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    L’esperienza ecumenica

    di Frére Roger

    Frère John di Taizè

    Taizè ha una lunga storia con Brescia per vari motivi.
    Il primo ovviamente è il rapporto tra Frère Roger e Paolo VI, che è stato molto profondo e lungo. La prima volta che si sono incontrati è stato nel 1949, quando monsignor Montini stava a Roma come assistente del Papa e Frère Roger fece il primo viaggio a Roma insieme all’arcivescovo di Lione per andare a visitare Papa Pio XII. La prima persona che ha incontrato è stato monsignor Montini, che ha dimostrato un’accoglienza e una comprensione in quel tempo abbastanza insolita. È stato l’inizio di una lunga amicizia, costellata da numerose visite a Milano; quando poi Montini è stato eletto Papa ogni anno c’è stata l’udienza privata.
    Poi come non pensare a questo posto, all’oratorio della Pace, alle figure del padre cardinale Giulio Bevilacqua e del padre vescovo Carlo Manziana; entrambi hanno avuto un’influenza su Frère Roger e sulla comunità. Io ho conosciuto abbastanza bene padre Manziana, non padre Bevilacqua, ma a Taizè si sentiva parlare spesso di queste figure.
    Quindi Brescia è sempre stata molto presente prima dell’afflusso dei giovani che sono venuti numerosi sulla collina di Taizè; è molto bella questa lunga storia d’amicizia e stasera ne è un po’ la continuazione.
    Tornando al tema di questa sera, io penso che per Frère Roger l’ecumenismo e la sua vita fossero tutt’uno. Quindi non voglio solo parlare della sua visione ecumenica, ma piuttosto cercherò di dare una fisionomia spirituale di Frère Roger, qualche linea di forza che mi sembra molto importante per capire la sua vita, il suo lavoro, la sua missione.
    Infatti, già nel suo primo libro Vivere l’oggi di Dio aveva scoperto, quando era giovane, che per andare avanti era importante fissare un qualche punto importante per iscritto, alcune idee regolative ancora prima di fondare la comunità di Taizè
    La prima e la più importante, penso, è ciò che si può chiamare il primato della vita.
    Che cosa voglio dire con questo? Quando Frère Roger era giovane, era colpito dal fatto che tante persone in Europa, che pure avevano sentito parlare di Gesù Cristo, del Vangelo e della sua Chiesa, non ne erano minimamente influenzate. Perché, si chiedeva, come mai la fede non ispira più le popolazioni dell’Europa?
    La sua risposta personale è stata: perché non bastano le parole, ma ci vogliono sempre dei segni concreti, vissuti, per trasmettere il messaggio cristiano. Quindi con Taizè ha voluto indicare un segno che, senza spiegare troppo, potesse far capire alle persone il messaggio del Vangelo.
    Frère Roger nella prima regola ha utilizzato il termine ‘parabola’. “Noi vogliamo vivere una parabola di comunità, una parabola di comunione” ha detto più volte. Significa che una realtà vissuta aiuta la gente a capire una realtà spirituale, come Gesù che insegnava mediante questi racconti che aprivano lo spirito, il cuore delle persone al messaggio.
    Quindi per Frère Roger è molto importante non rimanere nel teorico, ma trovare dei segni concreti che esprimono il desiderio profondo dell’animo.
    La scelta stessa di Taizè è dovuta a due motivi: era iniziata la guerra, siamo nel 1940, e lasciare la Svizzera per venire nella Francia occupata significava stare con le vittime della guerra, i profughi, (a Taizé ha cominciato a nascondere degli ebrei per poi farli passare in Svizzera); poi meditava già la formazione di una comunità, che per lui sarebbe stato un segno concreto del Vangelo.
    Leggendo il Nuovo Testamento già vediamo una comunità che condivide tutto, prega insieme, vive un servizio; è il segno che i primi cristiani avevano trovato per far capire il messaggio di Cristo.
    In questo modo è ritornato, anche se era d’origine protestante, nella vecchia tradizione monastica della Chiesa e ha riscoperto il senso autentico del monachesimo, una scelta radicale che diventa un segno per tutti del messaggio di Cristo, e non – come per i riformatori del Cinquecento che lo hanno rifiutato – una scelta di alcuni cristiani che si separano dagli altri.
    Penso che questo aspetto sia stato fondamentale non soltanto nella formazione della comunità ma in tutta la vita di Frère Roger: lui aveva un atteggiamento, se si può dire, anti-ideologico, anti-teorico, era impaziente che le idee si incarnassero nella realtà.
    La fede cristiana non parlava più alla gente e i cristiani erano divisi in varie confessioni nonostante proclamassero un Dio d’amore.
    Frère Roger ha avuto questa intuizione: se in una comunità vivono insieme cristiani di diverse tradizioni, che pregano uniti, questa diventa una risposta concreta al problema della divisione.
    Analogamente, di fronte alla questione della divisione fra nord e sud, fra i ricchi meno numerosi e il gran numero dei poveri, Frère Roger pensa di mandare qualche fratello in questi luoghi di povertà, di divisione per vivere una semplice testimonianza, non per risolvere i problemi. Infatti non abbiamo la pretesa di dare una risposta ai problemi delle popolazioni che hanno una loro vita e una loro cultura, ma almeno compiere un piccolo gesto di condivisione, di solidarietà.
    Quindi anni fa i primi fratelli sono andati in altre parti del mondo, soprattutto in luoghi di povertà e di divisione; oggi abbiamo quattro gruppi di fratelli fuori da Taizè, nel Bangladesh, Brasile, Corea del sud e Senegal. Gruppi di 5/6 fratelli che vivono la nostra vita di preghiera, di lavoro, d’accoglienza ma in mezzo a una popolazione molto diversa. Due di questi gruppi – in Bangladesh e in Senegal – sono in paesi in maggioranza mussulmani, e questo ci dà la possibilità di vivere un piccolo segno d’amicizia con persone che non sono cristiane a livello molto semplice, molto umano; non si tratta di grandi discorsi teorici, teologici ma di una condivisione di vita.
    Per molti anni c’è stata la divisione fra i paesi dell’est, sotto il comunismo sovietico, e l’occidente: anche lì la risposta di Frère Roger è stata: andiamo a visitare i cristiani nei paesi dell’Europa dell’est. Quindi, già a partire dal 1963, i fratelli, in maniera un po’ nascosta, sono andati ad effettuare viaggi in questi paesi come turisti e per prendere contatto con le Chiese, con i cristiani, soprattutto con i giovani per vivere momenti di scambio, di preghiera. Un piccolo segno per esprimere solidarietà e per andare oltre le divisioni tra i paesi.
    Negli anni sessanta e settanta era particolarmente acuta la divisione generazionale fra genitori e figli, fra anziani e giovani, e i giovani spesso non sentivano la loro voce presa in considerazione nella società e nella chiesa. Allora la loro risposta di Frère Roger fu: dobbiamo accogliere questi giovani che vengono alla ricerca, dobbiamo fare di tutto perché si sentano a casa.
    Così sono nati, anche se nessuno ha mai coscientemente cercato di organizzarli, gli incontri internazionali di giovani che continuano fino ad oggi, anche se la situazione è molto cambiata. L’ascolto, l’accoglienza delle persone così come sono, applicato anche al mondo giovanile, era in quel tempo una novità. Ma penso che sia stato molto importante per molti giovani della nostra generazione trovare un posto dove uno si sentiva preso sul serio e accolto.
    Ovviamente Frère Roger non vedeva questo atteggiamento come la soluzione dei problema, ma credeva molto nel valore dei segni concreti che esprimono molto di più di ciò che si potrebbe vedere come risultato.
    È questa la logica del Vangelo, del piccolo seme di cui parlava Gesù, che sembra quasi niente, ma se uno lo prende sul serio può cambiare tante cose.
    In questi giorni abbiamo fatto a Milano un’incontro europeo dove c’erano 50.000 giovani per cinque giorni. Andando per le famiglie ad ascoltare cosa era successo, mi sono reso conto che non è stato il numero che contava, nel senso che si potrebbe dire che ci sono stati 50 mila incontri perché quasi ogni giovane è stato accolto in una famiglia, ed è questo che ha cambiato qualcosa.
    Penso che se c’è anche qualcosa di grande, l’essenziale passa sempre nella dimensione umana.
    Frère Roger aveva una grande paura dei grandi discorsi sulla pace, sulla riconciliazione, su tante cose che poi rischiano di non diventare concrete; preferiva trovare una risposta con i fatti.
    Penso che questo aspetto del primato della vita è stato, almeno per me, il più importante del suo carattere; stranamente o per una certa ironia divina anche la sua morte è stata in questo segno.
    Come voi sapete è morto in maniera violenta quest’estate durante la preghiera in chiesa; lui non avrebbe voluto, néi avrebbe desiderato una tale morte.
    Nessuno ci pensava, ma abbiamo scoperto dopo che anche la sua morte è stata per molte persone un segno concreto di una vita donata, vulnerabile perché voleva essere per gli altri senza riserve.
    La seconda cosa che volevo mettere in rilievo è ciò che si può chiamare la sua visione universale.
    Detto molto semplicemente, Frère Roger era convinto che il Dio della Bibbia, il Dio di Gesù Cristo non esclude nessuno dal suo amore; con Gesù Cristo una sorgente di vita veramente universale è entrata nella storia umana.
    Era una sua convinzione molto profonda che tornava sempre.
    Fino alla fine amava ripetere le parole che sono state scritte dal Consiglio Vaticano II, nella Costituzione “Gaudium et Spes”, e riprese da Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica “Redemptor hominis”: “Per l’incarnazione Cristo si è unito ad ogni essere umano senza eccezione”, ricordandoche Giovanni Paolo II riprendeva questa frase aggiungendo “anche se la persona non è consapevole”.
    In questo modo Frère Roger ci faceva capire che la Chiesa non è un gruppo di buoni o di salvati contro l’altro gruppo, quelli che non lo sono, ma almeno nel cuore di Dio la Chiesa è vasta come l’umanità.
    Dio cerca ogni essere umano e Cristo è unito ad ogni essere umano, e ciò distingue la Chiesa dagli altri gruppi umani.
    Frère Roger si riferiva molte volte all’ultima udienza con Papa Giovanni XXIII, con cui aveva un rapporto fraterno, nella quale i fratelli di Taizè hanno chiesto qual è il posto della comunità di Taizè nella Chiesa. Il Papa non ha dato una risposta diretta ma ha fatto degli ampi gesti, per poi dire che la Chiesa è fatta di cerchi concentrici sempre più grandi.
    Era un modo di dire: “non abbiate paura, voi siete dentro, non c’è esclusione da parte di Dio”.
    Paolo VI ha ripreso questa visione nella sua prima enciclica “Ecclesiam suam”, parlando del dialogo che non esclude nessuno.
    Nell’ultimo libro Frère Roger, pubblicato poche settimane prima dalla sua morte, c’è un lungo capitolo su Papa Paolo VI, il cui titolo riprende le parole che il Papa ha detto alla chiusura del Concilio: “Per la Chiesa nessuno è straniero, nessuno è escluso, nessuno è lontano” .
    Proprio perchè era convinto del carattere universale della Chiesa, al cui centro vi è Gesù Cristo, Frère Roger era molto attaccato a due segni della Chiesa Cattolica, che sono l’unità intorno all’eucarestia e il ministero di Pietro, il ministero di un pastore universale, perché esprimono bene questa dimensione universale della comunione.
    Se si vuole parlare della visione dell’ecumenismo di Frère Roger, penso che proprio lì trova le sue radici.
    La preoccupazione di Frère Roger era sempre la stessa: la riconciliazione fra cristiani è segno che la Chiesa è un luogo di comunione universale, la famiglia universale di Dio
    A Taizè questo si è concretizzato sempre di più con grande semplicità, attraverso l’accoglienza di tutti. Ci sono tante maniere di vivere questa ricerca di riconciliazione e d’unità, ma a Taizè avviene in modo particolare; il lavoro teologico o il dialogo a livello più teorico non escludono ma presuppongono l’accoglienza personale.
    L’accoglienza di Taize si è attuata in modi diversi, partendo dai profughi del dopoguerra per arrivare all’accoglienza dei giovani di tutte le origini, confessioni, lingue che desiderano vivere insieme un’esperienza forte. A Taizè non si chiede mai a chi si presenta di che confessione è, la sua esperienza, quanto crede, ma si propone un percorso un percorso di preghiera, d’approfondimento della parola di Dio, di lavoro e di vita in comune.
    Un punto su cui vorrei soffermarmi sono le tre parole che Frère Roger ha messo nella prima regola di Taizè.
    Il primo testo pubblicato, che si chiama la “Regola di Taizè”, è fatto essenzialmente di frasi della Bibbia, ma uno dei titoli di questa prima Regola era: vivere lo spirito della beatitudine, la gioia, la semplicità, la misericordia.
    Queste le tre parole chiave: gioia, semplicità, misericordia. Frère Roger le ha scritte quando era ancora studente e pertanto ci aiutano un po’ a capire la specificità della sua fisionomia spirituale.
    Mi soffermo su di esse.
    Gioia, la gioia a Taizè. Frère aveva capito già dall’inizio che al cuore della fede cristiana c’è la buona notizia della resurrezione, che è il segno di una vita più forte della morte. Per la maggior parte di noi cristiani questo è scontato, ma allora nell’occidente cristiano l’accento era posto sulla croce, sulla sofferenza di Cristo.
    Quindi a Taizè si è sempre cercato di mettere in rilievo l’importanza della resurrezione e poi della gioia, e ciò non vuole dire che Frère Roger non fosse cosciente del lato oscuro, difficile delle cose. Anzi in un libro di preghiere pubblicato poco dopo la sua morte tante volte parla del dubbio, delle difficoltà.
    Per lui quindi la gioia non era un esaltazione facile, ma la gioia pasquale, che ci aiuta a continuare a vivere.
    Come ha scritto in una lettera incompiuta prima di morire, noi abbiamo dubbi, le cose non sono facili, ma c’è Dio e allora possiamo andare avanti.
    Dio è il consolatore, lo spirito consolatore che ci dà la forza quando umanamente non vediamo come andare avanti.
    Poi c’è una frase nella lettera che riassume molto bene questa idea di una gioia pasquale, di una gioia che è un passaggio, quando dice : “A chi si trova all’estremo della sofferenza può essere restituita la gioia dal Vangelo”.
    In questi giorni ho fatto un paragone interessante con Papa Paolo VI, che negli anni Settanta, anni difficili per la società e per la Chiesa, ha scritto un’esortazione apostolica che si chiama “ Gaudente in Domino” sulla gioia cristiana.
    Frère Roger anche esteriormente era un uomo di gioia, aveva questa forza interiore che traspariva, non era finta, anche se viveva in maniera molto forte il dramma di tante persone, delle guerre, delle violenze, della povertà.
    Molti di coloro che vengono a Taizè e a cui chiediamo cosa li colpisce di più della vita sulla collina, rispondono con la parola semplicità.
    Frère Roger non ha mai voluto parlare della povertà come valore positivo. Difficilmente usciva dalle sue labbra questa parola: preferiva parlare di semplicità, con l’idea di non perdersi nelle cose secondarie ma mettere l’accento sull’essenziale. Una bella parola che avete in italiano e che non esiste né in francese né nelle altre lingue, che io sappia, è “essenzialità”.
    La semplicità significa mettere l’accento su quello che è essenziale, togliere tutte le cose che possono essere ostacolo a capire l’essenziale, a capire ciò che conta veramente.
    Molti giovani che hanno fatto l’esperienza di Taizè lo hanno capito e sperimentano nella vita che è possibile avere un’esperienza molto bella senza tante cose materiali.
    Se le cose diventano troppo complicate allora ci perdiamo e diviene più difficile comprenderci, se mettiamo l’accento su ciò che è essenziale troviamo una grande unità perché in fondo al suo cuore l’essere umano è sempre quello, è sempre lo stesso, siamo noi che complichiamo ciò che è semplice; invece se ritorniamo alla semplicità evangelica troviamo la riconciliazione, l’unità, la comunione.
    Frère Roger ripeteva sempre che semplicità non voleva dire austerità; si deve mettere insieme con la gioia, insieme con la bellezza.
    Nelle regole di Taizè dice: “lo spirito di povertà non consiste nell’apparire miserabili, ma nell’utilizzare tutto con immaginazione, nella semplice bellezza della creazione”.
    Quindi semplicità con la bellezza, con la gioia e questa ricerca della bellezza semplice è caratteristico di Frère Roger: nei primi anni di difficoltà, quando i fratelli erano abbastanza poveri e volevano fare una festa, Frère apparecchiavano la tavola con i fiori, con bei piatti anche se non c’era quasi niente da mangiare, perché quest’idea della bellezza è già una festa per gli occhi, per l’uomo interiore. Nella chiesa di Taizè c’era sempre il desiderio di creare la bellezza con mezzi semplici perché l’uomo ha anche bisogno di questa bellezza per la sua anima.
    E infine l’ultima parola chiave, forse delle tre la più essenziale, soprattutto alla fine delle sua vita: la misericordia, o come diceva Frère Roger sempre più spesso, quando era anziano, la bontà di cuore.
    Probabilmente Papa Giovanni XXIII è stato il modello in questo.
    Ripeteva spesso una frase negli ultimi anni: “Dio non può che amare”; quindi ogni immagine di Dio come un giudice severo, come qualcuno che condanna, può soltanto allontanare le persone dalla fede.
    Di qui l’importanza di affermare l’amore di Dio non teoricamente, ma vivendo questo esempio di bontà.
    Voglio leggere le parole che ha detto l’attuale priore di Taizè per il funerale di Frère Roger: “Frère Roger ritornava costantemente a quel valore del Vangelo che è la bontà del cuore, non è una parola vuota ma una forza capace di trasformare il mondo perché attraverso di essa Dio è all’opera.
    Di fronte al male la bontà del cuore è una realtà vulnerabile, ma la vita donata da Frère Roger è una prova che la pace di Dio avrà l’ultima parola per ognuno sulla nostra terra”.
    L’immagine che molte persone, molti giovani hanno di lui, soprattutto alla fine, è quella dell’uomo che rimaneva in chiesa fino a tardi la sera per ascoltare le persone che venivano ad aprirgli il cuore e glielo volevano affidare; poi, quando era troppo anziano e faceva fatica ad ascoltare, metteva semplicemente la mano sulla testa delle persone.
    È stata una cosa incredibile anche per noi nell’ultimo anno vedere la sera la fila di giovani, lunga anche un chilometro, che attendevano di ricevere la benedizione di Frère Roger. Non erano solo giovani polacchi o italiani, nella cui tradizione si trova il rito della benedizione, ma anche tedeschi, svedesi, inglesi, persone che magari mai nella loro vita hanno chiesto a qualcuno un gesto di questo tipo.
    Erano desiderosi di ricevere uno sguardo, la benedizione di Frère Roger, a motivo della misericordia e della bontà traspariva: si vede che abbiamo bisogno proprio di questo.
    Posso concludere parlando brevemente della fine della vita di Frère Roger.
    La sera del 16 agosto in chiesa una povera donna con problemi di disturbi di comportamento lo ha accoltellato all’inizio della preghiera.
    Io non ero vicinissimo e quindi non ho visto, ma la Chiesa era stipata da più di tremila persone e abbiamo sentito questo urlo terribile. Ci sono stati cinque o dieci secondi di smarrimento in cui si è pensato ci fosse un attentato o una bomba o non so che cosa, fino a quando un fratello ha preso il microfono e ha cominciato un canto della liturgia. Quando il canto è terminato ci siamo tutti seduti e abbiamo cominciato la preghiera, mentre qualcuno si occupava di Frère Roger; dopo un quarto d’ora abbiamo saputo che era morto, è stato fatto l’annuncio e poi abbiamo continuato la preghiera, come Frère Roger avrebbe voluto.
    Il giorno dopo e nei giorni successivi si è andati avanti con il ritmo normale della vita e questo è stato molto importante; per molti giovani che erano presenti questo è stato considerato un segno concreto della vittoria della vita sulla morte.
    È significativo il fatto che ci sia stato questo grido infernale per qualche secondo e poi un canto di lode, dal breve momento d’orrore e di panico si è ritrovata la vita entrando nella preghiera.
    L’altro aspetto interessante sono state le grandi manifestazioni di attenzione che abbiamo ricevuto: visite di persone di ogni confessione, giovani e anziani di tutte le lingue del mondo, e almeno diecimila messaggi. Si ha avuto veramente l’impressione di toccare con mano la Chiesa indivisa di cui Frère Roger parlava nella sua vita.
    La sua morte ha rivelato per un attimo questa rete di comunione universale che normalmente è nascosta, perché vediamo solo le difficoltà e le cose che non vanno.
    Per me personalmente è stata come un’epifania, una manifestazione della Chiesa unita, che esiste in Dio perché in Dio la Chiesa è una, il corpo di Cristo è uno; siamo noi che con le nostre divisioni abbiamo distrutto queste immagini ma ogni tanto succede qualcosa che ci fa capire che in Dio la Chiesa è una. Penso che la morte di Frère Roger o piuttosto il dono della sua vita, avesse la capacità di rivelare questa realtà nascosta, che l’unità e l’amore sono più forti della divisione e della morte.
    Concludo con una frase scritta da Frère Roger: “un piccolo gruppo d’uomini e di donne sperando contro ogni speranza può cambiare il corso della storia e reinventare il mondo”.

    NOTA: testo non rivisto dall’Autore della conferenza tenuta a Brescia il 26.1.2006 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.

    FONTE: https://www.ccdc.it/documento/lesperienza-ecumenica-di-frre-roger/?sf_action=get_data&sf_data=all&sf_paged=12


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