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    al desiderio

    Giacomo Costa

    Un’ameba, cioè un’entità informe e senza spina dorsale. Così, senza mezze misure, si può riassumere l’immagine dell’Italia presentata dal CENSiS (Centro studi investimenti sociali) nel 44° Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2010 (FrancoAngeli, Milano 2010). Un Paese che stenta a prendere coscienza del proprio potenziale e a compiere quello scatto di orgoglio che gli consentirebbe di riprendere forza e di guardare avanti: «Anche se ripartisse a breve la marcia dello sviluppo, la nostra società non avrebbe lo spessore e il vigore adeguati alle sfide che dobbiamo affrontare» (p. XIII).
    Il Rapporto usa anche un’altra immagine, «un campo di calcio senza neppure il rilievo delle porte dove indirizzare la palla» (p. XV). Una società piatta quindi, in cui «non riusciamo più ad individuare un dispositivo di fondo (centrale o periferico, morale o giuridico) che disciplini comportamenti, atteggiamenti, valori» (p. XVII) e che «appiattisce (fa franare) anche tutti i soggetti presenti in essa, e in particolare la loro capacità e il loro vigore soggettivi» (p. XV). Un quadro fosco, che non può lasciare indifferenti, specie se se ne coglie il peso sulla vita delle persone e del Paese: «nell’attuale realtà italiana rimbalzano spesso sensazioni di fragilità sia personali che di massa, che fanno pensare ad una perdita di consistenza (anche morale e psichica) del sistema nel suo complesso » (p. XIV).

    1. Crisi del desiderio ed emergenza educativa

    L’analisi del Censis evidenzia una crisi meno popolare di tante altre, ma che forse ne è alla radice, o, meglio, spiega perché la nostra società fatica ad affrontare tutte le altre, da quella economica a quella della politica e a quella demografica. È la crisi del desiderio, cioè della tensione progettuale verso il futuro, della libertà di impegnarsi, della decisione ad agire. È il desiderio che spinge - per ricorrere all’immagine calcistica usata sopra - a cercare la porta verso cui indirizzare la palla: solo il desiderio ci fa alzare gli occhi dalle reti orizzontali che ci impigliano nell’esistente e in relazioni poco significative, fornendo uno scopo alle pulsioni e lo slancio per vincere l’indifferenza; solo il desiderio può aiutarci a comprendere con soddisfazione il senso della complessità, vincendo la tentazione di dare un senso univoco e semplificatore a ogni cosa; senza desiderio, resta quella mancanza di volontà tipica di molti comportamenti attuali. Per questo il Rapporto Censis afferma: «Tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare una società troppo appagata ed appiattita» (p. XXII).
    La rinuncia a desiderare, sognare e progettare è palpabile a molti livelli e sono i giovani, naturalmente più proiettati verso il futuro, i primi a farne le spese: «sono più di 2.242.000 gli italiani tra 15 e 34 anni che non sono impegnati in un’attività di studio, non lavorano, non lo cercano e soprattutto non sembrano essere interessati a trovarlo» (p. 4), il 16,3% del totale dei giovani. Questi dati mostrano come la posta in gioco per i giovani sia proprio la capacità di creatività, di relazione e di responsabilità, integrando le pulsioni in un disegno progettuale animato da un desiderio, per sé e per la società di cui fanno parte. Nella società appiattita il desiderio ha perso la sua forza e occorre tornare a impararlo, tornare tutti - in primo luogo i giovani - a educarci a desiderare.
    Per ritrovare la capacità di desiderare occorre superare alcuni passaggi cruciali. Tra questi, il primo è quello della formazione di una solida identità personale, per reagire alla crescente fatica a dare un senso all’esistenza, come ha messo in evidenza Alain Ehrenberg nel suo libro La fatica di essere se stessi (Einaudi, Torino 2010). Secondo il sociologo francese, in uno scenario sociale dove, in seguito al venir meno delle norme, tutto è permesso, e quindi potenzialmente possibile, la principale causa di difficoltà è un «senso di insufficienza» per ciò che sarebbe possibile fare senza però riuscirci, per ciò che gli altri si aspettano da noi e per la pochezza dei nostri risultati, da cui derivano ansia, senso di inadeguatezza, incapacità di iniziativa.
    Un secondo passaggio è quello di imparare a distinguere tra desiderio e bisogno. Il bisogno prevede un appagamento concreto, il desiderio rimanda invece a una relazione con qualcosa che è fuori da sé e di cui si sente la mancanza, qualcosa a cui si tende ma che non si riesce a raggiungere, come spiega bene l’etimologia del termine, dal latino de-, che indica una privazione, e sidera, stelle: qualcosa di lontano che non si riesce a toccare. Questa perenne tensione verso qualcosa che è sempre aldilà e non può essere appagato è all’origine dell’agire.
    Proprio perché è diretto all’altro da sé, il desiderio è per sua natura aperto e interpella la libertà. Un ulteriore passaggio sta quindi nel confronto con una concezione equivoca di libertà. La cultura dominante, individualista e utilitarista, conduce a un falso concetto di «libertà», intesa come pura opzione (fra cose, comportamenti, persone) senza legami né responsabilità. In una società caratterizzata dalla molteplicità di messaggi e dalla grande offerta di beni, diventa fondamentale, dunque, educare all’assunzione di responsabilità personali e sociali.
    È un problema che la Chiesa sente con forza. Già qualche anno fa, nella Lettera alla città e alla Diocesi di Roma sull’urgenza dell’educazione (21 gennaio 2008, in ), Benedetto XVI ha messo in evidenza che «Educare non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. […] Si parla perciò di una grande “emergenza educativa”, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita». Per questo la Conferenza episcopale italiana ha posto la questione educativa al centro degli orientamenti pastorali degli anni scorsi e l’ha riproposta per quelli a venire, con il recente documento Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020 (4 ottobre 2010, in ; cfr anche l’intervento del Presidente della CEI, card. Angelo Bagnasco, riportato in questo numero alle pp. 55-61).

    2. Educazione: sì, ma quale?

    In questo scenario, la scuola e l’università italiane, due delle principali agenzie educative del Paese, sono sempre più un «cantiere aperto», oggetto di riforme che hanno provocato e continuano a provocare dissidi e anche scontri di piazza, e soprattutto destano allarme e confusione.
    La filosofia alla loro base sembra spesso essere il recupero dell’efficienza, intesa come riduzione dei costi. Certo gli sprechi vanno eliminati, affrontando anche le resistenze di chi trae indebiti vantaggi dalla situazione attuale, ma è difficile non vedere come il taglio dei finanziamenti a scuola, università, ricerca e cultura generi un ulteriore appiattimento di una società già piatta. Lo ha evidenziato il presidente Giorgio Napolitano, affermando che il rigore nei conti pubblici non può andare a discapito dei due settori davvero fondamentali per il futuro del Paese, l’istruzione e la ricerca: «Sostengo con convinzione che nel portare avanti l’impegno comune e categorico per la riduzione del debito pubblico bisogna riconoscere la priorità della ricerca e dell’istruzione nella ripartizione delle risorse pubbliche disponibili» (Intervento in occasione della cerimonia di apertura dell’anno scolastico 2010-2011).
    Per uscire dall’impasse e dalla sterile opposizione tra chi propone tagli e chi reclama maggiori risorse, occorre tornare a riflettere sul significato del sistema scolastico e universitario: altrimenti come si può valutare quali spese sono uno spreco e quali una necessità? Quali sono gli obiettivi a cui merita consacrare le risorse disponibili? È necessario rendersi conto che la formazione di base e quella universitaria, quali che siano le loro qualità, motivazioni o finalità, non sono costruttive di per se stesse: possono esserlo solo in riferimento a un progetto, di persona e di società, alla cui costruzione, appunto, sono finalizzate.
    Oggi il pericolo per le nostre società è concepire lo scopo dell’istruzione in termini eccessivamente utilitaristici o funzionali, legato alla spendibilità delle nozioni acquisite nel mondo del lavoro più che alla crescita integrale delle persone. Non si vuole qui affermare che le competenze tecniche, anche quelle estremamente sofisticate, siano prive di importanza, anzi. Tuttavia da sole rischiano di rimanere un cumulo di informazioni cieche, che hanno bisogno di essere orientate verso una finalità all’interno di un progetto. Solo la sintesi di competenze tecniche, capacità critica e immaginazione formerà cittadini responsabili, capaci di valutare i dati storici, le proposte politiche e i principi economici, di confrontare le varie opinioni sulla giustizia sociale, di parlare lingue straniere, di comprendere la complessità delle grandi religioni mondiali.
    Quindi: le nostre scuole e università servono solo a «produrre» lavoratori competenti ed efficienti, o anche a formare cittadini responsabili, capaci di far crescere la democrazia, di mettere in questione le ingiustizie, di costruire famiglie solide e fare a loro volta crescere le nuove generazioni?

    3. Pedagogia del desiderio

    In questa «emergenza educativa», che ci chiede di domandarci quale tipo di educazione vogliamo, riteniamo di fornire un contributo interessante ricordando le prospettive aperte da Ignazio di Loyola (1491-1556), il fondatore dei gesuiti, che con la sua esperienza spirituale ne ispirò il metodo educativo, articolato successivamente nella Ratio studiorum (1599), proprio nel mezzo di una crisi epocale paragonabile, per molti aspetti, a quella che viviamo oggi.
    Infatti, il secolo XVI fu attraversato da grandi cambiamenti sociali, culturali, morali e politici. La cultura si laicizzò e iniziò il lungo processo della secolarizzazione. Certo, l’epoca contribuì all’acquisizione di nuovi valori e a una migliore comprensione di quelli tradizionali, ma produsse anche una lacerazione profonda tra vita spirituale e vita materiale, tra discipline scientifiche e riflessione di fede, tra politica ed etica. In quel difficile momento, il carisma ignaziano, contenuto nei suoi Esercizi spirituali, costituì una vera risposta alla crisi sociale ed ecclesiale, e ispirò una pedagogia nuova e dinamica, in grado di accompagnare la Chiesa e i cristiani nel difficile passaggio alla modernità.
    Quella ignaziana infatti è una pedagogia particolarmente adatta ai periodi di transizione: si fonda sull’esercizio del discernimento, che comporta l’educazione a un desiderio profondo quanto autentico, e che insegna a vivere e affrontare le situazioni più diverse con una vera libertà. Inoltre, non disdegna i nuovi apporti della cultura moderna né l’uso dei nuovi strumenti scientifici, ma poggia sulla consapevolezza del loro limite. Ignazio, cioè, insegna non a fuggire dal mondo, ma a immergersi in esso rispettandone la laicità. L’uomo che Ignazio di Loyola vuole formare non è un erudito, ma una persona che fa parte di una comunità di uguali in modo attivo, critico, riflessivo ed empatico, e che sa confrontarsi con gli altri sulla base della comprensione e del rispetto verso persone di estrazioni, tradizioni, culture differenti.
    L’impostazione pedagogica ignaziana postula un profondo rispetto per il cammino personale di ciascuno, custodendone e promovendone la libertà e la creatività: ogni uomo è sempre un sistema aperto, portatore di una originalità radicale e della capacità di decisione personale e quindi di libertà. L’altro presupposto fondamentale di questa impostazione, ugualmente fondato nell’antropologia cristiana, è la fiducia nella capacità dell’uomo di «fare il bene»; non si tratta di un facile ottimismo: è possibile sbagliarsi o ingannarsi, ma resta sempre all’uomo la possibilità di scegliere quella «vita buona» che è il vero oggetto del suo desiderio.
    Senza poter fare una sintesi completa, vediamo alcuni elementi della pedagogia ignaziana che mostrano la loro rilevanza anche oggi, proprio pensando al mondo dell’educazione e della scuola.

    a) Il valore dell’esperienza
    La pedagogia della Compagnia di Gesù riposa su una visione integrale della persona umana, e in particolare di intelletto e desiderio, di ragione e affettività. In questo quadro Ignazio richiede di valorizzare la componente motivazionale dell’apprendimento: «non è il sapere molto che sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose internamente» (Esercizi spirituali, n. 2).
    Viene così sottolineata l’importanza dell’esperienza personale, la maniera propria di entrare nel mondo, nella storia, negli avvenimenti, nei fatti, gustandone la bellezza o percependone vivamente la durezza. Conoscere nozioni, formule e dati non è sufficiente. Educare non è ammaestrare o travasare nozioni, ma farle entrare in rapporto con la vita di chi impara, suscitando una reazione affettiva; apprendere, in questa visione, è una esperienza umana integrale fondata sul gusto di quello che si impara: solo così è possibile diventare davvero «esperti». In questo modo lo studente può imparare a orientarsi nella marea di informazioni in cui sarà continuamente immerso durante la sua vita, scegliendo ciò che veramente lo aiuta a comprendere il mondo in cui si trova.

    b) La riflessione che costruisce
    Le conseguenze pratiche sono immediate: insegnare non è inculcare verità, ma condurre lo studente a trovarla personalmente, partendo dalla propria esperienza e predisponendo adeguati dispositivi didattici, ad esempio privilegiando lo stimolo ad andare oltre le prime impressioni e reazioni - «mi piace» o «non mi piace» - e a porre e porsi criticamente domande. Questo sia sul piano dei contenuti («Quali sono i presupposti di questa teoria scientifica, di questa presentazione di un avvenimento storico, di questa analisi statistica? Sono validi? Sono possibili altri presupposti?»), sia sul piano dell’implicazione personale in quanto si è studiato («Quali effetti potrebbero avere gli sforzi per controllare l’effetto serra sulla vita mia e della mia famiglia, sulla vita di coloro che abitano nei Paesi poveri? Quali comportamenti posso assumere io per partecipare a questi sforzi?»).
    Le lezioni così dovranno suscitare la riflessione, il procedimento mediante il quale emerge il significato dell’esperienza umana. Una delle maggiori sfide per il docente è formulare domande che allarghino concretamente la consapevolezza degli alunni e li spingano a prendere in considerazione il punto di vista degli altri: «Difficilmente una persona riesce a rispettare la posizione di un’altra se non comprende la concezione della vita o le esperienze da cui questa posizione scaturisce» (Nussbaum M., «Il potere del sapere», in Internazionale, 29 ottobre 2010, 40).

    c) Impegnarsi
    «L’amore si deve porre più nei fatti che nelle parole» (Esercizi spirituali, n. 230). In questa prospettiva, contribuendo a trasformare lo sguardo che i giovani dirigono verso se stessi e gli altri, verso i sistemi sociali e le strutture della società, verso l’insieme della comunità umana e del creato, l’educazione vuole avere come risultato finale una trasformazione radicale non soltanto del modo in cui abitualmente si pensa, ma anche del modo in cui uomini e donne dotati di competenza, di coscienza e di amore vivono nel mondo e cercano il maggior bene in tutti i campi in cui è possibile agire.
    L’obiettivo di questa educazione è formare persone libere, capaci di sentire e di scegliere e che, spinte dal «gusto» per ciò che hanno appreso, non esitino a impegnarsi in un contesto complesso e in trasformazione, riconoscendo la pertinenza di quanto hanno imparato e orientando il proprio agire su un progetto di bene personale e sociale, a cui intelligenza e volontà aderiscono, unificate ancora una volta dalla dinamica profonda del desiderio.
    Il contributo specifico della tradizione pedagogica ignaziana, che abbiamo cercato rapidamente di delineare, ci sembra un patrimonio a cui attingere in un momento in cui la nostra società piatta e in crisi di desiderio torna a riflettere sul proprio sistema educativo e scolastico, che è un modo per provare a prendere in mano il proprio futuro. Un serio discernimento a riguardo non può certo prescindere dalla considerazione della disponibilità di risorse economiche (se lo facesse smentirebbe se stesso), ma ci ricorda che la domanda fondamentale non è quante esse siano, ma verso dove vogliamo dirigerle.
    Resta il fatto che i tempi della formazione sono lunghi e che di conseguenza i risultati non possono essere immediati: l’educazione è una «attività a rischio » che non può essere programmata in prospettiva efficientista. In ogni caso, i giovani alunni, giunti al termine degli studi, non sono un «prodotto finito», bensì persone in continua crescita, che dovranno costantemente confrontarsi con la cultura e con i problemi presenti e futuri. Per questo, imparare è importante, ma lo è molto di più desiderare di continuare a farlo. Un desiderio che vale per tutti, e non solo per i giovani.

    (Aggiornamenti sociali 1/2011, pp. 5-10)


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