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    Emergenza educativa

    e priorità pastorali

    della Chiesa in Italia

    Mariano Crociata

    L’atteggiamento con cui affrontiamo il tema dell’educazione può essere di due generi opposti, e cioè improntato ad un senso di sufficienza e ad un giudizio di ovvietà, oppure, al contrario, ad un sentimento di preoccupazione. Nel primo caso, sarà facile evocare l’attività educativa che ha caratterizzato sempre la vita sociale e l’azione della Chiesa, come mostrano storia, istituzioni e testi, per non dire di una disciplina come la pedagogia che, sia pure da tempi relativamente recenti, occupa uno spazio di tutto rispetto tra le scienze umane. Forse, però, a ben considerare, proprio in ciò risalta il problema; infatti, nonostante tutto, c’è motivo di essere preoccupati, se l’eredità di esperienze e di conoscenze che abbiamo alle spalle trova così scarso riscontro educativo nelle nuove generazioni e nel clima sociale in genere. Risulterebbe difficile contestare chi affermasse che, oggi, le istituzioni e gli organismi preposti a tale compito non riescono più ad educare. Si avverte prepotente l’urgenza di affrontare la questione, e anzi proprio tanto parlare di educazione sembra più che mai il segno di un malessere e di una difficoltà nuova e complessa. Succede così per le cose veramente importanti: che non c’è bisogno di parlarne, finché vanno da sé; ma quando rivelano o diventano un problema, allora se ne comincia a discutere come se fossero qualcosa di nuovo, mai prima considerato. È quanto succede anche con la questione educativa, che oggi ci si presenta in forma del tutto inedita rispetto al passato.
    Il mio approccio, interessato alla dimensione ecclesiale e pastorale, non mi assicura una condizione più vantaggiosa rispetto a chi ne parli con una attenzione sociale e culturale, o concentrata sui risvolti civili della questione, poiché le due condizioni e le diverse dimensioni si intrecciano intimamente. E se pure è vero che la scelta del tema educativo per l’impegno pastorale del prossimo decennio nelle diocesi italiane può essere letto come uno sviluppo coerente del cammino post-conciliare della Chiesa nella direzione di un annuncio del Vangelo e di una crescita cristiana che guardi alla persona e al suo percorso verso una più piena maturità, non per questo si può ignorare il contesto socio-culturale in cui tale impegno si esprime; al punto che proprio tale contesto sembra dettare l’esigenza di rispondere alla nuova domanda educativa. Si tratta di una richiesta che sale dal basso – non solo dalla logica interna di un dispiegarsi della missione pastorale della Chiesa, ma anche dalla vita individuale, familiare e sociale – e che, non a caso, è stata raccolta e segnalata come “emergenza” dal magistero del papa Benedetto XVI, oltre che dall’elaborazione delle Chiese italiane già nel 2006 al convegno ecclesiale nazionale di Verona.
    Per queste ragioni non è possibile affrontare il discorso in termini di routine, rievocando semplicemente una tradizione che viene da lontano, o ripetendo affermazioni che apparivano del tutto ovvie in stagioni nemmeno poi tanto remote. Sarà piuttosto necessario istruire la questione generale prima di individuare adeguatamente le sfide che debbono essere raccolte. In questo senso la mia proposta di riflessione si attesterà molto di più su considerazioni di ordine preliminare, rispetto alle indicazioni di carattere più direttamente pastorale, di cui nondimeno apparirà tutta la rilevanza alla luce delle considerazioni che le precederanno.

    L’educazione questione antropologica

    Vorrei partire, nella mia riflessione, dall’affermazione che l’educazione oggi non può essere trattata come un tema di pedagogia, poiché essa è innanzitutto una questione di antropologia. Il motivo è che la condizione di crisi in cui versa l’educazione ci impone di considerarla in modo distintivo; appare infatti insufficiente relegarla nell’ambito delle tecniche e dei metodi, dal momento che essa si deve riferire all’uomo nella sua essenza e identità. Se volessimo usare espressioni che potrebbero apparire piuttosto sommarie, dovremmo dire che ormai l’educazione non può più essere limitata a trattare del “come” interagire con il bambino e il giovane, ma del “chi” è la persona umana. L’azione educativa, infatti, postula una concezione dell’essere umano: una concezione non elaborata a partire da presupposti astratti e ideologicamente costruiti, ma che regga alla prova della realtà della sua concreta costituzione storica ed esistenziale.
    La molteplicità delle concezioni di uomo oggi adottate e diffuse nelle nostre società culturalmente plurali deve misurarsi con un dato elementare che rappresenta l’evidenza di base di ogni antropologia, ovvero il legame strutturale dell’essere umano con la dinamica della generazione. Le conseguenze di tale dato sono di non piccolo rilievo. Innanzitutto ciò significa che l’essere umano emerge nella sua singolarità dentro un tessuto di relazioni umane, quelle familiari innanzitutto, che si estendono dal livello biochimico a quello culturale, etico e spirituale, abbracciando tutte le dimensioni dell’umano. Ognuno è se stesso perché lo può diventare a partire dal suo essere stato pro-creato, donato a se stesso da altri. Pertanto ogni concezione individualistica che ponga il soggetto umano sradicandolo e isolandolo da ogni relazione è di per sé irrealistica, nel senso che non rispecchia la realtà del diventare persone umane, intreccio formidabile di una dotazione potenzialmente completa fin dall’inizio – dobbiamo dire dal concepimento – e di una appropriazione personale frutto di un complesso processo di sviluppo in cui relazioni parentali e singolarità personale interagiscono creativamente. Lo spazio che compone la dotazione donata nell’atto della generazione e il frutto maturo della generazione compiuta è proprio l’educazione.
    Se vogliamo svolgere una sorta di verifica su piani specifici dell’esistenza umana, possiamo agevolmente fare ricorso all’esempio dell’apprendimento della lingua o dell’inserimento nella tradizione culturale dell’ambiente di nascita. Lingua e cultura sono dati che precedono e nello stesso tempo formano condizioni imprescindibili di umanizzazione per chiunque venga al mondo; solo perché c’è una cultura si è umani e si può entrare nel novero degli umani, e solo se c’è una comunità linguistica e di essa si fa parte è possibile imparare a parlare e a condividere il mondo vitale. Tutta la potenzialità di unicità e di originalità di un nuovo essere umano è costitutivamente connessa con la comunità in cui egli viene al mondo. Da essa, infatti, egli riceve, insieme alla dotazione che ne fa un essere umano, la capacità di sviluppare la propria autonomia e identità fino alla possibilità di assumerla – quella dotazione – o anche di prenderne criticamente le distanze e perfino di superarla.
    Da un punto di vista antropologico, allora, la verità e la libertà dell’essere umano non possono essere rescisse da questo legame essenziale con la generazione. In essa sono inscritte le condizioni della verità antropologica dell’essere umano e dell’assunzione e dell’esercizio della sua costitutiva libertà. Pretendere di affermare l’autonomia come condizione assoluta dell’essere umano a prescindere da ogni legame originario in realtà ne tradisce la verità e ne mina in radice la libertà. La grandezza unica e irriducibile dell’essere umano trova la sua garanzia nella circolarità tra persona e comunità e, al contrario, viene ad essere minacciata e alla fine negata dalla loro dissociazione.
    Dipendere da una comunità di persone quale è la famiglia, avere alle spalle una tradizione e una cultura, essere sottoposti all’autorità dei genitori, lungi dall’essere una limitazione della libertà e dell’autonomia, costituisce l’unica condizione della loro vera assunzione e realizzazione. Questo genere di considerazioni in realtà getta una luce che rende intellegibili le ragioni di una crisi come quella contemporanea, che vede interrotto – o comunque fortemente compromesso – il processo di trasmissione della cultura e del mondo dei valori da cui veniamo alle nuove generazioni e che ci costringe a parlare di emergenza educativa.

    L’educazione tra relazione, testimonianza, esperienza, responsabilità

    Su questo sfondo antropologico l’educazione si configura dunque come processo generativo prima che come tecnica pedagogica. Il vero pericolo che oggi l’educazione corre consiste nella sua riduzione a istruzione, ad apprendistato del saper fare, a facilitazione di un autoapprendimento spontaneo e incontrollabile. L’educazione ha a che fare con l’essere prima che con il sapere e con il saper fare. Essa ha il compito di trasmettere che cosa significa essere umani, qual è il senso dell’umano, della dignità, della verità e dell’esperienza della persona umana. E tale trasmissione non si compie innanzitutto tramite discorsi o attività, ma piuttosto con il proprio essere. Perciò lo spazio e la forma fondamentali dell’educazione sono la relazione personale, dentro la quale per imitazione e rielaborazione dell’esperienza partecipata e condivisa si impara a vivere in modo umano, si diventa umani, si conosce se stessi, si riconosce il proprio mondo interiore ed esteriore dentro il più grande mondo degli altri e delle cose che ci circondano, si prende coscienza di sé e della propria libertà imparando sempre più ad usarla fino a viverne in piena maturità e autonomia.
    All’interno della relazione interpersonale la forma fondamentale della presenza educativa è costituita dalla testimonianza autorevole. Essa contiene l’esempio, non come gesto artificioso e quasi recitato, ma come espressione spontanea del proprio essere che si imprime sull’educando prima ancora di venire esplicitata nella forma della parola e del discorso; ma comprende anche l’autorità, intesa non come imposizione ma come senso benevolo e accettabile del limite e della finitezza umana, come indicatore di una regola e di un ordine che soli, alla fine, fanno apprezzare che la vita è buona e bella e merita di essere vissuta nel rispetto di sé, degli altri, della realtà, in una percezione positiva e affidabile del mondo e dell’esistenza. Senza una proposta di senso attestata da una esperienza, da una esistenza già compiuta nel padre e nella madre – e comunque in ogni educatore – e offerta e comunicata dentro una relazione ricca di amore e di fiducia, che trasmette l’affetto per l’educando e il desiderio del bene e del senso del bene per lui e per la sua vita, non è possibile il compiersi di alcuna opera educativa e il conseguimento di alcun risultato educativo, cioè di una maturità umana.
    E infatti il nostro tempo ci fa assistere non raramente ad un prolungamento indefinito della condizione adolescenziale, poiché l’assenza di educatori coerenti e autorevoli incista nell’esistenza di tante persone un handicap irrimediabile e scava un vuoto incolmabile, costringendole ad una ricerca senza posa di un riferimento stabile e di una identità personale definita. Ad essere in gioco, oggi, è la possibilità stessa di fare autenticamente esperienza; solo che senza esperienza non c’è maturazione e identità personale. Fare esperienza significa, infatti, assumere una condizione e percorrerla fino in fondo secondo le sue esigenze intrinseche. Quando si sorvola e si evade da tutto ciò che è necessario durevolmente abbracciare per vivere, passando superficialmente da una occasione ad un’altra, da un’emozione ad un’altra, senza misurarsi mai veramente con nessuna persona o situazione o impegno, allora è la persona stessa a smarrirsi, e con essa la sua libertà. In questo si coglie un aspetto cruciale dell’educazione, ovvero l’acquisizione della responsabilità come capacità di rispondere di sé di fronte a se stessi e di fronte agli altri. Educare può essere solo opera – nel senso di manifestazione di un modo di essere – di una persona responsabile che con la sua sola presenza trasmette l’esempio, la capacità, il desiderio di diventare responsabile; poiché il risultato dell’opera educativa è proprio il crescere e il giungere a maturità di una persona responsabile. In questo senso l’educazione è incontro di anime, misteriosa trasmissione da anima ad anima.

    La prospettiva cristiana sull’educazione

    Prima di passare a qualche essenziale indicazione pastorale, bisogna chiedersi che cosa tutto ciò ha a che fare con l’educazione cristiana. In realtà il nesso dell’educazione con il cristianesimo non è solo estrinseco, di tipo sociologico, anche se questo, già da solo, non sarebbe poca cosa, visto che le difficoltà rilevate in generale nel rapporto tra le generazioni nella attuale situazione culturale non rimangono prive di influenza nell’ambito dell’educazione cristiana. Ci sono riflessi di tale situazione anche in quella che va definita educazione alla fede. C’è tuttavia una domanda ulteriore che interroga il rapporto tra educazione e scelta di fede, e cioè se tale educazione sia un settore a parte, un comparto distinto rispetto al resto dell’educazione, e quindi anche se e come dalla prospettiva di fede scaturiscano una visione e una guida per l’educazione.
    Qui possiamo solo far cenno ad alcune piste di riflessione che andrebbero ben altrimenti riprese. Una prima riguarda il fatto che tra educazione e fede sussiste un rapporto strutturale; lo si è evocato accennando alla affidabilità e alla promessa di futuro che la relazione educativa rende possibile e schiude istituendo le condizioni di evidenza e di scelta responsabile dell’esistenza a partire dalla testimonianza autorevole dei genitori e degli educatori. In realtà tale apertura fiduciosa alla vita e al futuro prende nel bambino una impronta, mediata dai genitori, che orienta ultimamente verso un oltre che può ben assumere una specifica configurazione religiosa. L’integrazione di questa strutturale apertura con una consapevole e vissuta esperienza religiosa personale dei genitori e degli educatori costituisce, da questo punto di vista, una sorta di coerente sviluppo e completamento di una logica interna all’evento stesso del rapporto educativo.
    In tal modo, entro il rapporto tra educazione e fede, prende forma una visione dell’educazione che mostra di poter dare compimento a ciò che l’esperienza e il giudizio su di essa possono produrre in modo condiviso pur dentro un orizzonte culturale plurale come l’attuale. Detto altrimenti, la visione dell’educazione che scaturisce dall’esperienza credente è in grado di esibire le condizioni che consentono di trovare in essa il compimento dell’umano.
    Una considerazione ulteriore può essere sviluppata a partire da alcune fondamentali annotazioni biblico-teologiche. La prima di esse riguarda il rapporto di Dio con il suo popolo come è attestato nella Scrittura dell’Antico Testamento, e in modo particolare nel libro dell’Esodo, con il tema dell’amore premuroso e viscerale di Dio, che non resta mai indifferente alle richieste di aiuto che salgono a lui, e ancora con i motivi del dono della legge, la correzione e il rimprovero, il cammino e il tempo.
    La seconda annotazione si concentra naturalmente su Gesù Cristo, dal quale scaturiscono indicazioni decisive da due punti di vista, ovvero dalla sua esperienza di bambino, ragazzo, giovane nella famiglia di Nazaret e, in secondo luogo, dalle indicazioni che possiamo a piene mani raccogliere dalla sua presenza e dall’insieme dei suoi atteggiamenti, gesti e insegnamenti nei confronti della folla e, in modo particolare, dei suoi discepoli. Infine una riflessione ulteriore andrebbe condotta su un piano più propriamente teologico-trinitario, a partire cioè dalla condizione di Figlio che Gesù assume in forma umana rappresentandoci al vivo il suo rapporto con Dio Padre nella forza e nell’amore dello Spirito che lo conduce ad una adesione e un amore incondizionato – caratterizzato da una libertà di donazione umanamente assoluta – al Padre e di obbedienza alla sua missione.
    Emerge così un quadro teologico che conferisce ulteriore sostanza ad una comprensione antropologica della dimensione educativa della vita e della missione del cristiano e della Chiesa che da tale approccio teologico non solo non viene limitata ma, piuttosto, esaltata fino alla piena espressione delle sue potenzialità e idealità umane. L’educazione cristiana tende alla manifestazione del figlio adottivo che è il credente come conformazione al Figlio unigenito Cristo Gesù e, proprio per questo, alla realizzazione della piena umanità dell’uomo. Così, egli raggiunge la condizione a cui è stato chiamato e destinato per creazione e redenzione, ovvero il pieno dispiegamento in lui della originaria immagine di Dio, pienamente esaltata e portata a compimento nella conformazione all’immagine perfetta di Dio che è il Figlio incarnato. Soprattutto nell’educazione, letta in quella luce di fede che mostra la sua vera forma umanizzante e la destinazione alla piena maturità umana a cui il creatore e redentore chiama e conduce, si evidenzia il dramma e la gloria di ogni vera opera educativa, ovvero l’integrazione nella distinzione tra grazia e libertà, che è strutturale in ogni cammino educativo. In esso infatti il paradosso è rappresentato dal fatto che il frutto dell’educazione non è l’effetto di un processo attivo di induzione e costrizione, di una prassi direttiva, ma si compie in uno spazio per tanti versi imponderabile e gratuito, in cui la presenza testimoniante autorevole e responsabile è efficace senza necessariamente agire attivamente e, meno che mai, costrittivamente, ma creando lo spazio e le condizioni, favorendo e accompagnando il crescere autonomo, libero e responsabile – capace di risposta, appunto – dell’educando. Non è forse proprio questo che avviene nella relazione tra la grazia e la libertà dell’uomo, reso capace e attivo dal dono e accompagnato in un cammino verso la piena, perché liberamente e amorosamente abbracciata, accoglienza del dono della grazia e del compito di corrisponderle?

    Le sfide pastorali

    Quanto fin qui detto porta l’attenzione innanzitutto sulla famiglia come ambito primario di ogni educazione e, in essa, sui genitori come figure fondamentali e presenza insostituibile di ogni opera educativa. In questa direzione può essere avviata una riflessione appropriata sulle sfide pastorali che si offrono alle nostre Chiese in Italia. Esse sono destinate a mettere al centro della sfida educativa la persona matura e responsabile, e innanzitutto i genitori, che accompagnano con lo stile del modello esemplare – testimoniale – colui che deve crescere e diventare adulto, persona matura. Il ruolo dei genitori appare essenziale per la relazione originaria di generazione e dipendenza, di legame e di affetto che li rende naturalmente, in maniera unica e inimitabile, il riferimento di ogni ordinaria opera educativa.
    Accanto alla famiglia un ruolo fondamentale hanno gli educatori della comunità cristiana e poi ancora quelli della scuola. Qui bisogna evidentemente considerare le finalità tipiche di ciascuna di queste comunità educanti. Ciò che tuttavia rimane decisivo per tutti, con una presenza e un ruolo specifici dei genitori, è la qualità personale di maturità e di testimonianza dell’educatore, qualunque sia l’attività particolare che egli svolge.
    Gli educandi hanno bisogno di limiti motivati e testimoniati, e necessitano di incoraggiamenti fondati e oggettivi, ovvero di prospettive a cui guardare e verso cui dirigersi con fiducia e speranza. Per far questo non possiamo fare a meno di educatori che siano, con naturalezza, i primi a praticare ciò che dicono e chiedono agli altri.
    A questo riguardo, un’ulteriore specificazione si impone. La corretta distinzione tra educando ed educatore non contraddice la logica di reciprocità che appartiene alla particolare relazione di cui stiamo parlando e che fa sì che l’educatore sia anche educando e viceversa. Entrambi, infatti, sia pure con posizioni e vissuti differenti, si trovano accomunati dal riferimento all’unica verità, a un patrimonio e a un destino comune, che allarga l’orizzonte e dà al rapporto educativo una caratteristica di apertura e di allargamento che giustifica il parlare di “comunità educanti” come condizioni essenziali nel processo di maturazione della persona.
    La figura dell’educatore va sempre intesa e inserita nel contesto di una comunità, alla quale egli sempre rinvia. Non è possibile, infatti, educare alla libertà e crescere in essa senza riconoscere il legame che la propria libertà ha con quella degli altri. Educare alla socialità ne è l’altra, imprescindibile, faccia. Ciò mette in risalto anche la necessità che l’intera società – comprensiva delle stesse istituzioni e delle nuove “agorà” in cui le persone si incontrano e interagiscono – porti attenzione alla qualità educativa del proprio tessuto e valorizzi la presenza capillare di esperienze capaci di offrire ragioni di vita e di speranza in ogni tratto dell’esistenza umana. Certo l’educazione non si confonde con la promozione di servizi e di proposte – che è compito delle istituzioni sostenere nell’ottica della sussidiarietà – ma si alimenta di progettualità e cooperazione diffuse e appassionate.
    In chiave di “alleanza” – al proprio interno fra le diverse soggettività e ugualmente in rapporto sinergico con le realtà esterne ad essa – si configura anche l’opera educativa della comunità ecclesiale. Far sì che ciascuno si appropri sempre meglio della responsabilità educativa che gli è propria – in definitiva, della cura del bene e della verità dell’altro e dell’insieme della comunità – appartiene alla missione specifica della Chiesa e al contributo che essa è chiamata a rendere al mondo degli uomini. Le esperienze educative che in essa si sviluppano mirano all’educazione di tutta la persona: intelligenza e affetti, libertà e desiderio, socialità e responsabilità.

    (Roma, Salesianum, 20 aprile 2010)


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