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    Educare alla fede,

    tra frantumi e legami

    Raffaella Iafrate

     

    Un vaso in frantumi

    Quando ci si trova di fronte a un oggetto ridotto in frantumi, non se ne capisce più lo scopo. Ogni pezzo senza gli altri sembra perdere senso, oppure diventa possibile a chiunque attribuire a ciascun frammento qualunque funzione al di là della sua autentica e originaria natura. Pensiamo a un vaso rotto: non può più svolgere la funzione del contenere e i cocci presi separatamente spesso non ci consentono di capire se si trattava davvero di un vaso o di un altro oggetto. L'unica cosa che si può fare con i cocci è buttarli o utilizzarli per scopi diversi, se non addirittura opposti, da quello del «contenere»: si possono utilizzare per tagliare, per dividere, ma non più per contenere. Solo se si conosce il progetto e la forma originaria del vaso e se si possiede un buon collante si può tentare di ricostruirlo incollando tra loro i cocci.
    Fuor di metafora, quando si parla di frantumazione dell'umano si mette in evidenza proprio questo: la perdita di uno scopo, l'oblio circa la vera natura, il progetto originario della persona, una mancanza di senso che genera inevitabilmente dolore e sofferenza nell'essere umano. Segnali di questa frantumazione e di questa perdita di senso e di unità integrata della persona sono molteplici e si esprimono in scissioni, riduzionismi, polarizzazioni, fratture. Pensiamo all'attuale tendenza a separare, fino al totale scollamento, la dimensione psichica da quella biologica, come se la prima non «abitasse» in un corpo biologico e geneticamente conformato: esempi ne sono la questione dell'utero in affitto, la tematica del gender come una caratteristica non ascritta, ma che si può scegliere. Dall'altra parte assistiamo a un movimento di riduzione dello psichico al biologico, ad esempio quando alcuni filoni di ricerca si propongono di individuare il «gene» del divorzio o ritengono di poter identificare le determinanti biologiche dell'etica. Pensiamo alla nostra cultura dominata da uno sbilanciamento a favore degli aspetti emozionali a discapito di quelli valoriali, con un'affettività sradicata dall'ethos, dove affetto e norma, passione (pathos) e ragione (logos) sono separati e contrapposti. Riflettiamo sull'attuale progressiva scissione tra individui e società, dove la relazione sociale appare come una minaccia per la libertà dell'individuo anziché emergere come profondamente connaturata con l'umano. Non a caso, anche nei progetti definiti «educativi» ci si preoccupa di educare cognitivamente e culturalmente, ma si riserva poco spazio alle dimensioni affettive e relazionali; oppure ci si occupa di emozioni, ma poi non si fa nulla per educare a governarle, al punto che spesso ci troviamo di fronte a adolescenti e giovani sempre più formati ed emancipati sul piano intellettuale e sempre più disorientati e in balia delle proprie dirompenti emozioni sul fronte relazionale e affettivo. In questo contesto, la domanda da cui partire, prima ancora di quella relativa a «come» educare alla fede, potrebbe dunque essere: «perché» educare alla fede? La risposta potrebbe essere: forse proprio per cercare di ridare lo scopo, il senso alla persona e alla sua esistenza, per ricondurre a unità ciò che è sparpagliato, frammentato, a volte disperso.

    Educare significa...

    Si potrebbe dire che, per definizione, la finalità dell'educazione sia quella di aiutare la persona a far emergere e orientare (ex-ducere) la sua vera natura, a «diventare ciò che è», cioè una persona pienamente umana, che realizza il suo progetto originario. Ciò che viene chiesto all'adulto educatore è prima di tutto di rintracciare il senso dell'educare rispettando e aiutando l'altro a realizzare ciò per cui è stato messo al mondo. Emerge chiara, a questo punto, la questione dell'obiettivo dell'educazione, che gli Orientamenti pastorali della Chiesa italiana per il decennio mettono in luce con un'illuminanteespressione: «Esiste un nesso stretto tra educare e generare». [1] Ma che significa «generare» la persona? È evidente che la riflessione su questo punto sposta immediatamente l'attenzione da un piano pedagogico o sociologico a una prospettiva psico-antropologica, che parte dalla domanda relativa a «chi sono» le persone da educare e da che idea condivisa esiste sul concetto di «persona che realizza pienamente la sua umanità». Da questo e solo da questo, ossia dalla concezione della vita e della persona che circola nella nostra cultura, dipenderanno le scelte educative e le azioni concrete.
    Se partiamo dalla domanda «chi sono io?» cogliamo innanzitutto l'essenziale identità relazionale della persona. Basta pronunciare il proprio nome e cognome per mostrare come l'uomo sia originariamente relazione: la sua origine scaturisce da un incontro, da una relazione tra un padre e una madre, e la sua crescita dipende dalla sua capacità di stabilire altre relazioni adeguate con le persone che costituiscono il suo ambiente familiare e sociale. Educare per promuovere ciò che è «umano, pienamente umano», implica dunque riconoscere prima di tutto l'identità relazionale della persona e rispettarne la costitutiva unità di dimensioni affettive ed etiche, di libertà e vincolo, di grandezza e limite, aiutarla cioè a realizzare la sua originaria sostanza relazionale, che porta in sé un codice materno fatto di affetto, emozione, protezione, e un codice paterno fatto di norma, limite, senso, nel duplice aspetto di direzione e significato che la spinge ad andare al di là di se stessa, all'essere, di fatto, generativa.
    L'enciclica Lumen fidei sottolinea l'identità relazionale come fondante la trasmissione della fede:

    Se l'uomo fosse un individuo isolato, se volessimo partire soltanto dall'«io» individuale, che vuole trovare in sé la sicurezza della sua conoscenza, questa certezza sarebbe impossibile. Non posso vedere da me stesso quello che è accaduto in un'epoca così distante da me. Non è questo, tuttavia, l'unico modo in cui l'uomo conosce. La persona vive sempre in relazione. Viene da altri, appartiene ad altri, la sua vita si fa più grande nell'incontro con altri. E anche la propria conoscenza, la stessa coscienza di sé, è di tipo relazionale, ed è legata ad altri che ci hanno preceduto: in primo luogo i nostri genitori, che ci hanno dato la vita e il nome. Il linguaggio stesso, le parole con cui interpretiamo la nostra vita e la nostra realtà, ci arriva attraverso altri, preservato nella memoria viva di altri.
    La conoscenza di noi stessi è possibile solo quando partecipiamo a una memoria più grande. Avviene così anche nella fede, che porta a pienezza il modo umano di comprendere. Il passato della fede, quell'atto di amore di Gesù che ha generato nel mondo una nuova vita, ci arriva nella memoria di altri, dei testimoni, conservato vivo in quel soggetto unico di memoria che è la Chiesa. [2]

    Uno dei problemi centrali della nostra società è rintracciabile nella poca coscienza, o peggio, nel rifiuto dell'identità relazionale dell'individuo, identità ancora più minacciata dalla frammentazione e dalla molteplicità di riferimenti valoriali della nostra cultura. Si parla infatti di diritti dell'individuo e mai si pensa ai beni relazionali. Un altro problema, oggi, è la poca coscienza della «meta», dell'obiettivo dell'educazione: ma una persona può guidare solo se sa dove indirizzare, verso dove guidare.

    Impedimenti culturali alla riflessione sulla meta dell'educazione

    Va detto che forse negli ultimi anni troppo poco si sia insistito su questo tema della meta dell'educazione. Per molto tempo ci si è soffermati sul prefisso ex e meno sul tema ducere, per sottolineare la differenza tra l'ex-ducere e due forme rischiose e discutibili della relazione educativa: l'in-ducere (che comporta una forzatura della volontà altrui) e il se-ducere (che sottolinea la tendenza a condurre a sé, ed evidenzia la ricerca di essere amati, più che di amare). Tuttavia anche dietro a questa prospettiva dell'ex-ducere si nasconde una trappola se si assegna poca attenzione al ducere. Se all'ex non segue un adeguato ducere i ragazzi si trovano in balia di una creatività magari ricchissima, ma incomprensibile; di potenzialità straordinarie, ma sterili; di desideri grandissimi, ma inappagabili.
    Accanto all'ex-ducere è richiesto tra l'altro un cum-ducere, un condurre verso una meta, che presuppone prima di tutto un obiettivo da raggiungere e poi una capacità di stare vicino, di accompagnare, di non mollare la direzione verso la meta. L'educare infatti comporta un accompagnare con discrezione, speranza e fiducia le nuove generazioni, indicando una meta ma rimanendo disponibili a lasciarsi sorprendere dalle loro potenzialità, che possono anche andare oltre i propri confini.
    Se c'è un problema concreto dei nostri giorni, esso sta in questa incapacità di condurre. Le ragioni di tale incapacità possono essere ricondotte al fatto che per condurre occorre essere orientati, mentre oggi anche il mondo adulto è fortemente disorientato. Un'altra ragione di questa incapacità risiede nel fatto che per condurre è necessario accettare il rischio di sbagliare strada e pochi accettano questa condizione.

    La censura dell'origine

    Un altro impedimento alla riflessione sull'obiettivo dell'educare è rappresentato dall'attuale censura del tema delle origini e dalla messa in discussione dell'identità della famiglia come luogo da cui prende il via l'esperienza educativa.

    Se educare è prima di tutto «condurre fuori» (ex-ducere) attraverso un'operazione maieutica che fa emergere dal profondo la parte più vera del sé, non può esserci contesto più idoneo della famiglia per avviare e accompagnare questa «operazione». La famiglia, luogo primario dei legami, esperienza originaria di ciascun essere umano, generatrice di vita e di identità, appare il luogo più accreditato entro il quale la persona può trovare le occasioni per realizzare la sua più autentica e profonda natura, per incontrare relazioni che la guidino a realizzare «ciò che è», imparando a riconoscere l'obiettivo per il quale è venuta al mondo. Per ogni viaggio che si intraprende, per ogni storia che si racconta, si parte sempre dalle origini: nessuna storia individuale, nessun percorso di vita può avviarsi senza fare i conti con il punto di partenza, con l'esperienza da cui prende il via la sua storia, con l'origine che lo ha generato. [3]

    Così l'«e-ducazione», intesa come un percorso di crescita che esce da un'origine e si proietta verso un obiettivo, dovrebbe necessariamente prendere il via dalle prime relazioni che una persona stringe dal primo momento in cui viene al mondo, in particolare dall'incontro col materno e il paterno che l'hanno generata, dalle relazioni intergenerazionali entro cui affondano le sue radici, dal primo incontro con i legami sociali che connotano la cultura entro la quale prende avvio la sua esistenza.
    In altre parole, la famiglia, intesa come luogo privilegiato «dell'incontro tra le differenze originarie dell'umano, quello tra generi, generazioni e stirpi e il cui obiettivo primario è la generatività», [4] sembrerebbe costituire il punto fondamentale da cui partire per avviare qualsiasi percorso educativo. Sembrano, questi, concetti elementari. Eppure oggi tutto ciò è messo fortemente in discussione dalla nostra cultura che, da una parte, censura il tema dell'origine e tende a negare la dimensione relazionale della persona, riducendola a un individuo autodeterminato e svincolato da ogni legame e dipendenza e che, dall'altra parte, mette in discussione l'identità della famiglia, negandone ogni elemento fondativo stabile e assimilandola in maniera indifferenziata a una qualunque esperienza affettiva umana significativa. Paradossalmente, oggi niente è famiglia e tutto può esserlo. Per salvare la varietà delle esperienze e il valore delle differenze – cosa legittima e auspicabile – si arriva ad avallare la deriva del relativismo, preferendo parlare, più che di «famiglia», di «molteplicità di famiglie», di «forme familiari», negando l'esistenza di una dimensione simbolica, di un «famigliare» che connota universalmente ogni singola e differente esperienza e dà unità alla molteplicità, consentendo all'essere umano di riconoscersi sempre e comunque in un'origine comune che è quella – fino a prova contraria – di essere «figlio di un padre e di una madre» e frutto di un incontro tra storie di generazioni familiari e sociali. Ecco perché oggi è così difficile parlare di educazione e da più parti si denuncia una situazione di vera e propria emergenza educativa: non riconoscendo l'origine, è molto difficile trovare il senso verso cui avviare un percorso, e questo vale anche per il percorso educativo.

    L'educazione alla fede

    In questo contributo l'attenzione non è però su una generica educazione, bensì sull'educazione alla fede. Abbiamo detto che i cocci di un vaso si possono rimettere insieme se si recupera il progetto originario e se si ha a disposizione un buon collante. Potremmo dire che per l'uomo «frantumato» dunque l'educazione alla fede può essere la strada per recuperare l'originario progetto, lo scopo per cui la persona è «messa al mondo», e l'esperienza religiosa il collante che aiuta a tenere insieme i pezzi. Non a caso «religioso» deriva da re-ligo, ossia richiama all'esperienza del «legame», a ciò che lega, tiene insieme. Educare alla fede è dunque prima di tutto educare al legame (che peraltro abbiamo visto come rappresenti la più profonda identità della persona). È nell'appartenenza e nel legame (prima di tutto quella familiare di cui il piccolo fa esperienza già da prima di nascere – si pensi al legame fisico con la madre tramite il cordone ombelicale) che si fa esperienza dell'«ascoltare», del «vedere», del «toccare con mano», azioni umane che conducono, secondo Lumen fidei nn. 29-31, alla conoscenza della fede. Si parla non a caso di carattere relazionale dell'atto di fede. La pratica religiosa è infatti un modo per esprimere la relazione con un altro da noi e che ci trascende. Abbiamo già affermato che la persona si definisce attraverso la relazione. Possiamo ancora dire che educare è «tirar fuori» tutte le potenzialità della persona e quindi anche l'orientamento religioso, che è una parte costitutiva di essa. Il legame, primo fra tutti quello familiare, porta inoltre con sé la duplice valenza di appartenenza e di vincolo. Aiutare la persona a comprendere che per crescere occorre fare esperienza sia del valore protettivo e rassicurante dell'appartenenza, sia della responsabilità e del limite del vincolo è sicuramente il primo passo per consentirle di fare un'esperienza «religiosa» sia dentro, sia fuori dai confini della famiglia.
    Come afferma la Lumen fidei, «il primo ambito in cui la fede illumina la città degli uomini si trova nella famiglia» (n. 52). In essa si sperimenta, prima come figli, poi come coniugi e genitori, il principio dell'amore come realtà esclusiva e indissolubile, che porta in sé una scintilla di divinità. Il paradosso dell'amore smisurato vissuto e sperimentato nella finitezza della limitata vita umana è ciò che da sempre parla, a chi ama, di Dio e, tramite la vita di chi ama, parla di Dio al mondo. Afferma sempre la Lumen fidei, al n. 53: «In famiglia, la fede accompagna tutte le età della vita, a cominciare dall'infanzia: i bambini imparano a fidarsi dell'amore dei loro genitori. Per questo è importante che i genitori coltivino pratiche comuni di fede nella famiglia, che accompagnino la maturazione della fede dei figli». Le semplici e preziosissime indicazioni di papa Francesco su cosa consenta di far funzionare una famiglia (imparare a dire «permesso, scusa e grazie») altro non è che insegnare la preghiera, che è richiesta, perdono, ringraziamento (ancora una volta, educare l'umano è educare alla fede e viceversa).
    Continua papa Francesco:

    Soprattutto i giovani, che attraversano un'età della vita così complessa, ricca e importante per la fede, devono sentire la vicinanza e l'attenzione della famiglia e della comunità ecclesiale nel loro cammino di crescita nella fede (importante per adolescenti e giovani poter sperimentare appartenenze sempre più allargate). La fede non è un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione della vita. Essa fa scoprire una grande chiamata, la vocazione all'amore, e assicura che quest'amore è affidabile, che vale la pena di consegnarsi ad esso, perché il suo fondamento si trova nella fedeltà di Dio, più forte di ogni nostra fragilità. [5]
    I giovani hanno bisogno di esperienze significative di appartenenza anche fuori dai confini familiari (pensiamo alle relazioni tra famiglie, con gruppi e associazioni): diversamente sono perduti. Solo la relazione può salvarli. È la famiglia che si allarga a consentire di rendere concreta l'esperienza di essere «figli dati al mondo». Concretamente si tratta di educare la persona a riconoscere i propri limiti, a salvarsi dalla trappola dell'autoreferenzialità, imparando, ad esempio, che chiedere aiuto non significa retrocedere nel proprio cammino verso l'età adulta, ma piuttosto incamminarsi verso la vera maturità della persona, che sa accettare non solo la propria «parte autonoma», ma anche i propri aspetti di dipendenza e di bisogno. In altre parole, educare al legame è educare al limite e alla creaturalità («io non sono all'origine di me stesso») e al riconoscimento di un'alterità rispetto al sé («io sono ciò che non sei tu, tu sei ciò che non sono io»). Il limite delimita e definisce e ci dice anche della nostra umanità e della nostra finitezza e di quella altrui. Il limite ci dice anche che non siamo onnipotenti, ci rende umani.
    Educare al limite è quindi anche – seppur in maniera controintuitiva – un'esperienza di grande libertà, perché se da una parte porta al riconoscimento di una finitezza e di un vincolo, dall'altra apre alla possibilità di essere imperfetti ma autentici. Nella relazione genitori-figli, ad esempio, può risultare una grande ricchezza la possibilità di essere imperfetti: se il genitore accetta i propri limiti, le proprie imperfezioni e i propri sbagli, allora può educare e condurre il figlio ad accettare di essere limitato e imperfetto, ma non per questo di minor valore. Riconoscere di essere imperfetti fa guadagnare la libertà di poter sbagliare e di accettare la propria finitezza e dunque la propria identità. Anche questo è un modo per educare alla piena umanità. Da questo punto di vista, alla fede si educa anche coltivando l'innata sensibilità della persona al mistero. Occorre vincere e far vincere la tentazione di dare sempre e comunque una spiegazione razionale a tutto, accettando anche quella parte di misterioso e di inspiegabile che accompagna la nostra esperienza di tutti i giorni. Rispondere, ad esempio, a qualche domanda dei nostri figli con un semplice «non lo so» non rappresenta necessariamente una sconfitta nostra, né una delusione loro.
    Può al contrario essere vissuta come un'esperienza liberante e di pacificazione interiore attraverso la quale adulti e bambini si riconoscono ancora una volta limitati e rispettosi di quella parte insondabile dell'esistenza con la quale prima o poi tutti sono chiamati a fare i conti. Educare alla fede consente anche di accrescere il senso di sicurezza della persona, in quanto comunica che la realtà è buona, che ha un senso, che ha valore anche se non la si comprende e non si conosce nella sua totalità. La fede consente di continuare a pensare che la realtà è buona anche di fronte all'esperienza più drammatica che è quella della morte. È grazie alla fede che possiamo sperare in una continuità, in un senso anche in una vita apparentemente spezzata. In sintesi, educare alla fede attraverso il legame consente fondamentalmente di far fare esperienza alla persona della condizione ineludibile e accomunante ogni uomo: l'esperienza dell'essere generati da qualcuno, legati a qualcuno; in altre parole, l'esperienza dell'essere figli.

    Educare alla fede è anche educare nella fiducia e nella speranza

    Educare alla fede è anche credere che, al di là di ogni fragilità e di ogni sconfitta, c'è la possibilità di recuperarne il senso. La fiducia, in particolare, è originaria del legame. Quando una persona concede
    a un'altra la propria fiducia esprime due azioni molto importanti: innanzitutto dà credito all'altra persona, uscendo da un atteggiamento autoreferenziale, in secondo luogo invita l'altra persona a rispondere alla fiducia accordata, innescando così un processo relazionale di reciprocità: la fiducia predice una risposta positiva e, in un certo senso, la induce.
    Va detto, però, che l'esito di questo processo innescato da un atto fiduciario si realizza in un modo tutt'altro che deterministico; infatti, se la fiducia è un prerequisito perché la relazione abbia inizio (senza apertura rischiosa verso l'altro non ci sarebbe possibilità di legame interpersonale e sociale), è la risposta dell'altro che di fatto genera il legame o lo rigenera nel caso si sia incrinato o rotto. L'altra persona può rispondere in modo reciproco all'atto fiduciario, può cioè contraccambiare la fiducia, ringraziare per la fiducia o, ancora, rilanciare la fiducia, andando oltre alle aspettative. Tuttavia, l'altra persona può anche non rispondere o rispondere negativamente alla fiducia, disattendendo fortemente le aspettative. La fiducia infatti convive con il suo opposto, la sfiducia, così come il bene convive con il male. Non dimentichiamo che i legami umani non sono privi di aspetti di rischio, presentano aspetti benefici, ma anche dolorosi e minacciosi, possono essere attaccati e attaccanti. Accordare e ricambiare la fiducia è dunque una scelta e una sfida. Concedere fiducia è inoltre un atto dinamico e creativo che apre sul futuro. Dare fiducia significa non solo aspettarsi che nel futuro la persona a cui diamo fiducia realizzerà ciò che ci attendiamo, ma porta anche a lasciare spazio e modo a questa persona di rispondere alla nostra fiducia nel modo che ritiene giusto (le aspettative possono essere disattese anche in modo sorprendentemente positivo!).
    Le relazioni animate dalla fiducia sono co-costruite, anche in modo inatteso e spesso eccedente rispetto alle aspettative. In tal senso chi accorda la fiducia attende non solo la conferma/disconferma di un'aspettativa, ma si apre all'inatteso e spesso anche al bello che vivifica molte situazioni; da parte sua, la persona che riceve fiducia dispone della libertà di trattare questa fiducia come ritiene giusto. Spesso un atteggiamento fiduciario, da parte di un coniuge o di un genitore, «pro-muove» la crescita e l'evoluzione della relazione stessa. La fiducia è un'apertura rischiosa sul futuro: la fiducia accetta di essere vulnerabile, poiché chi accorda fiducia si trova ad attendere o addirittura a dipendere dalle azioni realizzate da chi riceve fiducia. Nella sua vulnerabilità la fiducia può anche essere intesa come apertura al rischio: chi accorda fiducia lo fa in assenza di certezza di quanto accadrà. [6]
    La fiducia di fatto è «un ponte tra il presente e il futuro». La dinamica del dare fiducia e del rispondervi non vivrebbe però senza la speranza. Come dice Eugenia Scabini, la speranza è l'aspetto idealetensionale della fiducia. [7] La speranza è l'attesa di un desiderio, meglio l'attesa di un compimento, qualcosa lanciato in avanti, una tensione positiva verso il futuro. Soprattutto in questa epoca delle «passioni tristi», secondo la nota definizione di Benasayag e Schmit, [8] in cui il futuro è guardato con estrema diffidenza, come fosse una minaccia da cui difendersi, la speranza riveste un ruolo cruciale. La speranza è ciò che consente alla fiducia di andare oltre allo scacco, di riproporsi continuamente. Non sempre, come abbiamo visto, la fiducia ha buoni esiti; talvolta la persona cui diamo fiducia ci delude o, di più, ci tradisce.
    Cosa fare allora? Solo se la fiducia poggia sulla speranza può essere rinnovata. La fiducia, sostenuta dalla speranza, ha una sorprendente carica non solo creativa, ma anche generativa perché genera azioni che mai sarebbero nate senza l'attesa speranzosa della fiducia. Questo riesce a spiegare in parte il caso delle cosiddette profezie che si autoavverano: se un adulto accompagna un ragazzo con ammonimenti e rimproveri, senza credere nelle sue capacità, difficilmente egli darà il meglio di sé e cercherà di esporsi il meno possibile per evitare i moniti adulti. Diversamente, se un adulto si rapporta a un giovane con un atteggiamento tenacemente fiducioso, anche a prescindere dalle sue qualità, questi sarà aiutato a dare il meglio di sé, sostenuto da questa fiducia incondizionata. La fiducia consente di essere fonti di speranza soprattutto quando essa è messa a dura prova nelle storie personali o nei conflitti sociali.
    Potremmo dire che educare alla fede attraverso la fiducia e la speranza è dunque generare la persona, guidandola verso la realizzazione di «ciò che è», e non stancarsi di sperare che essa avrà sempre
    e comunque la possibilità di arrivare alla meta per cui è stata «data al mondo» (da qualcuno che ci genera e che ci rende capaci di generatività): l'essere «da» e «per» gli altri, in qualsiasi condizione nasca, in qualsiasi contesto cresca, in qualsiasi tempo si dipani la sua storia, e realizzare l'originaria sostanza relazionale, che la spinge ad andare al di là di se stessa, all'essere generativa. Ciò implica il superamento di una prospettiva antropologica individualistica, che vede l'uomo come autogenerantesi e autorealizzantesi e sfida il nostro tempo a recuperare il senso, l'obiettivo della vita umana, la sua più intrinseca funzione, ossia quella generativa.

    Il kintsugi

    Tornando alla nostra metafora, educare alla fede attraverso il legame, il limite, il mistero, la fiducia e la speranza è credere che il vaso rimesso insieme con un buon collante può diventare anche più bello e prezioso di prima. Secondo un'antica tradizione artigianale detta kintsugi, quando i giapponesi riparano un oggetto rotto, valorizzano la crepa riempiendo la spaccatura con dell'oro. Essi credono che quando qualcosa ha subito una ferita e ha una storia, diventa più bello e prezioso: i frammenti si ricongiungono, evidenziando quello che non è più un difetto ma un nuovo, sorprendente, bellissimo tratto distintivo. Se manca un intero frammento l'oggetto può essere riparato integrando con pezzi di ceramiche differenti, giocando tra contrasti e armonie di colori o disegnando direttamente sulla lacca dorata. Il kintsugi è un procedimento lento che richiede pazienza e attenzione, ma il risultato sorprende senz'altro con i suoi effetti imprevisti e originali. Il dilemma di oggi è tutto qui: vogliamo occultare e rimpiangere l'integrità perduta oppure esaltare la storia della ricomposizione? Chi vive in Occidente in genere fatica a fare pace con le crepe, ma chi ha fede no. Sa che non c'è risurrezione senza morte, né grazia senza peccato.
    Per questo, educare alla fede può essere un modo per individuare paradossalmente nel nostro tempo, così segnato dalla frattura e dalla frammentazione, segnali di forza, di risorsa, di bellezza e di misteriosa e generativa ricchezza.

    NOTE

    1 CEI, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell'Episcopato italiano per il decennio 2010-2020 (4 ottobre 2010), n. 27.
    2 FRANCESCO, lettera enciclica Lumen fidei (29 giugno 2013), n. 38.
    3 R. IAFRATE - A. BERTONI, Figli dati al mondo. Educare oggi in famiglia, Editrice AVE, Roma 2013, 5s.
    4 Cf. E. SCABINI - V. CIGOLI, Il Famigliare, Raffaello Cortina, Milano 2000.
    5 FRANCESCO, Lumen fidei, n. 53.
    6 Cf. R. IAFRATE - A. BERTONI, Gli affetti. Dare senso ai legami familiari e sociali, La Scuola, Brescia 2010.
    7 Cf. E. SCABINI, «Trust, Hope and Relationship Quality», in Journal of Medicine and the Person 7(2009)3, 119-123.
    8 Cf. M. BENASAYAG - G. SCHMIT, L'epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004 (ed. or. Les passions tristes. Souffrance psychique et crise sociale, Editions La Découverte, Paris 2003).


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    Sguardi in sala
    Tra cinema e teatro

    A cura del CGS


    Recensioni  
    e SEGNALAZIONI

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    Etty Hillesum
    una spiritualità
    per i giovani
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    Semi e cammini 
    di spiritualità
    Il senso nei frammenti
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    Ritratti di adolescenti
    A cura del MGS


     

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