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    Dio educa

    il suo popolo

    con la Parola

    Mauro Maria Morfino

     

    LE MODALITÀ STORICHE DELL'EDUCARE DIVINO 

    1. Introduzione

    Iniziamo questo nostro cammino dentro l’alveo della proposta fatta dalla Chiesa Italiana per questi 10 anni - 2010-2020 – con gli Orientamenti pastorali “Educare alla vita buona del Vangelo”. Proprio la frase “educare alla vita buona del Vangelo” desidero assumerla come itinerario per la nostra Chiesa diocesana, mettendo come punto di partenza, quando si parla di educazione, un primo tassello: la “Parola”. Benedetto XVI lo sta ripetendo da tempo: “La Chiesa non vive in ascolto di se stessa con un’autoreferenzialità, ma vive in ascolto della Parola”.
    Educare è complesso, per questo è indispensabile avere punti di riferimento certi e “la Scrittura” lo è perché Dio ci vuole educare nella sua Parola; per questo anche noi vogliamo ripensare in quest’anno pastorale i nostri stili di vita a partire da come Dio ci educa, da come fa irruzione dentro la storia per fare salvezza, tirandoci fuori da situazioni di morte, di non senso e facendoci entrare nella vita. Gli Orientamenti pastorali sono articolati in cinque capitoli e il secondo è titolato “Gesù il Maestro”.
    In esso il n° 19 è intestato “Dio educa il suo popolo”.
    La nostra riflessione prende il via con due testi del Deuteronomio. L’ambiente in cui sono collocati è il deserto, che ha valenze molteplici. È un luogo dove bisogna misurarsi, dove non ci sono diversivi, è il luogo dove bisogna pesare tutto, dove in fondo viene fuori la verità di se stessi.
    Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. (Dt 8,2-3) In questo testo il cammino nel deserto ha una caratteristica esemplare: le crisi, la fame e la sete sono descritte come aspetti educativi, cioè la vita, anche quella non facile, problematica e fallimentare, fa emergere quello che siamo; essere nel deserto per sapere quello che abbiamo nel cuore, per farci capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore. In questo luogo dell’essenzialità, della conflittualità, ma anche della gioia e della vita, si può fare realmente esperienza di che cosa si porta in cuore, si può arrivare al cuore. Il cammino di questo anno dovrebbe condurci essenzialmente a rientrare nel cuore. Il cuore, nella Scrittura, non è tanto legato ai sentimenti, ma è la sede dove si compiono le scelte e dove questo cuore può essere rifatto costantemente dallo sguardo salvifico del Signore, anche quando le situazioni della vita sono difficili. In certe situazioni di ristrettezza, di difficoltà, di stress noi impariamo alcune verità, alcune pieghe nascoste di noi stessi che o non avevamo preso in considerazione o non erano emerse.
    L’altro testo che ci può accompagnare come chiave di lettura è Dt 32, 10- 12: un testo paradigmatico per quanto riguarda il discorso che stiamo facendo.
    Leggo questo testo accanto a quello di un grande educatore Don Bosco: Egli lo trovò in una terra deserta, in una solitudine piena d’urli e di desolazione. Egli lo circondò, ne prese cura, lo custodi come la pupilla dell’occhio suo. Pari all’aquila che desta la sua nidiata, si libra a volo sopra i suoi piccini spiega le sue ali, li prende e li porta sulle penne, l’Eterno solo l’ha condotto, e nessun dio straniero era con lui.
    “L’educazione ricordatevi è cosa del cuore e solo Dio ne è padrone e noi non potremo riuscire a cosa alcuna se Dio non ce ne insegna l’arte e non ce ne mette in mano le chiavi. Chi sa di essere amato ama e chi è amato ottiene tutto specialmente dai giovani, i cuori si aprono e fanno conoscere i loro bisogni”.
    Il testo di Deuteronomio connesso con questo testo di Don Bosco, ci mette di fronte a quello che è il grande itinerario che tutta la Scrittura dal primo versetto di Genesi all’ultimo di Apocalisse ci dona: il grande libro dell’educazione dell’umano.
    La Scrittura è l’itinerario affinché l’umano sia denso, significativo e bello.
    Egli lo trovò in una terra deserta, in una landa di ululati solitari.
    Lo circondò, lo allevò, lo custodì come la pupilla del suo occhio.
    Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali.
    Il Signore, lui solo lo ha guidato, non c’era con lui alcun dio straniero. (Dt 32,10-12) Da questo semplicissimo testo che è un pò una luce che si accende su tantissimi altri testi, emerge Dio come il grande educatore. Noi possiamo essere dentro la Chiesa, a servizio della fede e dell’umano soltanto come co-attori con Dio. Dio è il grande educatore del suo popolo, tanto è vero che nella Scrittura la cosa più terribile che può capitare ad Israele è quella di non avere più la guida divina. Nel libro dell’Esodo quando viene meno la colonna di fuoco e la nube, la presenza della Shekinà, la presenza divina, c’è lo scompaginarsi del popolo perché viene meno quell’elemento che permette ad Israele di poter camminare per le strade dove deve camminare.
    Nella Parola rivelata Dio educa attraverso itinerari: non slogans e non ricette, ma eduyyot, cioè “testimonianze/segni” concreti, diversificati ed essenzialmente di cura amorosa. Attraverso una memoria capace di ri-comprendere il passato (e capace anche di rottura con esso); attraverso un progressivo procedere e mutare; attraverso l’esplicito desiderio divino di avere l’umano come partner dentro la storia; attraverso un vero abban-donarsi dell’umano al divino.

    2. Come Dio educa il suo popolo?

    Nella Parola rivelata impariamo che Dio educa sempre con modalità che rispettano l’umano e, insieme, lo conducono ad un oltre, ad una crescita.
    L’educazione divina dell’umano implica sempre una complessità, un processo articolato.
    La guida amorevole di un Dio educatore del suo popolo si può identificare, a partire dalla Scrittura con il termine macrotimia perché Dio educa con questa larghezza di cuore, di sentimenti, una larghezza sconfinata.
    Nel primo testamento, questo termine, è soltanto riferito a Dio. È molto bello che nel Nuovo Testamento (1Cor 13) questo stesso tipo di amore, dice Paolo, è dato a colui che riceve lo Spirito, che può quindi amare e di conseguenza educare con lo stesso cuore di Dio, con la macrotimia. Tutte le altre realtà, quelle che rimangono “microtimiche”, rachitiche da un punto di vista di attenzione, di apertura e di accoglienza dell’altro non permettono nessun tipo di vicinanza e quindi di educazione. Questa azione educativa è fatta di un insieme di realtà. Parlare oggi di itinerari educativi sembra quasi un’espressione alla moda. La Scrittura è un itinerario e i testi tratti dal Deuteronomio sono la fotografia perfetta di questo Dio che sceglie di intervenire nella storia attraverso una gradualità, un cammino condiviso con tappe e itinerari, non con la bacchetta magica, a strattoni, o con formule che fanno show, ma dentro itinerari, con una presenza di condivisione. Un’azione educativa che comporta anche dei momenti di cesura con il passato, l’uscita dalla terra desertica, dalla landa di ululati solitari, da una realtà terribile. Un elemento iniziale di un itinerario è proprio quello di un passaggio, una rottura, ma c’è sempre anche insieme una crescita progressiva che va avanti e ci sono soprattutto dei gesti dentro questa progressione - questo essere tirati fuori dal deserto e condotti verso la Terra Promessa - che sono i gesti tipici della macrotimia, dell’amore. “Lo educò, ne ebbe cura, lo custodì”, vogliono esprimere un’attenzione alta. Tutto questo si configura con la bellissima metafora, ad indicare quello che è lo stare sulla stessa onda divina, sulla stessa ala di Dio e quindi con una caratura alta, una possibilità elevatissima. Non si tratta semplicemente di educare per fare cosette non troppo cattive o un poco belline, si tratta di essere portati sull’ala stessa di Dio. La macrotimia è questo. Ci viene consegnata, in questa educazione, la possibilità di educare come Dio educa, cioè di accogliere, di essere attenti all’altro come Dio stesso fa. È un’immagine altissima, vertiginosa, quella che appare in questo testo ed emerge anche la parte tutta nostra, tutta umana: “Il Signore lo guidò da solo, non c’era con lui un dio straniero” che significa affidamento incondizionato a Dio.
    Parliamo tutti di educazione dentro e fuori la Chiesa, ma come comunità credente talvolta abbiamo delle pedagogie così autoreferenziali, così poco evangelizzate che si nota immediatamente che cosa poi ne consegue.
    C’è uno stacco enorme da come Dio educa e come noi, come singoli e come comunità, come famiglie, come parrocchie educhiamo. Molti sfasci educativi, molti insuccessi nella nostra vita sono legati a questo non avere una familiarità con la pedagogia divina, avere altre pedagogie educative.
    E questo deturpa il vivere umano, il vivere cristiano. Non c’è nulla di più caro a Dio dell’umano e Dio educa l’umano attraverso la Scrittura.
    La Chiesa che venera questa Scrittura, che bacia questa Scrittura, che tutti i giorni ascolta questa Parola nella liturgia, nella preghiera personale, effettivamente, fa questa “confessio fidei” nei riguardi di Dio che ci dona le modalità affinché l’umano sia bello, vivibile e abbia il sapore della verità. Questo è importante per molti di noi che fanno l’esperienza della frustrazione in educazione e nelle relazioni: la Parola di Dio contempla anche il fallimento, e dentro questa realtà che molto spesso sembra disastrosa si realizza quel “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”, come dice Paolo in Rm 8,28. Proprio nella Scrittura, questo elemento del fallimento non soltanto non è assente, ma in certi momenti è l’unica grande possibilità per fare un salto qualitativo all’interno della stessa vita.
    L’altro grande elemento che emerge da questo testo è il fatto che ogni qualvolta Dio educa, educa per liberare.
    Il Signore educa non solo per liberare da qualche cosa, ma sempre per qualcosa. Quando noi parliamo ai nostri giovani che non bisogna fare questo o che bisognerebbe fare quest’altro per cercare di liberarli da qualcosa, se manca una prospettiva di liberazione per qualcos’altro, comprendiamo che è impensabile che si muovano forze interiori decisive. Nella Scrittura, specificatamente nel Deuteronomio il movente educativo è la Terra Promessa.
    Questo è il grande elemento che spalanca gli orizzonti e apre a obiettivi concreti. Anche nell’accompagnamento educativo non si tratta di indicare semplicemente di non fare determinate cose, ma piuttosto di aprire orizzonti nuovi per proporre una libertà per qualcosa di nuovo. Il dramma dell’umano è che tante volte manca una progettualità e si rischia di desiderare le cipolle d’Egitto, i citrioli e le angurie - come dice la Scrittura -, perché quelle sono cose sicure, saziano quel poco che possono saziare, mentre il cammino verso la Terra Promessa e dentro il deserto, dove è necessario stringere i denti e fare una grande fatica, non è desiderabile e comprensibile.
    Vediamo alcune modalità educative attuate da Dio e rintracciabili nella Sacra Scrittura.

    2.1 Per educare il suo popolo Dio agisce dentro la realtà reale della storia, delle storie degli attori biblici, delle nostre singole storie

    Per educare il suo popolo Dio agisce dentro la realtà reale della storia e delle storie degli attori biblici. Questo è il primo grande elemento che noi possiamo avere sotto gli occhi. L’azione educativa di Dio a favore del suo popolo non è mai una realtà che cade dall’alto, ma è sempre una realtà che è inscritta dentro la storia. Il mistero dell’incarnazione è tutto qui: il Figlio di Dio non si è fatto angelo, ma si è fatto uomo, carne, Dio ha scelto di dirsi dentro la storia attraverso quella modalità che l’umano unicamente poteva comprendere in quanto umano. Un progetto, un intervento, più interventi di Dio a partire dalla storia. L’intervento, l’azione educativa di Dio ha questa caratteristica: è sommamente concreta perché parte dalla storia ed è inserita dentro la ferialità.
    La tragicità è quando l’umano tenta di essere garante di se stesso. Il garante dell’umano può essere solo il divino e il suo entrare dentro gli interstizi della storia può essere decifrato soltanto dal credente. Solo l’uomo di Dio può dire dove ci sono degli indizi della sua presenza, le sue orme, i segni del suo intervento; la differenza tra credente e non credente è proprio qui! Là dove sembra si stia vivendo una storia da buttare via, dove sembra che in qualche modo Dio sia morto o si sia dimenticato dell’uomo, o abbia altro da fare, il credente riesce a scoprire questi segni della presenza del Signore. Il Concilio Vaticano II nella “Dei Verbum” al cap. 1° e 2° ricorda che questo intervento salvifico - quando Dio si muove si muove solo per salvare, cioè per dare pienezza alla vita dell’umano (questo vuol dire salvare, avere relazione con lui vuol dire pienezza di vita) - lo fa attraverso gesti e parole; non semplicemente parole magiche, ma parole che diventano evento e che non fanno altro che dare luce, far brillare quelle parole. Questa economia della rivelazione, come dice il Concilio Vaticano II, è tutta inscritta sempre dentro la ferialità della vita e in questa Parola.
    Per il nostro discorso l’elemento importante è che Dio educa e agisce dentro la realtà reale, non in quella che noi vorremmo. Noi ci sogniamo in un modalità e situazioni che non esistono e dentro questo esercizio della fantasia non c’è la salvezza di Dio. Dov’è la salvezza di Dio? Nell’ “Io sono così”: questa è la buona notizia, la salvezza non è fuori delle nostre storie screpolate, slabrate, slavate, peccaminose, ma è proprio dentro; questa è la buona notizia che Dio fa salvezza a partire dalla realtà reale della nostra esistenza. Parole e azioni, promesse e adempimenti fanno questa economia di salvezza. Saltare, come educatori, questo elemento ci metterebbe con le spalle al muro. Il primo dato per poter educare è guardare la realtà così come è. Senza questo elemento è impensabile avere il polso della situazione, fare qualsiasi intervento educativo. Il principio della realtà così come viene fuori nella Scrittura è un fattore educativo di principale importanza, ogni volta che viene disatteso abbiamo dei grandi pasticci perché si cammina per principi astratti, se non per ideologie.
    Dio parte dalla storia concreta delle persone, incarnandosi dentro la storia da Abramo in avanti e fino alla Chiesa, fino a noi. Così Dio sta attento a tutte le esigenze dell’umano. Nel deserto la gente ha fame, Dio non dà idee, ma risponde a partire dalla situazione che il popolo sta vivendo, dalla realtà della fame e della sete. Dentro la Parola noi troviamo sempre questo principio e ogni pagina della Scrittura può essere interpretata proprio con questo atteggiamento: “dentro la storia” Dio opera la salvezza. Altro che educazione irreale, idealistica o virtuale, la salvezza di Dio ci raggiunge nella povertà in cui noi siamo, nella cicatrice del nostro peccato. Dio ci aspetta lì per fare salvezza.
    Noi vorremmo la nostra immagine lucidata, presentabile, bella, ecco perché non piangiamo, come dicono i mistici, perché abbiamo “ferito l’Amore”, ma perché si è frantumata l’immagine di noi stessi; è questo che ci fa un male da morire. Invece di preoccuparci perché l’Amore non è amato ed è stata ferita la relazione con Dio, piangiamo perché si è frantumata la nostra immagine, andata in frantumi come un idolo spappolato.
    La salvezza che Dio ci porta è una grande possibilità educativa per tutto il nostro essere.

    2.2 Per educare il suo popolo Dio parla e si espone. Svela il suo Nome

    Per educare il suo popolo Dio si dice, parla, si espone. C’è un’estroflessione del divino, che non tiene per se la sua identità.
    Mosè disse a Dio: “Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”.
    E io che cosa risponderò loro?”. Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono!”. E aggiunse: “Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi”“. Dio disse ancora a Mosè: “Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione. (Es 3,13-15) In questo testo ci viene detto che Dio dice il proprio nome. È un’espressione che bisogna cogliere nella sua verità. È evidente che nel mondo semitico chi non ha un nome, non ha identità, cioè non esiste e d’altra parte Mosè a questo punto, quando Dio gli dice vai dal mio popolo e dì che io ti ho mandato gli risponde: “Qual è il tuo nome perché io in qualche modo possa raccontare questo nome?”. Se da una parte non avere il nome vuol dire non avere identità, dall’altra averlo vuol dire avere potere. Conoscere il nome vuol dire manipolare, per questo il nome di Dio non può stare in nessuna di queste situazioni. Il testo brevemente dice così: ehejeh aser’ ehjeh. In ebraico, questa è un’espressione molto particolare. La possiamo tradurre così: “Tu dì ad Israele che io sono colui che sono”, ma che può essere tradotto anche “io sarò sempre quello che sono, io sono quello che sono sempre stato.” È un verbo ebraico, l’iktòl che si può tradurre al presente, al passato e al futuro. Ecco perché l’espressione che noi traduciamo: “Io sono colui che sono” dice una parte soltanto di questa realtà.
    Che cosa significa questa consegna che viene fatta da Dio a Mosè in questa rivelazione del nome? “Io sono, io sarò quello che sono” non vuol definire il nome di Dio per dire che c’è; perché il problema non era tanto l’esserci o il non esserci ma il come esserci. Dio sta dicendo a Mosè che sarà, per il popolo, sempre il liberatore. Non c’è da avere paura perché Lui c’è, ci sarà come c’è sempre stato. La sofferenza del popolo non è indifferente a Dio e Lui sarà per il popolo il goel, come il liberatore. Questo è il segreto di questo testo. Il problema non è tanto Dio esiste, ma il fatto che Dio esiste come liberatore per Israele, come Dio vicino, come colui che si prende cura, che diventa attento e pone dei gesti affinché Israele faccia sempre l’esperienza della liberazione.
    Quello che avverrà al Sinai fondamentalmente è questo: il dono della Parola.
    Israele è stato appena tirato fuori, liberato dalla casa delle schiavitù e ora gli viene fatto dono di quelli che noi comunemente chiamiamo “i dieci comandamenti” e che sarebbe meglio chiamare “Le 10 parole”. Il testo inizia così: “Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla casa delle schiavitù” e poi vengono pronunciate le 10 Parole. A Israele, in quel momento, viene detto che sta facendo l’esperienza della liberazione e che l’accoglienza delle dieci parole non è altro che la grande possibilità di essere tratti sempre, comunque, in ogni storia e in ogni tempo, fuori dalla casa delle schiavitù. La Parola si presenta come la grande possibilità di liberazione, Dio che parla, si dice e dicendosi educa.
    Ora un altro testo significativo: Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza. Ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore e avverrà in quel giorno, oracolo del Signore, io risponderò al cielo ed esso risponderà alla terra, la terra risponderà al grano, al vino nuovo e all’olio e questi risponderanno a Izreèl. (Os 2, 21-25) In questo testo si richiama la realtà della dote. Sposarsi, anche per noi, ancora fino a non molto tempo fa, implicava il portare la dote. Per avere in sposa Israele Dio porta una dote che è una dote specialissima, che nel testo è presentata attraverso quattro espressioni che, non tenendo conto dell’originale e del contesto, potrebbero sembrare un po’ lontane.
    Dio chiede di sposare Gomer che fa e ha fatto figli di prostituzione. Dio sta dicendo attraverso la storia del profeta che comunque sia la dote che Dio paga per avere Israele è una dote altissima, importantissima. Israele non è fedele tanto è vero che in Os 13,3 si dice che “come nube del mattino, come rugiada che all’alba svanisce, come pula lanciata lontana dall’aia, come fumo che esce dalla finestra”, cioè è una realtà inconsistente, che è poi la nostra realtà di persone umane. La prima cosa che Dio porta è il diritto, la giustizia, la benevolenza e questa fedeltà amorosa. Nel testo il termine è “hesed”, un’espressione ebraica che ha necessità di molti sinonimi italiani per essere compresa. Chi, in qualche modo, tira fuori Israele da una situazione di infedeltà attraverso un cammino educativo, pedagogico è Dio stesso.
    Il diritto è la grande possibilità, Geremia userà l’espressione (Ger 31,33): “ Scriverò nel loro animo la Torà, scriverò nel loro cuore la Parola perché la possano vivere dal di dentro”. Il diritto che Dio porta ad Israele è vivere il progetto umano come l’ha pensato Dio. Il secondo elemento della dote è la giustizia, cioè la capacità di valutare dal di dentro le relazioni: quali sono e come vivere. La benevolenza è il terzo elemento della dote: la capacità, soltanto divina, di commuoversi, di essere colpiti alle viscere nella relazione, cioè di prendersi cura dell’altro mettendosi nella pelle altrui.
    Che cos’è infatti l’incarnazione se non l’empatia portata al massimo livello? Dio non si mette soltanto nella nostra pelle, ma nella nostra carne.
    Questa dotazione offerta ad Israele offre qualcosa che il popolo non ha.
    Non ha il diritto, cioè la possibilità interna di vivere la Parola e quindi di vivere l’umano secondo il progetto di Dio; non ha la giustizia, il rispettare le diversità, le alterità; non ha la benevolenza, cioè la capacità di commuoversi, di prendersi cura delle persone e quindi di Dio stesso. Israele è infedele e l’ultimo tratto che Dio porta in dote è quella che possiamo chiamare una “fedeltà amorosa”, fedeltà che molto spesso l’umano desidera mettere in atto, ma non può, non riesce. Questo hesed divino che cos’è? Indico quali potrebbe essere i sinonimi: misericordia, amore, fedeltà, tenerezza, cura, benevolenza, lealtà, benignità, clemenza, pietà, grazia, bellezza, gentilezza, elezione, perseveranza nel patto anche quando l’altra parte non riesce ad essere fedele. Per raccontarci questa dotazione Dio affida ad Osea il compito di spendersi in prima persona, di essere lui stesso segno del compromettersi di Dio per il suo popolo.
    Ogni fatto educativo che non chiama in prima linea la persona perché giochi se stessa, per dare se stessa, non può produrre frutti. Troppo spesso educando diamo idee, indicazioni, come si fa e come non si fa, ma non diamo la cosa più importante: noi stessi. Ciò che avviene nella Scrittura è questo: Dio dice il suo nome, Dio per Israele una dote che solo Lui può permettersi.
    All’umano che viene educato a vivere questa relazione Dio non dà semplicemente manna, quaglie, acqua – certo anche queste, perché Dio coglie la persona in ogni situazione dentro la storia - ma offre soprattutto se stesso, la sua persona.

    2.3 Per educare il suo popolo Dio si inserisce nella storia e nelle storie in modo graduale, rispettoso, progressivo

    Don Bosco diceva che non esiste una persona che in qualche modo non abbia uno spazio accessibile al bene, bisogna trovarlo ma c’è! Quello che Dio fa, proprio perché conosce il cuore umano, è trovare questo punto, questa sintonia. Lo fa in modo graduale, non programmando a tavolino, ma partendo innanzitutto dal punto di vista dove la persona si trova. E’ l’episodio descritto da Dt 32,10, dove abbiamo visto che il popolo si trova in una landa di ululati solitari. Occorre, nel fatto educativo, sempre rendersi conto dove il soggetto si trova, non dove dovrebbe trovarsi, o dove noi vorremmo si trovasse.
    Nell’atteggiamento divino, proprio perché Dio conosce il cuore umano, c’è un amore induttivo, partendo dalla verità della persona. Dio non costruisce sopra la persona una struttura, ma facendosi attento, avendo cura, mettendosi accanto all’umano con l’hesed, allora si può prendere il lusso di partire dal di dentro.
    In una relazione, un conto è amare l’altro in modo induttivo, cioè come l’altro può capire che io lo sto amando, un conto è mettersi davanti all’altro e dire: “Io amo così! Se ti va bene, bene, sennò attaccati al tram!”.
    Può amare in modo induttivo solo chi si fa attento all’altro, chi si prende cura dell’altro, chi paga per l’altro. In questo modo c’è una possibilità che noi scopriamo l’atteggiamento divino come starter di ogni processo educativo.
    C’è quella domanda che noi troviamo in Genesi 3,9 (non a caso): “Adamo dove sei?” è Dio che rivolge all’uomo questo quesito! La prima domanda sul posizionamento dell’umano è fatta da Dio; noi diciamo di essere alla ricerca di Dio, ma prima ancora è Dio che va alla ricerca dell’umano, in un partenariato cercato con tutte le forze. La domanda di Dio ha la profondità di chi chiede quale sia la situazione reale, tanto è vero che Adamo prende coscienza, apre gli occhi e scopre di essere nudo. Questo atteggiamento divino si rende sempre presente in ogni pagina della Bibbia: dove si trova il mio popolo in questo momento? Dove si trova questo gruppo, questa comunità, questa persona, questa situazione? Che cammino hanno fatto? Che cammino stanno facendo? Cosa c’è alle spalle? Siamo all’ABC! Questa mappatura biografica - quella che Dio fa continuamente con ciascuno di noi - soprattutto questa macrotimia che Dio ha nei nostri riguardi e questa benevolenza assoluta e non condizionata del nostro valore, permette a Dio di entrare in sintonia con noi nel momento storico in cui ci troviamo e quindi di fare un cammino graduale e progressivo. Definire con amore e con attenzione il punto di partenza è sempre il primo passo perché un cammino educativo diventi un cammino rispettoso della gradualità delle biografie singole. Quello che noi a volte viviamo è il peccato di intempestività, intervenire nelle vite altrui in modalità che sono smentite continuamente da ogni pagina biblica. Ricordate ad esempio l’indemoniato guarito che desidera stare con Gesù e continuare il cammino: Gesù dice: “Vai e torna a casa tua e racconta ciò che il Signore ti ha fatto!” (Mc 5,19). All’altro che gli ha detto che ha vissuto la Parola fino a quel momento, chiede un’altra cosa: “Và, vendi, vieni e stai con me” (Mc 10, 21). Che Dio ha una specifica attenzione alla storia di ciascuno.
    L’educazione può diventare estremamente problematico quando noi buttiamo addosso a persone o a gruppi, consigli, suggerimenti, norme morali: un tutto che non è assimilabile perché è intempestivo, non è graduale, non è rispettoso.
    Questo atteggiamento crea una confusione incredibile nelle persone che, sentendosi assolutamente impari alle proposte fatte, mollano tutto quanto. L’ottimo è nemico del bene, sempre! C’è una gradualità, e noi grazie a Dio gustiamo la salvezza perché c’è sempre questo atteggiamento di vicinanza graduale e induttiva.
    Agire con gradualità significa avere un orizzonte spalancato e chi educa dovrebbe in fondo avere idee per lo meno poco confuse se non chiarissime; sapere che ci sono elementi a medio raggio, a vasto raggio, a raggio brevissimo e accompagnare le persone sapendo qual è il passo successivo da compiere. Questo atteggiamento importante, che emerge dalla Scrittura, diventa particolarmente bello quando emerge una chiamata di Dio verso qualche cosa che trascende la persona. L’uomo è tale solo quando si auto trascende, quando viene fuori da sé e si impegna per altri e per altro. Qui c’è tutto il senso dell’esistere. Gesù lo dice in altre parole: “Chi stringe a sé la propria vita la perde, chi la dà ne trova il senso”. La vita ha una sua sensatezza nell’auto-trascendenza. C’è sempre una possibilità in più, una finestra altra da aprire, ci sono sempre spazi ulteriori da spalancare.
    Senza questo il fatto educativo diventa ideologico e si fanno dei soldatini di piombo che durano quanto possono durare. Proporre itinerari significa essenzialmente stimolare dal di dentro la persona verso qualcosa di ulteriore. Non possiamo non pensare al vangelo di Marco, scritto da un punto di vista catechetico, come l’itinerario dei dodici, dei primi discepoli e dove, dalla prima all’ultima pagina, c’è questo atteggiamento educativo-progressivo che il Signore mantiene con chi gli sta vicino.
    Il momento di partenza è quando Gesù trova i futuri discepoli sulle sponde del lago dove parlano di pesci, di reti, di barche, di tempesta; in quella situazione concreta c’è in loro una certa attesa di salvezza, ma nulla è chiaro. L’espressione: “Vi farò pescatori di uomini”, in quel contesto, vuol dire tutto e non vuol dire niente; ma è lì che inizia tutto il percorso catechetico del vangelo di Marco, che porta i chiamati – nella libertà - a diventare quello per cui sono chiamati.

    2.4 Per educare il suo popolo Dio è sempre attento a mantenere congiunto il binomio (inscindibile!) singolo-comunità

    In tutta la Scrittura troviamo la persona nella sua unicità inscritta dentro un popolo, una comunità. Tutte le singole persone sono educate, amate, accompagnate nella loro individualità, nella loro unicità. Ad ognuna di queste persone viene attribuito un assoluto valore, che non può essere toccato, che non è semplicemente l’emergere del singolo, l’individualità portata al suo massimo splendore, ma è sempre correlata a relazioni, a un popolo e a una comunità. La maturità di ciascuno non si attua se non nella maturazione dell’intera comunità, così come lo sviluppo della comunità, comprende e presuppone sempre la bellezza e la verità del singolo.
    Questi due aspetti nei testi biblici non si possono scindere, come è importante ricordare che il fatto educativo divino è tutto attento all’unicità della persona, colta in situazione e sempre in qualche modo correlata a tutta la comunità, a tutte le persone. Il Salmo 50 dice nel primo versetto: “Pietà di me o Dio secondo la tua misericordia”, mentre nel versetto 20 si afferma: “Nel tuo amore fa grazia a Sion, rialza le mura di Gerusalemme”.
    Una comunità è costituita e continuamente si rinnova con individui che vivono la propria unicità e che crescendo portano a piena vitalità la comunità stessa. Dio che è educatore di ciascuno, di ogni persona che viene su questa terra è sempre inserito in un popolo.
    Nel rito dell’ordinazione presbiterale il Vescovo pone delle domande a colui che viene ordinato, domande che chiamano in causa la persona chiamata ma che coinvolgono sempre il popolo di Dio e l’assemblea cristiana.
    Così ogni vocazione nella Bibbia non è mai per se stessa e ogni chiamato è sempre per gli altri; non è per celebrare se stessi, ma sempre per la vita degli altri, pochi chiamati, ma sempre chiamati per tutti.
    Questo dimostra il senso profondo di questo binomio inscindibile personacomunità, che Dio non vuole mai scindere. Nel campo educativo molte conflittualità nascono proprio dalla scorporazione di questo binomio: avviene che tutto allora è sul versante della comunità, e qui abbiamo i Kibbutz, oppure abbiamo forme di prime donne vaganti o di primi uomini vaganti, persone che vogliono stare sotto i riflettori ma che non fanno però la verità in se stessi. L’essere profondo è invece sempre un’unicità relazionata.

    2.5 Per educare il suo popolo Dio indica conversione, salti di qualità, rotture

    Nella Scrittura il cammino che Dio propone ad Israele, alla Chiesa, ad ogni persona non è mai semplicemente un’evoluzione, una tranquilla successione di eventi. Ci sono dei momenti di rottura dove Dio richiama alla responsabilità e Gesù, proprio all’inizio del vangelo di Marco, dice: “Convertitevi e credete alla Buona Notizia”.
    In realtà noi pensiamo di poterci convertire a prescindere dal credere alla Buona Notizia. La mentalità farisaica che Gesù combatte – che alla fine non è lontana dalla nostra - è quella dove bisogna innanzitutto prepararsi per bene rifacendosi un pò il look, il maquillage della propria vita morale, relazionale, così che quando finalmente Dio vede che ci stiamo dando da fare per essere buoni, come premio ci salva. Gesù dice il perfetto contrario: che la salvezza è gratuita per tutti e la possibilità di essere incondizionatamente amati muove a dare una risposta responsabile e libera con la stessa caratura di amore. Questa è la Buona Notizia perché convertirsi senza credere ad essa non è possibile. E soltanto quando si è incondizionatamente amati è possibile dare una risposta equa all’amore di gratuità con il quale siamo amati, altrimenti non possiamo rimanere al passo di una proposta così impegnativa qual è la vita cristiana.
    Il convertirsi credendo prevede un inevitabile momento di rottura che certamente è salvifico e dove l’appello alla conversione può essere compreso in tutta la sua valenza. Sono necessari per questo dei salti di qualità, nel Vangelo di Marco c’è l’episodio (Mc 10,17-22) dove un uomo con molti beni, ricco, dice di aver già vissuto la Parola, di aver già vissuto i comandamenti, ma Gesù non gli dice: “Bravo, sono molto contento, continua così”, ma piuttosto: “Và, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri”.
    Gesù non si accontenta semplicemente di dire: “Si, hai fatto quello che dovevi fare!” ma gli apre una finestra nuova da spalancare, perché aprendola possa attuare la verità profonda di se stesso, l’auto-trascendenza, il venire fuori da sé e trovare il senso della vita. Gesù osa anche davanti alla possibilità del rifiuto! Così Dio nella nostra vita, attraverso eventi fausti ed infausti, parla e opera salvezza.
    In questa dimensione è possibile capire il cammino educativo divino non come un cammino sempre lineare, ma con momenti di rottura. Vi sono spazi infatti in cui occorre de-cidere - decidere vuol dire tagliare – e dove il tratto qualitativo della vita richiede scelte decisive.
    La grande attenzione che Dio ha verso l’umano si fonda dalla conoscenza induttiva del cuore, la stessa che dovrebbe essere della comunità cristiana e di ogni educatore alla vita e alla fede.
    Nell’arte educativa è necessario saper cogliere la storia di chi si educa facendo discernimento dei tempi di rottura e di quelli in cui è necessario semplicemente che la Grazia venga accolta e percepita gratuitamente. La familiarità con la Scrittura ci porta a renderci conto che l’amore non ha mai lo stesso linguaggio.
    Al bambino che sta camminando sul burrone il papà non dà una carezza, ma uno strattone. L’amore non è sempre un bacio, ma anche fermezza, portare alla verità la persona facendogli prendere coscienza della responsabilità delle risposte e della irresponsabilità delle non risposte. È con questa fermezza che la qualità della vita fa un salto o si mortifica.
    Qui la comunità credente e l’educatore deve poter saper gestire questo atteggiamento, cogliere questa diversità.

    2.6 Per educare il suo popolo Dio mira ad una piena liberazione dell’umano.
    La libertà è il sogno sognato da Dio per il suo popolo.

    La libertà è il sogno di Dio per il suo popolo. Ogni gesto educativo da parte di Dio ha come mira questa realtà, che è il tratto che ci accomuna al divino: quello della libertà e quello del poter scegliere. Educare come Dio educa, a partire dal momento storico, diventa un progetto. San Paolo lo chiama “misterion”, quello cioè che era nascosto nei secoli in Dio e che nella persona umana di Gesù - progetto di umanità e bellezza unica - viene espresso definitivamente.
    Dio non educa con interventi sporadici, in modo sconnesso e saltuario.
    Nella liturgia facciamo esperienza, attraverso liturgia della Parola, di questo continuo ascolto della Parola di Dio che non è legato all’umore di chi celebra, ma è cadenzato da un calendario universale. Dentro questa mensa che è questo grande itinerario saziativo per la vita - “Lampada ai miei passi è la tua Parola” - la comunità viene rifatta dentro un itinerario. Ecco perché per cambiare le letture ci sono delle norme molte severe e dei casi contemplati dalla liturgia.
    C’è una mensa sempre preparata, la mensa della Parola e la mensa dell’Eucaristia. Dentro questo itinerario noi percepiamo che “Dio educa a progetto”, potremo dire che anche Dio - come oggi si dice -, lavora a progetti. Quello che noi intravvediamo dentro le linee della Scrittura è quest’azione mirata, anche se non sempre immediatamente facile da cogliere, che non si può chiudere in schemi pre-confezionati, in dei cliché. Nel libro dei Giudici Israele grida e Dio fa nascere dall’interno del popolo i Giudici che danno una risposta salvifica; questo si ripete continuamente perché è uno schema di vita. Questa è la progettualità che Dio realizza, che parte dal cuore e dalla conoscenza delle persone. In Ef. 1,5-10 ci viene detto che il sogno di Dio è “renderci santi ed immacolati al suo cospetto nell’amore, a lode e gloria della sua grazia, della sua gratuità, per ricapitolare in Cristo tutte le cose quelle del cielo come quelle della terra”. In Ef. 4,13 si aggiunge che si tratta di “giungere tutti all’unità, un cuore solo ed un’anima sola, e alla conoscenza del Figlio di Dio allo stato di uomo perfetto, di persona umana ben riuscita”.
    Chiamo ora in causa i primi 12 capitoli di Genesi. Si inizia splendidamente e subito c’è uno scacco: l’umano diventa irresponsabile. Dio non si ferma di fronte a questa irresponsabilità e quella che viene chiamata la creazione della persona umana e il peccato originale. Sono capitoli che dimostrano quanto a Dio stia a cuore non tanto non peccare, quanto poter ripartire continuamente. Con lui presente è possibile andare di inizio in inizio. Voi pensate alla tragedia di Caino e Abele ed è terribile quello che avviene, ma chi diventa il garante di Caino che ha fatto fuori Abele il giusto? Dio stesso. “Nessuno tocchi Caino”. L’umanità viene rilanciata dentro la storia, con quello che l’umanità in quel momento poteva esprimere.
    Dio si allea anche con questa realtà estremamente povera, su cui nessuno avrebbe scommesso un centesimo. Per Dio quella è l’umanità che deve andare avanti, l’umanità disponibile, e l’umanità infatti riparte da Caino e così via. Se leggiamo con questo filo rosso i primi dodici capitoli di Genesi ci rendiamo conto quale sia la passione che Dio ha per l’umano. C’è un commento bellissimo, un midrash, dove Dio viene presentato seduto sul trono, con tutte le schiere angeliche intorno. Tutti stanno parlando della decisione di Dio di creare questa cosa strana che è l’umano. Le schiere angeliche che incominciano a disquisire si dividono in chi è pro life e l’altra parte, invece, che è contraria. Le schiere angeliche alla fine invece di disquisire soltanto arrivano a bisticciare ma girandosi colgono Dio in flagrante, che dice loro: “Mentre voi stavate bisticciando io ho fatto la persona umana”. Come a dire l’assoluta volontà di Dio di avere come partner l’umano.
    Il mistero dell’incarnazione arriva da lontano e ci offre tante prospettive di lavoro. Chiunque delinea progetti è importante che lo faccia senza rigidità, maturando un’attenzione continua alle persone, indicando non tanto obiettivi geometrici quanto delle mete, dove si rispettano i tempi di ognuno e si accettano le ferite che ne conseguono.
    Il progetto di Dio è un progetto sempre teso alla libertà e questo orizzonte è determinante per l’umano, Dio non vuole accoliti obbligati, persone che per forza, in qualche modo, facciano determinate cose, ma che in questi itinerari di vita e di crescita arrivino a scelte libere e responsabili. Il cammino educativo che Dio fa percorrere alla persona umana ha come meta la libertà. E la tentazione da vincere è quello del desiderio della casa della schiavitù. C’è un testo francese uscito negli anni ’60, un commento all’Esodo, intitolato così: “Dalla schiavitù al servizio”. Per entrare nel servizio divino, cioè vivere un’umanità come Dio l’ha pensata, bisogna essere tratti fuori dalla casa delle schiavitù, perché essere liberi è compiere ciò per cui noi siamo stati pensati.
    Questa è la libertà! E’ necessario non fare allora quello che è suggerito dall’intuizione del momento, ma vivere per quello che noi siamo stati chiamati ad essere. Questo vuol anche amore di gratuità, perché se è vero che noi parliamo molto spesso di amore, il volto guarito dell’amore è solo la gratuità.

    2.7 Per educare il suo popolo Dio è energico e corregge: la sua è una “gelosia bruciante” (cf Es 20,5; 34,14; Is 51,11).
    È un Dio Buono, non un… buon Dio

    Dio viene chiamato, chiama se stesso “il geloso” perché brucia di gelosia per l’umano. Dio dice ad ogni eletto: “Io per te non posso dare e avere nulla in cambio, tu sei insostituibile” questa è l’elezione. Questo elemento primordiale sta alla base anche degli interventi correttivi del divino nelle pagine bibliche, facendoci capire che la bontà di Dio non significa né mollezza, né accondiscendenza, soprattutto quando viene corrosa la verità della persona umana. Il mistero dell’incarnazione ci dice che è la passione che Dio ha per l’umano che lo porta a correggerlo energicamente e che parte dal desiderio che la persona viva bene e porti molto frutto.
    Spesso, pensando ai giovani, si fa il discorso sul “fare delle esperienze”.
    Noi sappiamo che le esperienze non sono neutre, la vita di una persona umana non è un file dove si possono infilare tante realtà, noi sappiamo cosa vuol dire fare un’esperienza di un certo tipo o non fare un’esperienza di un certo tipo. È difficile fare discernimento, però è necessario come comunità educante, come genitori, come educatori alla vita e alla fede non permettere tutte le esperienze.
    Un testo, per concludere, che riprende un brano dell’ultima delle sette lettere che vengono scritte nell’Apocalisse alle Chiese, indirizzato all’angelo di Laudicea. Il vescovo di quella comunità cristiana si sente dire: Conosco le tue opere, tu non sei né freddo né caldo! Magari tu fossi freddo o caldo, ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo, né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. (Ap 3,19) Un distacco radicale, violento e schifoso. Con l’esposizione delle ragioni di questa tiepidezza che viene colta come indifferenza all’amore; tiepidezza del responsabile e di tutta la comunità di Laudicea, che viene rilevata e denunciata.
    Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo, mostrati dunque zelante e ravvediti. (Ap 3, 19).
    La radice da cui nasce questo intervento duro, correttivo, è questa: il vescovo e la comunità sono così care che interviene il Vivente, il Veniente.
    Quando si ama poco, non si sa rimproverare davvero, ci si lamenta, si bofonchia, si diventa acidi, pungenti, si fanno delle sparate, si punisce con il silenzio togliendo la parola o facendo altri gesti di recriminazione.
    Il rimprovero, cioè l’intervenire con parresia, con verità, se lo può permettere solo chi ama molto, solo chi induttivamente sa che cosa l’altro può percepire come intervento correttivo. Il cuore fiacco che non ama, non può permettersi nessun tipo di correzione, ecco perché probabilmente è il poco amore che non ci fa correggere reciprocamente o non ci aiuta a correggere chi dobbiamo educare. Allora rimproverare non è semplicemente sbattere in faccia alla persona le presunte colpe, dicendo: “Io ti ho detto quello che ti dovevo dire”, quanto piuttosto dovrebbe essere un intervento dettato da questa attenzione, da questa cura, dall’amare induttivamente l’altro. E così che l’intervento diventa persuasivo, perché c’è l’autorevolezza dell’amore.


    NEI TRATTI UMANI DI GESÙ IL PADRE CI EDUCA

    “Devi più deferenza e amore al tuo morè (chi ti educa)
    che al tuo horè (chi ti genera biologicamente) (TB Sanhedrin 19b)

    Il percorso che avviamo credo risulterà ancora più attinente, più focalizzate per quello che è il nostro tema: come Dio educa il suo popolo nella Persona, quindi, nella Parola, nei gesti, nei sentimenti, nelle relazioni che vive Gesù. Possiamo immediatamente sottolineare quanto Gesù sia dentro questo disvelamento del Padre. Tutto quello che era stato detto per enigmata nel primo Testamento, in Gesù diventa una estroflessione, una “extasis”, cioè una fuoriuscita totale dal Padre: con lui noi conosciamo il volto di Dio. Nella persona di Gesù di Nazareth noi possiamo dire come Dio è e come ci educa. Chi educa ha una identità; noi arriviamo a questa identità attraverso quelle che la Scrittura chiama le “eduiot” cioè le testimonianze. Dio da delle testimonianze di sé dentro la storia e la testimonianza delle testimonianze è proprio Gesù di Nazareth.

    1. L’identità delle persone che Gesù chiama ci svela l’incondizionatezza dell’amore del Padre

    Nell’atto stesso del chiamare qualcuno Gesù, così com’è, dice in fondo quello che porta in cuore: la cura, l’accoglienza, la selezione o non selezione di coloro che sta chiamando per una cosa grandiosa, il discepolato, quindi la presenza storica di Gesù che continua nel tempo.
    Ma, qual è l’identità di questi chiamati? Scopriremo che dietro i nomi di quelli che conosciamo dai Vangeli, ci siamo noi, ci sono le nostre personalità.
    La prima cosa da dire è che coloro che vengono chiamati sono persone comunissime, che stanno lì, dentro la vita, corrono dentro la loro storia, vanno avanti vivendo le loro realtà. Nulla di più. All’inizio del Vangelo di Marco ci rendiamo conto che la vita di queste persone non si incrocia per caso con quella di Gesù, ma proprio lui si fa vicino al loro luogo abitativo e lavorativo. Gesù, ad esempio, li incontra sulla spiaggia del lago e parla con loro di pesce, di reti e di tutto ciò che, in qualche modo, potesse interessare questa gente.
    Chi chiama? Pietro è un uomo molto generoso, entusiasta, che molto spesso, torna indietro nella passione e nell’amore che ha verso Gesù. Eppure, stranamente, proprio Pietro viene nominato Papa da Gesù. Al contrario di Giovanni, che pure è stato ai piedi della croce senza mai tradire.
    Il difetto di è quello di presumere di conoscere bene sé stesso e soprattutto di conoscere bene Gesù. Due episodi ci spiegano la presunzione pietrina: sul Tabor dice a Gesù: “Beh, ascolta, tu fai benissimo il Messia , parli bene, convinci bene, però, alle cose pratiche del regno, lascia fare, ci penso io! Tre tende, sistemiamo tutto…”; e poi l’altro passaggio, che la dice lunga su Pietro e che riguarda il momento in cui Gesù punta decisamente verso Gerusalemme: Pietro lo chiama e gli dice: “Signore, ma se tu dici una cosa del genere va tutto in malora e soprattutto questa struttura di cui io sono il primo!”. E Gesù gli risponde: “Se vuoi capire fai sequela, mettiti nei miei passi e cammina con me, dietro me”.
    Giacomo e Giovanni sono persone, ci dice il Vangelo di Marco al capitolo 10, disposte a soffrire con Gesù, ma anche persone “violente” (Lc 9,54). Proprio in Giovanni, che identifichiamo come discepolo dell’amore, compare questa “violenza”. Con Giacomo, suo fratello, vengono soprannominati da Gesù Boanerghes, “figli del tuono”: evidentemente avevano nel proprio carattere qualche tratto da contenere. D’altra parte, camminando in Samaria, quando non vengono accolti, cosa dice l’amorevolissimo Giovanni a Gesù? “Facciamo scendere un po’ di fuoco su questa gente, così vedono chi comanda?”.
    Filippo aveva la caratteristica di essere un tramite eccezionale tra le persone e Gesù (capitolo primo del Vangelo di Giovanni). All’opposto, non possedeva alcun senso pratico, come risulta quando si perde cercando qualcosa da mangiare alla vista della folla (Gv 6). Certo non poteva essere un buon economo, non era una persona pratica; aveva altre qualità, ma questa proprio no. Addirittura una volta Gesù con Filippo perde la pazienza: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai ancora conosciuto, Filippo! Cosa stai aspettando ad aprire gli occhi?” (Gv 14,9).
    Andrea, invece, si presenta nei Vangeli come una persona che sa “trafficare”, una persona pratica. È lui, tra l’altro, che trova il ragazzotto che, previdentemente, si era portato da casa qualcosa da mangiare: i cinque pani e due pesci (Gv 6, 8-9). Filippo si rivolge ad Andrea anche per risolvere quel caso dei greci che volevano vedere Gesù (Gv 12). Andrea è una persona capace di creare relazioni e di mettere insieme pezzi di realtà molto differenti e, per questo, viene chiamato.
    Tommaso sostiene le proprie ragioni con una certa pervicacia. Per tutta una settimana, tutti gli altri gli dicevano: “Guarda che non è come dici tu, perché noi abbiamo visto e abbiamo toccato” ma dovrà passare una settimana intera perché, anche lui, vedendo e toccando, riesca ad entrare in una dimensione differente (Gv 20).
    Natanaele si presenta come una persona di grande sapienza. Di lui Gesù dice una cosa bellissima: “In Israele non c’è una persona così limpida e così trasparente come lui. Eppure è un grande campanilista. Dice ad esempio: “Ma da Nazareth può venire fuori qualche cosa di bello? Qualche cosa di buono?...”. No, evidentemente, per lui! Matteo era un pubblicano, cioè un collaborazionista, con una caratura di peccato sociale altissima, riconosciuta dai suoi correligionari (Mt 9). Della sua vita poco conosciamo ma sappiamo ciò che riesce a mettere in atto nel suo essere prima Levi e, poi, come Matteo. Matteo, Mattaion vuol dire dono di Dio. Gli esclusi sono tutti, appunto, dei Matteo, doni di Dio per la comunità. Levi non aveva nessun tipo di credibilità, Matteo viene riconosciuto dalla gente, dagli stessi discepoli, dai benpensanti, dai farisei, come dono di Dio. Lo stesso per tutti gli esclusi che, considerati gente del tutto periferica, diventano dei “Matteo”, dei doni di Dio. Perché Dio visita sempre attraverso realtà impensate, impensabili e così costruisce la sua comunità.
    Simone in Lc 6,15, viene identificato come uno zelota, tipo un brigatista, uno che faceva parte di quel movimento popolare degli indignati che si opponevano alla dominazione romana. Questo appellativo è dunque eloquente, evidentemente non era cugino di Santa Maria Goretti... .
    Giuda aveva i soldi del gruppo. I soldi, come ci ricorda la Scrittura, quando trattati nel modo sbagliato, sono la radice di ogni peccato. Settant’anni dopo il suo tradimento, alla fine I secolo, nel quarto Vangelo lui viene indicato ancora come il ladro. Ma, certamente, non possiamo dire che Gesù non sapesse chi aveva chiamato. Potremo dire che dopo questo episodio, qualche errore a livello di discernimento vocazionale è concesso anche a noi, dopo quello che è successo a Gesù. Meglio che non succeda, ma Gesù sa chi sta chiamando, lo sa perfettamente.
    Nicodemo è un uomo del sinedrio, quindi, potremo dire la corte suprema in Israele. Un uomo importante che accetta il messaggio di Gesù, ma che non ha il coraggio di manifestarlo apertamente e pubblicamente (Gv 3,1).
    E’, quindi, un cripto cristiano.
    Giovanna e Susanna. Giovanna era la sposa, ci dice il Vangelo di Luca 8, 2- 3, di Cusa, procuratore di Erode: siamo ai massimi livelli della corte, una frequentazione con una persona molto in alto. Insieme a Susanna, sono tra le donne che seguono Gesù come discepole e che “lo servivano con i loro beni”, dice il Vangelo.
    Maria Maddalena nata a Migdal, la città della torre, da cui deriva appunto Maddalena. Gesù la guarisce da una malattia, non si sa bene cosa (Lc 8,2).
    Fu certamente una delle grandi amiche di Gesù, insieme a Marta e Maria; quella, ci dice Marco, che rimase ai piedi della croce fino alla fine. Dopo la Pasqua diventerà l’apostola degli apostoli.
    Ecco dunque chi sceglie Gesù! Questi sono solo alcuni flash, ma, comunque, sufficienti. Le tipologie che raccogliamo dai Vangeli indicano persone semplici o altolocate, chi con istruzione e chi assolutamente senza alcuna istruzione; uomini e donne (cosa del tutto unica), padri e madri di famiglia, artigiani, pescatori, agricoltori, pubblicani e ladri, brigatisti e rivoluzionari. Interessante anche la tipologia dei ricchi con cui Gesù ha a che fare: Giovanna lo è, come pure Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea; Zaccheo è ricco e mascalzone. Questi incontri e queste tipologie rivelano che in Gesù non ci sono sezioni né categorie inavvicinabili, e così anche per la Chiesa. L’identità di queste persone, la loro personalità ci rivela che educativamente in Dio non c’è una selettività. Poi è evidente che non tutti avranno con Gesù il medesimo rapporto in comunità il medesimo servizio, ma tutti saranno accolti e tutti avranno un rapporto unico con la persona del Signore Gesù.

    2. La comunità che Gesù educa è inserita nella realtà ma alternativa

    Il dirsi di Dio dentro la storia avviene proprio dentro il solco e le pieghe della quotidianità, mai fuori. E l’incontro con le persone si concretizza nella storia reale che queste vivono. Un tratto caratteristico della comunità che Gesù educa è quello che essa è pienamente inserita dentro la storia: comunità che ha caratteristiche particolarissime e con un tipo di educazione che porrà lo stesso Gesù di fronte all’esperienza del fallimento.
    Ci sarà dopo, finalmente, l’evento della risurrezione e con esso la necessità “di avere colui che ricorderà ogni cosa”, quel Parakletos, Consolatore, che guarisce il cuore dalla paura e dall’incredulità e metterà la comunità impaurita fuori dalle mura del cenacolo. Ogni qualvolta c’è un incontro autentico con il Signore muta la vita. I tratti che indicherò, di questo mutamento, confermano che si tratta di un nuovo con-vivere umano realizzato con criteri tipici di Gesù, criteri che corrispondono alla com-unione della famiglia trinitaria. La Trinità solitamente viene pensata con la addizione: 1 + 1 + 1, essa, invece, è nell’ordine della moltiplicazione: 1x1x1. Cioè uno che vive per l’altro, in un circuito che non finisce più. L’Amore, l’Amato e l’Amante che, costantemente sono uno per l’altro.
    Trattarsi da fratelli (cf Mt 23,8-10) “Che nessuno - dice Gesù - prenda altre titolature, altre guide, perché uno solo è il vostro maestro: voi siete tutti fratelli”. E’ interessante che alla base della comunità di formazione non ci sia il sapere questa o quella cosa, né il potere o la gerarchia, bensì l’essere tutti fratelli. Questa è la connotazione di fondo dell’atto educativo di Gesù per creare questa comunità inserita nella storia, ma alternativa. Alternativa perchè segno capace di rimandare al Signore Gesù. Ciò vuol dire che venendo meno questi fattori viene meno la significatività della comunità. La missione qual è? “Da come vi amerete vi riconosceranno per miei”. Non sono parole, non sono pose, non sono strategie. Tutto queste cose servono, ma per qualificare ed esternare l’amore. Questa è la missione, questa è la Chiesa, questa è la vita della Chiesa! Uguaglianza tra uomo e donna (cf Mt 19,7-9); Oggi, in ambito di diritto, a noi sembra una cosa scontata, ma allora non lo era affatto. Gesù trasforma questo rapporto annullando tutta una serie di privilegi dell’uomo rispetto alla donna. Pensate a brano di Matteo 19, 7-12: avere tra coloro che lo seguono delle donne era un unicum.
    Una cosa ancora più eclatante emerge in Luca 10: quando Maria sta ai piedi di Gesù, Marta, reagendo così acida, non fa altro che riportare il pensiero comune dei discepoli e, probabilmente, di tutto il clan presente: “Invece di stare in cucina, cosa ci fa questa qui ai piedi del Maestro?”.
    Perché stare ai piedi del maestro era l’atteggiamento tipico dei discepoli maschi. Marta si rivolge non direttamente alla sorella dicendo: “Vieni ad aiutarmi”, ma a Gesù, perché in lui individua colui che ha fatto saltare i parametri di una realtà che non doveva essere saltata.
    Condivisione reale dei beni (cf Mc 10,28) Nessuno possedeva alcunché di proprio. Gesù non aveva dove posare il capo (Mt 8,20) e la cassa comune era condivisa con i poveri. Che poi Giuda se ne servisse per le sue spese minute, per i minuti piaceri, è un altro conto, ma la cassa era oggetto di condivisione (Gv 13, 29). Come anche in tutti i viaggi, colui che viene inviato da Gesù conta sull’accoglienza della gente e vive di quello che riceve (Lc 10,7).
    Amici e non servi (cf Gv 15,159) E’ un tratto educativo molto importante, che fa la verità della vita cristiana.
    La condivisione può iniziare anche dai beni materiali ma arriva sempre, e se non arriva non è vera condivisione, a co-involgere cuore e anima, il fulcro infuocato della persona. “Non vi chiamo più servi perché vi ho detto tutto quello che ho udito dal Padre” (Gv 15,15).
    Il potere è servizio (cf Lc 22,25-26) L’episodio lo conosciamo: stanno camminando per strada quando Gesù sente un tipo di discorso abbastanza comune, un discorso che facciamo anche tra noi: chi comanda di più, chi è il più bello, chi vale di più, chi è più in alto, chi è più in basso. Questo, tradotto in molte espressioni, è quello che ci diciamo continuamente in diocesi, nelle parrocchie, nelle famiglie, in ufficio, dappertutto. Sentendo i due, tra l’altro, Gesù non fa finta di non aver sentito, facendo il politicamente corretto e continuando a camminare.
    No! “Di che cosa stavate parlando?”. Perché ciò che non è tirato fuori e non è posto alla luce della persona del Signore Gesù, non è sanato e questa questione del potere è quella che attanaglia sempre di più l’umano.
    Quello che non riceve la luce del Vangelo - ecco cosa vuol dire tematizzare realmente, portare davanti al Signore queste e tutte le altre realtà - produce la triste conseguenza che non venga guarito. Ecco perché Gesù chiede di parlarne. “I re delle nazioni le governano e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi non sia così” (Lc 22); “Chi vuole essere il primo tra voi, sarà il servo di tutti” (Mc 10,44). E ancora: “Il figlio dell’uomo non è venuto per essere servito ma per servire e dare la vita in riscatto di molto”(Gv 13), che è un semitismo che vuol dire di “tutti”.
    Gesù questo tratto lo fa emergere in un contesto molto chiaro. Nella lavanda dei piedi (che purtroppo liturgicamente abbiamo relegato a compimento dei chierichetti…), Gesù compie infatti un gesto di una portata incredibile nel particolare contesto del tradimento. Un contesto che vede l’evangelista Giovanni affermare che Gesù ha la exusia, il potere uguale a quello del Padre. Gesù come la usa? Come usa quel potere tanto desiderato dai discepoli? Si mette un grembiule e lava i piedi; dove il lavare i piedi non è altro che l’anticipazione profetica di quello che domani avverrà sul Calvario. Gesù dà la vita. Lavare i piedi vuol dire amare e offrire la propria vita, anche in un contesto di tradimento. Questa exusia non viene usata per scomparire, come fanno i maghi o per sottrarsi dall’avvenimento funesto o per incenerire Giuda, ma solo per amare, per dare la vita. Questa è la consegna alla comunità.

    Potere di perdonarsi e perdonare (cf Mt 18,18; Gv 20,23)
    In Mt 18 questo potere è dato all’intera comunità. Sacramentalmente viene consegnato a singole persone, ma è l’intera comunità ad essere perdonata ed è all’intera comunità che viene affidata questa unica realtà che appartiene a Dio. Ecco perché non basta il mio vedermi privatamente con il confessore: è la comunità che rigenera, ricrea e riaccoglie il peccatore.

    Pregare insieme (cf Mt 26,36-37; Mc 6,41; Lc 9,28; 24,30; Gv 2,13; 7,14; 10,22-23)
    Salire insieme al Tempio, pregare prima dei pasti, frequentare la sinagoga per ascoltare la Parola, ritirarsi di Gesù da solo o con i suoi in preghiera: tutti atteggiamenti tipici di questa comunità alternativa che Gesù crea.

    Gioia (cf Mt 5,11; Lc 6,20; 10,20-24; Gv 16,20-23)
    A discepoli che tornano tutti “gasati” dicendo: “tutti obbedivano alla potenza del nome di Gesù”, Lui risponde: “Si, mi fa molto piacere! Tra l’altro sapevo di avere un nome di questa portata, di questo peso ma voi rallegratevi soprattutto perché i vostri nomi sono scritti nel cielo”, che è un modo semitico per dire “vivete in Dio”, “siete cari a Dio”. Qui c’è il motivo della grande gioia che Gesù dice ai suoi: i vostri occhi vedono il compimento di quello che tanta gente, prima di voi, nelle aspettative e negli annunci profetici attendeva e non ha potuto vedere.

    3. Gesù è l’Amico che con-vivendo con i suoi dà una nuova forma attraverso la testimonianza coerente della sua vita. I Vangeli ci parlano di una umanissima persona, quella di Gesù, tanto umana come solo Dio può esserlo!

    Noi diciamo, in termini tecnici, che la Parola di Dio è pre-formativa, cioè dà forma. Lo stare con Gesù dà forma ad una nuovo stile di vita. La scelta che Gesù fa, appunto, non è quella di aprire una scuola vicino ad una bet midrash, ad una casa di studio o in qualsiasi altro luogo, ma è quella di convivere.
    E i Vangeli ci parlano di questa umanissima persona del Signore Gesù che educativamente nel con-vivere “rifà”, anche da un punto di vista identitario, i suoi discepoli. Non si tratta di una pre- confezionamento degli atteggiamenti, ma di un effetto del fluire della vita quotidiana. Pensate come tutto il Vangelo di Marco sia segnato da un Gesù sempre con i discepoli e sempre in cammino. Si ferma pochissime volte, uno di questi quando lungo la strada sana Bartimeo: questo è l’unico momento dove il testo dice “caistas”, “si fermò”. Qui cattedraticamente fa un intervento sanante, utile non solo per chi viene guarito, ma soprattutto per i discepoli.
    Questi, infatti, come hanno già fatto con i bambini, dicono al malato: “Smettila di gridare! Ci stai rompendo le scatole! C’è il Maestro, finiscila! Togliti di mezzo”. E Gesù che cosa fa? Si blocca! Non dice a chi che sta gridando: “Vieni”, ma piuttosto si rivolge a coloro che l’hanno fermato, a loro, che volevano esser guardie del corpo di Gesù; come a dire: “Voi avete fatto il danno! Ma questo non è il modo con cui state imparando a vivere stando con me. Andate voi e chiamatelo!”. E i discepoli devono cambiare registro.
    Mentre prima gridavano contro l’uomo per farlo smettere, per farlo tacere, ora gli dicono: “Coraggio, vieni! Il Maestro ti sta chiamando”.
    Lo stare con Gesù consente di comprendere anche il “come” starci. Gesti e parole di Gesù diventano molto significativi e che, giorno dopo giorno, “ristrutturano” le persone e le loro identità. Anche la selezione fondamentalmente avviene nello stare con Lui. “Li chiamò perché stessero con lui”. I Dodici vengono chiamati per questo. E colgono gli stili di vita di Gesù, quel suo modo di dare forma umana all’esperienza che il Figlio ha del Padre.
    Quali caratteristiche di Gesù emergono? Gesù è una persona di pace. Pensiamo a Gv 20,19 dove Gesù augura la pace.
    Ma di quale pace si tratta? Shalom non è mancanza di conflitti. C’è vero pace nella Scrittura solo quando c’è Dio presente: non è mancanza di conflittualità. Ecco perché il saluto liturgico più alto che c’è nella liturgia prevede per il Vescovo l’espressione: “La pace sia con voi”, che è il saluto di Gesù ai suoi. Significa che la persona di Gesù viene data al discepolo come pace, come relazione piena che rende presente il Padre dentro la storia, come persona libera e liberante.
    Gesù è una persona di preghiera. Prega ogni qualvolta c’è l’indispensabilità di entrare nella dimensione del Padre, nel delineare i desideri del Padre.
    Gesù non ha un progetto suo, l’unico progetto che è quello del Padre. Vederlo pregare smuove il cuore dei discepoli che chiedono: “Signore insegnaci a pregare”.
    Capiscono che si tratta non di dire preghierine, ma della preghiera, di quella realtà, cioè, che muta la vita perché fa entrare nella relazione piena con il Padre. I discepoli apprendono tutto questo con-vivendo con Gesù.
    Gesù è una persona affettuosa, che provoca delle risposte di amore. Non è un ghiacciolo, non è un anaffettivo ed è per questo che può, in qualche modo, permettersi di ricevere una sovraabbondanza di risposta amorosa; gestendo tutto “alla divina”, cioè allargando gli orizzonti in un modo spettacolare (Gv 21,15-17).
    Gesù è una persona accogliente. Sempre presente nella vita dei suoi, così attento da prestare loro ascolto anche quando dicono cose che fanno sorridere.
    Quando i discepoli ritornano dalla missione si sentono dire: “Venite ora a riposarvi”. Una intimità e una capacità che nasce da questo voler stare con loro, dall’essere persona accogliente, presente nella vita dei suoi, che si prende cura dei suoi.
    Gesù è una persona misericordiosa, mite e umile. Ai poveri di ogni categoria dice: “Venite a me”. Non dice: “State lontano, sistematevi e poi ne parliamo” ma a tutte le categorie che in qualche modo stanno vivendo una realtà stanca e oppressa dice offre attenzione e misericordia.
    Questi tratti educativi che Dio concretizza con il suo popolo fanno riferimento alla categoria hesed, la maternità del divino, la compassione. In ebraico utero materno e misericordia hanno la stessa radice. Dove viene colpito Gesù quando incontra la gente? Nella maternità del divino, nell’utero divino: questa è la compassione. Gesù vedendo la folla viene colpito alle viscere perché la percepisce come un gregge di pecore che vagano senza pastore. Si vede che incontra una situazione rovinosa, legata ad una religiosità che non dà più vita, oltre che alla situazione di fame e di malattia.
    Gli apostoli ed ogni ministero all’interno della Chiesa, hanno lo scopo di continuare la compassione del divino dentro la storia. Se manca questo, tutte le altre cose che si possono fare non dicono la verità di una chiamata.
    Infatti i Dodici sono chiamati per continuare questa compassione di Dio svelata nella persona di Gesù, persona misericordiosa, mite e umile ma anche realista e attenta, che richiama continuamente i discepoli alla realtà della vita. Come lo fa? Anche attraverso i racconti parabolici, per esempio, che da un punto di vista didattico, da un punto di vista di esplicitazione di quello che Gesù vuole dire loro, sono indispensabili perché rappresentano la normale modalità attraverso cui raccontare l’ineffabile.
    Così questa attenzione si fa anche didattica. Ecco che cosa vuol dire studiare, imparare, trovare metodiche; è ciò che fa la teologia pastorale: l’attenzione alle modalità concreta di dire Dio oggi.
    Gesù è una persona premurosa e preoccupata del sostentamento dei suoi. Sulla spiaggia nessuno lo riconosce, tutti lo scambiano per un fantasma. Malgrado ciò lui sta lì, accende il fuoco e prepara da mangiare per i suoi.
    Gesù è una persona preoccupata della situazione della gente (Mt 9,36-38). La gente è stanca e Gesù non fa finta di non rendersene conto, per questo chiama in causa i suoi dicendo: “Date voi stessi da mangiare”; coinvolge i suoi in questo movimento di attenzione verso la situazione concreta della gente.
    Gesù è una persona amica e comprensiva. Gesù accetta quelli che ha chiamato così come sono, senza arrivare a rotture con loro anche quando questi lo abbandonano e lo rinnegano. Si pensi a Pietro e alla sua storia, nonostante tanti passi falsi Gesù non fa lo stizzito con lui. Oppure si pensi al racconto dell’avvicinamento di Giuda al Getsemani, che è da prendere non soltanto parola per parola, ma direi anche con l’interpunzione che andrebbe sistemata: “Con un bacio tradisci il figlio dell’ uomo!” Gesù richiama fino all’ultimo il legame affettivo che c’è con lui.
    Non gli dice: “Ma ti rendi conto di che cosa stai facendo?”, ma risveglia il legame affettivo.
    Tutti questi tratti della personalità del Maestro ci permettono di scorgere il volto umano di Dio. Gesù di Nazareth appare umanissimo, tanto umano che solo Dio poteva esserlo così tanto. Tanto è vero che guardando la croce non è più pensabile parlare di Dio senza parlare dell’uomo e non si può più parlare dell’uomo senza parlare di Dio.

    4. La con-vivenza come momento formativo dei suoi e accoglienza dell’altro, del diverso, dell’escluso, di coloro, cioè, che potere pubblico-religioso bandivano

    La convivenza diventa momento formativo dei suoi: accoglienza dell’alterità, del diverso, dell’escluso, di coloro che sia il potere religioso che quello pubblico bandivano, mettevano fuori, escludevano. Tanto è vero che Gesù, anche per questo fatto, morirà, pur rendendo vita ad altri e donandogli la possibilità di vivere con-vivendo. Gesù esprime un atteggiamento di controtendenza, annunciando il Regno non per i meritevoli, ma per tutti, senza lasciare fuori nessuno; con una peculiarità: il suo lieto annuncio partiva innanzitutto per coloro che pativano di più l’esclusione.
    Una comunità che non vivesse così, evidentemente, manca di questa connotazione cristiana indispensabile.
    Accoglienza degli immorali: prostitute e peccatori, eretici, pagani e samaritani.
    Voi sapete che l’ingresso dei pagani in una casa, si vede nella Passione, impediva di celebrare la festa. E’ quindi chiaro che il pagano non doveva essere toccato per non contagiarsi. Così anche per i samaritani.
    Nel 700 a. C. gli Assiri avevano una modalità molto interessante per sistemare i popoli che conquistavano: facevano piazza pulita delle etnie e questo, naturalmente, imbastardiva da un punto di vista etnico e religioso il popolo conquistato. Ecco perché i samaritani erano ritenuti “bastardi” da un punto di vista religioso, nel senso che c’era in loro un ibridismo religioso, umano, fino a non avere niente a che fare con il Giudaismo.
    Gesù che avvicina gli impuri: lebbrosi e indemoniati. Ecco una’altra realtà che non doveva e non poteva essere avvicinata perché il tatto, il contagio con essi rendeva impuri e quindi inabili alla preghiera, al rapporto con Dio e, di conseguenza, alla vita, perché non poter far culto nella cultura del tempo voleva dire essere fuori dalla vita, dalla società, dai circuiti del vivere.
    Gesù che avvicina emarginati: donne e bambini ammalati. Gesù che ha a che fare con gli occupanti romani, sana comunque i familiari del centurione, a significare che dove gli altri non osavano neppure entrare, lui pone sempre gesti di avvicinamento e di attenzione. Gli emarginati che in quel momento storico venivano chiamati e considerati da scribi e farisei come “am arez”, il popolino della terra, la povera gente. Anche i pastori che accolgono il buon Annunzio sono “am arez”, gente che non aveva cultura religiosa, non poteva vivere i comandamenti e i precetti farisaici quindi non veniva neppure lontanamente tenuta in considerazione. Eppure sono i primi a sentire il grande annuncio della nascita del Messia.

    5. Gesù, con parole e gesti molto concreti fa saltare le divisioni ingiuste e legittimate dal giudaismo del tempo

    Divisione tra prossimo e non prossimo (cf Lc 10,29-37); divisione tra giudeo e straniero (cf Mt 15,21-28); divisione tra santo e peccatore (cf Lc 19,1-10; Mc 2,15-17); divisione tra puro e impuro (cf Mt 23,22-24, Mc 7,8-23); divisione tra opere sante e profane (cf Mt 6,1-18); divisione tra tempo sacro e profano (il sabato: cf Mc 2,27; Gv 7,23); divisione tra luogo sacro e luogo profano (il tempio: cf Mc 13,2; Gv 4,21.24; 2,19); divisione tra ricco e povero (cf Lc 9,58; 16,13).

    6. Gesù educatore è interessato a ripristinare quella primitiva benedizione iniziale della vita voluta dal Padre (cf Gn 1,27-28; 12,3).
    Ai discepoli chiede la medesima passione per la vita perché assumano il suo stesso atteggiamento “divino”

    I tratti che abbiamo delineato ci aiutano a porre un altro piccolo tassello di quello che possiamo chiamare un “sistema educativo”: Gesù vuole creare una comunità che vive nella storia questo modo eloquente ed alternativo.
    Gesù educatore è interessato a ripristinare quella benedizione iniziale sulla vita voluta dal Padre. Quando si dice che “Dio benedice” vuol dire che Lui si dice così bene in quella realtà da associare la sua persona alla stessa realtà. Gesù riporta alla luce quella che è in fondo la passione di Dio per l’umano, anche quando tutto sembra fallimentare. Di fallimento in fallimento sino alla croce, la realtà della sconfitta non è mai l’ultima parola, perché la storia della salvezza corre dentro questa realtà.
    La benedizione che è Gesù ripristina questo desiderio del Padre che l’umano ci sia e che stia bene, goda della vita ricevuta.
    Ai discepoli Gesù consegna l’opportunità di avere la medesima passione per l’umano attraverso questi segni che semplicemente elenco, e che rappresentano realtà che Dio non vuole che siano stoppate. Fame (cf Mc 6,35- 44); malattia (cf Mc 1,32-34); tristezza (cf Lc 7,13); ignoranza (cf Mc 1,22; 6,2); abbandono (cf Mt 9,36); solitudine (cf Mt 11,28); la lettera che uccide (cf Mc 2,23-28); discriminazione (cf Mc 9,30-40; Gv 4,9-10); le leggi oppressive (cf Mt 23,13-15; Mc 7,8-13); ingiustizia (cf Mt 5,20; Lc 22,25-26); paura (cf Mc 6,50; Mt 28,10); sofferenza (cf Mt 8,17); peccato (cf Mc 2,5); morte (cf Mc 5,41-42; Lc 7,11-17); Maligno (cf Mc 1,25-34; Lc 4,13).
    I discepoli sono educati ad essere come Gesù stesso, Paolo direbbe ad avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù. Ecco perché il discepolato, dentro la storia, diventa decisiva: i discepoli non sono dei piazzisti di dottrina e di morale, non vanno per le case come si va a vendere aspirapolveri, asciugamani, pentole a pressione, ma sono i testimoni di questa benedizione; convivendo con Gesù lo rendono presente dentro la storia e danno una risposta a le realtà appena citate.
    Uno degli atteggiamenti verso la Scrittura che ne consegue è quello, come diceva quel grande testimone della fede che si chiama Bonhoeffer, di non usare le parole bibliche come clave da dare sulla testa della gente. Perché anche la parola biblica non colta dentro il grande itinerario della storia della salvezza, può diventare una clava. Mai testo senza contesto, allora, perché altrimenti il testo diventa un pretesto, e non è un gioco di parole… .

    7. Gesù, senza sosta e con infinita pazienza, educa e rieduca i suoi ad uscire dalla vecchia mentalità, perché “il lievito di Erode e dei farisei” (Mc 8,15), aveva radici profonde anche tra i discepoli

    Qui emerge un tratto paziente della persona di Gesù. Una verità, per quanto luminosa possa essere, deve continuamente essere ri-raccontata con la vita e dentro la vita. Il dire, come dire, quanto dire deve essere sempre commisurato dalla realtà fondamentale che è Gesù. E qui lui ha con i suoi discepoli una pazienza incredibile, da vero educatore. L’ostacolo è quello che Gesù chiama “il lievito di Erode e dei farisei”, che aveva radici profondissime anche i discepoli.
    Anche nelle nostre comunità questo lievito è sempre risorgente. Ecco perché Gesù aiuta i discepoli con quello che potremo chiamare “formazione permanente”. Un processo continuo che aiuta a ricreare un atteggiamento interiore e a destrutturare atteggiamenti che sono del vecchio uomo.
    Quali sono queste realtà da vincere e quale nuova mentalità Gesù vuole creare? Mentalità del gruppo chiuso (cf Mc 9,38) Sappiamo dal Vangelo di un tale che non apparteneva alla comunità e che usava il nome di Gesù per scacciare i demoni, riuscendovi (Mc 9,38).
    Giovanni, il discepolo amato, lo vide e dice: “Glielo abbiamo vietato perché non era dei nostri”. In nome della comunità e dell’appartenenza - “non era dei nostri“- Giovanni impedisce un atto evangelico, cioè l’umanizzazione del disumano. Giovanni è convinto di possedere Gesù, di averlo tra le mani, e voleva proibire che altri usassero di questo potere che evidentemente percepiva come un lustro per lui. Si tratta evidentemente di una comunità autoreferenziale, avvitata su se stessa. Gesù non vuole una comunità così perché esprime una vecchia mentalità, quella del popolo eletto, del popolo di “separati”.
    Capita passando in alcune comunità odierne di incontrare alcune formazioni, falangi ecclesiali che si propongono come l’unica Chiesa di Gesù Cristo e quanta fatica a far comprendere che una è la Chiesa di Gesù e che non ha senso un gruppo chiuso. Gesù risponde a Giovanni: “Non glielo impedite, perché chi non è contro di noi è con noi” (Lc 9,50). Cosa conta per Gesù? Non l’appartenenza alla comunità, ma che i suoni annuncino liberazione. Il fatto dell’appartenenza anagrafica non è caratterizzante per questo scopo.
    Mentalità del gruppo che si atteggia come superiore agli altri (cf Lc 9,54-55) Un altro intervento che Gesù fa è quello sulla mentalità del gruppo che si considera superiore agli altri. Ricordate la reazione dei discepoli quando i samaritani fanno fatica ad accogliere Gesù – al contrario della Samaritana - e chiedono: “Signore vuoi che facciamo scendere un fuoco dal cielo che li consumi?” (Lc 9,54). Ritenevano che stando con Gesù, tutti, immancabilmente, senza alcun problema, dovessero far loro spazio, stendere tappeti rossi, predisporre grandi e solenni accoglienze. Questa una mentalità estremamente presente, sotterranea che accompagna ancora la nostra esistenza.
    Che cosa significa questo atteggiamento di teologia caricaturale? Significa, in fondo, pensare di avere Dio dalla propria parte che, come un talismano, doveva difenderli, garantirli, in qualche modo promuoverli su tutto il fronte; un’idea cioè di popolo privilegiato. Pensate al profeta Giona – che vuol dire “colomba” ma che da un punto di vista religioso era un falco - quando piange perché Dio gli chiede di andare a Ninive.
    Com’è possibile, per lui, che fuori Israele ci possa essere conversione? Quando poi vede che dall’imperatore sino all’ultimo degli animali fanno penitenza, piange dalla rabbia perché Dio ha fatto salvezza fuori dalla terra di Israele! “Non sapete di che spirito siete!”, così risponde Gesù quando i discepoli gli chiedono di mandare il fuoco su chi non lì ha accolti (Lc 9,55). Gesù cerca di smantellare questo tessuto vecchio, questa mentalità di competizione.
    In Marco 9,33-34 i discepoli bisticciano, come mai? Perché l’Amore non è amato? No, per chi deve stare al primo posto. Naturalmente gli altri dieci sono preoccupati e si lamentano, ma non perché quei due non hanno capito il santo Evangelo di Gesù Cristo, ma perché vogliono stare al primo posto come quei due! Questa é una mentalità classista vigente ancora anche nelle nostre comunità, dove riscontriamo una competitività che certamente mina la vita cristiana. Le parole di Gesù: “Se uno vuole essere il primo sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (Mc 9,35) non solo una teoria o dottrina da seguire, rappresentano la testimonianza radicale della sua vita. Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito ma per servire” (cf Mc 10,45; Mt 20,28; Gv 13,1-16). Ancora una volta l’atto magisteriale si compie non a partire dalla verità teorica, ma dalla vita stessa di Gesù. È quello che Paolo ricorda in alcune sue Lettere: “Fatevi miei imitatori perché io lo sono di Gesù Cristo”. Sono le parole che dovrebbe usare ogni educatore all’umano e alla vita di fede: “Rifatevi a me”, perché “io imito Cristo”.
    Mentalità del gruppo che è infastidito ed emargina il piccolo (cf Mc 10,14; Lc 18,17) Un altro intervento che Gesù compie è quello sulla mentalità che mette fuori gioco il piccolo. Ho già ricordato come i discepoli si sentano spesso incaricati del compito di guardie del corpo e scelgano chi deve andare e chi no da Gesù. Ma Gesù non evita loro brutte figure, come quando dopo aver allontanato prima Bartimeo sono poi costretti a chiamarlo, o come quando si sentono dire: “Lasciate che i bambini si avvicinino a me” (Mc 10,14).
    Mentalità del gruppo che preferisce accodarsi all’opinione dell’ideologia dominante (cf Gv 9,2-3) Un’altra mentalità che Gesù vuole smantellare è quella della tentazione di accodarsi all’opinione ideologica dominante. Pensate all’episodio raccontato da Giovanni 9,2: Gesù ha davanti il cieco e gli viene chiesto “se ha peccato lui o i suoi genitori per essere cieco”. La domanda rappresenta bene la teologia dominante di allora, che collegava i fenomeni patologici al peccato, e i discepoli riflettono questa mentalità. Pensate quanto oggi incida l’opinione pubblica di chi è al potere, ma per chi è cristiano il punto di riferimento dovrebbe essere la persona di Gesù, quella che aiuta a discernere e a prendere posizione non a partire da altri interessi, da altri poteri, da connessioni più o meno pulite. Nell’episodio evangelico Gesù li aiuta ad avere una sana criticità riguardo quel cieco: “né lui ha peccato, né i suoi genitori”, cioè abituatevi ad avere una diversa lettura della realtà, una diversa ermeneutica.

    8. Gesù, come educatore non ha altro progetto che quello del Padre.
    Sua missione e svelarne il Volto

    Per questo, ogni qualvolta – chiunque esso sia – si pone trasversalmente a questa volontà/progetto, riceve dal Maestro parole dure, reazioni inattese.
    Gli episodi non mancano: Pietro (cf Mt 16,22; Mc 8,33); Maria e Giuseppe (cf Lc 2,48-49); parenti (cf Mc 3,21.33); apostoli (cf Mc 1,38); Giovanni Battista (cf Mt 11,3-5); la gente (cf Gv 6,15); il Maligno (cf Mt 4,4.7.10); se stesso al Getzemani (cf Mc 14,36).
    Gesù che come educatore non ha altro compito se non quello di svelare il volto del Padre. Per questo non scenderà dalla croce di fronte alla richiesta dei passanti che così avrebbero “creduto” in un Dio potente.
    Quello che Gesù voleva salvaguardare era il volto di Dio Padre che rispetta l’umanità in un modo assoluto fino a far rimanere in croce suo Figlio. E per l’incondizionatezza dell’amore che Gesù non scende dalla croce. Questa verità viene svelata da Gesù con parole che suonano in certi casi molto dure nei confronti di chi, invece, suggerisce, magari non direttamente, un progetto alternativo a quello che invece a lui sta a cuore.
    Questo tipo di interventi sono espressi con autorità anche nei confronti di chi gli sta vicino. Come con Pietro, che tenta di allontanarlo dal cammino della croce (Mt 16,22) e che si sente rispondere: “Vattene da me perché sei diabolico, ti metti trasversalmente in questo cammino”. Anche ai suoi genitori che si lamentano: “Figlio perché ci hai fatto così” (Lc 2,48- 49), lui risponde: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.
    Chiamare in causa il Padre è la prima espressione di Gesù nel Vangelo di Luca ed è anche l’ultima parola è sulla croce. L’interesse è quindi uno, il Padre: apre e chiude il Vangelo. L’interesse è il regno di Dio, il progetto del Padre, il disvelamento del suo volto. Al clan, ai parenti (Mc 3,21-33) che vogliono riportarlo a casa perché credono sia matto, lui risponde con parole di rottura: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. Gli stessi apostoli, gasatissimi e soddisfatti perché attorno a Gesù c’è un grande movimento di gente e per questo avrebbero voluto che Gesù si fermasse dove c’era il consenso, ricevono questo ordine “Andiamocene altrove, per i villaggi vicini per questo infatti io sono venuto non a fare una mietitura di successi, non ad avere l’applauso e il plauso, sono venuto per camminare per i villaggi della Palestina perché il Padre mi interessa, il Regno preme, non altro (Mc 1,38).
    A Giovanni Battista, il più grande dei profeti, che chiede: “Sei tu che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” (Mt 11,3). Gesù risponde più o meno così: “Verifica a partire da ciò che io vivo e da ciò che io faccio e la risposta dattela tu; nelle profezie c’è, valuta tu l’identificazione tra il Messia che hai in testa tu e quello che stai vedendo” (Mt 11,4-5). Quando la gente lo voleva re perché dava da mangiare a poco prezzo, Gesù preferisce ritirarsi da solo su un monte a pregare (Gv 6,15).
    Davvero c’è un unico interesse: il Padre, svelare il suo volto. Al maligno, che nelle tentazioni del deserto propone a Gesù una via avvincente, quella del Messia glorioso, Gesù reagisce non esprimendo parole sue – che poteva comunque farlo - ma si rifà alle parole di Deuteronomio, alle parole dell’Alleanza, stoppando per tre volte di seguito il maligno.


    QUALE CHIESA EDUCA ALLA VITA E ALLA FEDE?

    “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri, lo fa perché sono testimoni” (Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, 41)

    1. La Chiesa può essere soggetto attivo ed eloquente di educazione alla vita e alla fede solo ascoltando e obbedendo al suo Signore

    Più che una relazione in quest’ultimo intervento desidero raccogliere il cammino di questo convegno ecclesiale a partire da ciò che abbiamo ascoltato dal Signore attraverso la sua Parola. Non a caso ho citato l’affermazione di Paolo VI nell’Evangelii Nuntiandi. Cerco di fare quindi una sintesi dei testi meditati in queste giornate, cercando di cogliere e di mettere insieme alcuni elementi che permettano di proseguire la riflessione.
    L’affermazione base mi pare si possa riassumere così: la Chiesa può essere soggetto attivo e quindi eloquente e credibile di educazione quando si mette costantemente in ascolto della Parola del Signore. Affido alla nostra Chiesa diocesana quattro indicazioni fondamentali che raggruppano alcuni atteggiamenti educativi del Signore e di tutta l’esperienza di rivelazione del primo Testamento.

    a) Gesù è un educatore con-vincente perché credibile, coerente, affidabile

    Questo è il primo grande elemento che determina la credibilità della Chiesa. Ciò che convinceva chi incontrava la persona del Signore Gesù è la fede che lo muoveva, quel saper risvegliare ciò che era “già dentro”, come dimora, in ogni persona. Quando Gesù sana non dice: “Ecco vai, perché io ti ho guarito”, ma: “Vai perché la tua fede ti ha salvato”. La sua persona, la sua credibilità, la sua coerenza, la sua affidabilità sveglia la persona e la trae fuori dall’indeterminatezza e dal peccato. Il fatto che questo avvenga non è per una particolare strategia pastorale e neppure frutto di belle parole. Giovanni dice che Gesù era pieno di “grazia e verità” (cf Gv 1,14) e chi lo incrocia nella sua strada fa questa esperienza, toccando con mano la verità della sua persona.
    In Gesù non c’è frattura tra parola, gesti, sentimenti e scelte di vita. C’è un unicum, una verità, una pienezza di tutta la persona che è pienezza di grazia.
    Qui risiede la sua exousía, cioè il potere di autorevolezza: “Cosa mai è questo? Una dottrina nuova insegnata con autorevolezza” (Mc 1,22).
    Non il potere di un superuomo ma quello dell’autorevolezza che risveglia la fede e fa camminare le persone. Anche la Chiesa educa, come il suo Signore, quando è credibile, coerente e affidabile. Nell’educare alla vita e alla fede l’inaffidabilità ha il potere di imbavagliare Dio, così come la non credibilità produce incoerenza.

    b) Gesù è un educatore con-vincente perché per entrare in dialogo con l’umano, si è “svestito” (kènosis) per accondiscendere all’umano

    Il testo di Fil 2,6-7 ci aiuta a capire che per entrare in dialogo con l’umano Gesù si è svestito (kènosis). Per incontrare l’umano c’era questa necessità: per dire Dio Gesù si sveste da Dio e “dice” Dio nella carne. Per essere accolto e promuovere la fede questo è l’atteggiamento fondamentale di Gesù, senza il quale evidentemente non si crea nessun tipo di dialogo.
    Quando il maestro incontra le persone nel Vangelo mai consegna una teoria, una morale, una verità astratta, ma quello che fa è stabilire sempre una relazione. Il dramma e la risorsa è stabilire relazioni. Questa è la carta vincente, una realtà che non si può registrare come vittoria catechistica nell’immediato, ma che và preparata lavorandola nel tempo. L’elemento fondamentale è il donare se stessi, il mettersi in gioco; solo così l’incontro con le persone e il loro coinvolgimento fa nascere dialogo.
    Gesù crea incontro e dialogo portandosi sulla riva del lago, dove la gente lavora e vive le sue giornate. È qui lo starter che vince la tensione, guadagna l’attenzione dell’altro, smuove la vita. Gesù non elude mai la relazione neppure quando le condizioni – basti pensare alle controversie raccontate dal Vangelo – sembrano escludere incontro e dialogo.
    La Chiesa non ha altra via che quella del suo Signore ed è chiamata a saper venire fuori costantemente e tenacemente da sé stessa per incontrare il volto dell’altro. Come comunità credente significa rinunciare a tutto ciò che ostacola la relazione, a tutte quelle forme di “privilegio” di diverse nature che rendono muta la buona notizia. Chi educa alla fede e alla vita o accetta di accondiscendere di fronte a coloro che ha davanti, a svuotarsi dalle forme pregiudiziali e dalle disattenzioni per farsi prossimo, oppure non educa. È chiaro che è molto più facile fare i maestrini che mettere in moto gli affetti e favorire le relazioni. Amare , sappiamo, vuol dire anche bruciarsi, patire e rischiare di essere traditi.

    c) Gesù è un educatore con-vincente perché capace di incontrare e accogliere tutti

    Sembra un’affermazione di un evidenza incredibile, ma non è così scontata.
    Un Gesù che incontra poveri e ricchi; truffaldini come Zaccheo e giusti come Natanaele; stranieri come la donna siro-fenicia; pubblici peccatori come Levi-Matteo e prostitute (cf Mc 2,15-17; Mt 21,31; Lc 7,34.36-50), agisce senza prevenzioni. Non sempre ci rendiamo conto di cosa vuol dire per un Rabbì porre gesti di comunione con questa gente per le vie della Palestina. Anche perché noi facciamo una tremenda fatica come uomini di Chiesa quando veniamo a contatto con tante situazioni e con “certa gente”.
    Gesù educa alla fede e alla vita perché crea intorno a sé spazi di libertà, e la gente si senta accolta e non giudicata. Creare questo ambiente, far cadere forme pregiudiziali, compresa la paura di essere messo sotto giudizio, può avvenire solo quando voglia di ascolto. Quando Gesù incontra qualcuno non lo rinchiude nella categoria di appartenenza – prostituta, povero, peccatore, straniero… - che rappresenta solo un aspetto di quella persona, ma non certo la sua esaustività, ma piuttosto le apre nuove possibilità.
    Gesù è una persona talmente empatica che accoglie l’altro o l’altra come persona di pari valore a lui nell’umanità.
    Educa alla vita e alla fede allora solo una Chiesa che crea reali spazi di accoglienza.
    Se sui massimi sistemi siamo tutti d’accordo, dobbiamo concordare però modalità concrete per creare reali spazi di accoglienza, di ospitalità incondizionata e di relazioni di gratuità. Solo in questo modo la Chiesa educa, sana, santifica, diventa Chiesa-compassione. Questo, invece, molto spesso in ambito pastorale non avviene: la relazione finisce quando ho dato un aiuto, ho fatto tutto quello che dovevo fare nel catechismo oppure ho dato dei soldi a chi aveva bisogno; in ultima analisi, però, non è nata nessuna relazione e la porta della comunione è rimasta chiusa.

    d) Gesù è un educatore con-vincente perché è solo interessato dell’annuncio del Regno.
    Gesù non ha un suo progetto ma suo è solo il progetto del Padre

    La vita di Gesù è sempre e tutta riferita al Padre. Se si prendono le pagine evangeliche ci rendiamo conto che Gesù non indica se stesso come modello di perfezione dell’amore – anche se poteva farlo - ma indica sempre il Padre come modello perfetto. Egli è Colui attraverso cui il Padre ha detto tutto di Sé all’umano, senza ostacolo alcuno, frantumando le immagini caricaturali e perverse del Padre (cf Lc 15). Pertanto, come dicevano i Padri della Chiesa, nella vita di Gesù non c’è nessun tratto di philautía, di amore egoistico, centrato e avvitato su di sé.
    Gesù è sempre decentrato rispetto al progetto del Padre.
    Al contrario, quanta philautía nelle nostre relazioni, anche quelle pastorali! Bisogna migrare sveltamente dalla philautía e decentrarsi seriamente, realmente sul progetto del Padre dove c’è la verità, la vita e la pienezza.
    Come può vivere così la Chiesa? Con una umanissima condotta; “con i sentimenti di Gesù”, come dice Paolo, “con i tratti del Figlio”, cioè della persona umana come il Padre l’ha voluta. Quando la Chiesa, la pastorale e le relazioni si nutrissero di philautía evidentemente contribuirebbero solo alla disumanizzazione dell’umano. Rigettare la philautía è l’unica possibilità per far crollare quelle che sono le immagini caricaturali del volto divino, costruite da un umano malato e dai nostri bisogni più che dalla volontà di mostrare il volto del Padre.
    Nel primo intervento ho parlato di due termini: la gelosia e la fedeltà.
    Quella di Dio per l’umano è una gelosia bruciante, fedele anche quando Israele è in condizioni rovinose e disperate. Un altro elemento è l’hesed, tutte quelle indicazioni che abbiamo ricordato: misericordia, amore, fedeltà, tenerezza, cura, benevolenza, lealtà, benignità, clemenza, pietà, grazia, bellezza, gentilezza, elezione, fedeltà al patto anche quando il partner fallisce.
    Possiamo ora dire che educa alla vita e alla fede una Chiesa che è così appassionata, che non si consegna alle delusioni e ai fallimenti come ultima parola, che vive attendendo, tesa a Colui che di sé dice nell’Apocalisse: “Sono il Veniente, il sempre Veniente”. La Chiesa quindi non è mai sola, perché sa che Lui è dentro la storia. Una Chiesa che proprio per questo arde dall’angustia dell’umanità e dal terrore dell’indifferenza.
    Una comunità che senza soste realizza quell’imperativo divino presente in Is 40: “Consolate, consolate il mio popolo”. Attenzione: non è “bastonate, bastonate il mio popolo”, ma un vero annuncio di consolazione.
    Dio continua a dirci: “Sarò con voi quello sono stato sempre, il liberatore”: questo è il Vangelo, questa è la Buona Notizia. Non terrorizziamoci vicendevolmente, perché non sarebbe più Vangelo e non ci sarebbe più vita cristiana.

    2. Il progetto del Padre sull’umano postula la libertà della persona umana

    Carlo Maria Martini ha scritto ventitre anni fa, da arcivescovo di Milano, una Lettera pastorale meravigliosa dal titolo: “Dio educa il suo popolo”.
    Tra l’altro dice: “Se noi pensassimo al progetto trascurando il fattore libertà ci esporremmo al rischio dell’astrattezza; se pensassimo alla libertà dimenticando il progetto finiremmo nella inconcludenza”.
    Oggi possiamo dire che la Chiesa educa come Dio educa in Gesù alla vita e alla fede quando salvaguardia e fa convivere senza mai separarlo - costi quel che costi - l’inscindibile binomio progetto-libertà. Non due elementi opposti quindi, perché la persona di Gesù ci dimostra che questo binomio non soltanto è possibile ma è l’unico binomio che rispetta pienamente l’umano.

    3. La traversata del popolo nel deserto e le sue innumerevoli angustie, la persona e gli stili di vita del Figlio, la povertà delle persone e dei mezzi della primitiva comunità cristiana non sono una modalità contingente. È lo stile di Dio

    Nel riflettere sulla traversata del popolo nel deserto e sulle sue innumerevoli angustie vissute, sulla la persona gli stili di vita di Gesù da Betlemme al calvario, sulla la povertà delle persone e dei mezzi della primitiva comunità cristiana, abbiamo colto non una modalità contingente ma certamente lo stile con cui Dio opera nella storia.
    La Chiesa che educa alla vita e alla fede è chiamata ad adottarlo. Quando dismettiamo questo stile, che è anche stile della povera gente, stile che conta non sui mezzi ma sull’amore al Regno, stile che Dio ha scelto per salvarci e che privilegia il piccolo e il povero, stile – infine – che non ama le folle oceaniche e i toni muscolari, noi non educhiamo. Tutti i collaboratori del Vangelo, nella Chiesa, educano come il Padre solo quando non dismettono questo stile.

    4. In questo nostro tempo…

    Il Direttore del nostro quindicinale Dialogo prima della mia ordinazione mi fece un’intervista per il giornale; tra le altre domande mi chiese: “Il tempo che stiamo vivendo è molto complesso, quali parole la Chiesa deve mantenere alte e coraggiose?”. Ripropongo qui la risposta come conclusione di queste riflessioni: “Desidererei che, queste parole – che declino in forme verbali perché sempre più incisivi e pregnanti dei sostantivi – restassero come viatico per continuare il cammino insieme e la riflessione tra noi. Ma è innanzitutto dal riflettere tra noi, seriamente, serenamente, sapientemente, dentro la comunità credente stessa, facendo realmente proprie queste parole, che la Chiesa può permettersi, coraggiosamente, di ri-dirle e tenerle alte. Ecco i verbi: Leggere e pregare la Scrittura. Predicare la Parola. Celebrare il Mistero. Farsi prossimo. Educare i giovani alle fede.
    Parlare al cuore di tutti. Confrontarsi dentro la Chiesa. Incontrarsi tra Chiese. Promuovere l’ecumenismo. Ri-animare la città. Lavorare per la convivialità delle differenze. Umanizzare la comunicazione. Riflettere all’altro il suo positivo. Ripensare la res publica, tutta, come servizio”.
    Chiudo ripetendo e me e ad ogni lettore la parola evangelica: “Va’ e anche tu fa’ così” (Lc 10,37).

    (Fonte: Convegno Ecclesiale 2011 – Diocesi di Alghero-Bosa)


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