colui che è fatto in modo che questo comando sia manifesto a tutti. Geremia non è dunque l'uomo della parola solo in quanto parla, ma in quanto vive il suo parlare come vocazione, come responsabilità a parlare.
    Non solo: egli deve dire soltanto e tutto ciò che gli è comandato. Geremia è profeta nella misura in cui la sua parola è ripetizione della parola di Dio, ed esprime con le sue parole la parola di Dio: il profeta è l'uomo nel quale Dio si rivela parlante. Dio conosce quel giovane e proprio perché lo conosce lo ha consacrato: il verbo «qadash» in ebraico significa «separare». Il profeta è un separato: «... spinto dalla tua mano sedevo solitario» (15,17), un emarginato. Non si lascia imbrigliare fra le righe del comune pensare, non si lascia «massificare» narcotizzando la sua coscienza e vendendo illusioni. Il profeta è «costretto» a scegliere il margine, come spazio di libertà, perché Dio incida le sue parole nella storia. Il coraggio del margine è via all'autenticità, orizzonte crocifisso di libertà. E non è sufficiente la forza propria, per questo: «Io sarò con te per proteggerti, io vigilo sulla mia parola per realizzarla» (1,8-11).
    «Ecco, io non so parlare, perché sono troppo giovane» (1,6). Geremia si oppone all'ordine di Dio presentando due difficoltà: il non saper parlare e 1' essere giovane. La combinazione di questi due elementi si opporrebbe all'essere profeta, cioè al parlare la parola di Dio. Non saper parlare indica incapacità o incompetenza, motivata dall'immaturità: essere troppo giovane. Il giovane è colui che si trova in uno stadio della crescita nel quale sta apprendendo l'arte del saper parlare e del saper fare. Ma la vocazione profetica è il dono di una competenza e di una autorità date a chi, secondo la crescita biologica, non potrebbe averne. Geremia acquista la capacità di sapere e potere parlare non dalle sue potenzialità umane, ma dal dono gratuito di Dio. Per questo il profeta diventa rivelazione del divino nella storia: Dio si rivela proprio nel dare sapere e forza a ciò che agli occhi del mondo è privo di valore e di prestigio (cf Mt 13,52-58).
    La prima forma in cui si esprime l'opposizione al parlare è quella di volgere lo sguardo sulla propria condizione di «debolezza», espressa dal fatto di essere «troppo giovane». A volte la nostra resistenza al progetto di Dio nell'assunzione di responsabilità nasce dal guardare troppo a noi stessi e poco a Colui dal quale veniamo e al quale siamo diretti. Per questo Dio ordina a Geremia: «Non dire: sono troppo giovane... Non temere!». Tra le due negazioni si trova il comando positivo: «Ma va' e parla... Io sarò con te per proteggerti!».

    La violenza di Dio

    Geremia trent'anni dopo. Scaraventato in una cisterna fangosa dai suoi concittadini, il profeta fa memoria della sua vita: una continua fuga dall'inseguimento di Dio! Rievoca allora la sua vocazione: è una narrazione in retrospettiva, una delle pagine più drammatiche e violente del profeta. È il canto del grembo-tomba, il canto del fuoco. Carcerato e umiliato, Geremia descrive quel giorno lontano: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso...» (20,7). Non è il canto del fascino di Dio, ma il lamento blasfemo di un anziano profeta che rievoca la sua giovinezza «violentata» dall'irruzione non richiesta di Dio. «Sedurre», in ebraico «patah», significa infatti traviare, ingannare, persuadere con inganno e seduzione sul piano sessuale (cf Es 22,15); mentre il sostantivo verbale «petih» indica un giovane precipitoso, ingenuo, povero di intelletto. Il profeta accusa Dio di aver approfittato della inesperienza e della debolezza di un giovane... e ha vinto!
    «Mi dicevo: Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome. Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo ma non potevo» (20,7-9). Il dramma di Geremia sta nel dover annunciare ciò che non desidera: vorrebbe abbandonare tutto ma avverte che è impossibile. Egli sente che ormai non c'è più via d'uscita; è come un leone in gabbia. In quella cisterna è stata sepolta anche la sua libertà. Il profeta allora lancia un'imprecazione: «Maledetto il giorno in cui nacqui; il giorno in cui mia madre mi diede alla luce non sia benedetto» (20,15). Probabilmente è stato un figlio tanto atteso e quando sua madre pensava di non poter più avere figli, ecco che il figlio arriva e lo chiama: Geremia: il Signore ha aperto il grembo! Per il profeta invece quel grembo doveva essere la sua tomba: «Perché non mi fece morire nel grembo materno; mia madre sarebbe stata la mia tomba e il suo grembo gravido per sempre. Perché mai sono uscito dal seno materno per vedere tormenti e dolore e per finire i miei giorni nella vergogna?» (20,17-18).
    Geremia si augura non soltanto la morte ma il non essere esistito, l'annullamento del segmento della vita che si estende fra i due grembi: quello della madre e quello della terra. Ma anche il lamento blasfemo di Geremia, che sale dalle profondità della terra, è parola nascosta di Dio: la sua rivelazione misteriosa nelle pieghe delle vicende umane. Tutta la vita di Geremia è tesa fra l'amore per Dio e il rifiuto di Dio. Ma è impossibile liberarsi di Dio! Anche Nietzsche, nei Ditirambi a Dioniso, scrisse: «Da' a me te, nemico crudelissimo; anzi, arrenditi a me. Eppure è andato. Ecco anche lui, il mio Dio, fuggì... No! Torna indietro. Con tutte le tue torture, con tutte le mie lacrime io corro a te e l'ultima fiamma del mio cuore si accende per te. Oh torna indietro, mio Dio sconosciuto! Dolore mio! Felicità mia ultima!».

    Interrogativi per me
    • Quanto tempo dedico alla preghiera nella mia giornata? Riesco a mantenere il dialogo con Dio anche nel corso della giornata?
    • Sento la responsabilità delle parole e delle azioni che compio? Riesco a «pensare» prima di parlare per evitare un fiume di parole vuote e prive di significato?
    • Ho coscienza di essere per il Battesimo e la Cresima un «consacrato»? Ho il coraggio di testimoniare la mia fede anche a costo di essere «emarginato»?
    • Dinanzi alle richieste di Dio guardo solo alle mie capacità o alle mie debolezze o confido nella forza che mi viene dal Signore?
    • Ricordo qualche esperienza particolare nella quale mi sono arrabbiato con Dio e gli ho girato le spalle? Cosa è successo dopo?

    Preghiera
    Signore Gesù, ti chiedo scusa
    se spesso guardo a me stesso e alle mie debolezze e, impaurito, mi rifiuto di seguirti
    e assumermi le responsabilità del Vangelo.
    Ti ringrazio perché a volte usi violenza con me
    e mi porti lì dove non pensavo e non volevo.
    Ti sono grato perché, nonostante le mie fragilità,
    Tu ti fidi di me e mi affidi la missione
    di essere tuo gioioso testimone nel mondo.

    Nella memoria del quotidiano
    Con tutte le tue torture, con tutte le mie lacrime io corro a Te, Signore, e l'ultima fiamma del mio cuore si accende per Te.

    CONTRO LA CORRUZIONE DEL SISTEMA
    Amos: il profeta ruggente

    All'inizio del sec. VIII a.C. la profezia di Israele ha già alle spalle una lunga storia e uomini famosi: Samuele, Natan, Elia, Eliseo... Tuttavia verso la metà di questo secolo si verifica un fenomeno totalmente nuovo e di grande importanza: compaiono profeti, Amos è il primo, il cui messaggio è stato tramandato per iscritto perché produsse una profonda impressione negli uditori. La novità consiste nel rifiuto del riformismo. I profeti antecedenti ad Amos erano infatti «riformisti»: consapevoli degli errori e delle infedeltà dei loro contemporanei, pensavano che si potesse correggere il sistema all'interno delle strutture vigenti. A partire da Amos questo non si verifica più. Tutto il sistema è putrido. Israele è un albero che si deve abbattere, un cesto di fichi maturati ormai per la fine e Dio non Io perdonerà più (Am 8,1-2). La sola soluzione è quindi la catastrofe assoluta, dalla quale col passare del tempo sarebbe nato il germoglio di un popolo nuovo.

    Il profeta contadino

    Il nome «Amos» deriva da una radice che significa «sollevare-portare», ed evocherebbe, in forma abbreviata, il soccorso di Dio (Yhwh ha portato, sopportato, liberato). Amos predica all'estero, nel regno del nord, sotto il re Geroboamo II (760-750 a.C.) , ma è originario del sud, di Tekoa di Giuda, un'importante borgata dell'epoca regale nei pressi di Betlemme.
    Amos è un contadino assai colto, la sua scienza è vasta e il suo interesse va al di là della sua provincia; è al corrente della storia passata e presente di Israele e dei paesi vicini (Am 1-2). Egli stesso si presenta come uno degli allevatori di Tekoa (1,1) e come il guardiano del bestiame per il quale incide i sicomori per renderli più commestibili (7,14). Probabilmente era uri proprietario terriero e, secondo la testimonianza del Talmud, molto ricco. La sua predicazione non è dunque determinata da rivendicazioni sociali che lo toccano direttamente, ma dalla sua forte vocazione profetica, per la quale è «costretto» a lasciare la sua terra e annunciare la parola di Yhwh per un anno circa nel ricco regno del nord. Dopo l'espulsione dal paese (7,10-17) perché «ospite non gradito» del potere costituito (religioso e civile), di Amos non si sa più nulla. L'uomo scompare, ma le sue parole restano.

    In un paese corrotto

    Il regno del nord (Israele), resosi indipendente da Giuda alla morte di Salomone (931 a.C.) , dopo un momento di crisi, vive sotto Geroboamo II una florida stagione economica e politica, grazie al commercio con l'Arabia e la Fenicia, che nasconde una forte decomposizione sociale in quanto cresce l'ingiustizia e il divario tra ricchi e poveri. Il piccolo agricoltore si trovava spesso alla mercé degli strozzini e delle gravi calamità che lo esponevano all'ipoteca, al sequestro, alla schiavitù. Questo sistema era reso ancora più duro dall'ambizione dei ricchi e dei commercianti, i quali falsificavano i pesi e le misure, ricorrevano a imbrogli legali, corrompevano i giudici. A tutto ciò si aggiunge-va una non celata corruzione religiosa. Benché i grandi santuari fossero in piena attività e adorni di ogni magnificenza, la religione non vi veniva conservata nella sua purezza. Molti santuari erano palesemente pagani, fomentando i culti della fertilità e la prostituzione sacra. In altri si cercava di placare la divinità con riti e sacrifici atti a garantire la tranquillità di coscienza e il benessere del paese. L'alleanza con Dio era ormai lettera morta, senza il minimo influsso sulla vita quotidiana. In questa situazione di prosperità economica e di stabilità politica, di disuguaglianze sociali e di ingiustizie, di paganesimo e di corruzione della religione israelitica, predica – come un leone ruggente – il profeta Amos.

    Nemico di un Dio «comodo»

    Amos annuncia il giudizio di Dio e il Dio del giudizio, il Dio esigente e inesorabile, tutore e sovrano della giustizia. La sua predicazione comincia con un ruggito e con la paura che gli uomini superficiali e distratti devono avere di Dio (1,2). Anche la sua vocazione si allaccia al ruggito: «Ruggisce il leone: chi mai non trema? Il Signore Dio ha parlato: chi può non profetare?» (3,8). Nell'atmosfera sonnolenta e consumistica del regno florido di Geroboamo II, la voce di questo «pecoraio» e «raccoglitore di sicomori» piomba come un segnale di guerra. Egli versa a dosi massicce la sua franchezza, la sua indipendenza, la sua fierezza sulla «dolce vita» dell'alta società sfruttatrice che, gozzovigliando nel lusso e nell'ingiustizia, sta per vivere la sua ultima stagione dorata: «Quando farò giustizia dei misfatti d'Israele, io infierirò contro gli altari di Betel... andranno in rovina le case d'avorio e scompariranno i grandi palazzi. Oracolo del Signore» (3,14-15). La nazione, che vende il povero come schiavo al prezzo di un paio di sandali (2,6-7) ed è governata da guide cieche, si avvia inesorabilmente verso la tragedia (6,7).
    I poveri, sfruttati e oppressi, si appellano alla collettiva responsabilità di tutto Israele: nessuno si alza a difenderli, c'è una timorosa e vigliacca connivenza delle autorità e del popolo. Tutti sono coinvolti in questo scandalo. Su di loro piomberà inesorabile il giudizio di Dio (5,18-20). Amos è il profeta nemico del buon Dio, di quel Dio troppo comodo che abbiamo costruito secondo i nostri schemi e le nostre convenienze. La sua è una denuncia continua contro il contrabbando del concetto di Dio. Il Dio che egli propone è il Dio esigente che tutto perdona, ma non la violazione della giustizia.
    Amos lotta anche contro la farsa religiosa, contro l'ipocrisia e una religiosità diventata sempre più manifestazione esteriore, mentre all'interno c'è il vuoto totale. Il culto non può essere sganciato dalla vita e da un impegno vero di onestà perché la religione non è l'anestetico della coscienza (5,21-24). Ed ecco il «no» più radicale: «Poiché così dice il Signore alla casa d'Israele: Cercate me e vivrete! Non rivolgetevi a Betel, non andate a Gàlgala...» (5,46). È come se il profeta dicesse: «Non andate in chiesa, ma cercate Dio!». La forza provocatoria del discorso e del linguaggio di Amos intende stigmatizzare ogni forma di culto quando esso non è vera ricerca di Dio. «E inutile rimanere sempre davanti all'immagine del Dio prediletto ed agitare lampade rituali; è possibile invece, ed è più giusto, agitare sempre davanti al nome del proprio Dio la lampada ardente del proprio amore» (Tukaram).

    Ricerca di Dio e solidarietà

    Amos, profeta «difficile» e scandaloso, si fa voce di tutti coloro che soffrono e sono perseguitati e umiliati; è l'espressione di un'accusa continua che s'alza contro tutte le oppressioni faraoniche. Ma è il profeta che, nonostante tutto, crede in Dio e crede ancora nell'uomo. Per questo predica la conversione e sollecita il popolo e i suoi capi a praticare la giustizia e a cercare Dio, decifrandone il linguaggio nella storia e nelle esperienze umane comuni. Scopo della sua predicazione è scuotere le coscienze addormentate e intiepidite dei contemporanei, dei responsabili dello Stato e della istituzione religiosa. Amos è un profeta inquietante, non lascia tranquilli, ci richiama alla dignità dell'essere persona, alle esigenze della giustizia; ci richiama all'Assoluto mettendo in crisi tutte le nostre sicurezze e garanzie con cui ci illudiamo continuamente di essere a posto. Amos è il profeta del no alla vita vissuta a compartimenti stagni, alle mode del tempo che annebbiano le coscienze, ad una vita priva di solidarietà umana e sociale, ad un Dio comodo, ai compromessi con la coscienza. Amos è il profeta dell'autenticità e dell'umanesimo integrale: per questo condanna una società fondata sulla lotta per il profitto, sul piacere e l'ipocrisia. Cercare Dio, per Amos, è impegno effettivo di trasformare il mondo per renderlo più umano e più vivibile, all'insegna della solidarietà. E questo è possibile perché il fiume della storia non va verso il baratro, ma verso un estuario di pace (9,11-15).

    Interrogativi per me
    • Come vivo il mio impegno di studio e la formazione di una cultura sempre più vasta e profonda? Sono consapevole che anche lo studio è via che mi conduce a Dio?
    • Mi interesso dei problemi che agitano il Paese: ingiustizia, illegalità, corruzione? Cosa faccio e cosa potrei fare – anche insieme ai miei amici – per eliminare questi bubboni della società?
    • La mia fede ha incisività nella vita quotidiana? E quale incisività ha la mia vita, con i suoi problemi e i suoi successi, nel mio cammino di fede?
    • Credere in Dio significa anche credere nell'uomo: so dare fiducia agli altri? Riesco a cogliere anche i loro aspetti positivi?
    • Riesco a vivere la vita come un tutt'uno, senza fratture fra fede e vita, preghiera e studio...? Quali difficoltà incontro?

    Preghiera
    Signore Gesù,
    Tu che con fermezza e chiarezza
    hai smascherato ipocrisie e falsità, aiutami ad essere autentico, vero, sincero. Dammi la forza di denunciare
    ingiustizie e illegalità
    perché la mia fede
    sia pienamente incarnata nella vita
    e la mia vita sia illuminata dalla fede. Perdona le mie timidezze,
    scusa le mie parole di gentilezza
    senza gentilezza,
    i miei gesti di amore
    senza amore,
    i miei atteggiamenti di cortesia senza cortesia.
    Accogli ora i miei propositi
    e l'offerta della mia buona volontà.

    Nella memoria del quotidiano
    Cercare Dio è impegno effettivo di trasformare il mondo per renderlo più umano e più vivibile, all'insegna della solidarietà.

    L'INQUIETUDINE SIMBOLICA DELL'AMORE
    La strana esperienza del profeta Osea

    Contemporaneo di Amos, il profeta Osea esercita il suo ministero nel regno del nord durante uno dei periodi più floridi della storia di Israele: il trentennio del regno di Geroboamo II. Ma assiste anche all'inesorabile declino di Samaria, fino alla scomparsa definitiva nel 721 a.C. ad opera dell'Assiria. Dopo Geroboamo II ben sei re si succedono al trono: l'instabilità politica e l'orizzonte internazionale, dominato sempre più dall'avanzare della potenza assira, scatenano la guerra civile. Il popolo è smarrito, vuole soluzioni facili, comode e immediate e gli inetti suoi governanti e gli avidi sacerdoti lo accontentano: bisogna volgere le spalle a Yhwh e rivolgersi invece ai ba'alim: essi (gli idoli) daranno pane e acqua, lana e lino, vino e olio. Ba'al e non Yhwh dà la pioggia e assicura la fertilità; con il culto di Ba'al si diffonde e si giustifica anche la prostituzione sacra: tutto è lecito!

    Sul carro dei vincitori

    I temi della predicazione profetica di Osea in parte coincidono con quelli di Amos: denuncia delle ingiustizie e della corruzione fra i responsabili delle istituzioni civili e religiose, critica del culto. Ma ci sono delle novità. Osea condanna con enorme vigore l'idolatria, nel culto e nella politica. L'idolatria cultuale consiste nell'adorazione di Ba'al, con i suoi riti di fertilità, e nell'adorazione del vitello d'oro installato nel tempio da Geroboamo I nel 931 a.C., anno della morte di Salomone e della separazione del regno del nord da quello del sud. Fabbricando immagini della divinità, l'uomo cerca di dominare Dio, di manipolarlo, di trasformare Yhwh in un idolo. L'idolatria politica, in un'epoca di apparente benessere ma di grande confusione, consiste nel pensare che per salvare il Paese occorra salire sul carro dei vincitori. Così pensava Israele, affrettandosi a concludere un trattato internazionale con Egitto e Assiria, le due grandi potenze militari del momento, anche a costo di rinnegare principi e valori sui quali si fondava la costituzione stessa del popolo eletto: «Efraim è stato come una colomba ingenua, senza intelligenza. Hanno chiamato l'Egitto, sono andati in Assiria» (7,11) .

    Un passato da cancellare

    Importante novità nel messaggio di Osea è la visione critica del passato. Il passato di Israele non è una «storia della salvezza»: non c'è niente di cui gloriarsi se non del proprio peccato. La stessa monarchia non era voluta da Dio: essa era nata dalla testarda volontà del popolo. Tutta la storia di Israele è in fondo una storia di ribellione. Tre sono allora le possibili soluzioni che Dio potrà assumere:
    – porre di fronte alla sposa infedele una serie di ostacoli, perché non se ne possa andare con gli amanti e finisca per tornare allo sposo: «Perciò ecco, gli sbarrerò la strada di spine e ne cingerò il recinto di barriere e non ritroverà i suoi sentieri. Inseguirà i suoi amanti, ma non li raggiungerà, li cercherà senza trovarli. Allora dirà: Ritornerò al mio marito di prima perché ero più felice di ora» (2,8-9);
    – castigarla pubblicamente e con durezza: «Scoprirò allora le sue vergogne agli occhi dei suoi amanti e nessuno la toglierà dalle mie mani. Farò cessare tutte le sue gioie...» (2,12-15);
    – perdonarla per puro amore, facendo un nuovo viaggio di nozze e un nuovo regalo sponsale, che restauri l'intimità e sia come un nuovo matrimonio: «Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò sul suo cuore... E avverrà in quel giorno – oracolo del Signore –mi chiamerai: Marito mio, e non mi chiamerai più: Mio padrone...» (2,16-23). Ciò che finisce per trionfare è l'amore di Dio, che di nuovo accoglie la sposa, anche se non del tutto pentita.

    Un matrimonio... inquieto

    Nella Bibbia il profeta non è un uomo giunto all'armonia interiore, ma un uomo lacerato e duramente provato dallo spessore del mistero di Dio, che egli cerca di esprimere con parole e azioni simboliche. Nel caso di Osea, la sua stessa tormentosa esperienza matrimoniale con Gomer è eloquente parola di Dio, in quanto la vicenda matrimoniale del profeta è speculare a quella di Yhwh con il suo popolo. La storia di Osea e Gomer è perciò anche una parabola del berit (patto) sponsale fra Dio e Israele. La Bibbia presenta l'esperienza del profeta come un segno per tutti gli Israeliti e, nello stesso tempo, testimonia come all'interno di una vicenda tragica e di una crisi coniugale si nasconda la parola di Dio. Anche nel fallimento dell'amore è presente Dio! Scoprirne la presenza è ricostruire il rapporto coniugale dalle ceneri di un amore mai spento, nonostante le alterne vicissitudini dei protagonisti.
    «Quando il Signore cominciò a parlare a Osea, gli disse: "Va', prendi in moglie una prostituta e abbi figli di prostituzione, poiché il paese non fa che prostituirsi allontanandosi dal Signore". Egli andò a prendere Gomer, figlia di Diblàim: essa concepì e gli partorì un figlio» (1,2-3). Osea, su comando di Dio, prende in moglie Gomer, la «prostituta». Si tratta probabilmente di una sacerdotessa cananea addetta al culto della fertilità, che associava Dio ai cicli della natura. Gomer «tradisce» spesso il marito e abbandona il tetto coniugale per «prostituirsi» nel tempio durante il cerimoniale dei riti di fertilità. Osea, nonostante ciò, non riesce a fare a meno di amare sua moglie e si inoltra in una avventura d'amore, la cui caratteristica è la ricerca. Folle della «follia dell'amore», il profeta più volte riporta Gomer a casa, disposto a intessere con lei un rinnovato dialogo d'amore: «Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò sul suo cuore» (2,16). Un profondo e segreto vivere d'amore il marito tenta di ricostruire nel «deserto», spazio aperto della libertà e delle scelte. Ma tutto è vano. La speranza di Osea è continuamente delusa dalle fughe della moglie. Il passo dall'amore all'odio è assai breve: «Scoprirò allora le sue vergogne agli occhi dei suoi amanti... La ridurrò a una sterpaglia e a un pascolo di animali selvatici...» (2,11-14).
    Ai tre figli avuti dalla moglie, Osea aveva imposto nomi simbolici: Izreel (nome di una vallata in cui era stato versato il sangue della dinastia regnante), Non-Amata, Non-Mio-Popolo. L'orizzonte di questa storia matrimoniale sembra chiudersi nell'oscurità dell'odio, dell'abbandono, della rottura del berit.

    La parabola dell'amore

    Yhwh assume la lacerante esperienza matrimoniale di Osea come «sacramento» dell'alleanza che Egli aveva stipulato con Israele; questo spiega anche la stranezza dei nomi dei figli del profeta. Gomer rappresenta Israele, il popolo eletto spesso tentato di infedeltà e di abbandono nei confronti di Yhwh, il Trascendente Compagno nell'avventura della libertà, vicino ma non manipolabile, trovato e mai raggiunto per sempre. Osea, in qualche modo, ripropone Dio-Sposo: il suo appassionato amore per l'umanità, la sua fedeltà. Yhwh, però, è il totalmente Altro, disposto a rischiare tutto per amore. Come l'acqua non può non bagnare e il fuoco non bruciare, così è Dio: Egli non può non amare l'umanità-sposa infedele perché... è Amore! Egli insegna ad Osea che l'amore non è possesso, né dominio, e si fonda sul rischio della libertà del partner, sulla fedeltà che invoca fedeltà, sulla vittoria di un amore incarnato nel quotidiano fatto di perdono, di attenzione, di tenerezza, di capacità a rinnovarsi per rinnovare. Perciò «avverrà in quel giorno – oracolo del Signore – mi chiamerai: Marito mio, e non mi chiamerai più: mio padrone... Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell'amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (2,18.21-22). Anche i figli, simbolo della «qualità» del legame Sposo-Sposa, riceveranno allora nomi nuovi: Seme-di-Dio (cioè seme fertilissimo), Amata, Popolo-Mio. L'orizzonte dell'amore del Signore schiude energie e prospettive immense all'amore umano...
    Il messaggio di Osea ha qualcosa di sconcertante. La nostra logica religiosa segue il passaggio peccato-conversione-perdono. La grande novità di Osea, che lo situa su un piano diverso e lo fa un precursore del NT, è che egli inverte l'ordine: il perdono precede la conversione. Dio perdona prima che il popolo si converta, e sebbene non si sia convertito. Questo non significa che la conversione non sia necessaria. Ma che essa si realizza come risposta all'amore di Dio, e non come condizione previa al perdono: «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8).

    Interrogativi per me
    • Credo nella «magia», nella scaramanzia, nell'oroscopo, nel «destino»? La mia fede in Dio è inquinata da queste credenze e da superstizioni? Come liberarmene?
    • Ho un temperamento ostinato e ribelle o timido e remissivo? Cado sempre negli stessi errori? Perché? Come posso migliorami? Quale passo concretamente posso fare per cambiare?
    • Come mi pongo dinanzi all'incomprensibile e inafferrabile mistero di Dio? Pretendo di spiegarmi e capire tutto o riesco a fidarmi di Dio anche se non sempre tutto mi è chiaro?
    • Riesco a dominare i miei sentimenti oppure passo facilmente dall'amore all'odio? Mi sforzo di amare gli altri per quello che sono senza classificarli in simpatici e antipatici?
    • Il mio rapporto con gli altri – e se sono fidanzato/a con l'altro/a – è vissuto all'insegna del possesso e del dominio oppure sulla fiducia-fedeltà? Riesco a perdonare e ad avere attenzione per l'altro/a e le sue esigenze?

    Preghiera
    Signore Dio,
    libera la mia fede
    da superstizioni e credenze magiche,
    purifica il mio cuore
    da ogni volontà di possesso e di dominio
    e fa' che il mio amore sia pulito e gratuito, costante e liberante.
    Allarga gli orizzonti del mio cuore
    perché presti attenzione a chiunque
    senza pregiudizi e pretese
    affinché ognuno si senta accolto, amato e stimato e trovi accoglienza amicale
    e affetto sereno.

    Nella memoria del quotidiano
    Come l'acqua non può non bagnare e il fuoco non bruciare, così è Dio: Egli non può non amare... perché è l'Amore.

    UNA DONNA CONTRO LA VIOLENZA
    L'esperienza di Giuditta

    Opporsi al dilagare del male

    Il prologo (cc. 1-3) apre il libro di Giuditta descrivendo il dilagare strabocchevole di una forza malefica che si accanisce non solo contro gli uomini ma anche contro il «cielo», con l'empia pretesa di imporre non soltanto il dominio di un re terreno, ma l'adorazione verso di lui. Questa empia pretesa arriva fino a minacciare Israele, che a poco a poco perde ogni capacità di resistenza e, quel che è peggio, anche la fiducia nella protezione di Dio. La speranza si riaccende quando sulla scena compare Giuditta, una debole donna che affronta il male incombente in colui che lo impersona: Oloferne. Assistiamo così alla contrapposizione drammatica di una smisurata potenza e di una infinita debolezza. È quest'ultima a vincere con le armi della fede e della preghiera, che danno a questa figlia di Eva il coraggio e la forza necessari per colpire proprio nella testa il serpente del male.
    Esiste un modo per combattere la violenza che non rientra negli schemi abituali. Di fronte alla tentazione che serpeggia, oggi come sempre, di combattere l'avversario con le sue stesse armi, il libro di Giuditta ci offre l'esempio di una vittoria ottenuta con un'arma che è esattamente opposta a quella usata dal nemico: l'arma della debolezza, che diventa forza per il sostegno di Dio. Il «vincitore» nella storia è in definitiva Dio, che viene realizzando in essa il suo progetto. Con Lui vincerà chi sarà capace di aprirgli le porte con la fede, nella ferma speranza della verità del suo essere Dio-con-noi.
    Alcuni studiosi affermano che il libro di Giuditta appartiene al genere apocalittico. Per gli apocalittici il male sfugge ai limiti del nostro mondo e si presenta con caratteri superumani. Esso potrà essere combattuto e vinto solo attraverso forze anch'esse superumane, con un intervento dall'alto. Esiste infatti – sostengono gli apocalittici –un piano di Dio per instaurate il suo regno, piano che non può fallire; ma fissato dall'alto, in una zona inaccessibile all'uomo, tanto che sembra realizzarsi non con la collaborazione umana, ma malgrado l'uomo. L'uomo non è capace di opporsi in modo valido al dilagare del male; la salvezza è sicura, ma fuori della storia, in un mondo ultraterreno.
    Questa salvezza ultraterrena secondo loro va cercata in uno spettacolare intervento divino, che metta fine una volta per tutte a quel delirio di male che sta travolgendo la terra. Ed è qui che ci accorgiamo che il libro di Giuditta non rientra negli schemi apocalittici. In esso la salvezza non viene dall'alto, né si proietta in un mondo ultraterreno; si realizza in questo mondo, la stessa creatura umana è capace di opporsi al dilagare del male. L'uomo fedele a Dio ha la possibilità di combattere e di vincere le forze avverse. Il libro quindi è ottimista nei riguardi della storia e dell'uomo che opera in essa.
    Notiamo inoltre che le potenze nemiche non sono combattute con uno spiegamento di forze. Nel libro di Giuditta non si oppone potenza a potenza, ma alla potenza fa fronte una debolezza crescente, che vince proprio quando raggiunge il livello più basso. L'autore si compiace nel descrivere Israele, che perde progressivamente ogni capacità di resistenza, e Giuditta, che rimane sempre più sola a lottare contro il nemico. I due schieramenti che si affrontano appaiono dunque incommensurabili tra loro: la forza capace di combattere e vincere il male diventa tanto più potente quanto più si indebolisce.

    Le armi di Giuditta

    Nel libro di Giuditta la vittoria di Israele trova la sua fonte nel rapporto con Dio, nella fedeltà alla alleanza e nella preghiera, ma viene conseguita non per mano di angeli o di esseri soprannaturali, ma per opera di una semplice donna, senza azioni spettacolari o miracolistiche.
    La forza di Dio non è commensurabile a quella del male. Il male, proprio perché è male, tende a configurarsi in modo da imporsi all'attenzione, da fare molto rumore. Al suo dilagare il libro di Giuditta oppone la forza di Dio, ma questa forza si nasconde nella debolezza e opera attraverso di essa: «La potenza del Signore si manifesta nella debolezza» (2 Cor 12,9). Quando è stata più debole proprio allora Giuditta è stata più potente: «Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte!» (2 Cor 12,10).

    Vivere la parola nella fede

    Il libro di Giuditta richiama certe affermazioni dei Salmi 32 e 43, che sottolineano in modo particolare l'incapacità degli eserciti e delle armi nelle guerre, perché è il Signore che salva: «Il re non vince con numeroso esercito, né l'eroe si salva per la grande forza. Cosa fallace è il cavallo per la salvezza, e con la sua grande forza non mette in salvo» (Sai 32,16s.) . Il Salmo 43, rievocando la conquista della terra promessa, afferma: «Non con la loro spada hanno conquistato la terra, e il loro braccio non li ha salvati, ma la tua destra e il tuo braccio e la luce del tuo volto, perché ti sei compiaciuto di loro... Non sul mio arco mi sono affidato né la mia spada mi salva, ma tu ci salvi dai nostri nemici» (Sai 43,4.7s.).
    La potenza di Dio si presenta con caratteri del tutto diversi da quella degli uomini; non opera attraverso quegli strumenti che, per l'evidenza della loro efficacia – come il cavallo, l'arco, la spada, gli eserciti – danno sicurezza all'uomo. Per scoprire gli strumenti della misteriosa «potenza» di Dio è necessario porsi di fronte alla realtà con quella particolare capacità di penetrazione che chiamiamo fede, quella forma di conoscenza che va oltre il muro del sensibile e si apre a un mondo di valori diversi.
    Il libro di Giuditta sembra ripeterci costantemente le parole di Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, e le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8) . Messaggio di speranza e appello alla fede, il libro di Giuditta raccoglie l'eredità dell'AT e anticipa il Nuovo. Una nota non dissimile risuona nella parabola del lievito (Mt 13,33), quella forza invisibile e pur tuttavia capace di trasformare la pasta, di conferire energia alla sua massa inerte. Anche l'Incarnazione è 1' impoverirsi di Dio, il racchiudere la sua potenza nel fragile spazio di un corpo di uomo, nel breve tempo di una vita umana; e questo corpo di uomo sarà aggredito dalla violenza e dalla morte, soccomberà alla sua inesorabile potenza. Ma è proprio da questa debolezza estrema che nasce la Vita che, per sempre, vince la morte; è dal buio della tomba che sorge la luce di Pasqua. Nei confronti di quella fede che accetta e proclama che la vita è più forte della morte, il libro di Giuditta compie una funzione propedeutica importante. Esso aiuta così il cristiano a cogliere il messaggio centrale del Vangelo e contiene un ammonimento morale fondamentale: la violenza non si vince con la violenza!

    La forza della debolezza

    Giuditta, donna sola e debole, riassume in sé l'energia e la potenza di Dio da una parte; la risposta di fede nella capacità di agire con Dio dall'altra. Giuditta da una parte interpella e interroga gli uomini del nostro tempo a saper puntare in alto, a volare nelle alte quote della fede come rischio, nella fede-fiducia in Colui che tutto può. Dall'altra parte personifica la risposta vivente della comunità ecclesiale a Dio, la quale, apparentemente debole, diventa forte e coraggiosa quando ricambia la violenza con la mitezza, la scontrosità con la dolcezza, la superbia con l'umiltà, la ricchezza con la povertà. Quando vive e testimonia, nella trasparenza del quotidiano, la capacità di vincere il mostro della violenza e del potere assai spesso ostentato con arroganza.
    Il cristiano è chiamato a crocifiggere ogni giorno il «nemico», cioè il peccato e il male, radicandosi nella croce di Cristo, trasformando le forze avverse in potenti energie di amore, facendo della silente fede la sua arma migliore e di Dio il suo baluardo. Egli, oggi più che mai, deve essere la coscienza critica della comunità, sapendo cogliere i «segni» di Dio nella storia e nel quotidiano e riuscendo a proporli nella concretezza della vita. Il cristiano, come Giuditta, deve saper infondere, in se stesso innanzitutto e poi negli altri, il coraggio nella prova, la fermezza nelle difficoltà, la fede negli smarrimenti, l'abbandono in Dio nel dolore. Il cristiano deve saper proclamare in tutto il suo essere e mettere in atto queste stupende parole della grande e debole Giuditta, nella certezza che Qualcuno veglia e ascolta: «La tua forza, Signore, non sta nel numero, né sugli armati si regge il tuo regno: tu sei invece il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati. Sì, sì, Dio del padre mio e di Israele tua eredità, Signore del cielo e della terra, creatore delle acque, re di tutte le tue creature, ascolta la mia preghiera...» (Gdt 9,11-12) .

    Interrogativi per me
    • Quando sono in crisi o quando le cose mi vanno male perdo subito la fiducia in Dio o reagisco affidandomi maggiormente a Lui?
    • Credo che la salvezza appartenga ad un mondo ultraterreno oppure sono convinto che la «novità» comincia già qui e ora e appartiene a questo mondo? Ho la convinzione che il mio impegno per la giustizia e la mia fede possono realmente trasformare questo mondo?
    • Cosa penso della mia debolezza? Ritengo veramente che essa sia «abitata» da Dio? Amare è sempre espressione di debolezza: sono d'accordo? Perché?
    • Come reagisco alle ingiustizie e alla violenza nei miei confronti? Riesco a ricambiare con l'amore e il perdono? Perché?
    • Nutro ideali alti nella mia vita? So accettare la fede come rischio? Riesco a mantenere il coraggio nella prova e la fermezza nei momenti difficili?

    Preqhiera
    Signore Gesù,
    ti ringrazio
    per le mie debolezze e le mie fragilità;
    ti ringrazio per la forza della mia umanità.
    Aiutami ad amarmi così come sono e a non avere paura di manifestarmi per quello che sono.
    Tu che ti nascondi nelle pieghe della mia umanità,
    rendimi la forza di essere me stesso, di superare ogni prova con coraggio
    di rispondere alla violenza con l'amore
    e all'arroganza con una fede senza tentennamenti.
    Aiutami a puntare sempre più in alto e a saper rischiare la vita
    fidandomi di Te e del tuo Amore.

    Nella memoria del quotidiano
    Il cristiano è chiamato a crocifiggere ogni giorno il «nemico», cioè il peccato e il male, radicandosi nella croce di Cristo, trasformando le forze avverse in potenti energie di amore.

    PASSIONE PER LA VITA...

    CREATI PER AMARE

    L'estasi dell'amore...

    Nella prima Lettera di Giovanni per due volte si afferma: «Dio è amore» (4,8.16). Non è mai stata detta cosa più sublime di Dio, né dell'amore. E si dice anche: «L'amore è da Dio» (4,7) e «chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (4,8): dunque colui che ama conosce Dio, o almeno è sulla strada per poterlo conoscere. L'amore radica l'uomo in Dio: «Chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (4,16). L'amore ha una dimensione verticale e orizzontale, perché l'amore è relazione. «Noi amiamo perché Egli ci ha amati per primo... Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (4,9.11.20), quindi «Se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri» (4,11).
    L'amore è esodo e avvento, uscita e attesa. L'amore è estasi (uscire da se stessi) per incontrarsi in un altro, è forra creatrice, potere fecondo, momento eterno! L'amore è gioia e superamento del timore: «Nell'amore non c'è timore, al contrario, l'amore perfetto scaccia il timore» (1 Cv 4,18). L'amore è pienezza dell'unione personale che, (tal di dentro, da un centro, illumina e trasfigura il mondo, elevandolo a congiungimento umano nell'estasi reciproca.
    Di tutto ciò parla un brevissimo libro della Bibbia: il Cantico dei Cantici, una collezione di canti per delle nozze, dialogo di sposi che ricordano e sperano. Il Cantico è amore effusivo, che canta l'incontro dei due, lui e lei: sono tutte le coppie della storia che ripetono il miracolo dell'amore. Il tema «personale» domina tutto: «portami con te», «amore dell'anima mia», «vieni a me», «il mio amato è mio e io sono sua». Anche i suffissi possessivi hanno una densità straordinaria: mio-tuo. Tutto il resto è scenario o simbolo, irradiazione e presenza delle persone. Perfino il corpo è presenza personale, perché la persona è la totalità, e non una roccaforte spirituale incorporea. L'amore del Cantico dei Cantici crede nel corpo, contempla estasiato il corpo dell'amato e dell'amata: «Quanto sei bella e quanto sei graziosa, o amore, figlia di delizie!». La persona amata diventa l'emblema e la somma delle bellezze naturali: montagne, alberi, animali: tutto diventa simbolo della bontà e del fascino della persona amata.

    ... esperienza di Dio

    L'amore è grande, invincibile, perché è fuoco che viene da Dio, perché «Dio è amore», l'amore è una «fiamma del Signore». Se questo amore riuscisse a coinvolgere e ad abbracciare tutti gli uomini, sarebbe la più alta «incarnazione» dell'amore di Dio, che ama tutte le creature e invita tutti a vivere con lui. Questo amore incarnato si chiama Gesù. Perciò Paolo nella lettera agli Efesini, commentando il testo della Genesi, sottolinea: «Lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!... questo mistero è grande!» (Ef 5,3132) . Se l'uomo, non solo gli sposi, potesse partecipare di questo amore intensissimo ed estesissimo di Cristo, avremmo il miracolo dell'amore cristiano, che al dire dello stesso Paolo è largo, lungo, alto e profondo e sorpassa ogni ideologia. L'estasi nell'amore è il congiungimento pieno fra il cielo e la terra: è gioia, è il paradiso: «Come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te» (Is 62,5).
    L'amore del Cantico ha un limite, è imperfetto perché contiene dei residui di timore: volpi che distruggono, sorprese notturne, vana invocazione dell'amore, ricerca senza ritrovamento... Ma proprio nel suo limite il Cantico ci manifesta l'amore senza limiti, senza ombre né ricordi di timore, la pienezza di amare Dio e in Lui tutto. È ciò che ha cantato S. Giovanni della Croce: «Oh Notte che guidasti, oh Notte, amabile più dell'albeggiare! Oh Notte che unisti l'amato con l'amata, l'amata nell'amato trasforma-tal... Rimasi e obliai, il viso reclinai sull'amato, finì tutto e mi lasciai, lasciando la mia cura tra i figli dimenticata».
    Per capire l'amore «mistico» bisogna non dimenticare e apprezzare l'amore degli sposi. Chi non crede nell'amore umano degli sposi, chi deve chiedere perdono del corpo, non saprà mai elevarsi, non saprà mai vivere quelle ascensioni dello spirito a cui l'amore come «estasi» conduce e chiama, perché «chi non ama il proprio fratello che vede come può amare Dio che non vede?». Amando l'amore umano vi si scopre la rivelazione dell'amore di Dio, perché se si fa esperienza dell'amore, si fa esperienza di Dio.

    Il cammino dell'amore

    «Tre cose mi sono difficili,
    anzi quattro, che io non comprendo:
    il sentiero dell'aquila nell'aria,
    il sentiero del serpente sulla pietra,
    il sentiero della nave in alto mare,
    il sentiero dell'uomo nella giovane» (Prv 30,18-19).
    Questo brevissimo canto esprime stupore dinanzi al mistero e alla fascinosa incomprensibilità del cammino dell'amore di un uomo e una donna. Camminando s'apre cammino. L'aquila, il serpente e la nave si aprono un cammino rispettivamente nel cielo, sulla pietra, nel mare. Ma il loro passaggio non lascia traccia; la strada si chiude dietro di loro, non è possibile tornare a percorrerla esattamente sullo stesso punto. Il cammino dell'amore va riaperto di nuovo ogni giorno. È un affascinante avanzare insieme inventando ogni volta la rotta, senza rassegnarsi alla routine di una strada già battuta. Ogni tratto è diverso dal precedente. È questo che tiene giovane l'amore! In questo proverbio numerico il poeta si lascia afferrare proprio dalla meraviglia e dalla contemplazione per l'essere umano creato da Dio maschio e femmina come unità dei due. L'uomo si costituisce «uomo» di fronte alla donna e la donna si costituisce «donna» di fronte all'uomo: è il significato di quell'aiuto simile di cui è in cerca l'uomo, fin dal principio.
    L'antica e suggestiva narrazione di Gn 2,4ss. ci presenta l'esperienza dell'uomo che vive tre livelli di incontro-relazione; solo al terzo livello, nell'incontro con la donna, egli ritrova se stesso e si sente persona.
    Nel primo livello abbiamo l'incontro fra il Dio Creatore e Onnipotente e la «polvere del suolo». Tra questi due poli estremi scatta un soffio, il soffio di Dio che crea l'uomo e lo fa diventare un essere vivente: «allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente» (Gn 2,7).
    Nel secondo livello l'uomo incontra un'altra realtà. Se Dio era «più alto» di lui, questa realtà è «più bassa»: sono gli animali, ai quali l'uomo impone il nome in segno di dominio. Tuttavia né Dio, né gli animali, che possono essere assunti come simbolo di potere, ricchezza, dominio, bastano a rendere pienamente felice l'uomo. Egli resta un solitario, perché non trova un «aiuto» che gli sia simile: «Poi il Signore Dio disse: "Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile". Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche... ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile» (Gn 2,18-20).
    Nel terzo livello abbiamo la scena più gloriosa, lo stesso narratore ne resta affascinato. Non si tratta più di un incontro dall'alto verso il basso e viceversa; è un incontro kenegdo, faccia a faccia, alla pari. L'uomo incontra la sua partner, l'aiuto simile che cercava. Il testo fa capire che il maschio non è un essere completo da solo, non può realizzarsi da sé, ha bisogno della relazione, è un giudizio secco e preciso contro ogni autosufficienza dell'uomo: «Non è bene che l'uomo sia solo» (Gn 2,18). La donna è l'aiuto che può stare di fronte all'uomo, l'essere posto in relazione paritaria con l'uomo, il suo Tu: «Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo. Allora l'uomo disse: "Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall'uomo è stata tolta"» (Gn 2,21-23).
    Mentre a tutti gli animali l'uomo ha assegnato un nome, con un atto sovrano di dominio, alla donna non impone il nome né lo inventa, ma lo riconosce: la chiama ishah perché viene da ish. In italiano sarebbe uoma perché dall' uomo è stata tolta. L'uomo riconosce nella donna qualcosa di sé (la sua stessa radice) e di diverso nello stesso tempo. La donna si presenta così come il complemento dell'uomo e viceversa: pari dignità, stessa origine, incontro di fiducia e di amore che fa innalzare all'uomo il suo primo canto d'amore: «carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa». La carne indica fragilità, esteriorità, relazione. Osso invece è simbolo di consistenza, forza, interiorità. Uomo e donna si incontrano nella relazione d'amore così come sono: con la loro fragilità e la loro forza, con la loro carne e la loro interiorità. Il narratore commenta: «Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due saranno una sola carne»
    (Gn 2,24).
    Nel linguaggio biblico carne non è solo la parte corporea dell'uomo, o peggio il suo sesso, ma è un aspetto della persona, quello attraverso il quale si entra in rapporto con l'altro. Potremmo dire che carne è la sessualità nella sua globalità, cioè il modo «maschile» e «femminile» di relazionarsi. Una sola carne, pertanto, equivale ad un'unica relazione vitale, un comune destino di vita e di amore. In ebraico di fronte a basar (carne) c'è il prefisso le (verso) che esprime finalità o tensione. Il progetto di Dio è dunque una vocazione, una chiamata e un compito, una intenzionalità tutta da compiere. Uomo e donna possono esistere e ritrovare se stessi solo come unità dei due: «Nell'unità dei due l'uomo e la donna sono chiamati sin dall'inizio non solo ad esistere "uno accanto all'altra" oppure "insieme", ma sono anche chiamati ad esistere reciprocamente l'uno per l'altro... Umanità significa chiamata alla comunione interpersonale» (Mulieris dignitatem, 7).
    Il fatto che Dio addormenti l'uomo mentre crea la donna indica il senso del mistero. L'uomo ricercava con ansia «qualcuno» con cui vivere in piena comunione e dovrà ricordarsi che questo «qualcuno» (la donna) sarà un «mistero» per lui. Dovrà dunque rispettare la donna come persona e mistero e dovrà accoglierla sempre come dono di Dio, accogliendo i propri e i di lei limiti in un abbraccio di amore e di sincero rispetto: «Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna» (Gn 2,25).

    A immagine e somiglianza di Dio

    Il testo della Genesi testimonia nella forma più inequivocabile il carattere personale dell'essere umano. «E Dio disse: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza....". Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gn 1,2627). L'essere umano, creato da Dio al sesto giorno, è il culmine e il capolavoro della creazione. Ad esso viene affidato il dominio sul creato e il compito di continuare, con la sua opera, lo sviluppo della creazione. L'essere umano è immagine e somiglianza di Dio. In ebraico i due termini sono selem e demut: due parole che paradossalmente dicono in maniera antitetica vicinanza e lontananza, qualcosa di molto simile a Dio ma, nello stesso tempo, qualcosa di estremamente diverso. L'essere umano «rappresenta» Dio ma non è Dio, è contemporaneamente molto simile a Dio ma non si identifica pienamente con Dio.
    Questo essere umano è maschio e femmina. In ebraico i due termini vengono resi con il «puntuto» e la «perforata», indicando propriamente gli organi genitali del maschio e della femmina, entrambi creati da Dio a sua immagine e somiglianza. Ciò che fa l'essere umano immagine di Dio non è l'anima né la razionalità. Nella cultura semitica non vi è la distinzione fra anima e corpo. La Bibbia celebra l'uomo nella sua totalità, nella sua completezza, nel suo essere creatura che vive, si muove e si presenta a Dio. L'essere umano è un tutt'uno: corpo spirituale, o spirito corporeo. È la relazione fra essere umani, che stanno fra quei poli maschio-femmina, a renderli immagine di Dio. Questo vuol dire che «immagine di Dio» non è il maschio né la femmina in sé, ma entrambi in quanto capaci di relazione. Non l'estraneità o la contrapposizione tra l'uomo e la donna, ma la condivisione corrisponde all'originario disegno del Creatore: «La donna è un altro io nella comune umanità» (Mulieris dignitatem, 6).
    Proprio perché immagine del Dio tripersonale (come ci è stato rivelato nel Nuovo Testamento) , la persona si caratterizza per la sua relazionalità: il che comporta non solo l'essere ragionevole e libero, ma anche un esistere in relazione, in rapporto all'altro io. Tale relazione deve essere caratterizzata dall'amore, che è la testimonianza più forte dell'essere persona: «Solo la persona può amare e solo la persona può essere amata. Questa è un'affermazione anzitutto di natura ontologica, dalla quale emerge poi un'affermazione di natura etica. L'amore è un'esigenza ontologica ed etica della persona...» (Mulieris dignitatem, 29). L'essere umano, dunque, realizza l'immagine di Dio non da solo ma in quanto reciprocità relazionale, significata in modo emblematico nella relazione maschio-femmina, che è una specie di relazione archetipa che condensa in sé tutte le relazioni umane capaci di generare vita.
    Tale relazione deve essere fondata sull'amore, il che si realizza in modo speciale e privilegiato nella coppia. Infatti, l'essere immagine e somiglianza di Dio non significa che «ciascuno di loro individualmente è simile a Dio... Significa anche che l'uomo e la donna... sono chiamati a vivere una comunione d'amore e in tal modo a rispecchiare nel mondo la comunione d'amore che è in Dio...» (Mulieris dignitatem, 7). Frutto della relazione è la comunione interpersonale, che si fonda e si sviluppa mediante il dono sincero di sé all'altro. La persona si svela così nella sua identità di dono e nella sua finalità di donazione. E questa, infatti, la prospettiva del Concilio Vaticano II che afferma: «L'uomo, il quale sulla terra è la sola creatura che Dio ha voluto per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non mediante un dono sincero di sé» (GS 24). Secondo Il racconto di Gn 1,26-28, la presenza più significativa di Dio nella creazione è proprio la coppia maschio-femmina. Essere immagine di Dio è allora la grandezza e il compila dell'essere umano, in quanto capace di stabilire delle relazioni fondate sull'amore con tutti gli altri esseri umani, emblematicamente significati dai simili eppur diversi maschio-femmina.
    «E Dio vide che era cosa buona... Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gn 1,10.31). «Buono» (in ebraico «tob») dà l'idea della circolarità, indica qualcosa di splendido, meraviglioso, gioioso. Dio è felice, è lui stesso colpito da stupore dinanzi alla meraviglia del creato. Alla fine, dopo aver creato Adam maschio e femmina è profondamente affascinato. È il vertice della creazione! È la gioia e lo stupore che prova una madre dinanzi alla creatura uscita dal suo grembo: «Nell'istante in cui potei prendere tra le braccia mio figlio, provai un riflesso di quell'ineffabile, sublime beatitudine che dovette colmare il Creatore il sesto giorno quando egli vide la sua opera imperfetta, pur tuttavia compiuta. Mentre tenevo tra le mie braccia quella cosina minuscola, urlante, paonazza, sentivo chiaramente quale mutamento stava avvenendo in me. Per piccola, brutta e rossastra che fosse la cosa che tenevo tra le braccia, da essa emanava una forza indicibile: essa era un riflesso del Creatore» (J. Roth).

    Interrogativi per me
    • L'amore è estasi, gioia e superamento del timore: come vivo queste tre dimensioni? Ho paura d'amare? Perché? Quando amo veramente sperimento gioia e pienezza di vita?
    • Fare esperienza di Dio significa anche imparare ad amare: questi due aspetti sono presenti nella mia vita e nel mio cammino di fede? Amare Dio mi aiuta ad aprirmi maggiormente all'amore del prossimo e viceversa?
    • Mi accosto all'altro/a come ad un mistero? Mi rapporto con l'altro/a nella consapevolezza di incontrare una «persona» oppure lo/a ritengo una specie di «oggetto» di cui ho bisogno?
    • La mia vita è incentrata unicamente sul rapporto con Dio? Oppure sul desiderio di ricchezza e potere? Oppure nella relazione rispettosa e affettuosa con l'altro/a e con gli altri che mi aiuta a vivere anche il mio rapporto con Dio?
    • Riesco a cogliermi come dono per gli altri? Perché? Faccio della mia volontà di donazione un fine verso cui orientare l'intera mia vita? Vivo con stupore la scoperta di me stesso, il mio rapporto con Dio e con gli altri, la mia relazione con il creato?

    Preghiera
    Signore Dio,
    Tu che sei l'Amore che ama per primo, Tu che mi hai creato
    con un cuore che ha sete d'amare, aiutami a uscire fuori da me stesso,
    a liberarmi dei miei egoismi e delle mie presunzioni.
    Accendi in me la passione dell'amore che mi apre alla vita con stupore
    e mi pone di fronte all'altro
    come dinanzi ad un mistero.
    Signore, fa' di me
    quell'aiuto simile che l'altro attende perché possa vivere l'estasi dell'amore
    e sperimentare anche un solo un riflesso della tua immensa gioia e della tua felicità.

    Nella memoria del quotidiano
    Essere immagine di Dio è la grandezza e il compito dell'essere umano, in quanto capace di stabilire delle relazioni fondate sull'amore con tutti gli altri esseri umani.

    DUE CORPI PER DANZARE L'AMORE

    Darsi il cuore

    «Amatevi l'un l'altro, ma non fatene una prigione d'amore: piuttosto vi sia tra le rive delle vostre anime un moto di mare... Datevi il cuore, ma l'uno non sia rifugio all'altro, poiché solo la mano della vita può contenere i vostri cuori. Ergetevi assieme, ma non troppo vicini poiché il tempio ha colonne distanti e la quercia e il cipresso non crescono l'uno all'ombra dell'altro». Kahlil Gibran canta l'amore di una coppia che cresce nella reciproca donazione e conoscenza attraverso l'unione nella distanza e nella differenza. Come le corde della chitarra vibrano perché separate l'una dall'altra, così chi si ama arriva all'armonia della relazione mantenendo ognuno la propria individualità e chiedendo aiuto in campo intellettuale, affettivo, ludico, culturale a chi le vive accanto. Ma tale volontà di relazione e comunicazione non si improvvisa: occorre educarsi a vivere la propria sessualità come funzione essenziale per una crescita interpersonale, come una forza che proietta nella vita, rende autonomi, oblativi e gioiosi nella capacità di creare amore, di dirsi l'amore.
    Nell'Africa subsahariana si trova questo insegnamento: «Non aspettare la partenza
    per dire: ti amo.
    Non aspettare la lontananza
    per scrivere: ti amo.
    Non aspettare la morte
    per esprimere con le lacrime: ti amo.
    Il treno, l'Africa, una tomba
    mal sopportano un amore nascosto
    come cenere sotto la brace».
    Anche Adam, dopo aver sperimentato il silenzio della solitarietà, dinanzi alla donna – aiuto simile–dà sfogo alle vibrazioni del suo essere, finalmente approdato all'estuario dell'amore: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa» (Gn 2,23). L'amore ha bisogno di dirsi, comunicarsi, esprimersi... attraverso la corporeità, che è il campo espressivo della persona. La realtà personale, infatti, esiste esprimendosi visibilmente nel corpo e attraverso il corpo nel mondo. L'essere con gli altri e per gli altri è una coesistenza di esseri corporei. Il dirsi e il comunicarsi è dono che si esprime attraverso il corpo, luogo dove le possibilità umane prendono forma e concretezza. Nei rapporti con gli altri il corpo umano è innanzitutto presenza, stare al cospetto di qualcuno. La presenza riguarda solo ed unicamente esseri umani; le cose non sono presenti. Esse sono semplicemente là. Quando tale presenza si caratterizza come volontà di appello, risposta, accoglienza, promozione dell'altro diviene presenza d'amore, nella quale le diverse parti del corpo esprimono il loro proprio linguaggio. Per questo – osservava la psichiatra Terruwe – quando si ama qualcuno, si sente naturalmente il bisogno di toccarlo, di comunicargli l'amore con uno sguardo, un sorriso, una carezza, un bacio...

    Il sublime canto dell'amore

    «Mi baci con i baci della sua bocca!
    Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino...» (Ct 1,2).
    «Già i primi versetti del Cantico ci introducono immediatamente nell'atmosfera di tutto il poema in cui lo sposo e la sposa sembrano muoversi nel cerchio tracciato dall'irradiazione dell'amore. Le parole degli sposi, i loro movimenti, i loro gesti corrispondono all'interiore mozione dei cuori. Soltanto attraverso il prisma di tale mozione è possibile comprendere il linguaggio del corpo» (Giovanni Paolo II). L'esperienza dell'innamoramento parte da una mozione del cuore e coinvolge tutta la realtà corporea dell'uomo e della donna. I corpi si cercano, si attraggono, si incontrano: è la danza dell'amore. I baci inebrianti delle due bocche testimoniano il desiderio di fondersi in uno per respirare lo stesso respiro e vivere la stessa vita.
    Il corpo è l'arpa dell'anima: è responsabilità dell'uomo e della donna trarne dolce musica oppure suoni confusi... La dolce musica è un arcobaleno di colori, è intimità, felicità, freschezza, piacere. «Il piacere è un canto di libertà, ma non è la libertà. È la fioritura dei vostri desideri, ma non è il loro frutto. È un abisso che spinge verso l'alto, ma non è il fondo né la cima. È un uccello in gabbia che prende il volo, ma non è lo spazio conquistato. Sì, il piacere è un canto di libertà. E mi piacerebbe che lo intonaste con tutto il cuore, ma non vorrei che a cantarlo perdeste il vostro cuore...» (Tagore).
    Quando il piacere perde la premurosa e delicata attenzione all'altro, l'amore viene spezzato e umiliato. È il notturno dello spirito! (Ct 5,2-8). Tutto è solitudine, delusione, stanchezza, silenzio glaciale. Occorre non rassegnarsi a tale silenzio e, soprattutto, non abituarsi al tiepidume e alla mediocrità di un abbraccio senza comunicazione, di un bacio senza dono, di un amore... senza amore! L'inferno – diceva Dostoevskij – è il tormento di non essere più capaci d'amare. Per questo la sposa del Cantico si lancia in una ricerca affannosa dell'amato. Un messaggio percorre il deserto della notte: «Sono malata d'amore!...» (Ct 5,8). La notte è passata. L'amore ritrovato fa rivivere l'ebbrezza del primo amore «perché forte come la morte è l'amore...» (Ct 8,6).
    «Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me» (Ct 2,16; 6,3). Questa espressione pronunciata dalla sposa del Cantico è la sigla di tutta la sua esperienza d'amore. Nel testo ebraico queste «dieci parole» sono concentrate in appena quattro: dodi li wa'ani lo. Il termine «amato mio» (dodi) ricorre 31 volte nel Cantico. È un vezzeggiativo affettuoso che indica la semplicità, la spontaneità, l'istintività dell'amore. Non indica possessività ma tensione, meta, orientamento dei sentimenti. «Il mio amato è per me e io per lui». È un amore reciproco totale ma non totalizzante, i due tendono all'unità ma per aprirsi alla «trinitarietà», cioè alla relazione con «terzi»: gli altri, il mondo circostante... Dio! Importante è non arrendersi al silenzio, non archiviare l'amore nella cartella dei fallimenti, non rassegnarsi al vuoto del distacco...
    Sigillo dell'amore è la donazione totale di sé nella unità dei due. Il piacere è frutto della gioia della ricerca, del ritrovarsi, dell'essere ancora capaci di vibrare all'unisono nell'abbraccio dei corpi, nella danza dell'amore. Lo sposo è sigillo per la sposa e viceversa. Insieme è la forza che dà vittoria. L'amore è l'unica realtà che sfida la morte e sopravvive ad essa. Ma si tratta di operare ogni giorno una scelta: l'amore alla (e della) persona o l'amore alle cose. Non c'è alternativa. Scegliere il secondo vuol dire calpestare la propria e l'altrui dignità. Scegliere il primo vuol dire intonare all'unisono l'abbraccio dell'amore che le grandi acque non possono travolgere, perché è la vita che vince la morte! A ragione, dunque, Rabbi Aquibah diceva: «Tutto il mondo non vale quanto il giorno nel quale è stato dato al popolo di Israele il Cantico. Tutti gli scritti sono santi, ma il Cantico dei Cantici è il santo dei santi».

    Interrogativi per me
    • L'amore mi rende più libero o più prigioniero? Il mio amare è possesso o dono? Nel rapporto con l'altro/a avverto una crescente armonia o confusione?
    • Riesco ad esprimere con serenità e semplicità l'amore e l'affetto che nutro per gli altri? Quale linguaggio privilegio nel comunicare i miei sentimenti (parole, gesti, silenzio...)? Perché?
    • Come vivo il rapporto con il mio corpo? Provo gioia e rispetto o vergogna e repulsione? Sono contento del mio corpo o ne «sogno» uno diverso?
    • Come vivo i silenzi e le incomprensioni dell'amore? Cosa faccio per superare rancori e difficoltà?
    • Nella mia vita metto al primo posto le persone o le «cose» (potere, ricchezza...)? Perché?

    Preghiera
    Signore mio Dio,
    ti ringrazio per il corpo che mi hai donato: esso mi permette
    di entrare in relazione con gli altri,
    di esprimere le mie idee e i miei sentimenti.
    Grazie, Signore,
    perché con la mia mano
    posso stringere altre mani,
    posso accarezzare le persone che amo; con i miei occhi
    posso guardare e conoscere il creato e le creature,
    con la mia bocca
    posso dire i miei pensieri
    e baciare quelli a cui voglio bene e dire: ti perdono
    a chi mi ha offeso.
    Grazie, Signore,
    perché mi hai messo dentro la passione d'amare
    e la gioia di poter dire:
    Ti amo...

    Nella memoria del quotidiano
    Il corpo è l'arpa dell'anima: è responsabilità dell'uomo e della donna trarne dolce musica oppure suoni confusi.

    CUSTODIRE LA VITA

    L'uomo, un capolavoro...

    Nel libro della Genesi vi sono due racconti posti proprio nelle prime pagine. Il primo (Gn 1,1-2,4) come opera scritta risale al VI-V secolo a.C. e appartiene alla «tradizione sacerdotale» la quale, a conclusione dell'opera redazionale sui primi cinque libri della Bibbia chiamati Torah o Pentateuco, ha posto questo racconto in apertura della Bibbia come una specie di portale, una interessante opera di perfetta aritmetica dove anche il numero diviene poesia. Il primo versetto della Bibbia infatti ha 7 parole, il secondo 14, il terzo 21. È tutto un gioco costruito sui numeri: Dio ha creato l'universo in 6 giorni, il 7° «si riposò»; le opere create sono 8; le formule ricorrenti sono 7: E Dio disse...; Sia... e fu...; E fu sera e fu mattino...; primo (secondo...) giorno; E Dio vide...; era cosa buona.
    In questo primo racconto l'uomo è visto come il capolavoro del creato. Dopo aver creato tutte le opere, Dio alla fine crea l'uomo. L'uomo viene visto come dominatore, signore ma anche servo del creato. Adam, inteso come umanità, è l'immagine dell'unico Dio e Signore del cosmo che tutto ha fatto buono e si compiace di tale bontà.
    Il secondo racconto (Gn 2,4ss.) è molto più antico del primo. Scritto sotto il regno di Davide-Salomone (X-IX secolo a.C.) , appartiene alla tradizione detta «yahvista» (dal nome di Dio: Yhwh, rivelato a Mosè). Questo racconto vede l'uomo strettamente legato alla terra, tanto che può essere definito «uomo-terra,, si chiama infatti Adam da adamah che in ebraico significa «terra». Adamah deriva dal sostantivo dam (sangue o rosso). Adamah significa terra rossa come il sangue. L'uomo viene chiamato Adam perché è un «estratto» di questa terra. L'uomo, dunque, ha un legame molto profondo con la terra. Questo secondo racconto vede l'uomo come ordinatore e fecondatore del creato, come colui che scopre l'identità dell'universo nell'esercizio della scienza e dell'intelligenza. Secondo questo racconto, senza uomo non c'è cosmo, cioè creazione ordinata. L'uomo è visto anche come il custode e il liturgo della creazione.

    ... un «estratto» della terra

    Il testo di Genesi 2,7 recita: «Allora Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente». Dio è visto come un vasaio che plasma l'uomo con «polvere del suolo»: in ebraico il termine indica quello strato di terra che va in aria quando c'è vento. Non si tratta dunque della parte più pesante, ma dello strato di polvere più leggero, la parte più nobile della terra. Dio impasta questa polvere, dà un «ordine» e una «forma» alla terra (adamah), dal cui grembo trae una statua, in essa imprime un «soffio» e l'uomo diventa un «essere vivente». Da qui lo stretto rapporto Adam-adamah.
    Con la parte più nobile di questa terra rossa Dio fa un Adam. L'uomo è perciò un «estratto» del creato. L'uomo non dovrà mai rinnegare le sue origini: egli è terra, è polvere. Dio ha immesso il suo «soffio» in questa polvere, ma l'uomo non deve mai dimenticare di essere inconsistente: non sussiste in sé, ma grazie a questo «soffio» di Dio (ruah, in ebraico). L'uomo non può stare in piedi da solo perché è polvere e per «essere» ha bisogno del soffio che viene da Dio, comunicazione proveniente dall'intimo della solitudine dell'essere. Dalla sua intimità Dio trae questo soffio e lo comunica alla polvere che ha plasmato ed essa diventa un «essere vivente» (in ebraico nephesh hayyah che potrebbe significare «dotato di coscienza» – come traduce la Bibbia tedesca). L'uomo è una polvere che ha coscienza di essere, che sa di esistere. Ma è polvere in sé inconsistente: «Polvere sei e in polvere tornerai» (Gn 3,19) . Tuttavia, l'uomo è una polvere che contiene ormai il respiro di Dio! Se Dio toglie questo respiro noi ritorniamo fragile polvere. Il salmista infatti dice: «Se nascondi il tuo volto, vengono meno, togli loro il respiro, muoiono e ritornano nella loro polvere. Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra» (Sal 104,29-30). Senza Dio l'uomo non può esistere! Anche dopo il peccato Dio ha continuato a dare ad Adam il suo soffio, ha continuato a farlo vivere nella sua libertà. Il dono dell'amore di Dio è più grande del nostro peccato.
    L'uomo è la prima opera del creato, non l'ultima, perché senza l'uomo non ci può essere il creato. Il testo di Genesi, infatti, dice che «non cresceva erba perché il Signore non aveva fatto piovere e perché non c'era nessuno che lavorava la terra» e per questo Dio crea l'uomo. L'uomo viene dunque creato perché, nell'esercizio della scienza e dell'intelligenza e attraverso il lavoro delle sue mani e della sua sapienza, possa far sì che la terra sia feconda e dal grembo della terra venga fuori l'erba e lo sviluppo della vita. La creazione è un'opera incompiuta senza l'uomo.
    All'uomo viene affidato il compito di portare a compimento e perfezionamento la creazione.

    Custodia e servizio

    Dopo aver immesso nell'uomo il suo alito di vita, «il Signore Dio piantò un giardino in Eden a oriente e vi collocò l'uomo che aveva plasmato» (Gn 2,8): tutta la terra è un immenso giardino!
    «Il Signore prese Adam e lo pose nel giardino affinché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2,15). Il giardino, il creato è un dono che il Signore ha dato all'uomo; l'uomo non lo ha chiesto, se lo è trovato. Il testo suggerisce che l'uomo è totalmente nelle mani di Dio e la vita chiede all'uomo saggezza ed umiltà: bisogna guardare al «giardino» come un dono ricevuto e non come un possesso. La saggezza e l'umiltà di cuore consistono nel guardare la vita come un dono ricevuto e da amare.
    In questo versetto ci sono quattro verbi che esprimono una ricca teologia della vita e del rapporto uomo-creato. Siamo di fronte ad un giardino che ha delle esigenze e chiede all'uomo qualcosa perché in questo giardino l'uomo impari a diventare uomo e a vivere.
    Dio prese (in ebraico lahak: «riservare a sé») l'uomo: il verbo indica il separare qualcuno da qualcosa per uno scopo. Dio separa l'uomo dal creato per un progetto: la vita e lo sviluppo dell'universo dal caos al cosmos. Dio ha creato l'uomo e adesso lo porta con sé, lo separa da tutte le altre cose create, perché l'uomo è un essere completamente diverso che Dio riserva a sé in vista di un progetto: la vita.
    Poi lo pose (in ebraico natan: «stare da qualche parte con uno scopo»): l'uomo non è stato posto nel giardino per caso, ma con un progetto ben preciso e per questo viene posto in una situazione ideale. Lo scopo per cui l'uomo è stato messo in questo giardino è indicato nei due verbi seguenti.
    Per coltivarlo e custodirlo. Si tratta di due verbi molto particolari: «coltivare» in ebraico si dice abad, che letteralmente vuol dire «servire». L'uomo ha ricevuto in dono il giardino con la finalità di servirlo. Abad indica il servizio alla terra e viene tradotto anche con il verbo «lavorare»: servendo-lavorando la terra, l'uomo serve Dio che gli ha donato il giardino. La ricerca scientifica, il lavoro, il servizio al creato è già la lode più alta al Creatore. Abad significa anche «servire nel tempio», cioè celebrare il culto: si può notare come in questo verbo c'è il passaggio dalla terra al tempio, dal creato al Creatore. Il sacro, la liturgia vera non è dentro il tempio, ma nella vita, nel creato, nella storia, nel giardino in cui ognuno vive e lavora. Non è il sacro o il tempio che dà senso alla vita, ma è la vita che dà senso al sacro. Ogni uomo è chiamato a lavorare il giardino, la sua parte di vita: è questo il suo servizio, la sua liturgia, perché ha qualcosa di vero e di vissuto da offrire. Tutti abbiamo la vita stessa da offrire. Celebrando questa liturgia nel giardino, l'uomo non può non celebrare la liturgia nel servizio a Dio, non può non vivere il lavoro come preghiera, come ascensione del creato e di sé al Creatore.
    L'altro verbo – l'altra finalità – è «custodire». In ebraico «custodire» si dice samar che letteralmente vuol dire «vigilare-osservare»: è il verbo usato per chi fa da sentinella. L'uomo ha come fine non solo quello di servire il giardino, ma di esserne la sentinella e il custode. Ciò implica responsabilità e fedeltà nei confronti del creato. L'uomo deve vivere nel creato la responsabilità della custodia e della vigilanza con fedeltà alla vita e al suo stesso essere uomo. Il verbo samar significa anche «osservare i comandamenti» di Dio. Ciò vuol dire che quando l'uomo custodisce e vigila, fa da sentinella nei confronti del creato, osserva i comandamenti di Dio. Quei comandamenti riguardanti l'onorare Dio e i genitori, il non rubare, non uccidere, ecc. sono già contenuti nell'assunzione di responsabilità dell'uomo nei confronti del creato. «Amando la fatica della vita, voi ne capite il segreto più profondo!» (Kahlil Gibran). «Chiamato a coltivare e custodire il giardino del mondo, l'uomo ha una sua specifica responsabilità sull' ambiente di vita, ossia sul creato che Dio ha posto al servizio della sua dignità personale, della sua vita: in rapporto non solo al presente, ma anche alle generazioni future. È la questione ecologica – dalla preservazione degli «habitat» naturali delle diverse specie animali e delle varie forme di vita, alla «ecologia umana» propriamente detta –che trova nella pagina biblica una luminosa e forte indicazione etica per una soluzione rispettosa del grande bene della vita, di ogni vita» (Evangelium vitae, 42).

    Interrogativi per me
    • Come vivo il mio rapporto con la natura? Provo indifferenza o «simpatia»? Ne abuso o la rispetto?
    • Penso qualche volta alla morte, alla «mia» morte? Ho la coscienza di essere «polvere» e inconsistenza... senza Dio?
    • Nei confronti della vita, e della mia vita in particolare, provo amore-passione oppure disprezzo-odio? Penso ala vita come un dono ricevuto e da donare?
    • Vivo la vita a compartimenti separati: studio/lavoro da una parte e fede/preghiera dall'altra? Cosa posso fare per renderla più armonica e far sì che la mia vita di tutti i giorni sia intrisa di preghiera e che questa sia espressione della mia vita?
    • Sento e vivo la responsabilità di essere custode e servitore della vita, mia e degli altri?

    Preghiera
    Signore mio Dio,
    quanto è grande il tuo nome su tutta la terra!
    Sopra i cieli si innalza la tua magnificenza e con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi lo splendore della tua potenza.
    Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate,
    che cosa è l'uomo
    perché te ne ricordi e te ne prendi cura?
    Eppure lo hai fatto come capolavoro del creato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani e tutto hai posto sotto i suoi piedi.
    Signore mio Dio,
    quanto è grande il tuo nome su tutta la terra!

    Nella memoria del quotidiano
    L'uomo deve vivere nel creato la responsabilità della custodia e della vigilanza con fedeltà alla vita e al suo stesso essere uomo.

    NELLA RELAZIONE LA PERFEZIONE

    La creazione dono del Creatore

    «In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gn 1,1). «In principio» (bereshit in ebraico) non indica il principio cronologico, il tempo zero o l'inizio; indica invece la «primizia», un termine usato per le offerte di primavera a Dio. Bereshit significa anche «la cosa più bella e preziosa», la più nobile. La creazione è dunque la cosa più nobile, è la primizia, il primo dono che Dio offre all'umanità. Per questo Bereshit più che un inizio indica un fine il fine per cui Dio ha creato l'universo e l'uomo. Dio crea l'universo per regalarlo all'umanità come la cosa più bella. La creazione è in un certo senso l'esprimersi, il primo rivelarsi di Dio all'umanità, la quale è stata creata alla fine, il sesto giorno, cioè quando tutta l'opera è pronta per esserle offerta.
    Il testo di Gn 1 presenta una specie di poesia aritmetica strutturata attorno al numero 7. Così l'autore intende affermare che la creazione è un'architettura armonica, è la perfezione fatta creatura. L'universo è in un certo senso la prima grande cattedrale in cui risuona l'armonia di Dio e l'uomo è il primo cantore. L'universo è come un'arpa che Dio regala all'uomo; sta all'uomo farla vibrare ad elevare le note più alte da questa grandiosa arpa.
    «In principio Dio creò...»: in genere nella Bibbia il verbo creare viene espresso con `ctsah; qui invece il narratore usa un verbo raro: bara, che l'Antico Testamento riserva solo a Dio. Questo verbo trova la sua origine nel lavoro dello scultore, il quale da un tronco d'albero riesce a ricavare una statua o altri oggetti a lui cari. Si tratta, dunque, di un lavoro fantasioso e creativo. Dio, con il suo Spirito che cova (aleggia) sulle acque primordiali riesce a creare qualcosa di splendido e di inedito: il cosmos, un universo ordinato e armonico e, in esso, vi pone Adam, l'umanità creata a sua immagine e somiglianza.

    Dominare amando

    Il sesto giorno Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza ... e domini sui pesci del mare...» (Gn 1,26). La traduzione italiana non è corretta perché traduce Adam (uomo-umanità) e il verbo «dominare» al singolare. In ebraico Adam è un singolare collettivo e dovremmo tradurlo con «umanità»; per questo l'ebraico usa il plurale «dominino». In italiano avendo tradotto «uomo», è stato necessario mettere il verbo al singolare, ma in tale modo si tradisce il senso del testo. L'essere umano creato il sesto giorno è il culmine della creazione; a lui viene affidato il compito di «dominare», quindi di portare a perfezione il creato.
    «Facciamo Adam a nostra immagine e somiglianza e dominino... Dio creò Adam a sua immagine... dominate...» (Gn 1,26-27). La struttura letteraria del testo è la seguente:
    A. Adam immagine e somiglianza
    B. dominino
    A'. Adam immagine
    B'. dominate
    Il testo è costruito con un parallelismo: nella reciprocità relazionale Adam è immagine di Dio, e solo in quanto capace di relazione Adam può dominare e soggiogare il creato. C'è dunque una relazione triangolare in questo testo: Dio-Adam-Universo. Per essere immagine di Dio Adam deve aprirsi alla relazione, deve vivere la relazionalità fondata sul riconoscimento reciproco e sull'amore: l'identità e il fine di Adam è l'amore. Se questa relazionalità apre Adam anche alla «terra», Adam raggiunge la perfezione del suo essere «immagine di Dio». Se Adam rompe la sua relazione con uno di questi tre poli: Dio, la donna (cioè l'altro), il creato, spezza il rapporto anche con gli altri due. Quando l'uomo rompe la relazione con Dio a causa del peccato, la donna non è più considerata «ossa delle mie ossa» ma causa del male: «la donna che tu mi hai dato mi ha fatto peccare». Si rompe la relazione! La terra, che era il giardino di cui l'uomo aveva la responsabilità di custodia nella fedeltà, ora «spine e cardi produrrà». La terra si ribella contro l'uomo perché l'uomo ha «fallito» la sua identità: spezzando la sua relazione con Dio e con la donna, l'uomo non è più uomo. Il verbo «peccare» (hatat in ebraico) significa infatti «fallire il bersaglio».
    Il bersaglio dell'uomo è il fine per cui era stato posto nel giardino, cioè la custodia del creato e la relazione con la donna e con la terra. L'uomo «fallisce il bersaglio» in quanto abusa del grembo della terra e del grembo della donna; questi due grembi si ribellano contro di lui. È la guerra! E allora «tuo marito ti dominerà»: non è più un dominio d'amore, ma padronanza; «spine e cardi produrrà la terra per te»: sono tutti i disastri ecologici. La terra si ribella contro l'uomo che è venuto meno a questa triangolarità, a questa fedeltà relazionale. Se l'uomo infrange la trasparenza della sua identità e spezza la relazione con Dio abusando della terra, la terra si ribella contro di lui: spine e cardi produrrà, e col sudore della fronte l'uomo ne trarrà frutto. Dobbiamo salvaguardare la creazione, o meglio, dobbiamo abbellirla, spiritualizzarla, trasfigurarla. «Il deserto cresce» diceva Nietzsche parlando del cuore dell'uomo. E noi oggi lo vediamo crescere nella natura.
    Adam riceve da Dio un'investitura regale: dominare sul creato. All'uomo e alla donna è chiesto di crescere nella relazione con gli altri esseri umani, ma anche nella relazione con la natura. Le parole di Pascal sono sempre decisive: «L'uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l'universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d'acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quando l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe pur sempre più nobile di ciò che lo uccide, dal momento che egli sa di morire, e sa il vantaggio che l'universo ha su di lui; l'universo invece non sa nulla».
    Affermata con vigore la dignità «regale» dell'uomo e della donna nel concerto del creato, è altrettanto indispensabile sottolineare che la signoria umana non è autonomia assoluta e brutale. L'umanità riceve da Dio il suo primato e Dio ha anche creato e giudicato ogni realtà come «buona». L'uomo non ha la facoltà di abusare e di distruggere a suo capriccio. Questa pagina che celebra la «bontà» di tutta la creazione affidata all'uomo e alla donna diventa, allora, un atto d'accusa alla società quando essa altera con la violenza e l'egoismo l'equilibrio del creato sul quale ha solo potere di usufrutto. Diventa un atto d'accusa contro la tirannia vanitosa, cieca e spesso crudele dell'umanità che spezza, devasta, brucia e umilia «le opere delle mani di Dio» col suo spensierato o iniquo egoismo. L'uomo, invece, dovrebbe essere il liturgo della creazione, colui che rende visibile e udibile l'implicita e segreta lode che sale al Creatore dal sole e dalla luna, dalle stelle fulgide, dai mostri marini, da tutti gli abissi, dal fuoco, dalla grandine, dalla neve e dalla nebbia, dal vento di bufera, dalle colline, dagli alberi da frutto, di cedri, dalle fiere e dalle bestie, dai rettili e dagli uccelli, come canta il Salmo 48.

    Il settimo giorno

    Questa è la gioia di Dio! Dio vuole che l'uomo rispetti il creato, per questo ha istituito il sabato, il settimo giorno nel quale, portato a compimento il creato, si riposò: anche l'uomo il settimo giorno deve riposarsi. È proibito «toccare» la terra; non la si può sfruttare tutti i giorni; anzi ogni sette anni bisogna farla riposare e sette volte sette anni ricorre il giubileo (50 anni): per un anno la terra non deve essere coltivata, perché ha bisogno di respirare, di non essere sfruttata. Bisogna avere grande rispetto per la terra!
    L'uomo è stato creato il «sesto giorno»: ciò potrebbe stupire chi conosce il simbolismo ebraico. Per la cultura ebraica, infatti, il numero perfetto è il 7, mentre tutti i numeri inferiori sono imperfetti; il numero più grande degli imperfetti è il 6 (Nerone nel libro dell'Apocalisse è chiamato 666: tre volte 6). L'uomo è un'opera «imperfetta», è prigioniero del sesto giorno. Come può l'uomo uscire da questa prigionia? Entrando nel settimo giorno: giorno in cui sospende il lavoro, rispetta il creato, ritorna all'amore della famiglia e prega Dio. L'uomo esce dalla prigionia della sua finitudine se vive un forte rapporto con Dio, con gli altri, con la famiglia; se rispetta il creato ed è capace di alternare lavoro e riposo.

    Interrogativi per me

    • Mi sento parte di un disegno molto più grande di me? Sento di essere in rapporto al creato come un granello di polvere eppure custode e servitore di tale immensità?
    • La mia vita si gioca nel rapporto con Dio, gli altri, il creato: in esso sta la mia gioia o il mio smarrimento, la mia felicità o il mio peccato. Fino a che punto ne sono consapevole? Come cerco di crescere verso questa maturità?
    • Ho coscienza di essere eco e voce del creato nella lode a Dio? Perché? In che modo esprimo a Dio questa lode? + Come vivo il mio rapporto con il lavoro o con lo studio? Vi dedico le ore necessarie?
    • Riesco a «fermarmi» nel corso della giornata e della settimana per vivere il «riposo» e ritrovare in esso la relazione con Dio, gli altri, me stesso?

    Preghiera
    Signore mio Dio,
    i cieli narrano la tua gloria
    e l'universo intero parla di Te!
    Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia.
    Non è linguaggio e non sono parole, di cui non si oda il suono.
    Per tutta la terra si diffonde la voce del tuo amore ed io vorrei poter dire con l'intera creazione:
    Ti amo, mio Dio.
    Liberami dall'orgoglio e dalla presunzione,
    fammi canto e armonia del creato
    e ti siano gradite le parole della mia bocca, davanti a Te i pensieri del mio cuore.
    Signore, mio Dio e mio Creatore.

    Nella memoria dei quotidiano
    L'uomo è il liturgo della creazione, colui che rende visibile e udibile l'implicita e segreta lode che sale al Creatore da tutto l'universo.

    PER TE HO CREATO OGNI COSA

    La creazione, un'opera tutta da compiere

    Il lavoro appare come la vocazione primordiale dell'uomo nei confronti del creato; un po' come il culto lo sarà nei confronti dell'increato. Non per nulla il medesimo termine ebraico abodah designa l'uno e l'altro. Così, quando i Pirqe Avot, il trattato dei princìpi del giudaismo, dicono che il mondo si sostiene su tre cose: la legge, l'amore e l'abodah, questo può intendersi sia come lavoro che come culto. Ma se il culto è un «lavoro», è valido anche l'inverso: il lavoro dev'essere considerato come un «culto». In tutta la sua attività la creatura loda Dio, perché questa attività realizza il desiderio di Dio. Per lo slancio che lo trascina alla propria perfezione il mondo è come un'immensa aspirazione a Dio. Ma nel contempo è anche un appello all'uomo perché lo renda armonico e più umano, perché lo ricolmi di intelligenza e di ordine; insomma, lo faccia cantare. Così, per il lavoro dell'uomo, la creazione è nel contempo dono di Dio e conquista del-
    l'umanità.
    Benedici il Signore, anima mia, Signore, mio Dio, quanto sei grande! Rivestito di maestà e di splendore, avvolto di luce come di un manto.
    Tu stendi il cielo come una tenda... Allora l'uomo esce al suo lavoro,
    per la sua fatica fino a sera.
    Quanto sono grandi, Signore,
    le tue opere!
    Tutto hai fatto con saggezza,
    la terra è piena delle tue creature... Voglio cantare al Signore finché ho vita, cantare al mio Dio finché esisto.
    Nella descrizione lirica dei ritmi del cosmo che ci propone il Salmo 104 c'è anche l'uscire di casa dell'uomo fin dal sorgere del sole per andare a lavorare, per compiere il suo lavoro fino a sera. Per quanto umile sia questo lavoro, è pur sempre «il sostegno della creazione» (Sir 38,34) e l'uomo vi appare come collaboratore di Dio. È deliberatamente un mondo incompiuto quello che Dio ha consegnato nelle mani dell'uomo, perché questi vi possa lasciare la sua impronta. «Di tutto ciò che è stato creato nell'opera dei sei giorni non v'è nulla che non sia da portare a compimento e che l'uomo non debba ritoccare» (Sepher Aggadah). Un maestro del chassidismo diceva: «Ogni uomo ha per vocazione di completare qualcosa in questo mondo». Dio portò a termine il mondo nel sesto giorno come un tessitore porta a termine l'ordito di un tessuto. Spetta all'uomo il compito di fare la trama.
    È questo infatti il senso delle parole della Scrittura: «Il Signore Dio non aveva ancora fatto piovere sulla terra e non c'era uomo per coltivare il suolo» (Gn 2,5). Dio colma tale lacuna creando l'uomo e assegnandogli il compito di coltivare e custodire il giardino dell'Eden. Il lavoro dell'uomo impregna di spirito la materia, la umanizza, realizzando in tal modo un'attesa divina. Proprio perché
    l'uomo ne è il custode, la creazione è tributaria del suo peccato e della sua disobbedienza, sottomessa alla «vanità», all'assurdità. Consegnata nelle sue mani perché serva alla gloria del Creatore e alla felicità della creatura, l'uomo con il peccato la distoglie dalla sua finalità facendola concorrere all'offesa dell'uno e alla distruzione dell'altra. Perciò «tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto» (Rm 8,22).
    L'uomo è l'ago della bilancia della creazione: la può offrire a Dio attraverso il lavoro, ma la può anche sfigurare e profanare con il peccato. È il senso dell'avvertimento dato ad Adamo, che un midrash mette sulla bocca di Dio: «Vedi come sono belle le mie creature, come sono meravigliose? È per te che ho creato ogni cosa: fai attenzione a non sciupare, a non far sfiorire il mio universo; perché, se lo sciupi, non ci sarà nessuno dopo di te per restaurarlo».

    Un patto di simpatia e solidarietà

    La cosmologia è inseparabile dalla storia della salvezza, una cosmologia dove si armonizzano l'uomo «microcosmo» e il cosmo «macrantropo». L'uomo, creato a immagine di Dio, trascende l'universo non per abbandonarlo ma, al contrario, per decifrarne il senso scoprendo il suo centro. La cosmologia antropocentrica diventa da quel momento cristocentrica: «Le galassie più lontane sono dei granelli di polvere che gravitano intorno alla Croce», ha scritto Olivier Clément.
    Credere nel Creatore e vivere come creature vuol dire firmare un patto di simpatia e solidarietà con tutto il creato, malgrado il fallimento e le violenze diluviane che ci sommergono. Ogni essere creato corrisponde a una parola creatrice. Dio ci affida il compito di perfezionare la stia opera; e lo spazio intermedio tra questa creazione incompiuta e la sua perfezione divina è il campo illimitato aperto alla libertà, alla ricerca scientifica, all'esercizio dell'intelligenza, al lavoro. E tutto questo fonda la dignità urnana.
    Ogni forma di vita sulla terra è solidale e trasforma i rami dell'albero in mani che si congiungono a quelle dell'uomo. L'universo non è una semplice decorazione in cui l'uomo si muove atteggiandosi a potente, trattando le altre creature come strumenti e non come veri compartecipi della lode di Dio. Più che di regnare, si tratta di sovrintendere, più che di dominare, si tratta di servire. Per aver mal compreso o abusato delle parole della Genesi, l'uomo si ritrova vittima dei suoi saccheggi e comincia appena a misurare l'estensione del disastro.

    Verso una terra di amici

    La rivelazione biblica ed evangelica ha desacralizzato la terra, non per abbandonarla alle forze del nulla, ma per trasfigurarla. Oggi la terra non è più la Madre onnipotente: diventi allora la fidanzata che dobbiamo proteggere dallo stupro e condurre alle nozze con lo Sposo-Creatore.
    Ci siano di insegnamento le parole dello starec Zosima ad Alioscia Karamazov: «Fratelli miei, amate tutta la creazione, nel suo insieme e nei suoi elementi, ogni foglia, ogni raggio, gli animali, le piante. Amando ogni cosa capirete il mistero divino nelle cose e, una volta capito, lo conoscerete ogni giorno di più. Finirete per amare il mondo intero con un amore universale».

    Interrogativi per me
    • Vivo il mio lavoro/studio come una vocazione e un itinerario che mi conduce a Dio?
    • Ringrazio il Signore per il dono dell'intelligenza? Come coltivo il dono dell'intelligenza e gli altri talenti che il Signore mi ha donato?
    • Amo il mio lavoro/studio? Come posso migliorare questa «simpatia»?
    • Sono consapevole che il compimento della creazione è una responsabilità affidata anche a me? Cosa faccio a tal proposito?
    • Come posso accrescere in me e negli altri, a cominciare dai miei amici, l'amore e il rispetto per la natura?

    Preghiera
    Benedici il Signore, anima mia, Signore, mio Dio, quanto sei grande!
    Rivestito di maestà e di splendore, avvolto di luce come di un manto. Tu stendi il cielo come una tenda, costruisci sulle acque la tua dimora, fai delle nubi il tuo carro,
    cammini sulle ali del vento...
    Allora l'uomo esce al suo lavoro, per la sua fatica fino a sera.
    Quanto sono grandi, Signore, le tue opere!
    Tutto hai fatto con saggezza,
    la terra è piena delle tue creature.
    Se nascondi il tuo volto
    gli uomini vengono meno,
    togli loro il respiro, muoiono e ritornano nella loro polvere.
    Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra.
    La tua gloria, Signore, è per sempre e Tu gioisci delle tue opere.
    Voglio cantare al Signore finché ho vita, cantare al mio Dio finché esisto.

    Nella memoria dei quotidiano
    Ogni uomo ha per vocazione di completare qualcosa in questo mondo.

    IL NON-SENSO DELLA VITA
    L'esperienza di Giobbe

    Eppure è Parola di Dio!

    «C'era nella terra di Uz un uomo chiamato Giobbe: uomo integro e retto, temeva Dio ed era alieno dal male... Dopo, Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno; prese a dire: Perisca il giorno in cui nacqui... Quel giorno sia tenebra, non lo ricerchi Dio dall'alto, né brilli mai su di esso la luce... Non ho tranquillità, non ho requie, non ho riposo e viene il tormento!» (Gb 1,1; 3,1-26).
    Ha forse Giobbe perduto la fede dinanzi alla sofferenza? Ha smarrito nei meandri del dolore il senso di una vita nella quale aveva prima camminato con integrità, rettitudine, amore al bene? La sofferenza: perché? Per l'umanità intera questa è senza dubbio la domanda più antica. «Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno per cui fatica sotto il sole?... Ho preso in odio la vita, perché mi è sgradito quanto si fa sotto il sole...» (Qo 1,2-3.18; 2,17). Qoèlet: cantico dei cantici del pessimismo, del non-senso, dell'assurdo, del silenzio totale: di Dio, di sé, degli altri.
    Giobbe e Qoèlet ci aiutano a cogliere il mistero di un non-senso carico a tal punto di senso da essere Parola di Dio! Se per Giobbe la vita è un «vomito che si è costretti a rimangiare», per Qoèlet essa è un infinito vuoto, un'esistenza inconsistente impossibile da amare. Per la vita – dice Qoèlet – non si può che avere un solo sentimento: l'odio! È una bestemmia, una dura accusa al Creatore della vita... eppure è Parola di Dio!
    Conoscevo un ragazzo buono, intelligente, bravissimo all'Università, di buona famiglia con la quale aveva un rapporto sereno. Aveva una ragazza che amava e dalla quale era pienamente contraccambiato. Era molto impegnato nella pastorale giovanile e universitaria della sua diocesi. E un giorno i suoi lo hanno trovato impiccato sulle scale di casa. Impossibile trovare una ragione. Impossibile darsi ragione di un gesto privo di ragione. Eppure è morto. Nel segreto e ignoto dibattimento della sua anima il non-senso ha avuto il sopravvento... o forse ha trovato un senso in quel non senso?!

    Noi siamo Giobbe

    «La notte mi porto a letto il libro di Giobbe. Ogni sua parola è cibo, vestimento e balsamo per la mia povera anima. Ora svegliandomi dal mio letargo la sua parola mi desta a una novella inquietudine, ora placa la sterile furia che è in me, mette fine a quel che di atroce vi è nei muti spasimi della passione» (S. Kierkegaard).
    Il libro di Giobbe è la rappresentazione ideale della nostra umanità che non vede Dio con chiarezza, ma lo cerca attraverso la galleria oscura delle sue contraddizioni e delle sue assurdità. Giobbe rappresenta ogni uomo di qualsiasi epoca; Uz è un nome che potrebbe indicare uno qualsiasi dei nostri paesi e delle nostre città. Questo significa che nella storia di Giobbe è rappresentata la nostra storia. Noi siamo Giobbe!

    Il senso del non-senso

    Giobbe assume e rappresenta l'umanità sofferente che audacemente ricerca Dio. Si «offre» come figura o mistero perché altri comprendano e imparino a pensare. Nel suo itinerario si mescolano coscienza e incoscienza. Soffre e non sa perché. La sua ignoranza è parte della prova. Il non-senso è parte del senso stesso! Il libro di Giobbe è un lungo lento dialogo, la passione che un autore geniale, anticonformista e provocatore, ha infuso nel suo protagonista. Insoddisfatto e non allineato con la dottrina tradizionale della retribuzione (Dio premiai buoni e castiga i malvagi), egli ha opposto ad un principio un fatto, ad un'idea un uomo. La debolezza è la forza di Giobbe! Il suo dolore inerme, la sua angustia riflessa disarmano motivazioni e argomentazioni: «I vostri consigli sono proverbi di cenere e le vostre repliche sono argilla» (Gb 13,12).
    Tre sono i personaggi principali del racconto.
    Giobbe è certamente una figura non reale, un modello. È il simbolo dell'uomo giusto, e quindi benedetto da Dio. Non è legato ad una particolare tradizione religiosa. In lui può rispecchiarsi qualunque uomo di buona volontà e onesto, che abbia il senso di Dio e del suo mistero: «C'era nella terra di Uz un uomo chiamato Giobbe: uomo integro e retto, temeva Dio ed era alieno dal male» (Gb 1,1).
    Satana è tutto ciò che in qualsiasi modo tenta e prova l'uomo: «Satana rispose al Signore: Forse che Giobbe teme Dio per nulla?... Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!» (Gb 1,9- 10) . La sua posta in gioco si configura come una domanda irriverente o una scommessa fatta sull'uomo: esiste o non esiste la gratuità nell'azione umana? Esiste o non esiste la libertà che si giochi per se stessa e non per calcolo sottile? Non è forse vero che tutto ciò che avviene nell'uomo, anche nei suoi sentimenti più profondi, è frutto di un calcolo, di un tornaconto, di una speranza di ricevere? Questa è l'accusa: l'uomo non sa amare gratuitamente e ogni sua azione è motivata da un interesse o addirittura da un risentimento, da una vendetta. Azioni veramente limpide, pulite, non esistono e la stessa religiosità nasce dalla speranza di ricevere un premio o si appoggia a un premio già ricevuto.
    Dio: al centro del dramma narrato nel prologo c'è però non soltanto la scommessa dell'accusatore sull'uomo, ma anche la scommessa di Dio che crede alla verità dell'uomo ed ha fiducia in lui. Il lettore si sente subito coinvolto nella lotta perché avverte che è in gioco anche la sua capacità o incapacità di essere autentico. «La sacra rappresentazione di Giobbe è troppo poderosa per ammettere lettori indifferenti. Chi non entra nell'azione con sue domande e risposte interiori, chi non prende posizione con passione, non comprenderà un dramma che per sua colpa rimarrà incompleto. Ma se entra e prende posizione si scoprirà sotto lo sguardo di Dio, messo alla prova dalla rappresentazione del dramma eterno e universale dell'uomo Giobbe» (L. A. Schòkel).

    Un assurdo senza spiegazioni

    Nel dialogo di un suicida con il suo ba' (Egitto 2190 a. C.) un uomo, all'estremo della prova, dialoga con la sua anima. Il protagonista disilluso pensa di suicidarsi, ma la sua anima vi si oppone. L'amarezza più grande di questo candidato al suicidio è l'assoluta corruzione della società, che provoca in lui un sentimento di angoscia e di solitudine: «A chi parlerò oggi? I conoscenti sono malvagi, gli amici di oggi non amano. A chi parlerò oggi? I cuori sono rapaci, tutti rubano i beni del loro prossimo. A chi parlerò oggi? L'uomo onesto è scomparso, il violento ha accesso a tutto. A chi parlerò oggi? Gli uomini si compiacciono del male, la bontà è rigettata da ogni parte. A chi parlerò oggi? Non c'è più gente onesta, il paese è abbandonato a coloro che operano il male. La morte mi sembra oggi come il luogo di riposo per un ammalato, come un uscire all'aria aperta dopo esser stato rinchiuso. La morte è oggi per me come il profumo della mirra, come sedersi sotto una tenda in un giorno di brezza... come sedersi sulla spiaggia del Paese dell'Ubriachezza. La morte è oggi per me come un sentiero pianeggiante, come il ritorno a casa dopo un viaggio...».
    Non è un settore della vita, bensì la vita stessa dell'uomo che è in crisi e l'unica via d'uscita sembra il suicidio. Anche Giobbe si pone il problema con identica radicalità, ma non pensa mai a questa via di soluzione. La prova più dura – dice Giobbe – è che dopo aver vissuto le affascinanti esperienze dell'amore e della fede, l'uomo può arrivare al grande momento in cui vede crollare tutto, in cui questo mirabile disegno diventa... senza alcun senso. E Giobbe se ne sta per 7 giorni e 7 notti in silenzio. È il silenzio dell'uomo stordito di fronte ad una realtà che non ha senso, a un assurdo che non trova spiegazione. È la prova estrema: anche Dio crolla; è il silenzio di Dio, l'unico ed estremo appoggio dell'uomo. È il senso del Dio assente, del Dio che se ne sta nel suo mondo, mentre l'uomo è la vera vittima.

    Resistenza e resa

    La prova è sempre un fatto intimo e personale dell'uomo, e Giobbe capisce che deve affrontarla da solo! In questa solitudine si interroga sul senso della vita e arriva a paragonarla a un intruglio senza sapore che si è costretti a trangugiare, anche se molto volentieri se ne farebbe a meno: «Si mangia forse un cibo insipido, senza sale? O che gusto c'è nell'acqua di malva? Ciò che io ricusavo di toccare questo è il ributtante mio cibo!» (Gb 6,6-7). Ecco la vita: un vomito che si è costretti a rimangiare. Gli amici? Torrenti che non dissetano: «Fino a quando mi tormenterete e mi opprimerete con le vostre parole?» (Gb 19,2) . Dio? Una freccia amarissima: «Le saette dell'Onnipotente mi stanno infitte, sì che il mio spirito ne beve il veleno e terrori immani mi si schierano contro!» (Gb 6,4).
    Giobbe vive un'esperienza di cui non vede il senso e non si accetta: «Così, al posto del cibo entra il mio gemito, e i miei ruggiti sgorgano come acqua, perché ciò che temo mi accade e quel che mi spaventa mi raggiunge. Non ho tranquillità, non ho requie, non ho riposo e viene il tormento» (Gb 3,24-26). La sua condizione è propria di chi è demotivato, di chi non trova più le ragioni per resistere nella lotta: «I miei giorni passano più veloci d'un corriere, fuggono senza godere alcun bene, volano come barche di giunchi, come aquila che piomba sulla preda» (Gb 9,25-26). Perso ora ogni motivo per lottare, Giobbe sembra passare dalla resistenza alla resa e rivolge al Dio lontano e sadico una preghiera blasfema: «Stanco io sono della mia vita!... Lasciami, sì ch'io possa respirare un poco prima che me ne vada, senza ritornare, verso la terra delle tenebre e dell'ombra di morte, terra di caligine e di disordine, dove la luce è come le tenebre» (Gb 10,1.20-22).

    Interrogativi per me
    • Mi è capitato di «perdere la fede» per qualche particolare sofferenza mia o altrui? Come ho vissuto quei momenti?
    • Come reagisco quando attraverso giorni, forse mesi, di aridità spirituale? Mi chiudo in me stesso? Smetto di pregare? Divento apatico o irascibile?
    • Ho conosciuto qualche mio amico che è morto in un incidente o ha voluto togliersi la vita? Cosa ho provato ín quei momenti? Come ho reagito? Come hanno reagito gli altri miei amici? Ne ho parlato con il Signore?
    • Il mio impegno per gli altri e i miei gesti di amore sono dettati da gratuità o da ricerca di gratificazione? La mia preghiera è gratuita o interessata?

    Preghiera
    Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
    Tu sei lontano dalla mia salvezza:
    sono le parole del mio lamento.
    Dio mio, invoco di giorno e non rispondi, grido di notte e non trovo riposo.
    Sei tu che mi hai tratto dal grembo,
    mì hai fatto riposare sul petto di mia madre.
    Al mio nascere tu mi hai raccolto,
    dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio.
    Da me non stare lontano, poiché l'angoscia è vicina e nessuno mi aiuta.
    Ma tu, Signore, non stare lontano, mia forza, accorri in mio aiuto.

    Nella memoria del quotidiano
    La nostra umanità non vede Dio con chiarezza, ma lo cerca attraverso la galleria oscura delle sue contraddizioni e delle sue assurdità.

    QUANDO È IN GIOCO LA VITA
    L'amarezza di Giobbe

    Un processo contro Dio

    Tre amici, venuti a conoscenza delle disgrazie che si erano abbattute su Giobbe, vanno a fargli visita per consolarlo e partecipare al suo dolore. Per sette giorni e sette notti rimangono accanto a lui, rispettano il suo silenzio e «non gli rivolsero alcuna parola, vedendo che molto grande era il suo dolore» (Gb 2,11-13). È Giobbe a spezzare per primo il silenzio maledicendo il giorno della sua nascita: «Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: "È stato concepito un uomo!". Quel giorno sia tenebra, non lo ricerchi Dio dall'alto, né brilli mai su di esso la luce» (Gb 3,3-4) . Inizia così l'intreccio di un dialogo fra Giobbe e i tre che si proclamano suoi amici; ma in realtà si dimostrano teologi e consolatori di professione e oppongono al lacerante grido di Giobbe ricette già confezionate e risposte che tentano di salvare ad ogni costo Dio condannando Giobbe.
    Nel cap. 8 prende la parola l'amico Bildad, il quale, rispondendo alle imprecazioni di Giobbe, proclama la giustizia di Dio, concepita nei termini di un giudice che retribuisce buoni e cattivi: «Dio non rigetta l'uomo integro, e non sostiene la mano dei malfattori. Colmerà di nuovo la tua bocca di sorriso e le tue labbra di gioia. I tuoi nemici saranno coperti di vergogna e la tenda degli empi più non sarà» (Gb 8,20-22) . Ma Giobbe nei capp. 9-10 replica con veemenza: si rivolge direttamente a Dio e lo accusa di ingiustizia perché non distingue tra innocenti e colpevoli quando manda le sue calamità, e se distingue è per avvantaggiare i malvagi nel mondo: «La terra è lasciata in balìa del malfattore: egli vela il volto dei suoi giudici» (Gb 9,24). Così va sempre più prendendo forza in Giobbe l'idea di un processo contro Dio, in cui Dio stesso venga chiamato in causa per discutere e rispondere a Giobbe e riconoscerne infine l'innocenza. Una volta giunto a questa vittoria giudiziale, il resto non conterà più, nemmeno la sua stessa vita: «Sono innocente! Non m'importa della mia vita, la mia esistenza io detesto» (Gb 9,21). Giobbe dunque vuole citare Dio in giudizio, accusarlo di inadempienza e di slealtà e provare la propria innocenza. Nello stesso tempo però si chiede se Dio è disposto a comparire in giudizio, a discutere e a lasciarsi vincere dagli argomenti di un innocente. O se invece farà ricorso alla sua potenza e alla sua abilità per schiacciare ancora una volta l'uomo giusto.
    Così nel cap. 10 Giobbe tenta l'impossibile: pronuncia a voce alta il discorso che farebbe contro Dio se questi comparisse in un ipotetico tribunale: è un'accusa implacabile, fondata soprattutto sulla condotta di Dio verso la sua creatura. Giobbe accusa Dio di azioni malvagie denunciando le sue perverse intenzioni con amarezza e ironia. Continua così il suo antico lamento: «Perché dare la luce a un infelice, e la vita a chi ha l'amarezza nel cuore?» (Gb 3,20). E se Dio ha dato la vita, perché non la rispetta?

    Timore e amarezza

    In questa appassionata accusa a Dio, Giobbe è dominato da due sentimenti contrastanti: timore e amarezza. L'amarezza nasce in lui dalla consapevolezza che tutti gli sforzi umani per trovare un accesso a Dio e piegarlo ad ammettere l'innocenza del giusto sono destinati al fallimento. E tuttavia – e questo è il timore – egli è spinto dallo stesso tormento della sua anima a rivolgersi a questo Dio. Se satana davanti a Dio aveva accusato Giobbe di religiosità interessata e non gratuita, Giobbe dimostra che la sua pietà non ha altro scopo se non un diretto vitale rapporto con Dio. Pur accusandolo con franchezza, Giobbe non sa staccarsi da Dio. Vorrebbe com-prenderlo in mezzo alla sofferenza, afferrarlo con la ragione ma, constatando di essersi incamminato su una strada sbarrata e piena di amarezza, cerca sfogo nelle parole. Giobbe, che si è giocato la vita e preferisce ormai la morte, vince così la paura e parla. Ma poiché si va convincendo che Dio non lo ascolta, lo ascoltino almeno coloro che gli si dichiarano amici, e i lettori, uomini come lui.
    Nel suo discorso, Giobbe sostiene tre cose: l'impossibilità di capire il male e il suo dolore partendo da Dio; Dio si rivela disfattista e beffardo nei confronti dell'opera delle sue mani; neppure la morte è un riposo tranquillo perché Dio non lascia l'uomo in pace.

    Le contraddizioni di Dio

    Giobbe esordisce con una espressione densa di amarezza: «Stanco io sono della mia vita!» (Gb 10,1), ma dovremmo tradurre l'espressione ebraica con «Ho nausea, detesto la mia vita! ». Qohelet dirà: «Io odio la mia vita!» (Qo 2,17). Tale nausea della vita è provocata proprio da Dio, che emette sentenze di condanna senza depositarne le motivazioni, privando così l'uomo «oppresso» di ogni diritto di difesa. Per questo Giobbe pone tre accuse in forma di domanda a Dio: nella prima vuole sapere quale vantaggio ha Dio violentando e ripudiando l'opera delle sue mani; nella seconda se Dio è miope come un uomo, incapace di penetrare nelle profondità del cuore umano; con la terza domanda Giobbe mette in dubbio l'eternità e la pazienza di Dio. Dio dunque è totalmente diverso dall'uomo ed è anche in contraddizione con se stesso: «Dirò a Dio: Non condannarmi! Fammi sapere perché mi sei avversario. È forse bene per te opprimermi, disprezzare l'opera delle tue mani e favorire i progetti dei malvagi? Hai tu forse occhi di carne o anche tu vedi come l'uomo?» (Gb 10,2-4).
    Secondo la tradizione biblica è l'uomo ad essere immagine di Dio (cf Gn 1,27), che resta il totalmente Altro: «Non darò sfogo all'ardore della mia collera... non tornerò a distruggere... perché sono Dio e non uomo, il Santo in mezzo a te e non un nemico devastatore» (Os 1,9); «Tu fai questo e io dovrei tacere? Credi forse che io sia come te?» (Sal 50,21). Giobbe invece constata che Dio sembra quasi imitare l'uomo, anzi il malvagio e il tiranno. Pochi versetti prima Giobbe aveva detto: «Poiché non è uomo come me; che io possa rispondergli: Presentiamoci alla pari in giudizio» (Gb 9,32). Se lì si augurava che Dio fosse simile all'uomo per poter discutere alla pari con lui, ora spera nella sua diversità, perché Dio si è fatto imitatore dei prepotenti. Di Dio dunque non ci si può fidare perché nei confronti del giusto si mostra inquisitore anche di quanto non esiste, cerca ragioni per condannare o condanna senza di esse.
    Un'altra contraddizione che Giobbe intende smascherare nella tradizione biblica sulla divinità è il tempo di Dio. Il Dio della Bibbia è l'eterno presente: passato e futuro per Lui sono oggi: «Da sempre e per sempre tu sei Dio... Per te mille anni sono come il giorno di ieri che è passato» (Sal 90,2.4). Il tempo di quel Dio che Giobbe accusa invece è come il tempo degli uomini: «Sono forse i tuoi giorni come i giorni di un uomo, i tuoi anni come i giorni di un mortale...?» (Gb 10,5). Se il tempo di Dio è simile al tempo dell'uomo, Dio ha i giorni contati; e per questo si affretta a condannare il giusto.
    Un'ultima contraddizione che Giobbe pretende di scoprire riguarda la fedeltà di Dio al suo essere Creatore: il Dio della Bibbia è il Creatore che non abbandona e non disprezza la sua creatura perché è leale con essa: «Il Signore completerà i suoi favori con me: Signore, la tua lealtà è eterna, non abbandonare l'opera delle tue mani!» (Sal 138,8); «Tu ami tutti gli esseri e non disprezzi nulla di quanto hai fatto; se avessi odiato qualcosa, non l'avresti neppure creata» (Sap 11,24) Al Dio che Giobbe accusa invece è un Dio sleale, bugiardo e violento che disprezza la sua creatura: «È forse bene per te opprimermi, disprezzare l'opera delle tue mani e favorire i progetti dei malvagi?» (Gb 10,3). Dio è perciò un sadico: conosce l'innocenza di Giobbe eppure ne ha decretato la sentenza e lo stritola con la sua mano.
    Ma è proprio così?

    Interrogativi per me
    • Qual è la mia reazione e il mio atteggiamento nei confronti del dolore, in particolare quello che colpisce la mia persona? Mi impongo una «sosta» (riflessione, preghiera...) per recuperare lucidità ed energia? Ha libero sfogo l'aggressività e la rabbia? Prevale la rassegnazione... in attesa di tempi migliori?
    • Spesso si dice o sperimento che ai malvagi e ai prepotenti tutto va bene, mentre ai buoni e agli onesti tutto va storto. Qual è la mia posizione? Credo – almeno in alcune occasioni – che sia più conveniente lasciarsi andare e seguire la corrente?
    • Cosa faccio e/o dico quando un mio amico è in crisi o attraversa un momento di forte sofferenza? Ricorro a frasi consolatorie di circostanza o scelgo di stargli vicino in silenzio? Che altro?
    • Il mio rapporto con Dio è vissuto all'insegna dell'indifferenza/estraneità, paura/vergogna, confidenza/ franchezza? Come definirei Dio in base alla mia esperienza di fede: persona o idea, giudice o padre, amico o nemico?
    • Secondo me Dio è leale o bugiardo, fedele o capriccioso, buono o malvagio? Qual è la mia risposta-spiegazione all'antica domanda: se Dio c'è ed è buono, perché il male nel mondo? Perché – in particolare –sono gli innocenti e i deboli a soffrire?

    Preghiera
    Come la cerva anela ai corsi d'acqua,
    così l'anima mia anela a Te, o Dio.
    L'anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando vedrò il volto di Dio?
    Le lacrime sono mio pane giorno e notte,
    mentre mi dicono sempre: «Dov'è il tuo Dio?». Dirò a Dio, mia difesa:
    «Perché mi hai dimenticato?
    Perché triste me ne vado, oppresso dal nemico?». Per l'insulto dei miei avversari
    sono infrante le mie ossa;
    essi dicono a me tutto il giorno: «Dov'è il tuo Dio?».
    Perché ti rattristi, anima mia,
    perché su di me gemi?
    Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, Lui, salvezza del mio volto e mio Dio.

    Nella memoria del quotidiano
    Tu ami tutti gli esseri e non disprezzi nulla di quanto hai fatto; se avessi odiato qualcosa, non l'avresti neppure creata.

    LA VITA: FERITA E BENEDIZIONE
    Dalla disperazione alla speranza

    Il dramma della fede

    Per capire se stesso e le contraddizioni della vita, l'uomo deve far memoria delle sue origini, deve rivisitare le radici della sua esistenza. E quello che fa Giobbe, nel tentativo di ricordare a Dio che l'uomo gli appartiene. L'uomo non ha preso parte alla decisione del suo esistere, essa sta unicamente in Dio ed è a Lui che Giobbe ora fa appello, elevando con stupore il canto dell'uomo capolavoro di Dio. Giobbe intende così chiamare in causa la memoria di Dio perché – commenta Gregorio Magno – «se non vuoi perdonare quanto ho fatto abbi almeno compassione di quanto tu hai fatto!».
    Giobbe intesse il suo canto con tre simboli desunti dal mondo dell'artigianato (vasaio e tessitore) e della pastorizia: «Ricordati che come argilla mi hai plasmato e in polvere mi farai tornare. Non m'hai colato forse come latte e fatto accagliare come cacio? Di pelle e di carne mi hai rivestito, d'ossa e di nervi mi hai intessuto» (Gb 10,9-11). Qui Giobbe si fa eco della ricca tradizione sapienziale: «Tu hai creato le mie viscere, mi hai tessuto nel grembo di mia madre... quando nel segreto venivo formato e tessuto...» (Sal 139,13.15); «Anch'io sono un uomo mortale come tutti, discendente del primo essere plasmato di creta. Fui formato di carne nel seno di una madre, durante dieci mesi consolidato nel sangue, frutto del seme d'un uomo» (Sap 7,1-2).
    Se l'essere creato in quanto corpo non distingue l'uomo dall'animale, la differenza si pone nel fatto che l'uomo si domanda e l'animale no. La capacità di interrogare e interrogarsi innalza l'uomo e lo abbatte nell'angoscia, perché «molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere, aumenta il dolore» (Qo 1,18). Interrogandosi, Giobbe scopre con amarezza e dolore una specie di dicotomia e contraddizione nel Creatore: è un Dio buono o un Dio crudele? Da una parte, infatti, Giobbe non può fare a meno di riconoscere la premura di Dio che crea e lo conserva in vita; dall'altra Dio sembra nascondere nel suo cuore crudeltà e malvagità mostrandosi nemico e avversario dell'innocente. Giobbe così vive il dramma della fede, rimanendo nell'incertezza sulla propria identità e su quella di Dio, il quale mette alla prova la sua coscienza e gli nega ogni garanzia di appoggio.

    La contraddizione della creatura

    Dio gli si manifesta come nel mito di Shiva, divinità indiana, che più volte crea il mondo e poi lo distrugge perché insoddisfatto. Dio appare a Giobbe come un artista capriccioso o squilibrato, che un impulso irrazionale spinge a disfare proprio le sue opere migliori. Perché dunque ha plasmato l'uomo così grande, per durar poco in «questo viver morendo notte e giorno»? Perché? Ma è lecito alla creatura osare rivolgersi con tale ardimento al Creatore? Isaia, infatti, ammoniva: «Potrà forse discutere con chi lo ha plasmato un vaso fra altri vasi d'argilla? Dirà forse la creta al vasaio: che fai?... volete darmi ordini sul lavoro delle mie mani?» (Is 45,9.11). Giobbe non vuole dare ordini a Dio, chiede spiegazioni e si strugge nei suoi stessi «perché»... mentre Dio continua a tacere. Anzi gli si rivela come un tiranno infido che gode nel rovinare i suoi sudditi. Giobbe allora avanza tre ipotesi del suo relazionarsi con Dio: se sono colpevole, se sono innocente, se alzo la testa: «Se sono colpevole, guai a me! Se giusto, non oso sollevare la testa, sazio d'ignominia come sono, ed ebbro di miseria. Se la sollevo, tu come a un leone mi dai la caccia...» (Gb 10,15-16).
    Davanti a Dio Giobbe si sente come un animale prigioniero fra gli artigli di una belva che si diverte crudelmente a giocare con la preda ormai sicura. Anche Osea, l'innamorato tradito, aveva affermato la stessa cosa mettendo in bocca a Dio queste parole: «Io sarò come un leone per Efraim, come un leoncello per la casa di Giuda. Io farò strage e me ne andrò, porterò via la preda e nessuno me la toglierà» (Os 5,14) . Dio dunque lascia in apparenza libero l'uomo... ma in un bosco o una riserva di caccia. L'uomo è come un leone libero nella riserva del re, sciolto per esercitare e divertire il vero padrone: Dio. Perciò il re della foresta diverte il re della creazione! «Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l'aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore, che ha fatto cielo e terra» (Sal 121,1-2) . Così cantava l'orante, ma anche il gesto liturgico di «alzare la testa» per rivolgersi a Dio, difensore del povero e dell'oppresso, viene ora visto con sarcasmo da Giobbe: Dio, infatti, come un leone, si sente provocato e sfidato da un simile gesto e si lancia con più violenza sulla preda. I miracoli di Dio, che un tempo il popolo amato cantava, sono ormai le nostre disgrazie!

    La contraddizione della vita

    Giobbe tira le sue conclusioni: in queste condizioni sarebbe meglio non essere nati. Ma poiché è giunto a questo punto, egli supplica Dio di concedergli un'ultima tregua, l'ultimo desiderio di un condannato al suo carnefice: morire in pace! Anzi, l'allontanarsi di Dio sarà la pace di Giobbe! E qui Giobbe fa sue le parole dei Salmi 39 e 88: «Vedi, in pochi palmi hai misurato i miei giorni e la mia esistenza davanti a te è un nulla. Solo un soffio è ogni uomo che vive... Allontana da me i tuoi colpi: sono distrutto sotto il peso della tua mano... Distogli il tuo sguardo, che io respiri, prima che me ne vada e più non sia» (Sal 39,6.11.14); «Mi hai gettato nella fossa profonda, nelle tenebre e nell'ombra di morte... Si celebra forse la tua bontà nel sepolcro, la tua fedeltà negli inferi?... Hai allontanato da me amici e conoscenti, mi sono compagne solo le tenebre» (Sai 88,7.12.19). Giobbe è posto realmente di fronte al nulla assoluto, e questo nulla copre come un'ombra tutta la sua vita, dall'inizio alla fine. Lo sguardo di Giobbe è affascinato in modo demoniaco dalla notte oscura di una morte che egli teme e implora nello stesso tempo. Tuttavia, la brama della morte non può soffocare in Giobbe la tristezza e l'orrore che gli fa alzare lo sguardo verso la breve tormentata vita che ancora gli resta o verso la «terra delle tenebre e dell'ombra di morte, terra di caligine e di disordine, dove la luce è come le tenebre» (Gb 10,2122). Sì, il salmista aveva cantato: «Nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno; per te le tenebre sono come luce» (Sal 139,12). Ma per Giobbe anche la luce è non-luce e la morte non è l'estuario verso il riposo, bensì regione di fitta tenebra che non risolve gli enigmi della creatura. Anche lì Giobbe teme di rimanere senza luce... senza Dio!

    Una preghiera lacerata

    Nonostante il lacerante grido di protesta, nonostante abbia invocato la morte e maledetto il giorno della sua nascita, Giobbe non maledice Dio come aveva scommesso satana. Ma c'è di più: satana aveva insinuato che la religiosità di Giobbe fosse interessata; ma Giobbe dimostra di avere con Dio una relazione completamente disinteressata, perché arriva fino al disprezzo della vita. Sì, le parole di Giobbe suonano come bestemmia, ma «Dio – diceva Lutero – gradisce molto più le bestemmie di un disperato che non le lodi compassate di un benpensante!».
    Il libro di Giobbe dimostra che forse la vera relazione dell'uomo con Dio si gioca nella profondità della protesta e della ribellione, mentre l'indifferenza è la morte della fede. Perciò, dentro l'umana disperazione prende respiro la speranza: nonostante tutto, Giobbe ricerca la sua giustizia in Dio e fa delle sue parole una preghiera lacerata.

    Dio risponde... al crocevia del silenzio

    Nei capitoli 38-41 il poeta dà la parola all'eccellente imputato: Dio. Dio non intende replicare alle proteste di Giobbe, che Egli ama e comprende, ma mostra le sue credenziali: la creazione! Presenta così a Giobbe il mistero dell'essere. Anche se l'uomo ha cominciato a conquistarne alcuni settori, esso rimane ancora un mistero invalicabile. Dio, invece, non solo ha costruito e intessuto l'uomo ma anche l'intero universo, di cui l'uomo non riesce neppure a misurare le fondamenta. Soltanto Dio può abbracciare la totalità dell'essere, dall'infinitamente grande all'infinitamente piccolo, dando un senso a ciò che rimane un mistero per l'uomo. Dio controlla tutto l'arco del mistero dell'essere, ma anche il mistero del limite, il mistero del male. Egli non è impotente e indifferente di fronte al male, all'ingiustizia e al dolore. Perciò la ragione che ha fatto sorgere in Giobbe il problema e lo ha indotto a porre Dio sotto accusa (se Dio può tutto, perché non libera l'uomo dalla sofferenza?), diventa la ragione che riporta alla serenità (se Dio può tutto e ciò nonostante permette il male, significa che anche il male è dominato e rientra nel piano di salvezza). È per tutto questo che Dio interroga Giobbe e gli mostra, sparsi ovunque nel mondo, i segni della sua potenza, della sua sapienza e del suo amore.
    Dio non ha mai chiuso la bocca al suo servo, perché sapeva che Giobbe non poteva tacere. Dio non vuole interlocutori muti e rassegnati! È Giobbe stesso a comprendere di trovarsi dinanzi ad un mistero, quello del dolore innocente, che lo trascende e che Dio è stato sempre dalla sua parte. Perciò: «Ho esposto senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo... Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere» (Gb 42,3-6). La lunga travagliata lotta nella notte oscura di Giobbe sfocia ora nella consapevolezza e nella scoperta di un Dio diverso da quello che i teologi di professione – suoi amici – gli avevano presentato. Giobbe scopre e incontra non il Dio dei sapienti, ma il Dio vivo e vero, il Dio presente nelle pieghe dell'umana tragedia, il Dio che accetta anche il lacerante grido del sofferente e mai intende chiudergli la bocca, nemmeno quando «per pensarti, Eterno, non ha che la bestemmia!» (G. Ungaretti).

    Nella notte la luce

    «La strada stava cominciando a salire. Lui mi ha ascoltato in silenzio. "Chi vuole varcare un limite", ha risposto poi, "custodisce dentro di sé qualcosa di grande. Alle persone normali questo non succede mai. Il limite che si pongono è sempre materiale, qualcosa di concreto che devono ottenere. Una casa più bella, un posto di lavoro più remunerato, un amore diverso da tutti gli altri. Dalla nascita alla morte sguazzano in queste cose minuscole, senza mai alzare la testa... La grandezza non contempla mai la facilità... Per il momento tu sai soltanto di essere diverso, e questo è già un punto molto importante. Continua a non cedere, a vivere fuori dalle rotaie e vedrai che prima o poi la tua vocazione ti verrà incontro"» (S. Tamaro).
    Giobbe si è sforzato di vivere «fuori dalle rotaie», non ha voluto allinearsi ai benpensanti, ai credenti per tradizione e non per convinzione; non ha mai voluto cedere ad un'idea preconfezionata di Dio. Per questo la sua notte si illumina d'immenso, la sua ricerca nell'oscurità della ragione «vede» dischiudersi un orizzonte di senso nel non-senso... e torna a vivere, a godere in pienezza la vita; ancora una volta ricevuta e accolta come dono del suo Dio e Signore. È un Giobbe adulto quello che si sveglia all'aurora del nuovo giorno, un Giobbe «provato» che, se per un attimo stava per cedere il passo alla resa, alla fine ha fatto della resistenza la sua forza, il senso stesso della sua lotta e della sua voglia di vivere.
    La vita è fumo, nient'altro che fumo – sosteneva Qoèlet –, ma essa ha in sé l'arrendevole dolcezza e felicità del vivere, a condizione di essere vissuta come dono di Dio. Pure nella sua limitatezza e nella consapevolezza di essere solo un'orma che muore nello sconfinato paesaggio dell'universo, l'uomo può godere la dolcezza del vivere. Il pensiero della morte insegna a vivere senza paure la propria condizione di «creatura», cioè di essere finito e limitato. La vera colpa dell'esistere consiste infatti nel non accettare la finitudine dell'esistere, 1' essere disperati perché non si riesce ad essere-come-Dio, rovinare la propria vita nell'infinitezza della paura di morire. Riconoscendosi e accettandosi di fronte a Dio come creatura finita e mortale, l'uomo diventa libero di godere la vita come un dono del Creatore.
    Giobbe è cresciuto smisuratamente nella prova: ne aveva bisogno, per arricchire la sua vita felice e soddisfatta. Ma perché l'uomo ha bisogno di soffrire per maturare?
    Nel silenzio della Passione, Gesù consuma il dono di sé fino alla fine e rivela il suo essere definitivamente Dio-connoi, Dio-per-noi. Anche Lui, inchiodato alla croce del non-senso, del sopruso e del potere violento e corrotto dei capi civili e religiosi del tempo, ha gridato il suo tragico «perché». Sospeso fra cielo e terra, ripudiato dal Padre e dagli uomini, l'Uomo-Dio ha sperimentato la più tragica delle sofferenze: il silenzio di Dio! Gesù muore sulla croce, pienamente fratello e amante dell'umanità fino al dono sincero e totale di sé. Dio muore per amore dell'uomo che lo respinge!
    Poiché la potenza di Cristo si è rivelata nella debolezza, la luce di Dio si è rivelata nella oscurità di queste ore, la gloria e la speranza di Dio si sono manifestate nel grido di dolore e di abbandono di Gesù, così anche noi in qualche maniera siamo chiamati alla conoscenza di un Dio diverso da quello che possiamo immaginare, attraverso questa via che Gesù ci propone... allora anche per noi, il velo della inaccessibilità a Dio si squarcerà!
    Forse, soltanto nascondendosi Dio si manifesta. Soltanto tacendo parla al cuore dell'uomo. Ma, senza narcotizzare l'intelligenza, l'unica cosa che possiamo fare è celebrare il rischio della fede, vivere la preghiera di affidamento e di abbandono: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46); certi che Dio – anche se tace perché così Egli ama parlarci – ci avvolge con le sue ali (Sal 57; 61). Perché Egli è la nostra tenda, il luogo in cui abitare, lo spazio in cui troviamo riposo e pace (Sal 93). Dio, e solo Lui, è il senso, la fonte e il culmine della nostra vita!

    Interrogativi per me
    • In questo momento cosa sento di dover rimproverare a Dio? Cosa mi attira a Lui?
    • Cosa ne penso della mia libertà? Credo di essere veramente libero? La mia libertà ha dei limiti? Quali? Perché?
    • C'è stato un momento (o più momenti) nella mia vita in cui ho pensato al suicidio oppure ho desiderato di non essere nato? Perché? Cosa mi è successo e come ne sono uscito?
    • Nelle mie «notti oscure», nei miei smarrimenti, avverto la presenza di Dio oppure lo sento completamente lontano? In quei momenti riesco a pregare e come?
    • Quando tutto mi va bene mi ricordo ancora di Dio? Ricorro a Lui nella preghiera? Lo sento vicino?

    Preghiera
    Signore, Tu mi scruti e mi conosci,
    Tu sai quando seggo e quando mi alzo.
    Penetri da lontano i miei pensieri,
    mi scruti quando cammino e quando riposo. Ti sono note tutte le mie vie; la mia parola non è ancora sulla lingua
    e Tu, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Stupenda per me la tua saggezza, troppo alta, e io non la comprendo.
    Dove andare lontano dal tuo spirito,
    dove fuggire dalla tua presenza? Sei Tu che hai creato le mie viscere
    e mi hai tessuto nel seno di mia madre.
    Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le tue opere, Tu mi conosci fino in fondo.

    Nella memoria del quotidiano
    La relazione dell'uomo con Dio si gioca spesso nella profondità della protesta e della ribellione, mentre l'indifferenza è la morte della fede.

    Conclusione

    GESÙ CRISTO PIENEZZA E OFFERTA DI VITA

    Il Verbo della vita

    Per Gesù la vita è una cosa preziosa, più del cibo. Poiché «Dio non è un Dio dei morti, ma dei vivi» salvare una vita è più importante anche del sabato: «È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?» (Mc 3,4). Egli stesso guarisce e restituisce la vita, come se non potesse tollerare la presenza della morte e, piangendo per la morte del suo caro amico I arzaro lo richiama alla vita. Verbo eterno, Cristo possedeva da tutta l'eternità la vita (Gv 1,4). Incarnato, egli è «il Verbo della vita» (1 Gv 1,1); dispone della vita con proprietà assoluta (Gv 5,26) e la dona in sovrabbondanza a tutti coloro che il Padre suo gli ha dato (Gv 17,2).
    Cristo è non solo la fonte della vita, ma la Vita stessa: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (Gv 1,4). Cristo è la fonte unica della vita vera perché viene dal Padre ed è unito a Lui: è questa identità il fondamento del suo valore salvifico, per cui la vita che Egli partecipa ai credenti è vera proprio perché è da Dio e di Dio.
    Nel prologo del quarto vangelo, definito dal Brown il «racconto evangelico della vita della Parola incarnata», il Logos per mezzo del quale tutto è stato creato entra nel vasto scenario del cosmo con la potenza del suo éssere: luce e vita. Secondo il racconto della Genesi, la prima cosa creata è stata la luce; ora la luce riappare in maniera assolutamente nuova, perché è connessa ad un'altra realtà: la
    vita: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (Gv 1,4) . Dio in Cristo manifesta la sua luce e la sua vita. Ma la luce richiama in modo dialettico le tenebre. Tutta la storia, infatti, è un movimento oscillatorio tra la luce e le tenebre, la vita e la morte: «La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta» (Gv 1,5) . La luminosa vita che è Cristo non è capita, non è accolta, ma non è nemmeno vinta! Come accompagnato da una marcia trionfale, il Logos entra nella scena di questo mondo: Egli è la Parola, la Sapienza, la Luce, la Vita. Attorno ci sono le tenebre, ma il Verbo della Vita si erge con lo splendore della luce che non può essere schiacciata.
    «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14): il Logos, apparso in tutto il suo splendore e potenza all'inizio dei tempi e del cosmo, si immerge paradossalmente nell'abisso della nostra miseria. Kierkegaard, nel suo diario del 1841, scriveva: «L'idea della filosofia è la mediazione, quella del cristianesimo è il paradosso». Il Logos fatto carne è il grande paradosso. Due estremi si congiungono: la carne, fragilità estrema, si unisce alla divinità. La realtà fragile dell'uomo diviene così la meta dell'itinerario discendente della Vita che era fin da principio. «In Gesù, "Verbo della vita", viene annunciata e comunicata la vita divina ed eterna. Grazie a tale annuncio e a tale dono, la vita fisica e spirituale dell'uomo, anche nella sua fase terrena, acquista pienezza di valore e di significato: la vita divina ed eterna, infatti, è il fine a cui l'uomo che vive in questo mondo è orientato e chiamato. Il Vangelo della vita racchiude così quanto la stessa esperienza e ragione umana dicono circa il valore della vita, lo accoglie, lo eleva e lo porta a compimento» (Evangelium vitae, 30) .

    Il pane della vita

    Nel quarto vangelo troviamo sovente in bocca a Gesù la dichiarazione ((Io sono», con la quale Egli afferma di realizzare in pienezza ciò che l'Antico Testamento non conteneva se non in parte e in modo provvisorio: la presenza divina. In sette testi del quarto vangelo, Gesù all'Io sono aggiunge un predicato nominale: pane di vita (Gv 6,35.51), luce del mondo (Gv 8,12), forza del gregge (Gv 10,11-14), risurrezione e vita (Gv 11,25), via, verità e vita (Gv 14,6) , vera vite (Gv 15,1-5) . In queste autorivelazioni Gesù si definisce in relazione all'uomo e ai suoi desideri più profondi: vita, verità, pane, guida... Il simbolismo di queste formule si richiama all'Antico Testamento. Il pane, la luce, il pastore e il gregge, la vigna, sono simboli che esprimevano nella predicazione profetica il rapporto di Dio col suo popolo nel quadro dell'alleanza. Riprendendo questi simboli e definendo con essi la sua identità e la sua missione, Gesù spiega come, in quanto Dio-con-noi, continuerà ad essere presente nella storia degli uomini e che Lui e Lui solo è la fonte e il culmine della vita.
    «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete» (Gv 6,35). In questa omelia pasquale Gesù si autodefinisce pane della vita, pane disceso dal cielo che fa vivere trasformando la vita e inserendola nell'eternità. Tale trasformazione avverrà solo con il dono della sua stessa vita: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le sue pecore... Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo» (Gv 10,11.17-18) . Offrire la vita corrisponde all'ebraico «dare la propria anima», espressione che il quarto evangelista usa soltanto nel testo sul «buon pastore» e nel racconto della morte di Gesù in croce: «E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30).

    Nella morte la vita

    Alla luce della rivelazione di Dio in Cristo si coglie come la vita eterna è vera vita vissuta nella banale realtà di ogni giorno e, nello stesso tempo, è preservata dallo svuotarsi nella contingenza e nell'episodicità, proprio perché traduce nella «carne», cioè nell'umano concreto e storico, l'amore divino. La «teologia della vita» non è che una variante della teologia dell'incarnazione: il Verbo si fece carne, l'Amore si fece croce, la Vita di Dio si fece vita umana. Questa Vita però può essere donata solo perché e in quanto Gesù affronta la passione e la morte e dà la sua stessa vita sull'altare della Croce, mediante la quale la partecipazione della vita divina si rende attuabile nella concreta situazione di peccato in cui l'uomo si trova.
    La Croce - affermava Teilhard de Chardin - è sempre stata segno di contraddizione e motivo di divisione tra gli uomini. Tuttavia essa costituisce il paradosso supremo della forza di Dio in Cristo, perché è il vertice della «follia» dell'amore che ama per primo fino a dare la vita e concedere il perdono. Forte della forza crocifissa e viva di Dio, il credente può affermare: «Tutto posso in colui che mi dà forza» (Fil 4,13), e che «con Dio noi faremo cose grandi» (Sal 60,14) ... a cominciare dal proclamare e testimoniare la vita e la verità. «Ama la verità ­ scriveva Giuseppe Moscati nel 1922 - mostrati qual sei, e senza infingimenti e senza paure e senza riguardi. E se la verità ti costa la persecuzione, e tu accettala; e se tormento, e tu sopportalo. E se per la verità dovessi sacrificare te stesso e la tua vita, e tu sii forte nel sacrificio».
    La Croce non è pura e semplice negazione, fallimento e naufragio nel mondo e rispetto al mondo. La Croce non è un labirinto senza via di uscita. Giocare la propria vita nella fiducia che mai, nemmeno nei segmenti più tenebrosi dell'esistenza, verrà meno l'amore di Dio per noi, e rischiarla nella consapevole accettazione che nessun appoggio e nessuna sicurezza troveremo in noi stessi, e che tutto ci dovrà essere donato: questa fiducia e questa consapevolezza sono le caratteristiche che fanno, della croce, la Croce di Cristo.

    Mai senza l'altro

    «Dio è impotente e debole nel mondo e così soltanto rimane con noi e ci aiuta. Cristo non ci aiuta in virtù della sua onnipotenza che ci sovrasta, ma in virtù della sua sofferenza». Questa affermazione di Bonhoeffer è una sintesi mirabile del mistero di Cristo Crocifisso e Risorto. Gesù è capace di attrarre a sé chiunque sa leggere questo «segno», cioè chiunque attraverso la mediazione della Croce e della Risurrezione, sa leggere nella propria povertà e sofferenza la certezza di essere amato da Dio. Cristo soffre e muore non sostituendosi all'umanità ma con l'umanità e per l'umanità. È la prossimità solidak che Cristo — Servo per amore — vive nell'esperienza della sofferenza e del calice della morte.
    A partire dalla solidarietà in Cristo è possibile una solidarietà diversa tra gli uomini: la solidnriffil noli 'amate, nello spendere la propria vita per gli Atri, nell'impegno per una vita rinnovata. L'uomo »MIO dall'amore del inu ire in Gesù, uscendo da se mem, dai propri ritegni Interiori più profondi, deve riconoscere con gioia che è questo amore che lo fa essere e che lo definisce come dono per gli altri; accettandolo, non può non derivarne un atteggiamento di prossimità, un percorrere la vita come cammino verso l'altro. In quanto siamo amati da Dio e facciamo esperienza del suo amore gratuito per noi, possiamo diventare capaci di metterci gli uni verso gli altri in atteggiamento semplice, amorevole e disponibile al servizio. Se Dio è stato così solidale con noi in Gesù Cristo dando la vita per noi, la conseguenza è l'impegno della solidarietà nostra nell'amore perché tutti abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza.


    T e r z a
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