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     Dai bisogni alla
    domanda educativa
     

    Giancarlo Milanesi


    Q
    uanto siamo venuti dicendo sulla condizione giovanile interroga problematicamente gli educatori; dal panorama variegato dei bisogni, delle contraddizioni e delle attese dei giovani emerge una domanda educativa, talora non del tutto esplicita e consapevole, ma sempre ricca di sfide e di provocazioni.

    Il passaggio dal livello del bisogno a quello della domanda esige un'analisi attenta che deve superare l'ambito dell'esperienza intrapsichica di ciascun giovane e allargarsi al contesto reale, il territorio e le sue dinamiche, entro cui le domande si pongono.

    1. LA DINAMICA DEL BISOGNO

    La domanda educativa si può definire come presa di coscienza e come elaborazione compiuta di uno o più bisogni soggettivi e oggettivi, la cui soddisfazione è percepita come rilevante ai fini del progetto personale; essa implica sempre una tensione verso il pieno possesso della propria esistenza.
    Non sempre tuttavia la consapevolezza del bisogno e l'impegno per farne emergere un valore sono perseguiti e voluti in modo da configurare effettivamente una matura domanda educativa; una percezione insufficiente dei bisogni, come pure una scarsa coscienza della loro importanza e una relativa caduta di tensione verso la loro soddisfazione possono rendere incompleta, distorta, fiacca la domanda educativa.
    A loro volta i bisogni si presentano sempre come effetto di un intreccio di aspettative che hanno la più svariata origine e mostrano una gamma molto differenziata di contenuti. A questo proposito si possono identificare le matrici dei bisogni in tre aree interconnesse:
    - la matrice bio-psicologica, che fonda una serie di esigenze di base, spesso identificate con i bisogni primari;
    - la matrice micro-ambientale, che specifica - attraverso le interazioni con la famiglia, la scuola, il gruppo o il gruppo dei pari, le diverse associazioni e aggregazioni, le organizzazioni lavorative, ecc. - ulteriori esigenze di qualità della vita da soddisfare;
    - la matrice macro-ambientale, che fa sentire sul micro-ambiente e sulla base bio-psicologica il peso dei condizionamenti strutturali e culturali, modificando in continuazione i bisogni soggettivi. Nella società contemporanea, specialmente nel contesto della società complessa e post-industriale, la consapevolezza dei bisogni e la dinamica che porta a trasformare il bisogno in domanda educativa, prendono caratteristiche in parte inedite.
    Due tendenze fondamentali sembrano caratterizzare la consapevolezza che i giovani hanno oggi dei propri bisogni.
    Da una parte si verifica una crescente relativizzazione dei bisogni, una persistente difficoltà a discernere tra bisogni reali/profondi e bisogni indotti/superficiali, una certa propensione al continuo rimescolamento dei sistemi di bisogno, senza apparente motivazione.
    Questa tendenza complessiva si può forse ricondurre alla presa di coscienza del peso crescente esercitato dal sistema sociale sulla definizione dei bisogni, che significa consapevolezza del prevaricare dei bisogni indotti su quelli naturali, ribellione al meccanismo perverso che crea artificialmente bisogni per soddisfare esigenze (quali quelle connesse alla logica produzione/consumo) che hanno scarso rapporto con la promozione della persona umana, presa di distanza rispetto alle gerarchie di valore che tali bisogni sembrano voler imporre.
    In questa contestazione del processo che crea i bisogni, i giovani assumono spesso un atteggiamento solo parzialmente alternativo; l'atteggiamento fondamentale (quello cioè della relativizzazione, rimescolamento, non-discernimento) non fa che riprodurre, infatti, la logica della società complessa, di una società, cioè, che avendo perso il proprio centro simbolico unificante, sembra legittimare ad ogni livello un pensiero, un atteggiamento, una prassi «debole».
    D'altra parte si assiste a un tentativo - non generalizzato, ma significativo in certi strati giovanili - di elaborare un nuovo quadro di bisogni, connotato dal riemergere degli interessi legati alla qualità della vita (cioè tutta l'area dei cosiddetti valori post-materialistici), dallo sforzo di riappropriarsi del diritto (scippato dal Welfare State) di definire i propri bisogni e i percorsi attraverso cui realizzarli, dalla presa di coscienza dei bisogni meno negoziabili (salute, sicurezza, serenità, vita).
    Questo tentativo si ricollega alla nuova sensibilità che si va creando nella società post-industriale; società nella quale si è già raggiunta la soddisfazione di molti bisogni di base (cioè primari), ma si affacciano problemi e minacce che possono vanificare le conquiste sin qui fatte, come sembrano dimostrare le inquietudini che riguardano la guerra atomica, l'inquinamento dell'ambiente, la scelta nucleare, il boom demografico dei paesi di Terzo Mondo, la manipolazione genetica, l'AIDS, ecc.
    Questi e altri problemi si presentano con i caratteri della massima urgenza e della minima negoziabilità, proprio perché la società post-industriale, in quanto società dell'informazione, è in grado di dare ad essi rapidamente una dimensione planetaria ed esaltarne la drammaticità fino all'ipotesi apocalittica.
    In definitiva, relativizzazione del bisogno e riformulazione di una nuova gerarchia di bisogni non sono che due aspetti del medesimo processo di ricerca difficile di un'identità in una società dagli equilibri nuovi. Su questa premessa vanno valutati i sistemi settoriali di bisogni che i giovani sembrano costruire in questo momento di transizione.

    2. LA NEGAZIONE DEL BISOGNO

    Quanto si è venuto dicendo fino ad ora sulle tendenze generali in atto nel processo di formazione del sistema di bisogni dei giovani va verificato nel concreto del territorio, cioè nel «luogo» sociale dove il bisogno può trovare o non trovare le condizioni per una ulteriore evoluzione in specifica domanda educativa.
    In realtà non tutti i giovani trovano oggi nel territorio un supporto efficace della loro domanda.
    Un certo numero di giovani non riceve per socializzazione o educazione strumenti interpretativi sufficienti a comprendere il senso della crescente problematicità della società attuale. Ciò provoca il più delle volte una pericolosa estraneità dei giovani nei riguardi delle grandi organizzazioni istituzionalizzate che appaiono loro come realtà impersonali, con cui è difficile intrattenere una comunicazione soddisfacente.
    Una conseguenza di questo vissuto è l'autoemarginazione in gruppi (perlopiù informali) che invece sembrano assicurare alti livelli di comunicazione interna (sia pure snervati da contenuti poveri ed effimeri). È all'interno di questa rete comunicazionale che si struttura una tipica dinamica di formazione del bisogno (meglio, di certi bisogni), che si caratterizza per un rapporto alienato con il territorio.
    Talora un gruppo di questo tipo «occupa» il territorio (una piazza, una via, un quartiere, un luogo di ritrovo), intendendo affermare con ciò un diritto esclusivo a svolgervi certe attività, a escludere da esso altri gruppi, a difenderlo da tentativi del potere pubblico di organizzarlo secondo criteri non graditi al gruppo.
    Con tutto ciò il territorio non acquista significato per questi giovani in cerca di mezzi per ridurre la complessità che non capiscono.
    Nonostante il riferimento effettivo, il territorio non è che un luogo materiale in cui il gruppo si installa, non è una fonte di risorse, ma solo spazio vuoto caratterizzato perlopiù dall'assenza della società organizzata e da limitata presenza di aggregazioni intermedie che siano significative.
    La complessità favorisce dunque, in certi casi, il ritiro dei giovani entro forme aggregative estranee al territorio, o al massimo legate ad esso in maniera del tutto strumentale.
    Ma l'incapacità di ridurre o governare la complessità può sboccare anche in un meccanismo di adattamento individuale; invece di rifugiarsi nel gruppo comunicazionale, ci si rassegna a gestire l'estraneità verso il territorio mediante la privatizzazione dei bisogni. È il rischio di una autoemarginazione pericolosa; la comunicazione è ridotta alle esperienze di coppia (quando ci sono) o alle esperienze di amicizia molto selettiva, all'incontro occasionale e sporadico; le opportunità offerte dal territorio (come luoghi di aggregazione, strutture di servizio, spazi di scambio) sono sfruttate con intelligenza egocentrica; il senso dell'appartenenza (e la conseguente responsabilizzazione) si fa sempre più debole fino a sfumare nel distacco e nell'ostilità generalizzata.

    3. LA NEGAZIONE DELLA DOMANDA

    Una seconda ipotesi sottolinea la percezione del territorio come contesto di origine del bisogno, ma non come fattore di crescita della domanda.
    In altre parole: il territorio sembra offrire un certo numero di stimoli e di opportunità come pure una certa quantità di problemi e di contraddizioni, da cui il bisogno prende avvio sia come diritto a una risorsa promessa dal sistema, sia come reazione alle negazioni, esclusioni e frustrazioni di cui i giovani sono oggetto e vittime.
    Sotto questa fattispecie vanno richiamate alcune categorie interpretative della condizione giovanile che possono rendere conto di questo problematico rapportarsi dei giovani al territorio.
    Il rischio di marginalità che investe diverse categorie di giovani è chiaramente connesso a carenze e difficoltà, a strozzature, inadempienze e insufficienze delle articolazioni strutturali del territorio (cioè delle istituzioni e delle organizzazioni che vi operano), come pure a certe arretratezze, povertà e incoerenze della cultura (o delle culture) che vi è prevalente.
    Una sia pur succinta esemplificazione può dare l'idea della complessità e della problematicità di tali situazioni.
    Un primo caso è offerto dalla persistente separatezza delle strutture formative dal contesto territoriale.
    Un secondo caso è la ricorrente crisi dei luoghi di aggregazione giovanile.
    Un terzo caso è dato dalla inadeguatezza dei servizi che pure in molti casi già esistono sul territorio, ma che raramente rispondono a precise domande giovanili.
    Queste e altre problematiche sembrano confermare che le inadeguatezze del territorio (evidenziabili perlopiù come insufficienza della mediazione istituzionale rispetto ai processi di formazione e soddisfazione di una vasta gamma di bisogni) costituiscono un fattore di emarginazione dei giovani, soprattutto quando si sommano alle spinte emarginanti della logica che caratterizza lo sviluppo complessivo della nostra società; che è logica della massima razionalizzazione nell'utilizzo della forza-lavoro, con esclusione drastica (ancorché temporanea, ma non per questo breve) delle quote di popolazione ritenute deboli o comunque non ancora o non più utilizzabili.
    La marginalità - configurata pertanto come condizione di espropriazione del diritto di decisione, partecipazione, protagonismo, accesso alle risorse del sistema, e perciò come consegna a un destino di dipendenza, irrilevanza sociale, alienazione - mette a nudo una vasta gamma di bisogni stimolati ma non soddisfatti; e quando sia percepita nella sua intrinseca pericolosità, mette in moto un nuovo bisogno globale, che è appunto quello di uscire dalla marginalità stessa, affermando e sviluppando una più precisa domanda politica, culturale ed educativa.
    Una seconda categoria interpretativa, che può far comprendere la logica del territorio che frustra i bisogni, è quella che possiamo chiamare lotta per l'identità in un contesto di apparente eccedenza di opportunità.
    A prima vista il territorio, specie quello urbano, può sembrare infatti particolarmente ricco di percorsi utili al raggiungimento dell'identità. In questo senso si parla di eccedenza, in quanto mai come oggi si sono moltiplicate le occasioni di formazione, scambio, esperienza.
    L'impressione però non corrisponde sempre alla realtà. Alcuni dei percorsi teoricamente disponibili sono di fatto impraticabili; altri si rivelano brevi e poveri di contenuto, cosicché presto si esauriscono in una esperienza frustrante; altri ancora sono fonte di continua delusione perché non portano dove promettono di portare.
    Il territorio si riduce pertanto, in questa particolare forma di esperienza, a una somma di parziali e deludenti occasioni di identità, che però non sono in grado di motivare un investimento pieno e coerente da parte dei giovani, sia per la scarsa significatività di ciascuna delle tante opportunità, sia per la disorganizzazione complessiva del tessuto sociale.

    4. IL TERRITORIO COME SUPPORTO DELLA DOMANDA

    Una terza ipotesi suppone che ci siano giovani che percepiscono il territorio come supporto della loro domanda educativa e come luogo in cui essa può trovare risposta.
    La sostanziale positività di questa ipotesi non annulla la problematicità insita nelle due precedenti.
    Si vuole qui sottolineare che al di là e dentro le obiettive difficoltà che i giovani incontrano nel territorio, è possibile elaborare una costruttiva domanda educativa, a patto che essi mettano in moto un'attiva ricerca di soddisfazione del bisogno e di trasformazione del bisogno in esperienza di valore, cercato e vissuto.
    In questo caso si deve dare per scontato che i giovani in questione siano capaci di utilizzare le opportunità che il territorio offre come un supporto alla loro maturazione personale e all'inserimento sociale attivo e responsabile.
    Più analiticamente, ciò implica certe precondizioni nel territorio stesso e certe disposizioni e atteggiamenti nel giovane.
    Se si prende come punto di partenza il territorio, si dovrà supporre, ad esempio, che in esso vi siano perlomeno rispettati i criteri di organizzazione e strutturazione che permettono un livello minimo di vita a misura d'uomo.
    Ciò ovviamente non si verifica quando la speculazione edilizia, il degrado delle strutture e l'inquinamento rendono impossibile la soddisfazione di alcuni bisogni fondamentali e impediscono di immaginare bisogni di più alto livello.
    Sempre dal punto di vista del territorio, costituisce premessa e fattore di partecipazione da parte dei giovani una distribuzione razionale di stimoli provenienti da una rete organica di agenzie della socializzazione, capaci di interagire e di coprire una vasta gamma di bisogni giovanili. Discorso analogo va fatto per i servizi di base, di cui abbiamo fatto cenno nel punto precedente.
    Ma ancora più in profondità, una percezione del territorio da parte dei giovani suppone che esso sia effettivamente un'entità sociale sufficientemente caratterizzata sia sotto il profilo strutturale che culturale; non solo un'astratta delimitazione di spazi con connotazione puramente burocratica e organizzativa, ma comunità di uomini articolata in una rete identificabile di interazioni sociali e protagonista di processi significativi; e ancora come luogo in cui, entro le interazioni e i processi, vanno sviluppandosi dinamiche culturali di diversa intensità e segno, il cui significato complessivo possa essere oggetto di analisi e di intervento.
    In realtà, una caratterizzazione del territorio nei termini descritti non può essere risultato né del caso né di operazioni di vertice; il territorio diventa entità sociale dotata di senso solo per effetto di interventi mirati e convergenti che richiedono tempo, coerenza, volontà politica; troppe realtà territoriali sono, in verità, solo circoscrizioni amministrative prive di identità propria e perciò anche incapaci di conferire senso di appartenenza, di motivare interesse e coinvolgimento, di suscitare partecipazione e responsabilità.

    5. I CONTENUTI DELLA DOMANDA EDUCATIVA

    Si tratta ora di vedere, alla luce delle tematiche fin qui analizzate, quali siano i contenuti specifici della domanda educativa dei giovani. Ancora una volta ci sono di guida le categorie interpretative generali più volte utilizzate.
    Dalla marginalità, o meglio dalla presa di coscienza della propria possibile o reale condizione di marginalità, può nascere una domanda di partecipazione-appartenenza-responsabilità che diventa proposta concreta di protagonismo serio, costante, vigoroso. Già sono all'opera e si diffondono iniziative che ne documentano la ricchezza progettuale e la creatività metodologica: in prima linea il movimento cooperativistico e le diverse forme di impegno per la creazione di nuovi posti di lavoro, poi anche le articolate forme di volontariato giovanile (dall'educativo al culturale, dal sociale al ricreativo, ecc.), infine il risorgente impegno nelle più svariate realtà associative (dal politico all'ecclesiale, dallo sportivo al sindacale, ecc.).
    Vi sono sintomi non trascurabili di un ritrovato gusto per impegni che abbiano una chiara finalità di utilità sociale; e non raramente si trovano giovani che identificano il percorso della propria realizzazione personale con quello della solidarietà universalistica. La qualità della vita, centrata attorno a valori che più o meno correttamente sono stati definiti post-materialistici, si precisa ormai in rapporto a un bisogno di relazione non solo funzionale alla securizzazione o espansione personale, ma sensibile ad esigenze «di sistema».
    Dalla frammentazione, se colta consapevolmente nella sua valenza positiva, può nascere una forte domanda di riflessività, interiorità, personalizzazione che viene investita prioritariamente sulla variegata e ricca produzione soggettiva di senso. Sembra esserci in alcuni giovani il bisogno di ridurre a unità l'esperienza senza mortificarne la complessità, e il bisogno di ricomporre in totalità il vissuto senza operare tagli ingiustificati.
    Sintomi di una ritrovata capacità di superare la frammentazione (o almeno di convivere decentemente con essa) si ritrovano in certi vissuti comunitari, in certe relazioni di coppia, in certe sperimentazioni di comunicazione aperta e profonda: vi è un mondo giovanile da riscoprire nella sua differenziata capacità di riflessione non evasiva, che include credenti e non credenti, tossicodipendenti in via di autoriscatto e artisti, ex-sessantottini neocontemplativi e nuove leve di impegnati politicamente.
    Dall'espropriazione dell'identità, cioè dall'impoverimento progressivo di valori e dall'incertezza dei percorsi verso l'autorealizzazione, può nascere una domanda urgente di soddisfazione di nuovi bisogni, espressa come riappropriazione del diritto a darsi un'identità fortemente personalizzata e fortemente storicizzata.
    Questa tensione si muove, sul versante critico, tra rifiuto dell'ideologia e sfiducia verso l'utopia gratuita; e sul versante propositivo si nutre in prima istanza del ricupero di alcuni valori che la società post-industriale rende praticabili: la corporeità, la relazione, l'etica, l'amicizia, la dignità personale, la realizzazione di sé, l'impegno sociale. Recedono alcuni bisogni di tipo acquisitivo (ma non del tutto e forse non per sempre) ed emergono, come essenziali all'identità, nuove e antiche esigenze espressive. I sintomi di tutto ciò sono sparsi in misura non esigua in tutta la produzione culturale giovanile.
    Dall'estraniazione prodotta da un tempo scandito secondo ritmi non ancora consueti, può nascere una nuova consapevolezza del valore del tempo individuale e sociale. Vi sono i segni di una diversa «cultura del tempo»; non solo e non più l'esperienza della noia e dello spreco dentro un tempo senza significato, né l'urgenza di un presentismo che brucia ogni possibilità ad ogni istante, ma la consapevolezza dell'importanza e della irripetibilità delle opportunità offerte a ogni stagione della vita.
    Si può leggere tutto ciò nella domanda di un tempo più pieno e più vivo per il momento formativo (vedi proteste per le inadempienze della scuola), nell'urgenza di vivere diversamente la transizione verso il lavoro, nell'esigenza di anticipare la stagione dell'impegno sociale e dell'attività produttiva, e più in generale nella domanda di ritmi di vita più «a misura d'uomo».
    Queste e altre domande, variamente combinate in ogni giovane e in ogni strato, aggregazione, gruppo giovanile, in modo da comporre un cocktail imprevedibile di intenzioni progettuali, convivono e interagiscono con le contraddizioni e ambivalenze altrettanto variegate che accompagnano il vissuto giovanile. Ne risulta una geografia estremamente complessa, il cui senso globale può facilmente sfuggire, ma la cui ricchezza problematica continuerà a sollecitare la ricerca scientifica e l'interesse degli operatori.

    6. LA RISPOSTA EDUCATIVA IN PROIEZIONE PREVENTIVA

    Alle molte domande educative dei giovani occorre rispondere con una serie di interventi mirati che includono azioni di diverso tipo e finalità. Il criterio unificatore di questa molteplice operazione può essere quello dell'educazione, programmata e realizzata con spirito e intento preventivo.
    Molti sono i problemi che si pongono a questo riguardo.

    6.1. Educazione e prevenzione
    Un primo nodo è rappresentato dallo stesso rapporto tra educazione e prevenzione.
    C'è una certa tendenza in molti operatori a risolvere gli interventi preventivi in misure politiche e amministrative, che in se stesse non implicano una dimensione educativa. Talora sembra che la prevenzione sia affidata a strutture (più o meno funzionanti) anziché a interventi miranti a modificare gli atteggiamenti delle persone. Dotare un territorio di un numero imprecisato di «centri», «osservatori», «supporti» di varia natura e finalità, attrezzare un'area in modo da contrastare il degrado ecologico e sociale, elaborare politiche per la gioventù, per la famiglia, per il tempo libero, per la cultura, ecc. può risultare inutile oltre che molto dispendioso ai fini della prevenzione, se non si attua un'esplicita correlazione dinamica tra finalità preventiva e azione educativa. Se è vero che educazione e prevenzione non coincidono necessariamente, è anche vero che esse sono intrinsecamente interdipendenti.
    A livello di prevenzione primaria tale interdipendenza appare ovvia; non esiste effetto preventivo in questo contesto se non si riattivano le agenzie di socializzazione tradizionali ed emergenti e non si restituisce loro la capacità di incidere sulle persone in modo sostanzialmente educativo, cioè la capacità di stabilire rapporti umani fondati sulla libera scelta reciproca, caratterizzati da forte proposta di valori, finalizzati all'autonomia progettuale, animati da un'esigente coscienza autocritica. Perciò non c'è prevenzione dove si fa sport, si fa scuola, ecc. limitandosi a generiche pratiche di socializzazione o dove si gioca ambiguamente col termine animazione, identificandolo con insignificanti iniziative di consumo dell'effimero.
    L'ormai evidente inutilità dei troppi interventi sul territorio finalizzati alla prevenzione primaria (si veda in Italia la crisi di molti «Progetti giovani») dimostra abbondantemente la necessità della prospettiva educativa rispetto a quella solamente sociale e culturale.
    A livello di prevenzione secondaria, l'apporto educativo si mostra insostituibile come pedagogia ricostruttiva, come terapia di sostegno e di appoggio, come orientamento, accompagnamento e rieducazione. L'effetto preventivo (cioè la capacità di resistere al processo di strutturazione dei comportamenti indesiderabili) si ha quando specifici interventi educativi sono in grado di potenziare nel soggetto a rischio la capacità di analizzare le proprie problematiche esistenziali, di gestire l'autonomia, di ricomporre gli equilibri prodotti dalle contrastanti esigenze dei compiti di maturazione.
    A livello di prevenzione terziaria, l'educazione appare insostituibile come momento integrativo rispetto agli interventi di carattere medico, psicologico, psichiatrico, ecc. che mirano a riportare il soggetto a una soglia di normalità; l'educazione qui appare come supporto necessario a risvegliare le motivazioni per uscire dal tunnel della devianza, a ottenere il consenso e la libera adesione alle pratiche terapeutiche, a offrire compensi psicologici alla durezza dei percorsi che i giovani sono chiamati ad affrontare se vogliono riabilitarsi.

    6.2. Prevenzione come azione sistemica
    Un secondo nodo di questioni riguarda le carenze e le contraddizioni che contraddistinguono il tentativo di fare della prevenzione un'azione sistemica: anche in ciò l'istanza educativa si rivela come utile criterio di totalizzazione. Da tempo si è presa coscienza della inutilità (a parte la dannosità) degli interventi preventivi privi di riferimento a una globalità di fini, di metodi, di strumenti. Anche solo a titolo esemplificativo, si può citare l'effetto deleterio prodotto da una prevenzione ridotta a informazione terroristica nel caso della droga o dell'alcool, o l'inutilità degli sforzi posti in atto per la sensibilizzazione del territorio in assenza di un reale coinvolgimento delle forze sociali, o la debolezza degli approcci che mirano schizofrenicamente a incidere solo sugli individui o solo sul contesto sociale e territoriale.
    L'esigenza di un'azione preventiva sistemica è oggi accettata pressoché da tutti gli operatori sociali e dagli educatori più avvertiti. Tale azione si presenta articolata a più livelli; intende infatti estendersi a tutte le componenti del vissuto personale dei soggetti a rischio, prevede di coinvolgere metodologie differenziate (con i contributi della medicina, della psicologia, della sociologia, delle scienze della comunicazione, ecc.), mira a raggiungere gli ambiti di-vita più diversificati (famiglia, scuola, luogo di lavoro, tempo libero, ecc.), pretende di mobilitare tutte le risorse umane presenti sul territorio, si propone infine di esercitare un impatto decisivo su tutta la società.
    È evidente che questa pluralità di dimensioni esige un principio unificatore, un comune denominatore; in una fase di transizione che vede cadere il mito delle ideologie totalizzanti, è forse troppo esigere di ricapitolare una tale articolazione di piani d'intervento sulla base di una precisa proposta di valore capace di ottenere il consenso universale degli operatori, ma non sembra eccessivo proporre un criterio (almeno formale) di omogeneizzazione degli interventi, su cui ognuno possa poi inserire la propria scelta valoriale.
    L'idea di assumere il criterio educativo come principio unificatore dell'approccio sistemico va comunque approfondita. Non si tratta solo di vedere nella prospettiva pedagogica il punto terminale dei vari interventi, ma più in profondità di scoprire nell'istanza educativa quasi un meta-linguaggio che rende possibile la transdisciplinarità e il coordinamento reale delle varie azioni preventive. Per arrivare a ciò è necessario riattivare nei vari soggetti che operano con intenti preventivi una sensibilità pedagogica e, ancor più, una passione pedagogica capace di concreta e coerente progettualità; in questa direzione il cammino da fare è ancora lungo, soprattutto in relazione alle forze politiche e alla amministrazione pubblica.
    Riaffiorano a questo punto le esigenze di superamento delle vecchie concezioni puramente «difensive» di prevenzione, per un più coraggioso progetto di prevenzione «promozionale» in cui siano contemperate le esigenze di salvaguardia dell'integrità e maturità delle persone e quelle di sviluppo complessivo della società. Troppe iniziative, anche recenti, tradiscono ancora una intenzione sostanzialmente punitiva nei riguardi dei potenziali o reali sovvertitori del sistema normativo, e perciò si risolvono più in forme di controllo sociale che di prevenzione personale e sociale.
    Ciò va tenuto presente soprattutto quando il prevenire implica in qualche modo l'uso di misure restrittive o di interventi drastici da parte del potere pubblico, come nel caso dello spaccio di droga o della delinquenza organizzata: in questi casi il criterio educativo esige che le misure vengano adottate più come premesse e come condizioni che facilitano la prevenzione nelle persone e il loro ricupero umano che come azioni unicamente risolutive del problema.

    7. I GIOVANI COME RISORSA

    Educazione come prevenzione. Il senso di questa proposta va infine precisato nelle sue valenze più pregnanti.
    Prevenire infatti non è solamente un'azione mirata a evitare esperienze durevolmente negative per il giovane o a destrutturare le precondizioni pericolose per la sua realizzazione umana integrale. Prevenire è anche e soprattutto anticipare i ritmi di sviluppo, stimolare le capacità potenziali, valorizzare il bisogno di protagonismo dei giovani; in questa prospettiva, educazione e prevenzione coincidono largamente nel considerare i giovani stessi come la risorsa essenziale per la soluzione dei bisogni e delle domande che emergono dal loro vissuto quotidiano.
    Va detto che i giovani rappresentano una risorsa solo a certe condizioni. Non è il loro numero che conta, né il clamore che circonda certe iniziative o manifestazioni di cui i giovani sono protagonisti. La «risorsa» si qualifica come elaborazione di valori, modelli e stili di vita realistici e insieme utopici, che l'educatore deve saper identificare come già impliciti nella domanda e saper valorizzare come premessa di un progetto di vita.
    Su questo compito si misura la capacità degli educatori di cogliere il senso della sfida che viene dall'universo giovanile e che si configura sempre più come scommessa sui giovani, sulla loro funzione di innesco di un futuro più umano.

    (da Giancarlo Milanesi, I giovani nella società complessa, Elledici 1989, cap. 12, pp. 141-153)


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