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    Rosmini e Maritain:

    uno scrigno di valori

    a confronto con il

    "vuoto" del nichilismo

    Giuseppe Goisis

     

    1. Qualche spunto per iniziare

    Ciascuno di noi è interessato, per varie ragioni, alla grave e urgente questione dell'educazione; alcuni come genitori, altri come insegnanti, altri ancora come educatori cristiani, infine una parte come cittadini: la sfida educativa riguarda la qualità dell'educazione, la "tenuta" stessa del tessuto della cittadinanza. Se tale tessuto si sgretola, o comunque non manifesta un'efficace capacità di rigenerazione, le preoccupazioni per il futuro aumentano sempre più, necessariamente.
    In alcuni casi, le varie figure evocate sopra sembrano unirsi inestricabilmente, e la problematicità dell'educazione appare nella sua complessa poliedricità; a me sembra, innanzitutto, che l'educazione debba essere ricondotta al compito originario di liberatrice dall'egoismo; se i nostri ragazzi, adolescenti e giovani, sembrano propensi ad entrare, a vele spiegate, nei regni di egolandia, la fisionomia dell'atto educativo, con la sua arte implicita, pare inclinata a render consapevoli del valore degli altri, della loro consistenza e complementarietà. In particolare, l'educatore cristiano deve mirare a restituire lo stupore dell'altro, perno di ogni educazione, fondata sulla concezione dell'esistenza come "grazia su grazia".
    C'è qui una primissima insidia: ogni atto educativo non può non fiorire se non in un clima di libertà e di speranza responsabile: fra il modellare la personalità ed il manipolarla non c'è che un crinale sottile, ma se si giunge alla manipolazione, la libertà personale è dissolta, e si aprono le porte al nulla. Proprio la coltivazione della filosofia politica, dopo studi orientati alla pedagogia e alla questione interdisciplinare, mi ha reso singolarmente sensibile a questo labile confine; nella temperie totalitaria, per fare un esempio clamoroso, si manifesta un eccesso di educazione, ma la volontà è quella di pervenire ad una specie di ortopedia dello spirito, e dove lo spirito è forzosamente sostenuto, ma anche corretto e deformato, lo spirito, alla fine, si riduce in angustia, per poi sparire. Educare significa, come prima istanza, suggerire una più autentica misura per la nostra comune umanità, liberandoci dunque da ogni illusione utopistica e da ogni esasperazione prometeica. Educare come prender coscienza dei limiti inerenti alla nostra azione, e come impegno ragionevole a tentare, assiduamente, il superamento di questi stessi limitil [1].
    Allan Bloom, in un suo importante libro, critica, a tutto campo, la chiusura della mente americana; un'educazione che spesso non renderebbe capaci di cogliere lo "spessore" storico delle questioni, tendendo a riporre in soffitta i grandi temi di rilievo umanistico, secondo una visione che privilegerebbe un computo di carattere quantitativo; qui si rivela il nesso con una questione che ci sta a cuore: lo stesso iperspecialismo, che configurerebbe la mente americana, sarebbe tale da schiudere varchi imponenti al nichilismo [2]. Per inciso, mi sembra assai importante la ricostruzione, che l'Autore compie, della trama di connessioni fra la cultura europea e quella del Nuovo Mondo, dove risulterebbe come, dalla cultura europea, venga attinta proprio la parte più discutibile, con uno strabismo piuttosto curioso: per fare un solo esempio, l'opera di Nietzsche viene sovente inscritta in un orizzonte tipico del radicalismo "di Sinistra".

    2. Il nulla tra noi: "niente vale la pena"

    Il nichilismo, che costituisce uno dei termini più consistenti dell'odierna sfida educativa, mi sembra un'esperienza vissuta, prima che un insieme di teorie e di idee; un'esperienza, assai dolente, del vuoto: quando si esce dall'ottundimento, tale esperienza del vuoto genera quella che chiamerei "disperazione ontologica". Una disperazione che manifesta certo uno svolgimento entro la temperie psicologica, che si muove nell'ambito della psiche umana, ma che rivela, ad uno sguardo più profondo, la difficoltà di aderire ad ancoraggi fermi, a valori permanenti; il "vissuto" di tale esperienza: come si scivolasse sulla superficie dell'essere, divenuta, repentinamente, inafferrabile.
    Vorrei si considerasse la paradossalità di quanto sopra affermato; può sembrare un'affermazione così ardita da rasentare la temerarietà il sostenere che l'odierna temperie del mondo giovanile si caratterizza per un'intensa fruizione del vuoto; ma come, con una vita così piena di stimoli e sollecitazioni, così assediata di esperienze sensoriali, scandita da un ritmo sincopato, senza mai momenti di attesa ... È proprio un paradosso quello che mi provo a delineare: la compresenza, l'intreccio esperienziale tra un "troppo pieno" e un "troppo vuoto"; basti dire che il nostro mondo implica una continua "coincidentia oppositorum": la generale iperestesia maschera appena un vuoto essenziale, una mancanza di punti di riferimento davvero persuasivi, capaci di nutrire, in profondità, la vita dello spirito. In breve, molte delle figure che si muovono, con caotico dinamismo, nella vita quotidiana posseggono una fisionomia artificiosa, sicché l'esperienza dell'assieme si configura nella forma di un mondo farcito da un "troppo pieno" di sensazioni, ma tra loro dis-articolate.
    Nelle diagnosi oggi più influenti, il fenomeno del nichilismo viene riportato alla dominanza del pensiero scientifico, associato al trionfo della tecnologia: tali, in significativa concordanza, le conclusioni di E. Severino e U. Galimberti.
    "Nella sua essenza più profonda e tendenzialmente nascosta la filosofia del nostro tempo mostra l'impossibilità di ogni assoluto: la sua impossibilità in qualsiasi forma del sapere - quindi, innanzitutto, nello stesso sapere filosofico - e della realtà, quindi della realtà politica, economica, artistica, morale. Fondamentalmente, è impossibile una qualsiasi forma di verità assoluta" [3].
    In queste righe, si cerca di mostrare la necessità profonda del nichilismo, per nulla morbo effimero, bensì autentica malattia mortale dell'odierna fase di cultura e costume, con una particolare centralità per quanto riguarda la civilizzazione dell'Occidente.
    Non consentirei ad ammettere un raccordo immediato fra trionfo del nichilismo e dominanza della prospettiva scientifica; occorrerebbe distinguere meglio fra il procedere delle scienze ed il rilievo degli apparati tecnici, per la verità sempre più influenti; il clima nichilista ha più a che fare con quest'ultimo aspetto, e in particolare con un certo modo di vivere la tecnologia: un modo diffuso di usare ed abusare della tecnologia, rimanendo inchiodati, tuttavia, a concezioni superstiziose e semi-magiche, da veri e propri analfabeti scientifici. Se si vive la tecnologia, come avviene diffusamente, alla maniera di una protesi alienante, a cui ci si abbandona con ridotta consapevolezza, allora il nichilismo incombe gravemente.
    Tale nichilismo, in sintesi, si modula secondo tre aspetti fondamentali:
    1. come smarrimento e dis-orientamento, con le tradizionali bussole sociali fuori uso, o come impazzite (tutto viene ritenuto "eguale", e quindi nessuno sforzo, nessun sacrificio sembra meritare il nostro impegno, e neppure, forse, la nostra attenzione);
    2. i valori vengono "ridotti" a mere opinioni, a predilezioni soggettive e del tutto epidermiche (se
    il primo aspetto riguarda un'impostazione generale del nostro muoversi nel mondo e nella società, il secondo aspetto delinea un nichilismo che affonda nel tessuto etico essenziale dell'odierna convivenza);
    3. su tutto domina un clima di paura, anche ispirato ad arte (la politica, in modo sempre più sottile, sembra capace di evocare e guidare le emozioni, canalizzandole al servizio di progetti politici, soprattutto di carattere difensivo); si potrebbe fare la storia degli ultimi dieci anni usando, prevalentemente, la chiave delle ondate successive di paura sociale, giungendo alla rappresentazione di un mondo perpetuamente in bilico, come sulle sabbie mobili, nell'oscillazione continua fra paure trasmesse e speranze non meno illusorie: ma un antico proverbio ricorda che "la paura ti mangia il cuore", e si può aggiungere che l'uomo, assediato dalla paura, non muore una volta soltanto, ma ogni istante, letteralmente [4].

    3. La spina del nichilismo può avere una funzione positiva?

    Ci si può domandare se l'esperienza del nichilismo debba giudicarsi, compattamente, come negativa, o se occorra discernere in essa; come nell'esperienza della paura possono aprirsi delle brecce rielaborabili in chiave positiva, trasformando la paura in accorta prudenza, così si potrebbe tentar di procedere con il nichilismo, cogliendone innanzitutto la grande potenza anti-idolatrica. Come ha intuito Nietzsche (anche se poi smarrendo la sua prima intuizione), il nichilismo possiede un grande valore di demolizione, e anche di smascheramento nei confronti di ciò che non è autentico.
    L'insidia del nostro tempo non consiste soltanto, come si ripete, nel disincantato relativismo, ma anche nel mal riposto assolutismo, cioè nell'abbandono, cieco ed abissale, agli "assoluti terrestri", che si tramutano così in idoli (le ideologie, le utopie, il mito mendace di un progresso automatico: a quanti idoli sanguinosi ha sacrificato l'umanità contemporanea!).
    La fiducia nelle ideologie e nelle utopie sembra essersi, almeno temporaneamente, attenuata; ma il fenomeno dell'eclissi parziale delle utopie e delle ideologie non è equamente distribuito sul nostro pianeta, e non mancano, comunque, surrogati assai corposi, come l'assolutizzazione della propria corporeità, della propria fisicità e prestanza.
    Gli spiriti cristiani più profondi - da Pascal a Kierkegaard, da Maritain a Rosmini - hanno ben intravisto come la ricca gamma delle colpe si possa riassumere, in definitiva, nella violazione del primo Comandamento, o prima Parola, proclamante la trascendenza del Divino rispetto ad ogni immagine e configurazione umana, troppo umana.
    L'antidoto al nichilismo non consisterebbe, dunque, in un eccesso di "pienezza" di significati, contrapposti e sovrapposti dallo sforzo umano: anzi, forse, un tale sforzo potrebbe rischiare di compromettere l'istanza di purificazione connessa alla temperie nichilista; l'autentica "pienezza" che delinea l'alternativa al nichilismo è costituita dallo slancio profondo dell'amore, nei suoi significati genuini ed essenziali, quell'amore che tutto pervade, almeno "dove lo si fa entrare" [5].
    A rischio di essere frainteso e dunque ridicolo, l'educatore non deve stancarsi di ripetere, e di testimoniare in modo accorato, che la via consiste: "nell'amare di più".
    La spina del nichilismo, quindi, può procurare un risveglio, rispetto alla fase attuale, caratterizzata da un'umanità manipolata ed anche un poco credulona; si viene aiutati ad aprire gli occhi, a superare quell'inebetimento che sembra la caricatura dell'autentica "meraviglia per l'essere". Ma questo non è tutto; come la "notte oscura dell'anima", nell'esperienza mistica, prepara al diffondersi dell'aurora, così l'esperienza del nulla può sprigionare la luce idonea a farci intravedere il centro, il cuore della nostra esistenza.
    L'esperienza del Buddhismo Zen ci fa intendere come esistano diverse stratificazioni del nulla: c'è un nulla esperito come tormentosa insensatezza e c'è un "nulla" sovraessenziale, al di là di ogni forma e nome, e questo secondo strato del nulla sembra più ricco di ogni ricchezza, più pieno di ogni pienezza: ciò che vien chiamato Mu, il "nulla" ineffabile, pregnante e saporoso come l'Essere [6].
    Ogni educatore, almeno intuitivamente, intravede la questione, e comprende la fragilità dell'umano "cuore di carne", risonante però dell'Eterno.
    Il pendolo che per tanti secoli ha vibrato nella direzione della libertà, sembra ora, dopo una forte oscillazione, essere attratto piuttosto dalla sicurezza; proprio su questo clima va orientata la massima vigilanza: non mancano, anzi abbondano, falsi educatori che uccidono, nelle nuove generazioni, il senso del futuro, e non mancano pseudomaestri che vendono, o svendono, il senso del futuro. Si fanno molti affari con guru e nuovi stregoni, che prima suscitano, e poi "curano", le nostre paure (si consideri, in profondità, di quanta credulità superstiziosa sia intrisa l'odierna mentalità).
    In definitiva, occorre distinguere: da un lato, c'è un nichilismo sistematico, che soffoca le giovani generazioni fino all'asfissia spirituale; un tale nichilismo è dalla parte della morte, non intendo la morte fisica, pur in agguato nelle tante dipendenze, ma intendo la morte dell'anima, quella che, forse, dovremmo temere di più.
    Dall'altro lato, esiste un nichilismo come pungolo, tappa per la ricerca di un'intravista autenticità, un nichilismo dunque demistificante e smascheratore. L'educazione genuina è sempre stata un tentativo di rispondere alle crisi coessenziali all'umano; Newman, Rosmini, Blondel e Maritain, fra gli altri, hanno ben colto questo punto decisivo: non i bisbigli dei benpensanti, protesi a sopire e accomodare, ma uno slancio rinnovato d'impegno per l'essenziale può condurci oltre il tornante del nichilismo.
    I cristiani, con singolare intensità e perseveranza, debbono impegnarsi sul versante educativo, in particolare nell'educazione ai valori, contro ogni appiattimento, di fronte ad una sfida che si presenta drammatica e di fronte ad un "vissuto" che potremmo tradurre con l'espressione complessiva: "il tempo stringe".
    Riassumerei così le considerazioni svolte: occorre guardare in faccia, senza spirito di sufficienza né timore, il "vuoto" mal riempito che caratterizza i nostri odierni mondi vitali, "vuoto" a malapena occultato da un vortice artificioso di "cose", impegni e iniziative. E in crisi, oggi, il vincolo sociale della fraternità, perché si è eclissata la figura di un Padre autorevole, e da ciò discende la coalizione smemorata degli egoismi, che si può ricapitolare con la configurazione generale: "una società formata da tanti figli unici".
    Una società, la nostra, euforica perché smemorata, e sono molti decenni che la temperie universale segue tale china; con accento profetico, Rosmini richiamava gli educatori a guardarsi dalle troppo facili lusinghe di una "sensibile felicità", che si può cangiare, repentinamente, in illusione e poi, agevolmente, in amarissimo disincanto.
    C'è "un nobile senso interno da coltivare", ed occorre ricordare "che le sole cognizioni della mente non ci rendono più felici né migliori, senza che questo senso del vero pratico sia bene educato e ben conformato"; aggiunge Rosmini che le cognizioni della mente sono come l'oro per l'avaro: come l'avaro non ha il "cuore", né il "senno" per usare l'oro, così l'insipiente non ha le facoltà per fare un buon uso delle nozioni apprese [7].
    La cura dell'ascolto, oltre la superficiale euforia, del clima nichilistico, può essere accostata a quella certa "tristezza" a cui allude Rosmini, precisando che non intende approvare "qualunque tristezza", in particolare quella che reca con sé "dolore e inquietudine"; mi pare evochi quella malinconia "spontanea e pura" che prova l'educatore, allorché considera, senza belletti, la "verità del nostro stato umano", stato umano caratterizzato non solo dal limite, ma anche dal peccato. Proprio tale contesto, abbracciante l'intera condizione umana, rende grave e problematica ogni azione educativa. Una specifica forma di tristezza, allora, "toglie quelle lusinghevoli promesse che l'amenità stessa dello stile presenta all'animo giovanile"; se tutto questo può indebolire la natura corporea dell'uomo, "solleva immensamente la natura spirituale", persuadendo il giovane della sua dignità, convincendolo al linguaggio della verità.
    Per far ciò, tuttavia, occorre la "cognizione delle indoli", quella che forse, oggi, si chiamerebbe "empatia", conoscenza intuitiva dell'altro e del suo animo che è affatto diversa dalla cognizione dei fenomeni, dei fatti e anche dei costrutti teorici, abbisognando del conforto assiduo dell'esperienza [8]; senza tale investigazione più profonda, il movimento dell'educazione rischia di diventare sempre più estrinseco, additando "mete senza moventi". E ciò indebolisce, prima di tutto, ogni capacità di resistenza nei confronti delle sventure, mettendo i giovani di fronte all'allineamento di troppe domande senza risposte, in un mondo dove non fiorisce la compresenza dei significati e dove l'uomo si aggira angosciato, in faccia al nulla, in cui tutto sembra inabissarsi [9].
    Rosmini e Maritain indicano un cammino diverso, ma più difficile perché più profondo; il segnavia di questo cammino: il Dio di Gesù Cristo, più intimo a noi di noi stessi; per quanto profonda sia la nostra disperazione, Lui attende sull'orlo dell'abisso: là ci sostiene, e si interpone tra noi e il nulla.
    Rosmini colloca, non a caso, a introduzione del suo importante scritto: Sull'unità dell'educazione, un'intensa espressione di S. Agostino, nella quale si presenta il principio divino come ricapitolatore dei frammenti lacerati dell'esperienza umana, come "colligens me a dispersione" [10].

    4. Rosmini, primo scrigno dei valori

    Il nichilismo, con la sua aporia costitutiva, è ben colto nel centro da Nietzsche: "Se si possiede il nostro perché della vita, si va d'accordo quasi con ogni domanda sul come. L'uomo non tende alla felicità; solo l'Inglese fa questo" [11]. L'aforisma, tra parentesi, genera con la sua incongruità, nella seconda parte, un effetto di umorismo caratteristico di tanti testi di Nietzsche; ma tale umorismo è ricercato, per introdurre una certa spezzatura, per offrire una chiusa "minimalista" al lettore, consentendogli di sfuggire ad una retorica perentoriamente rifiutata; l'insieme delle due parti testimonia la percezione intuitiva di Nietzsche, che coglie bene la difficoltà di realizzare ciò che pur si chiede nella prima articolazione dell'aforisma: è assai problematico, per non dire impossibile, restituire vigore e centralità ai "perché", e cioè agli "scopi", in una cultura come quella contemporanea tutta fondata sui "come", cioè sull'accumulo sterminato degli "strumenti", dei mezzi.
    Ciascun educatore consapevole dei suoi compiti coglie subito la natura decisiva della questione, ma presto comprende, altrettanto nitidamente, che molti presupposti di parte della cultura e del pensiero contemporanei non consentono, o quantomeno rendono difficile, la risoluzione di tale questione.
    Usando un linguaggio rosminiano, quel che è in gioco rappresenta il sentimento fondamentale dell'esistere, quel sentire, precategoriale e perfino preriflessivo, che non coincide col moto di assimilazione dei valori, configurandone invece la precondizione fondamentale. È proprio in virtù di tale sentimento fondamentale che la vita umana si presenta, nel suo assieme, come apprezzabile e degna di essere vissuta compiutamente, nonostante contraddizioni e delusioni, anche amarissime.
    Viktor Fankl, psichiatra viennese e fondatore della Logoterapia, ha ben colto l'importanza della sfida di Nietzsche, modificandone, in modo significativo, i termini; infatti Nietzsche, nonostante la prima risonanza del suo aforisma, non intende sostenere che esiste una teleologia inscritta nella realtà, ma evoca piuttosto dei perché suscitati da una volontà umana, anche eroicamente arbitraria; si legge infatti, poco più in là: "Chi non sa porre la sua volontà nelle cose, se non altro ci mette dentro un senso, vale a dire crede che sia già in esse una volontà" [12].
    E tuttavia il lettore, d'impeto, si domanda: come potrà continuare il "gioco", sublime ma anche ingenuo, di un uomo che ha fede in qualcosa che crede oggettivo, ma che lo stesso soggetto costruisce, o addirittura crea? E come potrà l'artificio durare dopo che filosofi e scienziati, inevitabilmente, hanno rischiarato le menti dell'umanità, svelando il meccanismo dell'illusione?
    No, per oltrepassare il nichilismo occorre articolare, in maniera diversa, la relazione fra il soggetto e i significati, che certo sono "suoi", ma non al modo di una creazione arbitraria, bensì di una scoperta graduale e di un'assidua elaborazione e metabolizzazione ... Occorre accedere ad una filosofia per la quale, sia pure oscuramente, una certa struttura preceda, e consenta l'enucleazione e l'assimilazione dei significati.
    Alcuni testi del "teatro dell'assurdo" dello scrittore rumeno E. lonesco rappresentano la condizione umana come murata e prigioniera; e Frankl è stato davvero prigioniero, e a lungo ha "lavorato" per una miglior salute mentale dei prigionieri, interrogandosi su questo punto decisivo: donde trarre le forze (nervose, morali e spirituali), per poter consistere e resistere in una situazione così estrema? Il motto di Nietzsche è così trasformato: "Chi ha un perché per vivere, sopporta quasi ogni come" [13]. Si consideri la trasformazione: si abolisce la spezzatura ironica finale, e più risolutamente si sottolinea il funzionamento reale del sostegno offerto dal "perché": tale "perché" rappresenta un possesso stabile, e l'evenienza di tale possesso è presentata in maniera realistica, e gravida di molte conseguenze (si lascia sospesa, però, la questione filosofica del fondamento di tale prezioso "perché", con un atteggiamento, in senso lato, fenomenologico).
    Ciò che importa è che delle motivazioni adeguate possono corroborare il coraggio dell'uomo, rendendolo interiormente "all'altezza" del dramma del presente, a volte davvero terribile per stenti e per paura. Altri racconti dei sopravissuti dei Lager narrano di persone che sostenevano se stesse fischiettando quel Mozart che avevano imparato, filo della memoria che li legava a una fase, più degna dell'umanità, della loro esistenza; o, come Robinson, si creavano calendari artificiali, intagliati sul legno o scolpiti sulla pietra, per non perdere la scansione del tempo, e dunque per rimaner avvinti alla potenza risanante del ricordo.
    Occorrerebbe sottolineare il "quasi ogni come", rimarcato da Frankl, e presente anche nell'aforisma di Nietzsche; sottolinearlo significa adottare un paradigma realista, riconoscendo che vi sono dolori così acutamente tragici da spezzare ogni resistenza, e ogni abbellimento di tali situazioni-limite appare come urtante retorica.
    La fragilità della posizione di Frankl risiede nel legare la capacità di resistenza ad ogni scopo creduto, ad una fede etica e religiosa qualsivoglia; il limite, che comunque consente di superare l'osservazione quasi incidentale di Nietzsche, consiste nel valorizzare ogni fede e ogni significato, verrebbe da dire anche del sostegno, che provenisse, eventualmente, da convinzioni cieche e fanatiche; una conclusione di questo tipo, nonostante le osservazioni contenutistiche di Frankl vadano in senso contrario, sembra inevitabile, rimanendo fermi ad un approccio puramente fenomenologico; solo la filosofia potrebbe condurci un passo innanzi, e poi uno sforzo approfondito di determinare quale fede ragionevole può infondere conforto, impedendo di piombare in quella disperazione che può così riassumersi: "ormai, non posso sperare più nulla, di nuovo e positivo, dalla vita".
    Anche il senso della propria opera, del proprio lavoro iniziato può conferire ad un uomo quella sensazione di "insostituibilità" che sembra il fondamento di ogni positiva tensione etica, suggerendoci che qualcosa di utile, forse di necessario, ci "attende" nel futuro. Unicità, originalità e insostituibilità costituirebbero le tre percezioni che si squadernano nell'amore tra figli e genitori, fra discepoli ed educatori, conferendo all'esistenza umana un significato, direi un gusto, singolarmente pregnante. Si tratti del lavoro di un operaio o di un artigiano, si tratti della creazione di un grande artista, il gusto d'esistere è comunque trasmesso dalla relazione con un'altra persona, o un'altra opera, e tale relazione si caratterizza come responsabilità e amore. Chi sa che un'opera lo attende, o che una persona l'aspetta, non potrà sbarazzarsi della propria esistenza, come, con verità, sottolinea Frankl ".[14]
    Rosmini, a sua volta, esprime, con acutezza e vigore, il paradosso dell'educatore cristiano: da un lato l'abbandono alla Provvidenza e il distacco interiore che ne consegue, dall'altro il servizio educativo al quale ci si deve dedicare con tutte le forze; in maniera non retorica, ma sostanziale, il compito dell'educatore cristiano esige le risorse interiori della santità: "onde al nostro morir cominci la vera vita" [15].
    Quel che mi colpisce in Rosmini, al riguardo dei valori, è l'insistenza sul tema della giustizia; la giustizia, intesa in maniera retta ed approfondita, non può essere surrogata dalla carità, e la chiamata alla perfezione cristiana esige la giustizia. Nelle Massime di perfezione cristiana (1830), si evidenzia, nella Prima massima, che occorre: "Desiderare unicamente e infinitamente di piacere a Dio, cioè di essere giusto" [16].
    Non va dimenticato che attorno alla giustizia si è svolta una buona parte della polemica anticristiana, o meglio antiecclesiastica, dell'Ottocento, con l'accusa ricorrente, rivolta alla Chiesa, di aver negletto la causa della giustizia, per sovrapporvi un equivoco, e spesso solo enfatico, appello alla carità; basti menzionare P. J. Proudhon che, rivolgendosi a Monsignor Darboy Vescovo di Besancon, dopo aver criticato il presunto oblio della giustizia da parte cattolica, aggiungeva, con una mossa ad effetto ma proveniente da un'impostazione autentica, che era pronto a mettersi al seguito della Chiesa, anzi in ginocchio di fronte ad essa, se essa avesse riabbracciato la causa magnanima della giustizia.
    Ora è chiaro che Proudhon e Rosmini intendono la giustizia in maniera diversa, Proudhon dissociandola dal principio teologico e Rosmini, invece, connettendola al medesimo Principio: ma quel che occorre qui scorgere è l'insistenza comune su questo valore di fondo, così importante da divenir necessario per ogni ricerca di perfezione, di una perfezione adatta per tutti gli uomini, ricerca di una "misura alta", da propiziare con tutto il fervore dell'anima e della mente  [17].
    Proprio guardando al suo ordito generale, si può cogliere il grande rilievo del pensiero di Rosmini per "il compito urgente e la sfida impegnativa" dell'educazione; un pensiero che rifugge da ogni troppo facile improvvisazione, quell'improvvisazione che Rosmini identifica con lo "spirito di superficialità"; si potrebbe obiettare che tale spirito costituisce una caratteristica saliente, sia pur negativa, dei tempi in cui viviamo: ma dobbiamo identificare la posizione del cristiano, di fronte alla questione, come un accettare, per quieto vivere, gli equilibri dominanti? O il cristiano deve accogliere il rischio di essere "segno di contraddizione", muovendosi controcorrente e rifiutando a priori ogni pregiudizio e stereotipo paralizzanti?
    Se ogni cristiano si deve sentir impegnato di fronte al grave problema educativo, quel che va esplorato e chiarito è il come affrontarlo, delineando un progetto educativo che non può essere se non "a strati", in grado di riprodurre la complessità articolata dell'esperienza umana.
    Con Rosmini e i migliori pedagogisti cristiani dell'Ottocento, occorre richiamarsi all' "unità" necessaria in ogni progetto educativo, "unità" presente anche nella difesa della libertà d'insegnamento e nella rete connettiva che articola la dimensione dei valori e l'istanza veritativa, volgendo i cristiani a quella disposizione alla "carità intellettuale" di cui parlava Paolo VI, facendo memoria proprio di Rosmini, e che dovrebbe essere la qualità di ogni cristiano, laico o sacerdote.
    In generale, occorre richiamare l'importanza dell'orizzonte storico, un orizzonte spesso non sufficientemente approfondito, o ridotto a brandelli di erudizione, schiavi di un punto di vista promanante da un tirannico presente. Se si supera l'odierna caricatura di educazione scolastica (si è parlato di una generazione che conosce "venti parole", e di una riduzione della grammatica alla povertà lessicale di Tarzan), si può porre l'interrogativo decisivo: quali sono le origini della presente crisi educativa?
    A che fase storica, a che periodo può esser fatta risalire tale crisi, nelle sue prime scaturigini? Tutto ciò non per amore di erudizione, ma per non appiattire la questione, con la consueta, stordita amnesia. Se l'odierna crisi procede anche, come penso, da una perdita della memoria, che ci costringe spesso ad un'inane ripetizione, ripresentificare la storia dell'Ottocento, con i suoi tentativi di trasmissione educativa da Rosmini a Don Bosco, potrebbe consolidare i vincoli della memoria, proponendo non tanto la ripetizione delle soluzioni, quanto la rielaborazione dei problemi, aiutando, in prospettiva, a contestualizzare la questione della "nostra" Italia, togliendo così ogni patina di astrattezza, o di genericità.
    Da richiamare, aggiungerei, non solo l'orizzonte storico, ma anche quello sociologico, dato che ogni lavoro interpretativo deve riguardare ormai l'intero mondo globalizzato.
    Richiamare la questione dell'unità dell'educazione, significa, inoltre, rifuggire dallo sperimentalismo educativo e dall'attivismo spicciolo, per ricercare il principio dell'educazione; con uno slancio caratteristico dell'eros filosofico, Rosmini cerca di ricondurre tutto al "supremo principio della umana educazione" [18]. Tale principio è, dal pensatore roveretano, così esposto e presentato: "Si conduca l'uomo ad assomigliare il suo spirito all'ordine delle cose fuori di lui, e non si vogliano conformare le cose fuori di lui alle casuali affezioni dello spirito suo".
    Non si vuole, in queste righe, minimizzare il valore dell'interiorità, bensì sottoporre, a me sembra, i capricciosi e momentanei pregiudizi, che attraversano la mente e il cuore, a quella forma della verità che è, in ultima analisi, la misura di ogni nostro moto sia intellettivo, che emozionale (la forma della verità è anteriore, in una certa maniera, all'assommarsi delle cognizioni umane, ma è la precondizione, la disposizione fondamentale affinché queste cognizioni si possano,via via, organizzare).
    Come i moti effimeri e disordinati dell'intelletto e del cuore non coincidono con l'autentica profondità dell'interiorità (dell'"interiorità oggettiva", dovremmo precisare), così la grezza indeterminazione della realtà non pare sovrapponibile alla forma della verità, cosicché le "cose fuori di lui" di cui parla Rosmini vanno intese in maniera genuina e profonda, e non grossolana. Il significato autentico del richiamo rosminiano indirizza all'unità del fine, nei processi educativi, e dunque all'idea di ordine che sembra reggere l'intera prospettiva rosminiana; dopo aver richiamato l'ideale di una "perfettissima unità", Rosmini precisa tale ideale come "ordine perfettissimo": "All'incontro i cristiani camminando al giorno della fede vedono colla mente loro tutte le cose composte in un ordine solo risplendente di mille pregi, ma accolti tutti in perfettissima unità, mirando alla quale non è lor conceduto giammai di limitare i pensieri fermandoli dal loro corso in qualche oggetto sparso in sulla via che percorrono, ma sono costretti a portarli d'un tratto quasi con rapidissimo volo all'ultimo anello della catena di tutte le cose, alla ragione ultima, a Dio" [19].
    Non si potrebbe descrivere meglio il valore di una concezione globale, fondata su di una fede ragionevole, per organizzare il tessuto dell'esperienza, rendendo coerenti le riflessioni che, sull'esperienza stessa, si possono operare; si delinea una specie singolare di ascetica della mente, capace di generare, secondo una giusta gradualità, concentrazione, attenzione e attesa paziente: sembra il clima più propizio per favorire un apprendimento che non si dissipi nel tempo, ma che metta, al contrario, radici nella profondità dell'essere umano.
    In continuità con queste considerazioni, Rosmini valorizza il senso del limite, disegnando una prospettiva educativa che tenga conto del senso del limite, anzi lo rammemori continuamente. Nel saggio che inaugura gli Opuscoli Filosofici, Rosmini sottolinea come vi sia una "naturale limitazione" nell'uomo; l'errore degli utopisti e di quei perfettisti che insegnano la perfezione già in atto dell'umano, e non la difficile perfettibilità, consisterebbe precisamente nell'ignorare tale limitazione originaria, originaria giacché l'uomo conosce solamente ciò che a Dio piace, naturalmente o soprannaturalmente, rivelargli.
    Questa posizione rosminiana è feconda di ammonimenti e indicazioni positive anche in politica; non conosco, francamente, tema più urgente e rilevante dell'educazione al limite (per accennare solo ad un esempio, anche se macroscopico, il totalitarismo, rispetto al liberalismo, può anche configurarsi come una deriva di sforamento collettivo di tutti i limiti, fino al loro conclusivo stravolgi mento).
    In definitiva, ritorna in ogni educatore ed in ogni giovane il prepotente interrogativo kantiano circa "ciò che possiamo sperare"; schematizzando, si possono distinguere tre alternative: la prospettiva delle speranze grandiose, ma immotivate, capaci dunque di illudere e poi, amaramente, deludere; la prospettiva del luttuoso pessimismo e catastrofismo, che sembra azzerare ogni speranza ed annientare, perfino, ogni varco positivo; infine, la prospettiva delle speranze plausibili, ragionevoli, dotate di qualche fondamento, in quanto collegate all'assiduo sforzo di perfettibilità dell'essere umano. Se l'educatore, come ricordava anche Don Orione, è grande per la sua capacità d'incoraggiamento, ogni atto educativo, in profondità, è trasmissione di un senso di speranza, infusione del senso di una speranza ragionevole. "Educare è sperare", come anche di recente si è tentato di sintetizzare [20].
    La persona che si abbandona o allo sconforto del catastrofismo, o alle illusioni senza fondamento dell'utopismo, rischia di perdere se stessa; come notava con acuto umorismo Kierkegaard: "Il pericolo più grande, quello di perdere se stesso, può nel mondo passare così inosservato; di ogni altra perdita, della perdita di un braccio, di una gamba, di cinque talleri, della moglie ... uno se ne accorge certamente" [21].
    Nell'opera educativa, il rischio dei rischi consiste, a mio giudizio, nell'istillare il gusto della libertà, che può quindi portare a cammini non programmabili e anche, a volte, a cammini irreparabili, entro il dramma della quotidianità; per tale gusto della libertà, si deve preferire di mettere in gioco la propria stessa appartenenza, essendo più importante non tradire se stessi, che tradire la propria appartenenza costituita.
    Ambedue: sia Rosmini, sia Maritain hanno coltivato, con notevole coerenza, la trasmissione dei valori come decisivo perno di ogni azione educativa; ambedue, protesi al nocciolo della persona, consapevoli del paradosso per il quale si nasce persona, ma lo si diventa ogni giorno di più, in un incessante cammino di maturazione che potremmo chiamare: personificazione.
    Rosmini, rispetto a Maritain, sviluppa maggiormente l'interessante aspetto giuridico, importante per la salvaguardia pratica, non solo in chiave morale, dell'universo personale e della sua dignità: tale cura per la dimensione giuridica brilla singolarmente nella celebre connotazione rosminiana della persona come "diritto sussistente", connotazione che tanto impressionò un profondo giurista come Giuseppe Capograssi [22].
    Quando si riferiscono alla persona, Rosmini e Maritain - pensatori convinti dell'importanza dell'educazione, anzi, in un certo modo, del suo primato in funzione di ogni metamorfosi salutare -non si abbandonano ai consueti voli retorici sulla persona, di sapore incantatorio e vagamente ipnotico, discorsi che contrabbandano, sovente, la soluzione con il problema aperto (con caustico sarcasmo, Maritain presentò il tema della persona come "la torta alla crema della chiacchiera cattolica"), ma sviluppano un genuino approfondimento circa la persona; può esser significativo ricordare come ambedue trattino del tema educativo e della centralità della persona in quasi tutti i loro scritti, sia pure per spunti, e non solo nelle opere specificamente dedicate alle questioni pedagogiche.
    Quando Maritain, ad esempio, tratta il tema della "distinzione" (in Humanisme intégral), non ne fa, soltanto, una questione di metodologia astratta, ma tenta di inserire una decisiva attenzione educativa, un'indicazione a non compiere, anche nell'impegno sociopolitico, sovrapposizioni e cortocircuiti, compromettendo la fisionomia particolare di ogni ambito; in una simile maniera andrebbero intese, a mio giudizio, le forti critiche rosminiane agli utopisti, negli Opuscoli politici, e ai perfettisti, nella Filosofia della politica: critiche come ammonimenti a coltivare una "cultura del limite", un "umanesimo del limite", lungi da ogni ebbrezza priva di equilibrio, conducente fatalmente allo scacco e al disinganno conclusivo.
    La libertà si configura come l'atmosfera in cui i valori vivono, possono essere intuiti, colti ed assimilati nell'itinerario esistenziale di ogni uomo; ma i valori cardine sembrano, come stelle polari, la giustizia, il bene e la verità, una verità distinta dall'esattezza, come spiega una memorabile pagina di D. Bonhoeffer; la persona che si autoeduca compie il difficile cammino che conduce dall'intuizione/afferramento del valore alla sua assimilazione vitale; il problema dell'educazione, dal punto di vista dei valori, si presenta necessariamente come ricerca della connessione e dell'armonia fra i diversi valori (essi possono, come risulta anche dal concretissimo dell'esperienza educativa, manifestarsi anche come unilaterali, conflittuali perfino tirannici).
    In sintesi, ciò che la riflessione di Rosmini ci lascia come eredità, da inventariare criticamente e far fruttificare:
    1. l'esigenza dell'unità nell'educazione e nei saperi che l'educazione reclama; certo un'unità da pensare secondo modalità radicalmente diverse da quelle prospettate da Rosmini, in qualche modo ancora influenzato, così mi sembra, dall'ideale dell'enciclopedismo settecentesco. L'unità che oggi si reclama è secondo un ideale di convergenza, una convergenza flessibile e articolata, oltre la rigidità di un'unità del sapere concepita secondo gli schemi illuministici e poi positivistici (si potrebbe riprendere l'approfondimento rigoroso del tema interdisciplinare, che aveva proposto D. Antiseri verso la fine degli anni Settanta del Novecento [23]).
    2. Rosmini ha ben colto, e qui si manifesta il vigore del suo retaggio, l'essenza "religiosa" di ogni azione educativa, beninteso non concependo la dimensione religiosa come dimensione confessionale, ma come ricerca di un'educazione pervadente e pervasa dall'ideale dell'armonia e dell'impegno etico; Giovanni Gentile, da filosofo autentico, ha ben colto questo lato della proposta rosminiana, scorgendo in essa il barlume di una "nuova Italia", in lotta più ancora con se stessa, e con i propri "errori" storici, piuttosto che con le potenze occupanti straniere.
    Quando Rosmini insiste sulla centralità dei "doveri", e sull'unilateralità della pura rivendicazione dei diritti, lo fa per la cogenza di un affiato religioso, partecipando l'uomo, nella sua esistenza, al vincolo più ampio dell'intera società.
    Il problema dello scritto rosminiano Della sommaria cagione è, a tratti, il problema della Storia dell'amore e della Storia dell'empietà: che cosa tiene insieme le società, che cosa può controbattere la loro decadenza e degenerazione, terapeutizzando quei mali che, quasi necessariamente, reca con sé l'obsolescenza di ogni società?

    5. Maritain, il secondo scrigno di valori

    Educare alla verità, ma a una verità che non coincide con lo spirito di precisione e di esattezza, essendo indissociabile da quel clima di simpatia ed empatia, nel quale soltanto può fiorire una curiosa e aperta ricerca della verità; D. Bonhoeffer ha ben colto la distinzione fra verità e spirito di esattezza in una pagina famosa, nella quale ricorda l'aneddoto del bambino che difende, con calore, la fragilità del padre. Ebbene, sostiene Bonhoeffer: "Si può dire che la risposta del bambino è una bugia, ma è una bugia che contiene più verità, ossia che è più conforme alla verità che non una risposta in cui egli avesse ammesso davanti a tutta la classe la debolezza paterna" [24].
    È proprio la fecondità della parola autentica il cuore dell'atto educativo; proprio per l'indissociabilità della verità dall'amore, si deve insistere sulla figura paradossale del fare la verità; come ben intuito da Bergson, il fuoco dell'azione non è convenientemente valorizzato dal pensiero greco, puntando lo stesso Plotino sul primato dell'intelletto. Memori del retaggio ebraico, sia il Vangelo di Giovanni, sia le Epistole di Paolo propongono la nuova e inquietante figura del fare la verità, uno dei centri autentici della rivoluzione spirituale cristiana.
    Rosmini si mostra ben conscio dei termini e del rilievo di tale rivoluzione spirituale, chiarendola adeguatamente a partire dal mistero dell'Incarnazione; non si può minimizzare la portata di codesto mistero, che sembra davvero cambiare la faccia del mondo: per quel che concerne la prospettiva educativa, non basta afferrare intuitivamente i valori, ma occorre incarnarli nei comportamenti di ogni giorno, nutrendosi di essi, fino a metabolizzarli e a trasformarli nella vita della propria vita.
    "Il Verbo poi incarnato così per opera dello Spirito Santo estese la sua unione a tutte le potenze ed alla carne stessa, onde poté dire S. Giovanni che il Verbo si fece carne, come pure mandò lo Spirito Santo in esse e negli altri uomini, prima i doni e poscia la medesima persona che loro suggerisse praticamente quant'egli loro diceva, quasi, teoreticamente" [25].
    Nel passo riportato sopra, emerge la forza dell'"essere teandrico" così come concepito da Rosmini: la prospettiva teandrica consente di oltrepassare le separazioni, caratteristiche della modernità filosofica e antropologica, in direzione di una profonda unità. Può esser interessante vedere l'orientamento che l'interpretazione rosminiana andava assumendo; ad un certo punto, L'introduzione del Vangelo secondo Giovanni commentata si interrompe, e non viene più ripresa, per delle ragioni che hanno dato luogo, da parte degli esegeti, a diverse valutazioni; ma di grande interesse mi sembrano le ultime righe, che indicano, oltre le separazioni, un cammino teologico e spirituale assai promettente: "Come dunque Cristo unifica la natura umana, così il suo Santo Spirito unifica le persone umane nella più intima società ... " [26].
    Sono partito dal nichilismo, il più inquietante fra tutti gli ospiti, un ospite che si aggira nelle nostre dimore e nelle aule universitarie, senza che si riesca a congedarlo, o a metterlo alla porta, e senza neppure, forse, saperlo guardare bene in faccia [27]; la pressione di quest'ospite inquietante è sottesa al fenomeno delle tossicodipendenze e al "ritmo del cuore" delle musiche giovanili, della loro simbolica e di quelle danze che promettono la liberazione del corpo e la sua gioiosa sperimentazione. Ho ravvisato nella figura della separazione una delle chiavi per intendere quel disincanto che costituisce come il sottofondo del nichilismo, in ambito giovanile; infine, ho tratteggiato il problema di quali valori ci possono avviare ad un processo educativo di emancipazione gioiosa: l'educazione, dunque, come relazione, fondata sull'empatia e sulla pratica di una generosità nascente dal con-patire.
    "Gli errori massimi sono quelli pe' quali chi governa una società perde di vista quanto costituisce la sussistenza di essa società, sollecito soverchiamente di ciò che forma il suo accidentale perfezionamento" [28]. Con il termine "sussistenza", Rosmini intende indicare l'essenziale di cui vive una società, non limitandosi esclusivamente al significato materiale, pur necessario ed importante; Rosmini ha di mira il complesso volume, anche etico e spirituale, della "civil società". Il termine e concetto di "sussistenza" esprime dunque il disegno rosminiano volto a indagare, con maggior profondità, l'orizzonte globale del desiderio umano.
    L'indagine filosofica delinea un'antropologia con al centro l'uomo come "volontà intelligente", promotore di una filosofia della società che salvaguardi da troppo facili fanatismi, capaci di generare rivoluzioni con altissimi costi umani; il desiderio deve quindi essere orientato da un principio di razionalità.
    L'uomo, con un moto di purificazione della sua intelligenza, dovrebbe "svuotarsi" dalle personali congetture e dalla stretta degli accecanti egocentrismi, non illuminati da una Sapienza più elevata: in questo punto cruciale, Rosmini apre la sua indagine filosofica e valorizza l'esperienza della contemplazione.
    Educare alla contemplazione, e al suo primato, significa non abbandonarsi ai soli criteri dell'utilitarismo, ubbidiente spesso alla grigia idea di "funzione"; con molta preoccupazione, Rosmini intuisce il fenomeno emergente della tecnocrazia, governata dallo stesso presupposto che ha ispirato quel "fuoco nella mente" che ha stregato i rivoluzionari, e tale presupposto è l'idea dell'universale plasmabilità del mondo sociale, prima che politico [29].
    In verità, non si potrebbe immaginare come un'anima contemplativa, adusa a coltivare l'umiltà e la consapevolezza del limite umano, possa abbandonare il controllo razionale e affidarsi a illusioni arbitrarie come quelle agitate dai Sansimoniani, vero punto di sutura fra gli ideali rivoluzionari e quelli tecnocratici.
    La lotta contro gli angusti schemi utilitaristici e pragmatistici affianca, circa cento anni dopo, gli scritti di Maritain a quelli di Rosmini; sul valore della contemplazione, ecco quanto afferma Maritain: "Per vita attiva, gli antichi intendevano due cose distinte, ma che procedono insieme: l'attività esteriore in mezzo agli uomini e lo sforzo nel perfezionamento della virtù; l'uomo antico, nella sua scala di valori e nella forma della sua cultura, rimaneva dominato dall'ordine verso la perfezione. Il mondo moderno ha completamente sovvertito quest'ordine essenziale della vita umana. L'azione non trionfa del tempo che nella misura nella quale procede dalla contemplazione che unisce lo spirito all'eternità. Senza la contemplazione, ogni dottrina filosofica e teologica, anche vera, volge verso la setta; ogni zelo, anche buono, alla rivalità" [30].
    Con quest'affermazione, tratta dalle considerazioni riguardanti il primato della contemplazione, il filosofo francese delinea chiaramente le conseguenze di una qualsiasi, sia pur nobile, arte dell'azione che non proceda dalla contemplazione.
    In prima istanza, ciò che accomuna Maritain e Rosmini è proprio il continuo sottolineare che ogni azione umana, se non è guidata da uno sfondo contemplativo, è destinata a sfociare in un atteggiamento attivista, che si conclude nelle derive più tragiche e in quel naufragio che G. Marcel ha così sintetizzato: l'uomo contro l'umano.
    Nel pensatore roveretano, la contemplazione procede dal "principio di passività" che "conduce Rosmini a sgombrare il suo animo da ogni angoscia e turbamento, rendendo disponibili le sue energie per un vasto progetto di ripresa della filosofia e della cultura d'ispirazione cristiana" [31].
    Lontana da deviazioni pietistiche, la contemplazione consente, paradossalmente, a Rosmini di conseguire anche il fine pratico-educativo del suo progetto filosofico.
    I due Autori, in maniera intrecciata, invitano il lettore a prender le distanze da tutte quelle ideologie o dottrine che non abbiano alla base un'attività contemplativa, che non siano costruite attorno ad un tempio (cum-tempio), non procedendo cioè dalla cura dell'ascolto e da un'ispirazione superiore, che sia lievito e orientamento per l'azione stessa.
    Concludendo su questo punto, accedere a una simile prospettiva non significa abbandonarsi alla tentazione dell'integralismo, o di una sorta di monopolismo spirituale: si tratta invece di lasciar proseguire la contemplazione nella sua naturale direzione rivolta verso il mondo; contemplazione che sovrabbonda e trabocca in azione, secondo la felice e incisiva formula di Maritain.
    Maritain sviluppa una concezione, ampia e approfondita, della persona umana: "L'uomo è una persona che si possiede per mezzo dell'intelligenza e della volontà. Egli non esiste soltanto come un essere fisico; c'è in lui un'esistenza più nobile e ricca, caratterizzata dalla spiritualità, dalla conoscenza e dall'amore. Egli è così, in un certo senso, un tutto, e non soltanto una parte" [32].
    In altri termini, l'uomo è un microcosmo [33]; ne L'educazione al bivio (1943), Maritain sviluppa una vasta analisi di quelli che a lui sembrano gli "errori" fondamentali dell'educazione contemporanea; tali errori sarebbero, sostanzialmente, sette: il misconoscimento dei fini, le false idee riguardanti i fini, l'attivismo pragmatistico, il sociologismo, l'intellettualismo, il volontarismo e, infine, la diffusa pretesa che tutto sia insegnabile [34].
    In questa pars destruens, appare singolarmente impegnativo il confronto con la pedagogia fiorente negli USA, caratterizzata da un'intensa vena di pragmatismo (si consideri soltanto il rilievo dell'impregnazione educativa procurata dalla filosofia di J. Dewey).
    C'è da ricordare come il confronto con la vecchia Europa avesse istillato, in Maritain, una profonda ammirazione per la way of life americana; mi pare notevole, tuttavia, che codesta ammirazione non si estenda al sistema educativo degli USA e, soprattutto, alle idee filosofiche ispiratrici di tale sistema. L'utilitarismo frenerebbe la conquista della libertà interiore, quella libertà che l'uomo può conseguire esponendosi, e anche donandosi, in prima persona: "E, parlando della volontà e dell'amore più che della conoscenza, dirò che nessuno è più libero, o più indipendente, di chi dà se stesso per una causa, o per un essere degno di questo dono" [35].
    La conquista della libertà interiore esige uno sforzo costante, una concentrazione e uno spirito agonistico continuo; con accenti non dissimili da quelli di M. Buber, Maritain identifica lo scopo dell'educazione nello sviluppo dinamico nel quale "l'uomo si forma in quanto persona"; fra le pagine più profonde, si considerino quelle dedicate ad una'acuta critica dell'esagerata stima pragmatista per l'azione; qui Maritain opera alcuni importanti "distinguo": non che l'azione e la vita pratica non abbiano rilievo, anzi sembrano il frutto necessario, la testimonianza ultima della positività di ogni idea, teoria e cammino contemplativo ... Ma l'azione e la vita ricevono "dignità" dallo scopo a cui tendono: "la contemplazione, in cui l'esistenza umana aspira a fiorire, sfugge all'orizzonte dello spirito pragmatista".
    Ora Maritain sa bene che ci sono alcuni importanti presupposti psicologici e antropologici del pragmatismo, e deplora che il pensiero umano venga "ridotto ad un organo di risposta agli stimoli e alle situazioni attuali dell'ambiente" [36]; concezioni siffatte non possono che sfociare in "vedute", in intuizioni di carattere soggettivo, alla ricerca soltanto di una possibile "sanzione pragmatica".
    Con il pensatore francese, sintetizzerei così: "La pedagogia moderna ha fatto incomparabili progressi nell'accentuare la necessità di analizzare attentamente e non perdere mai di vista il soggetto umano. Il torto comincia quando l'oggetto da insegnare e il primato dell'oggetto vengono dimenticati, e quando il culto dei mezzi - non per il fine, ma senza fine - sfocia in una specie di adorazione psicologica del soggetto" [37].
    La citazione sopra riportata ricapitola felicemente il "messaggio" di Maritain, quanto ci vuole dire, ma, per esprimermi schiettamente, ho qualche dubbio sulla precisione e sul potere di chiarificazione di quel "primato dell'oggetto"; piuttosto, mi sembra rilevante la collaborazione pedagogica che Maritain istituisce con la corrente di "Education for Freedom", e in particolare con R. Hutchins e M. Adler; da loro assume una categoria interpretativa delle odierne aporie educative, e "miserie" pedagogiche: il presentismo, intendendo con questo termine e concetto lo schiacciamento su di un'attualità senza profondità e memoria; ecco, il rischio dei rischi dell'educazione d'oggi è, o così mi pare, l'omologazione in un presentismo privo d'anima ed interna coerenza.
    Se Maritain si fosse limitato alla pars destruens, ne sarebbe uscito un quadro "in nero", magari con qualche esagerazione un po' querula; Maritain ha invece prodotto un'importante riflessione sulla natura e la qualità della relazione educativa, valorizzata in una chiave maieutica: il fine dell'educazione consisterebbe nel "liberare le buone energie, intellettuali come emotive" [38].
    L'autentica educazione farebbe appello all'esperienza, ma sottoponendola al vaglio critico della ragione e al confronto con l'operatività; occorre un approfondimento interdisciplinare, perché non si disgreghi l'apprendimento e, soprattutto, occorre impartire almeno i primi barlumi dell'educazione in forma liberale per tutti, senza sovrapporre da subito, o troppo prematuramente, strategie di iperspecializzazione.
    La scienza è un nutrimento indispensabile per la mente degli uomini, ma ai più giovani, secondo Maritain, non si può insegnare subito la scienza degli adulti, magari semplificata e banalizzata: "La conoscenza che bisogna dare al fanciullo è una conoscenza allo stato di leggenda e di storia da raccontare, un cogliere le cose e i valori mediante l'immaginazione". L'universo mentale del fanciullo sembrerebbe caratterizzato dal pensiero immaginativo, per cui "è in virtù della seduzione delle cose belle e delle azioni e delle idee belle che il fanciullo deve essere destato alla vita intellettuale e morale".
    Anche nelle fasi ulteriori del processo educativo, deve rimaner vivo lo slancio della prima scoperta, anche mediante la lettura dei grandi libri che punteggiano la storia della civiltà umana. Così si potrà giungere all'approccio con la scienza allo stato adulto, in una concezione finalmente specificata secondo le attitudini individuali e i percorsi pratico-applicativi, in cui il pensare si determina come "pensare con le mani", pensare con la concentrazione di tutta la persona.
    L'organizzazione degli studi dovrebbe affiancare all'idea di Università il progetto di Alte Scuole Professionali, rivolte a specifiche competenze e procedure.
    In breve, lo sfondo della proposta educativa maritainiana è costituito dalla società degli USA a lui coeva, dalla sfida del totalitarismo e dalla necessità di evitare lo specialismo cieco, come la presunta onniscienza del "tuttologo"; la proposta di impartire a tutti almeno alcuni elementi dell'educazione liberale va precisamente nel senso di evitare il superspecialista cieco. Nell'ambito della contestazione giovanile del 1968, è ricomparso quel soffio libertario la cui necessità Maritain sembra riconoscere: lo Stato non deve imporre la sua cultura, mentre le famiglie e le persone debbono veder riconosciuta la libertà di insegnamento: in senso lato, sia Maritain che Rosmini possono essere annoverati nella famiglia dei cattolici liberali, liberali e dunque non statalisti, famiglia che è stata illustrata da autori come Lord Acton e in Italia dalle proposte pedagogiche di Tommaseo, Lambruschini, Capponi e Casati [39].
    Liberalismo e democrazia evidenziano un loro credo civile di libertà, cioè una loro filosofia pratica, fondata sul rispetto della Carta costituzionale che ogni popolo si è data. Maritain si domanda come sia possibile insegnare quelle norme comuni che ogni Carta contiene: una delle indicazioni è di far perno sulle conclusioni pratiche, indipendentemente dalle giustificazioni teoriche che le varie famiglie culturali sono propense a dare.
    Le motivazioni interiori sembrano non influire sulla possibilità pratica di convergenza, ma certo Maritain si rende conto della difficoltà del problema: la Nazione non coincide con lo Stato, è meno omogenea, e dunque anche la scuola dovrebbe esser scuola di Nazione, una e molteplice allo stesso tempo; non una scuola neutra, ma una scuola libera, e dunque non un'educazione indeterminata, ma una scuola capace di promuovere una libera determinazione in relazione alle verità che si vengono ad apprendere, comprese le verità religiose.
    Maritain completa le sue considerazioni in L'educazione della persona [40]; più che reprimere, l'educazione deve liberare le energie positive delle persone; essa deve evitare sia il dispotismo, sia l'anarchismo, sviluppandosi come arte maieutica, capace di liberare il potenziale dell'intelligenza, soprattutto l'intuizione, e infine "equipaggiando l'uomo per la verità" [41].
    Per quanto concerne i valori, essi sono necessari per ordinare la ricerca della verità e della bellezza, alla luce di una sapienza capace di mostrarci una stabile gerarchia dei valori medesimi; ritornano le critiche all'utilitarismo esagerato e a quel pragmatismo che si manifesta, ultimamente, come mero tecnicismo e funzionalismo. Occorre mettere lo studente davanti al reale, per fargli gustare la bellezza e conoscere la verità, superando quell'apprendimento meccanicistico che sembra uccidere l'aspirazione alla verità sul nascere.
    Occorre un'educazione liberale di base per tutti, in modo da sollecitare la freschezza e la curiosità spontanea della ragione, nutrendola con la vita dell'immaginazione.
    L'educatore deve, innanzitutto, orientare, lasciando poi ai singoli cammini di coltivare l'intelligenza specificata dalle virtù intellettuali particolari. Infine, l'educatore non deve dimenticare che l'educazione inizia nella scuola, ma termina nella società; occorre allora un'effettiva garanzia di pluralismo nell'insegnamento, riconosciuto dalle Carte costituzionali, essendo i più profondi problemi educativi dei problemi di civiltà.
    Non va trascurata l'educazione morale e sociale, e neppure quella religiosa, preparata comunque dall'istillare l'amore della verità; ogni vero educatore deve possedere convinzioni profondamente radicate, e manifestarle con franchezza, lasciando che lo studente faccia lo stesso con le proprie persuasioni personali.
    In relazione a De Hovre e a Hessen, Maritain chiarisce il rapporto tra educazione e valori. Non c'è una pedagogia neutra; o essa non è neutra, o essa non è pedagogia, onorando ogni pedagogia un valore supremo: Spencer la natura, Comte l'umanità, Rousseau la libertà, Dewey la società ed
    Emerson l'individuo. Dunque, solo ricollegandosi alla filosofia la pedagogia potrebbe acquistare di nuovo un carattere di scienza autentica; l'educazione si connette a una tradizione, a una paideia: "Nessun uomo è veramente educato se ignora le proprie radici, e quelle europee sono la letteratura greca e latina e l'assieme delle Sacre Scritture" [42].
    Ho preso le mosse dagli interrogativi provenienti dalla complessità, una "cattiva" complessità, generatrice di nichilismo; secondo alcune sfumature di significato, la "cattiva" complessità sarebbe quella che annienta il pensiero, rappresentando il tormento di una riflessione che non riesce ad attingere il profondo, un profondo che traluce sempre oltre.
    La banalità delle risposte possibili consisterebbe, in ultima analisi, nell'immediatezza, non nella volontà, comunque, di volere ricercare una risposta. In breve, in filosofia come in pedagogia, non si configurerebbero risposte assolute e soprattutto immediate, a rischio di banalizzazione, ma nulla può negare la legittimità di ricercare una risposta, riaffilando gli strumenti critici dell'interpretare e dell'agire. Più che risposte preconfezionate, l'educatore dovrebbe tentare di fornire delle bussole per la complessità, indicando un cammino e un progetto, da vivere, non solo da pensare.
    La plurivocità di senso implica una ricchezza di ulteriorità che non si lascia esaurire, e che occorre cercare di capire, invece che deridere.
    In una parola, l'educatore deve essere, anche nel piccolo, sperimentatore e ricercatore, senza venir risucchiato dal compiacimento della ricerca: un educatore che, evitando ogni automatismo etico e ogni spersonalizzazione, sappia usare un linguaggio di chiarezza, forte ed essenziale.

    6. Scegliere un paradigma di realismo educativo

    Di fronte alle prospettive, così sapientemente articolate, di Rosmini e Maritain, il lettore può far osservare che è trascorso molto tempo, che gli avvenimenti hanno cambiato le basi della società, facendo affiorare problematiche mutate, e dunque, almeno in una certa misura, nuove; emerge, nella contemporaneità, una cruciale crisi dei significati, che fa da sfondo alla questione educativa. Ora, una radicale riflessione filosofica potrebbe conferire ulteriore consistenza all'analisi di tale crisi: associando, per indicare una sola direzione, la temperie nichilista al dilagare di una certa concezione della tecnica, fino a configurare il fenomeno intrecciato del tecno-nichilismo [43].
    Un secondo aspetto che occorrerebbe approfondire: la perdita dell'orizzonte comunitario nell'educazione, che colpisce proprio la natura più profonda dell'educazione, la natura relazionale; intendendo per comunità il profilo sociologico, e per comunione quello spirituale, non v'è dubbio che ambedue i versanti manifestino segni di logoramento, a fronte dell'individualismo radicale e della perdita del paradigma comunitario, sfociando infine in una generale eclissi della società fraterna (G. Campanini).
    Codesto autentico nodo dovrebbe esser collocato al centro dell'intera riflessione: crisi del padre e dell'autorità in generale, erosione dei valori e sostituirsi della "verità della forza" alla "forza della verità", e, infine, la riduzione del valore alla mia opinione, anche erratica e capricciosa: sono tutti aspetti intersecati di una progettualità educativa che sembra aver perduto semplicità, essenzialità e slancio, per riconfigurarsi, in molti casi, come mera coercizione, priva di ragionevolezza.
    La questione insorgente è quella di individuare il fulcro, il perno dell'azione educativa; ora occorre capire che l'educazione non può ridursi a rapsodico esempio (pur necessario), modellandosi invece a partire da un'intensa attenzione per il metodo; come ci ha spiegato autorevolmente S. Weil, educare consiste nell'imparare a pensare, nell'insegnare a pensare, secondo le linee di un'ascetica dell'attenzione che coinvolge, a partire dalla mente, la corporeità tutt'intera.
    Quando dunque si ascoltano i consueti discorsi generici: "è colpa dell'uno", "è colpa dell'altro", "la responsabilità sarà dei padri che hanno fatto il '68, o dei figli dei padri sessantottini": ebbene, simili litanie non approdano a nulla, tramutandosi in un rimpallo di imputazioni, svolte nella chiave di un perenne moralismo. Non c'è colpa alcuna in maniera isolata, ma ci sono responsabilità intrecciate di molti, da condividere entro meccanismi sociali e istituzionali complessi: problematiche da affrontare con articolato spirito di analisi, supportato da adeguati strumenti, con un'attitudine a comprendere che non significa affatto plenaria legittimazione.
    Desidero sottolineare l'urgenza di una "caratterologia", sgorgante dall'impegno di educare personalità ben salde, quindi autonome e ragionevolmente stabilizzate [44]; ma come propiziare la fioritura di simili personalità? Ho accennato sopra al rilievo dell'incoraggiamento, ma occorre ora scendere più in profondità: per educare, bisogna, innanzitutto, stabilire un clima di fiducia, un contatto profondo a livello interumano, che non comporti equivoci o travisamenti; occorre conoscere l'altro nelle sue aspirazioni più profonde, nelle sue necessità materiali e anche spirituali, infine nella sua sofferenza, in un movimento di straordinaria empatia. "Qual è il tuo tormento?", "qual è il tuo desiderio?": queste le domande radicali che ogni educatore dovrebbe porre negli incontri quotidiani, oltre alle rigidezze burocratiche e alle barriere programmatiche (si ricordi la testimonianza che ci manifesta un Rosmini nell'atto di interrogarsi sul cammino futuro del giovane, o giovanissimo, che aveva di fronte, da educare).
    Oltre il rincuoramento, che ho ricordato, è indispensabile, a mio credere, fare esprimere, e talora far ritrovare, il senso della dignità di ognuno: per educare convenientemente una persona, si deve, in prima istanza, elevarla ai suoi stessi occhi (dunque il rincuoramento, di cui parlavo, è solo un preambolo rispetto all'autentica azione educativa).
    A volte gli educatori, anche quelli d'ispirazione cristiana, ritengono che il loro compito si esaurisca nel proporre orientamenti, ma l'educare implica e reclama una dimensione molto più esigente: quella di proporre moventi; l'atto dell'educare è frutto di una savia maieutica, come ci ricorda il Socrate di Platone, in una sorta di parto intellettuale e spirituale, capace di suscitare risorse ed energie, facendo riardere le braci quasi spente; se non si forniscono tali risorse ed energie, e anche strumentazioni concettuali e morali, si finisce per schiacciare le persone, additando loro impegni troppo gravosi: voler orientare delle creature umane, senza assicurare il fiorire in loro di adeguati moventi, è come voler fare avanzare una macchina in difetto di combustibile, forzandone l'acceleratore.
    Il personalismo pedagogico d'ispirazione cristiana, ancora nel Novecento e proprio in Italia (Stefanini, Calò, Bongioanni, Catalfamo, Flores ...), ha vigorosamente approfondito questi temi, e occorrerebbe, secondo il mio giudizio, recuperarne criticamente le proposte, pur in una società così cambiata, accompagnando gli studi più rigorosi con un impegno di diffusa volgarizzazione, o meglio di comprensibile divulgazione, capace di permeare la scuola e la società intera nelle loro articolazioni, coinvolgendo associazioni, movimenti di opinione e strumenti di comunicazione [45].
    In breve, l'ufficio, da riprendere sempre daccapo, è quello di promuovere un'approfondita proposta educativa, secondo una linea che scorra, incessante, dalla base al vertice e dal vertice alla base, tenendo conto che c'è una dimensione, implicita ma decisiva, che vien prima della stessa dimensione religiosa e decide, in una certa maniera, la sua accoglienza medesima. Ho chiamato sopra questa dimensione: "sentimento fondamentale dell'esistere", un sentimento non tematizzato, e nondimeno condizionante; giustamente, occorre allora valorizzare la vita nel suo complesso, e ciò rinvia ai compiti ineludibili della famiglia, il principale ambito nel quale - con gesti, parole ed esempi - tale sentimento fondamentale può venir trasmesso, in modo persuasivo e non effimero [46].
    Non dimentichiamo che, tra le difficoltà odierne connesse alla sfida educativa, occorrerebbe svolgere almeno qualche considerazione sulla crisi dello Stato, caratteristica dei nostri tempi e all'origine di tante aporie che gli educatori d'ispirazione cristiana incontrano nel loro operare quotidiano [47].
    Per inciso, riaffiora con forza il problema del linguaggio, uno dei più delicati e perfino scivolosi: occorre approfondire il problema del linguaggio, anche per far capire le proprie ragioni, almeno a una gran parte degli interlocutori. Chi non partecipa alla vita di fede, fa fatica a comprendere cos'è la fede, e tende a vederla come emozione extrarazionale, come puro palpito del cuore, se non come forza oscura dell'irrazionale. La Chiesa vuol presentarsi come maestra e istitutrice, ma oggi questa autocomprensione incontra molti svisamenti ed equivoci, precompresa com'è in termini di volontà di dominio e controllo. Occorre davvero, invece, che l'educazione cristiana sia esposta e praticata come dono, in una chiave pienamente intellegibile, e con uno spirito autentico di generosità.
    Nel complesso della percezione del mondo contemporaneo, occorrerebbe, ulteriormente, valorizzare gli aspetti più positivi, orientandosi a rifiutare la diffusa riduzione di ogni dimensione della vita a quella dell'utilità, soprattutto individuale, percepita attraverso le vibrazioni di un desiderio che non si lascia commisurare al Bene.
    Non conosco, infine, un ideale educativo più fecondo di quello di una libertà pervasa di responsabilità (e su questo punto l'incontro con certi filoni del pensiero contemporaneo si fa stringente, penso a E. Lévinas, che presenta la relazione educativa come incontro vivente fra Volti viventi).
    Per questa via, il cammino della libertà recupera un legame intrinseco con il valore della dignità della persona; si tratta, in uno sforzo di esercizio concreto, di custodire il gran bene della libertà responsabile, assediata tra due fuochi: fra la paura che ispira l'autoritarismo e l'angoscia da smarrimento che ispira il permissivismo, giacché, quando tutte le strade sono aperte, in realtà sono tutte chiuse, presentandosi, di fronte ai nostri occhi, più un labirinto periglioso che una casa ospitale.
    quel "feticcio della liquidità" di cui parla il sociologo U. Beck, fluidità che preme quotidianamente e rischia di trasformarsi, agevolmente, in "liquidazione".
    I processi educativi sono caratterizzati da una continua implementazione: l'educazione è atto ed evento, entro una relazione: preparato come un incontro gioioso e coinvolgente, ma non tutto programmabile a livello di tecniche per il conforto della convivenza; tale incontro accade, scocca in un istante, dinamico ma anche drammatico come un corpo a corpo appassionato, e non bastano i finanziamenti e i funzionamenti: c'è un ideale educativo ben in luce, e poi, a cascata, tante approssimazioni, che adeguano quell'ideale solo in parte, come espressioni significative del profondo; e tuttavia tali espressioni non possono confondersi col profondo stesso che tentano di trascrivere ...
    È stato scritto che: "il vero problema dei giovani siamo, spesso, noi adulti": tale affermazione contiene, mi sembra, una parte di verità fondamentale, anche se espressa in modo paradossale: significa che cooperazione educativa e convergenza devono essere le nostre stelle polari, capaci di dar forma a tutto il materiale complesso delle esperienze e riflessioni fin qui raccolte.
    "Si educa tutti insieme, o non si educa": tale affermazione mi sembra anch'essa decisiva, purché non declinata solo come slogan, e purché non si rimarchi troppo quel "tutti".
    Vorrei sottolineare una possibile interpretazione inautentica, per la quale occorrerebbe attendere il movimento di tutti, cadendo così nell'attendismo, o nelle tattiche dello "scaricabarile". Quel che è importante, invece: prendere l'iniziativa per primi, risvegliando, assumendo e suscitando, come si ravviva il fuoco sotto la cenere; inaugurando e gareggiando con ardente emulazione.
    Questo significa, mi pare, accogliere l'invito a seminare germi di speranza dovunque, curvando ogni progetto culturale come progetto educativo, invitando infine le varie comunità a riflettere su come tale speranza, progettuale ed educativa, possa permeare, gradualmente, la società intera [48].

    7. Uno spunto per concludere

    "È meglio una testa ben fatta, che una ben piena"; così, con un brillante aforisma, si esprimeva Montaigne. Cosa può significare oggi questa frase? Significa che non bastano competenze specialistiche frammentate, non riconfigurate in una prospettiva interdisciplinare, soprattutto se non c'è uno sfondo adeguato che raccordi; non bastano le seducenti parole d'ordine: inglese, impresa ed informatica, che realizzano, con qualche aspetto positivo, "la chiusura della mente americana": occorre approfondire il trinomio valoriale: esperienza, competenza e coerenza, trinomio che promuove la genuina autorevolezza di un sistema educativo.
    Tre attitudini dimenticate: l'attenzione, la memoria e la critica, quest'ultima non disgiunta da un impegno di proposizione; si cerchi di risolvere un problema di geometria, o di tradurre una versione dal latino, nella scuola: occorre sollecitare la pazienza, insegnando e imparando a sospendere il giudizio, in particolare quello frettoloso, acquisendo una specie singolare di passività dello spirito.
    L'attenzione creativa è pacatezza della mente, permeabilità, calma e lentezza accurata, prevalendo non l'immaturità di uno schema da sovrapporre, ma il desiderio di conoscere, costantemente ben teso. L'autorevolezza nell'educazione, in un clima di fervore e fiducia, significa essere dipendenti per essere poi liberi e padroni di sé: non si comanda al vero, se non ubbidendogli docilmente [49].
    Occorre non distaccarsi, in generale, da un savio realismo, che guarda in faccia le difficoltà e tiene conto dei sussidi necessari e delle verifiche da operare, non nascondendosi le "stagioni lunghe" che esigono i processi educativi, opportune per vagliare i frutti derivati. Come mi sembra importante lo scambio incessante fra educatori ed educati, nel quadro di una formazione permanente: si tratta, aggiungo, di non soffocare in noi gli interrogativi che sgorgano continuamente, riposizionando in continuazione la dimensione dell'attività e quella della passività, entro una relazione educativa da riprendere "sempre nuovamente", secondo la felice parola d'ordine della fenomenologia. Lo Spirito Santo, "maestro interiore", e la Chiesa, "madre e istitutrice", stimolano a non rassegnarsi, a camminare sempre.
    Infine, un ampio risalto si dovrebbe conferire agli strumenti di comunicazione di massa, che in realtà costruiscono ogni giorno una verità sociale da condividere, ma troppo spesso nei termini di una consapevole manipolazione; non siamo, probabilmente, ancor pronti a trarre tutte le conseguenze da questa svolta immane, dal rilievo di una sfida tecnologica, che muta i profili del mondo intero; di fronte alla portata di tali trasformazioni, la responsabilità non è solo singolare, ma anche condivisa, e la consapevolezza di tutto ciò ci avvia, mi sembra, lungo la giusta strada.
    Ho redatto queste ultime considerazioni con la trepidazione con cui dovrebbe parlare "l'uomo inutile", secondo l'autopresentazione manzoniana [50]; le ho redatte, soprattutto, perché giudico che la posta in gioco sia estremamente elevata e che il coinvolgersi nella sfida educativa, con le proprie forze e i propri limiti, sia un dovere, almeno per gli spiriti che non preferiscono l'indifferenza, o l'autoblindatura egotista.
    ll genio dell'educazione coincide con il "genio del cristianesimo", come ben visto da Chateaubriand [51].
    Il rischio dell'educare non consiste solo nel comunicare, in maniera preziosa e anche fragile, la molteplicità delle esperienze e l'esperienza integrale, ma anche nel fornire gli strumenti convenienti per vagliare e rielaborare tali esperienze, facendo passare l'educando dalla monotonia delle apparenze allo stupore per la totalità articolata dell'essere: un'avventura, dunque, che coincide pienamente con il cammino della libertà umana.
    Va ben sottolineato il frammento contenente l'alta preghiera di Clemente Rebora: "O Santissima Trinità di Dio, dammi il nome che mi desti" [52].
    Qui il centro della mia ultima considerazione: se il prometeismo contemporaneo, con lo scrittore martinicano F. Fanon, ripete la gioiosa inesorabilità della violenza ("la violenza mi ricrea"), chi, invece, si eleva al punto di vista della reciprocità, e poi al fuoco della relazione di dono, quella persona non si inventa più, con l'ipocrisia di certa borghesia vittoriana, o non è più inventata, secondo i moduli dell'utopismo che Rosmini sferza negli Opuscoli politici; quella persona è, stat, semplicemente e profondamente, al di sopra di ogni illusione perfettista, e tuttavia nell'autentica perfezione connaturata all'ordo amoris [53].


    NOTE

    1. In particolare, valorizzo il tema del "limite" nel lavoro: G. GOISIS, Il pensiero politico di A. Rosmini, Gabrielli, Verona 2009.
    2. A. BLOOM, La chiusura della mente americana. I misfatti dell'istruzione contemporanea, Lindau, Torino 2009, p. 282 e passim.
    3. E. SEVERINO, Democrazia, tecnica, capitalismo, Morcelliana, Brescia 2009, p. 7.
    4. La caratteristica della temperie nichilista è espressa, con efficacia, dallo straordinario scrittore F. PESSOA, Sulla tirannia, a cura di R. MULINACCI, U. Guanda, Parma 2009, p. 27: "Niente vale la pena"; l'educare implica la trasmissione di nozioni, ma come condizione necessaria, non certo sufficiente: "L'educazione è ciò che sopravvive quando ciò che è stato imparato viene dimenticato": B. F. SKINNER, "New Scientist", 21/5/1964. Insiste sull'educare come trasmettere valori, e non meri fatti: L. SANTELLI BECCEGATO, Educare non è una cosa semplice, La Scuola, Brescia 2009.
    5. M. BUBER, Il cammino dell'uomo, trad. di G. BONOLA, Edizioni Qiqajon, Magnano 1991, p. 64.

    6. Una ricerca pionieristica in questa direzione: B. WELLTE, La luce del nulla, Queriniana, Brescia 2005; tali temi sono stati popolarizzati anche da G. Penzo, in Italia, e approfonditi da D. SÖLLE, Sofferenza, Queriniana, Brescia 1976; cfr. K. NISHITANI, La religione e il nulla, Città Nuova, Roma 2004; ID., Dialettica del nichilismo, L'Epos, Palermo 2008.
    7. A. ROSMINI, Sull'unità dell'educazione (1825), III, in ID., Dell'educazione cristiana - Sull'unità dell'educazione, a cura di L. PRENNA, Opere di A. Rosmini, 31, a cura dell'ISTITUTO DI STUDI FILOSOFICI DI ROMA - CENTRO DI STUDI ROSMINIANI DI STRESA, Città Nuova, Roma 1994, p. 310, ora anche in A. ROSMINI, Scritti pedagogici, a cura di G. PICENARDI, Edizioni Rosminiane, Stresa 2009, p. 67.
    8. ROSMINI, Sull'unità dell'educazione, cit., pp. 311-12.
    9. Per una prima presentazione della questione dei significati dell'esistenza, V. O. BRENIFIER - J. DESPRES, Il senso della vita, Isbn Edizioni, Milano 2009; A. FERRARA, La forza dell'esempio, Feltrinelli, Milano 2008. Il nulla positivo, valorizzato come "presenza dell'assenza", un'assenza più presente della presenza, può esser indicato con l'espressione: "il nulla lucente", come metaforizzato dai poeti G. Zigaina e P.P. Pasolini, fra gli altri.
    10. ROSMINI, Sull'unità dell'educazione, cit., p. 217; la citazione da S. AGOSTINO, Le Confessioni, a cura di C. CARENA, Opere di S. Agostino, I, Libro II, 1, Città Nuova, Roma 1975, p. 38.
    11. F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli (1888), Sentenze e frecce, 12, trad. it. di F. MASINI, in Opere, a cura di G. COLLI -M. MONTINARI, vol. VI- t. III, Adelphi, Milano 1975, p. 56.
    12. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, cit., p. 57.
    13. V. FRANKL, Uno psicologo nei Lager, Ares, Milano 2007, p. 130.
    14. FRANKL, Uno psicologo nei Lager, cit., p. 134.
    15. A. ROSMINI, Massime di perfezione cristiana, a cura di A. VALLE, Opere, 49, a cura del CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI ROSMINIANI DI STRESA, Città Nuova, Roma 1976, p. 236.
    16. ROSMINI, Massime di perfezione cristiana, cit., pp. 37-40.
    17. tiri, pp. 33-5.
    18. RosmiNI, Sull'unità dell'educazione, cit., p. 236. 
    19. Ivi, p. 237.
    20. A. BAGNASCO, L'emergenza educativa, Edup, Roma 2009, p. 51; C. M. MARTINI, Vivere i valori del Vangelo, Einaudi, Torino 2009, passim.
    21. S. KIERKEGAARD, La malattia mortale, Sansoni, Firenze 1965, pp. 239-40.
    22. G. CAPOGRASSI, Su alcuni bisogni dell'uomo contemporaneo (1955), poi in Incertezze sull'individuo, a cura di S. COTTA, Giuffrè, Milano 1969; cfr. M. D'ADDIO, Capograssi e Rosmini, in "Quaderni sardi di filosofia e scienze umane", 1516 (1986-7), pp. 97-113; G. CAMPANINI, Rosmini politico, Giuffrè, Milano 1990, p. 165 e ss.
    23. D. ANTISERI, L'interdisciplinarità: un punto di vista epistemologico, in AA.VV., Il metodo interdisciplinare, a cura di G. Goisis - F. LEONCINI, Liviana, Padova 1978, pp. 5-59.
    24. D. BONHOEFFER, Che cosa significa dire la verità? (1942), in Etica, trad. it. di A. COMBA, Bompiani, Milano 1983, pp. 310-1; alcune riflessioni sulla questione in V. MANCUSO, La vita autentica, R. Cortina, Milano 2009, pp. 114-7.
    25. A. ROSMINI, L'introduzione del Vangelo secondo Giovanni commentata (1849), a cura di S. F. TADINI, Opere di A. Rosmini, 41, a cura dell'ISTITUTO DI STUDI FILOSOFICI DI ROMA - CENTRO DI STUDI ROSMINIANI DI STRESA, Città Nuova, Roma 2009, p.322.
    26. ROSMINI, L'introduzione del Vangelo secondo Giovanni commentata, Lezione XCIII, cit., p. 344.
    27. Persuasiva e sviluppata in ampiezza la diagnosi, meno convincente, forse, la terapia in U. GALIMBERTI, L'ospite inquietante- Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 141-169 e passim.
    28. A. ROSMINI, Filosofia della politica, a cura di M. D'ADDIO, Marzorati, Milano 1972, p. 71.
    29. GOISIS, Il pensiero politico di A. Rosmini, cit., p. 41.
    30. J. MARITAIN, Contemplazione e spiritualità, a cura di G. GALEAZZI, AVE, Roma 1978, pp. 34-5.
    31. GOISIS, Il pensiero politico di A. Rosmini, cit., p. 75.
    32. P. VIOTTO, Maritain - Dizionario delle opere, Città Nuova, Roma 2003, p. 239.
    33. P. VIOTTO, J. Maritain, La Scuola, Brescia 1971, passim.
    34. J. MARITAIN, L'educazione al bivio (1943), La Scuola, Brescia 1973, pp. 13-41.
    35. J. MARITAIN, L'educazione al bivio, cit., p. 27.
    36. Ivi, p. 28.
    37. Ivi, p. 29.
    38. VIOTTO, J. Maritain - Dizionario delle opere, cit., p. 331 e ss. 
    39. D. ANTISERI - M. BALDINI (a cura di), Personalismo liberale, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997.
    40. J. MARITAIN, L'educazione della persona (1959), La Scuola, Brescia 1962.
    41. J. MARITAIN, L'educazione della persona, cit., pp. 30-1.
    42. Circa S. Hessen, v. MARITAIN, L'educazione della persona, cit., p. 113; sul rapporto fra Maritain e Rosmini, cfr. Ivi, pp. 98-9.
    43. M. MAGATTI, Libertà immaginaria - Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano 2009.
    44. L'educazione al carattere è collocata al centro anche di scritti minori, ma significativi, come ad es. P. MILANI COMPARETTI, Bussola per navigare tra gli uomini, Bompiani, Milano 1944.
    45. Una rassegna di alcuni importanti autori, anche di ispirazione personalista: AA.VV., La pedagogia tra sfide e utopie, a cura di F. FRABBONI - G. WALLNOFER, F. Angeli, Milano 2009, pp. 389- 396.
    46. D. SIMEONE, Educare in famiglia, La Scuola, Brescia 2008.
    47. Per questo vasto contesto, si consideri: La sfida educativa, a cura del COMITATO PER IL PROGETTO CULTURALE DELLA CEI, pref. di C. RUINI, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 65-71 e passim.
    48. L. SANTELLI BECCEGATO (a cura), Bisogno di valori, La Scuola, Brescia 1991; AA. VV., Valori e diritti umani, Gregoriana, Padova 1990; J. GRAY, La forza oscura, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2009; L. GIUSSANI, Il rischio educativo, SEI, Torino 1995.
    49. Cfr. S. WEIL, Attesa di Dio, trad. di O. NEMI, Rusconi, Milano 1972, pp. 69-80.
    50. A. MANZONI, Osservazioni sulla morale cattolica - Seconda parte (1819), cap. I, in ID., Scritti filosofici, a cura di R. QUADRELLI, Rizzoli, Milano 1976, pp. 264-7.
    51. R. CHATEAUBRIAND, Essai sur les révolutions- Génie du Christianisme, Gallimard-La Pléiade, Paris 2003, pp. 10441054.
    52. Frammenti, Archivio Rosminiano, 85.
    53. L'invocazione di Clemente Rebora ricorda l'estrema affermazione: "Di' che Gerusalemme esiste": P. CELAN, Poesie, A. Mondadori, 2008, p. 1325.

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