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    Più forte dell'esilio

    Dante e il dono della Commedia

    Massimo Seriacopi

    Lo smarrimento esistenziale da cui prende avvio la Commedìa è quello che assale Dante nell'esilio, dopo essere stato cacciato da Firenze e aver vagato «come legno sanza velo e sanza governo». Come non riscontrare in questa descrizione della condizione umana del profugo, quella di quanti nell'attualità sono costretti a emigrare per fame o per guerre? Il destino di Dante sarà poi quello del riscatto, la sete di vendetta per l'esilio subito sarà trasformata in un atto d'amore per l'umanità, in speranza nel divino e nella «parte buona» dell'uomo, esattamente quella da cui scaturisce il dono della .

    «Non c'è luogo che sia straniero all'uomo»

    Se è vero che per Seneca, come lui stesso afferma nel capitolo XI della Consolatio ad Helviam matrem, scritta durante la permanenza forzata in Corsica, «(...) non può mai sentirsi in esilio l'animo libero e parente degli dei, partecipe dello spazio infinito e dell'eterno», e «(...) al mondo non c'è luogo che sia straniero all'uomo. Da ogni parte, egualmente, si può volgere lo sguardo al cielo; purché i miei occhi non siano privati di quello spettacolo di cui sono insaziabili, purché io possa contemplare tutto questo e, per quanto sia lecito a un uomo, partecipare alla vita del cielo, purché l'animo mio che tende alle cose a lui affini sia sempre rivolto al cielo, che cosa mi importa quale terra io calpesti?», come aveva già sostenuto nel capitolo VIII di questa stessa opera, è comunque vero che per Dante, che pure tanto apprezzò il filosofo e letterato latino, l'esperienza dell'ingiusto esilio ha comportato queste considerazioni contenute nel primo libro del Convivio, nel terzo capitolo: «Poi che fu piacere delli cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno, nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo della vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo core di riposare l'animo stancato e terminare lo tempo che m'è dato, per le parti quasi tutte alle quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade».
    Dunque, un poeta-pellegrino piegato dal destino avverso è quello che ci presenta l'analisi dei suoi scritti? O forse, invece, trasformando l'atto di invidia e di odio in cui l'esilio si traduce in un atto d'amore attraverso il dono della sua Commedìa all'umanità, l'autore riesce a dimostrare una forza d'animo, e una speranza nel divino e nella «parte buona» dell'uomo, superiore al sovvertimento delle civili regole di convivenza al quale la sua società sembra essersi follemente condannata?
    Non è una questione da poco, perché con uno sforzo del genere, in effetti, Dante riesce a ribaltare la situazione nella quale viene costretto salvando la propria coscienza: si dichiara pronto ad affrontare «tetragono», fermo, incrollabile come il solido di forma cubica, i «colpi di ventura», i colpi della sorte (Paradiso XVII 24); e già all'altezza del XV canto dell'Inferno, ai versi 92-93, aveva affermato, di fronte all'amara profezia della «cara e buona imagine paterna» costituita da Brunetto Latini, che, purché la sua coscienza non lo «garrasse», non lo rimproverasse, lui era «presto», obbediente, alla Fortuna in qualunque modo essa lo volesse colpire. Dove va a ricercare questa ultima affermazione? In realtà, ci si può rendere conto, il poeta-pellegrino sta citando dalla versione in latino che conosceva dell'Etica a Nicomaco di Aristotele (1100b), nella quale compare anche il termine « tetragonus» che si ritrova nell'appena citato passo paradisiaco: «(...) virtuosus fortunas prosperas et adversas fert ubique prudenter, ut bonus tetragonus, dummodo eius conscientia ipsum non reprehendat quod erit».
    E perché risulta così importante rendersi conto di questa ripresa? Perché così si può capire che esiste un preciso percorso che ricollega il pensiero sulla questione elaborato dalla cultura greca, poi da quella latina, poi da quella medioevale (si pensi alla Consolatio Philosophiae di Boezio, ben presente all'Alighieri): tutti testimoni ripresi ed elaborati in forma poetica dall'esule fiorentino, riguardo al quale, a questo punto, potrà essere fruttuoso analizzare i vari altri accenni all'esilio considerato come futuro in quella sorta di «predizione post factum» che il suo poema mostra chiaramente di essere.
    Né la questione si conclude qui: Dante sa perfettamente che anche trattando di questa tematica sta lanciando un «ponte» verso il futuro, verso una dimensione di eternità, verso quell'eterna condizione dell'uomo immerso, e spesso travolto, nella durezza del vivere; quanto questa sua narrazione sia d'attualità non è difficile capirlo, quando ci si rapporta a ciò che sta succedendo in tutto il mondo durante questi nostri tormentati anni.

    «Vita/oscura/smarrita»

    Ricordate come inizia il suo poema? I celeberrimi primi tre versi... prendiamo la parola finale di ognuno di essi, e già otterremo un sunto del nostro umano esistere: «vita/oscura/smarrita»; e che cos'è l'esilio ingiusto, la costrizione alla fuga per fame o per guerra o per persecuzione politica, la difficoltà nell'ottenere accoglienza, se non la risultante di questo smarrimento esistenziale che già il poeta denunciava, e che tutti – tutti: riflettiamo su questo – in qualche misura, che sia più o meno accentuata, ci caratterizza in quanto esseri umani?
    Pensate con quale forza Dante affronta la situazione: al primo presagio dell'esilio rilevato nel corso del viaggio infernale accosta il primo sotterraneo, ma in realtà evidente riferimento, al sovvertimento delle regole di pacifica convivenza operato proprio dalla massima autorità spirituale e religiosa del tempo (tale, almeno, dovrebbe essere): Benedetto Caetani, divenuto papa con il nome di Bonifacio VIII nel dicembre del 1294 e destinato a rimanere sul soglio papale fino all'ottobre del 1303.
    Al verso 69 del canto VI è indubitabilmente a lui che si riferisce la circonlocuzione «con la forza di tal che testè piaggia», laddove si vuole evidenziare l'atteggiamento falsamente pacificatore di un papa che è diventato «lo principe dei nuovi farisei», a rigore di Inferno XXVII 86, e ha predominio «là dove Cristo tutto dì si merca», come viene designata la corte papale a Paradiso XVII 51.
    Cosa indica, con precisione, questo inconsueto termine, «piaggiare»? Ce lo spiega bene Boccaccio proprio chiosando il termine dantesco all'i Aterno del suo commento al poema, che declamava nella Badia Fiorentina stipendiato dal Comune di Firenze: «Dicesi appo i Fiorentini colui piaggiare, il quale mostra di voler quello che egli non vuole, o di che egli non si cura che avvenga: la qual cosa vogliono alcuni in questa discordia de' Bianchi e de' Neri di aver fatta papa Bonifazio, ciò è d'aver mc trata egual tenerezza di ciascuna delle parti».
    È chiaro, allora, perché viene lasciato spazio, all'interno della corrotta civilitas fiorentina, a «superbia, invidia [cioè, etimologicamente, incapacità di tollerare il bene altrui] e avarizia», quelle «tre faville c'hanno i cuori accesi»? È chiaro perché i due tipi di Giustizia, naturale e civile («giusti son due», traduzione del testo di san Tommaso d'Aquino, «iustum est duplex»), nella città natale dell'Alighieri «non vi sono intesi», non sono più perseguiti? Se proprio quelle che dovrebbero essere le guide politico-morali e spirituali-religiose di un'intera compagine sociale sono, nel primo caso, assenti, e nel secondo ubriacate dalla sete di potere materialistico, come può una società che dovrebbe avere proprio questo tipo di figure come modello di riferimento funzionare bene? E come può sperare di ottenere del bene chi mette il proprio operato al servizio della comunità, sperando di poter offrire il proprio contributo attraverso l'azione politica per un miglioramento e un progresso del proprio ambiente?
    Anzi, in una situazione tale, di sovvertimento delle regole di buona e pacifica convivenza, proprio il ben operare sarà fonte di avversione, rifiuto, cacciata: la solidarietà sarà sostituita dall'arrivismo, l'amore fraterno dall'invidia, la volontà di condivisione dall'egoistica avidità di possesso. E un personaggio come Dante vedrà trasformarsi la «materna Firenze» in una «spietata e perfida noverca», abitata da un «ingrato popolo maligno», come lo definirà a Inferno XV 61 il fiorentino Brunetto Latini, poiché è giusto che «tra li lazzi sorbi» non debba «fruttar lo dolce fico», come aggiungerà sùbito dopo avere profetizzato che quella gentaglia si farà nemica del poeta destinato all'esilio proprio in virtù del suo «ben far».
    A consolazione dell'ingiusto trattamento che il pellegrino dovrà sopportare, l'antico maestro sosterrà (versi 70-72), rivolgendosi a colui a cui vorrebbe dare conforto: «La tua fortuna tanto onor ti serba, / che l'una parte e l'altra avranno fame / di te: ma lungi fia dal becco l'erba». Orgogliosamente, il poeta, all'altezza del canto XVII del Paradiso, e precisamente ai versi 68-69, registrerà di avere avuto un ulteriore incoraggiamento da parte del trisavolo Cacciaguida: sarà per lui «bello», segno distintivo d'onore, aversi «fatta parte» per se stesso.

    «Come sa di sale lo pane altrui»

    Ma quanto sarà dura, e che spreco di tante buone qualità manifestate da Dante comporterà quest'aberrante risposta del suo contesto sociale al suo impegno civile e politico: sarà infangato nella fama («La colpa seguirà la parte offensa / in grido, come suol», si ricorda ai versi 51-52 dello stesso canto; «(...) ma la vendetta / fia testimonio al Ver che la dispensa», si prosegue; e scrivo «Ver» con la lettera capitale perché ritengo che qui vada indicata la punizione che cadrà dal cielo sui malvagi, quindi la vendetta di Dio).
    E non basta: l'esule sarà costretto a lasciare «(...) ogni cosa diletta / più caramente; e questo è quello strale / che l'arco dell'esilio pria saetta», si prosegue; e, ancora, dovrà provare «(...) come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e 'I salir per l'altrui scale», subendo tra l'altro le ritorsioni anche della sua stessa (ex-) fazione politica, «tutta ingrata, tutta matta ed empia» nei suoi confronti, anche se poi sarà questa marmaglia, si rivela, e non il perseguitato politico Dante, ad averne «rossa la tempia».
    Storie d'altri tempi, o situazioni, nella loro essenza basilare, di grande e tragica attualità? E pensando ancora una volta alla questione della «vendetta» nei confronti di tali ingiusti trattamenti, alla condizione di «rifugiato politico» nella quale l'autore del poema si è venuto a trovare, vogliamo riflettere su quanto, ancora oggi, praticamente ogni nazione si fa fautrice di allontanamenti del genere dal proprio seno o avaro ricettacolo, spesso di malavoglia, di persone che meritano rispetto e solidarietà in quanto tali e che, anche parlando dal punto di vista di un profitto e di un progresso, possono diventare, se ben indirizzate, una risorsa per lo Stato che accoglie?
    Vediamo, per concludere, attraverso la grande «canzone dell'esilio» dell'Alighieri, qual è stata, in definitiva, la sua nobile reazione, la sua «vendetta» nei confronti dell'amara ingiustizia subita: ai versi 76-80 di Tre donne intorno al cor mi son venute sostiene: «(...) l'essi lio che m'è dato onor mi tegno: / che se giudicio o forza di destino / vuol pur che 'I mondo versi / li bianchi fiori in persi, / cader co' buoni è pur di lode degno».
    E così conclude questo altissimo componimento, al verso 107: «perdonare è bel vincer di guerra», a ulteriore dimostrazione di quanta nobiltà d'ingegno e grandezza d'animo, effativa magnificenza, possa raggiungere il pur bistrattato Uomo, lanciando un messaggio che davvero diviene un ponte verso l'eternità, e che inevitabilmente ci spinge a considerare a dovere il concetto di fratellanza e di educazione all'individuale innalzamento spirituale da una parte, al contributo per il progresso del mondo in cui viviamo, di una collettività, dall'altra, in sinergia.

    (Testimonianze 523 [2019], pp. 48-51)


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