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    Lo spessore della bellezza


    Un indizio certo della bontà di Dio

    Rossano Sala

    (NPG 2020-04-02)


    L’esperienza della bellezza

    Da sempre ho vissuto nel mondo dell’educazione. L’ho conosciuto fin da piccolo, vivendo l’oratorio ambrosiano e la scuola salesiana. Non l’ho mai più abbandonato, né desidero farlo. E se devo dire qualcosa di sintetico su quelle esperienze che mi hanno strutturato il cuore e la mente, posso dire che “andare all’oratorio era bello” e che frequentare la scuola salesiana “è stato davvero bello”. Così come andare in Chiesa per vivere la liturgia era nel suo insieme bello, attraente. Un po’ meno, nei miei ricordi, lo era il catechismo!
    Evidentemente dicendo questo non ci si riferisce solamente alla bellezza di un edificio, magari ben progettato e ben mantenuto. Si tratta invece di un giudizio sintetico rispetto ad un’esperienza vissuta, che può avere nell’esteriorità di una struttura un segno tangibile. È una questione complessiva che tiene insieme ascolto e dialogo, affetti e legami, strutture e spazi, tempi e ritmi. Armonia e sinfonia che lasciano un buon sapore e un profumo gradito che mai più si dimenticano e che si riconoscono all’istante, dovunque si ripropongano.
    Capita spesso di fare un’esperienza con i ragazzi – un campo-scuola, un pellegrinaggio, una situazione di servizio, un cammino di gruppo – e nel chiedere loro informalmente com’è andata la risposta ha sempre a che fare con la bellezza di un insieme: “È stato bello”, “una bella esperienza”, “mi è piaciuto davvero”. Quando si attesta che un’esperienza ha avuto a che fare con la bellezza si fa una valutazione globale positiva su ciò che si è sperimentato. Che comprende, anche se non è quasi mai tematizzato, istanze forti di verità, bontà, giustizia e santità che la rendono tale.

    Avvolti dalla bellezza

    Nella sua accezione più ampia la bellezza segnala qualcosa che nel suo insieme è ben riuscito. Non è quindi solo una questione “estetica” nel senso più superficiale del termine. Sarebbe troppo poco, e correrebbe il rischio di essere cosa effimera. Certo, come la verità può cadere nel dispotismo e la bontà regredire nell’interesse proprio, anche la bellezza potrebbe divenire una terribile arma di seduzione, trasformandosi in qualcosa di perfido. Uno specchietto per le allodole che ci fa perdere la vita. Un’attrazione fatale, appunto. Il marketing attuale vive di questo, ne ha fatto una scienza e una tecnica sopraffina in nome del profitto.
    Il peso specifico dell’autentica bellezza invece segnala – a partire dalla rivelazione di Dio, come ci ha insegnato nella sua lezione indimenticabile H.U. von Balthasar – che il mistero da cui siamo avvolti è amorevole, e viene ad esprimersi fino alla dedizione totale di sé per la nostra felicità nel tempo e nell’eternità. È una tesi di “ontologia trinitaria” questa – parola difficile che dice una cosa assai semplice: che il Dio unitrino è amore sino alla fine e null’altro, lo è da sempre e lo sarà per sempre – che ci fa bene rispolverare qui.
    Bisogna saper riconoscere che la salvezza non viene da una bellezza che seduce, illude e abbandona. Viene invece da una bellezza che si fa dono concreto, capace di pagare in prima persona, che si fa carne e sangue attraverso gesti e parole che illuminano perché ardono. La vita del Signore Gesù è bella e felice perché brucia d’amore, perché è totalmente pro-esistenza, perdita di sé per la vita dell’altro e che per questo diventa pienezza di vita risorta. Espressione dello spirito di quelle beatitudini che egli ha respirato da sempre nel seno del Padre suo.

    La sintesi educativa

    Facciamo un passaggio in avanti, e arriviamo all’educazione. “Ragione, religione e amorevolezza”, diceva don Bosco. Questi sono per lui i tre principi fondamentali dell’educazione. Non uno di meno. Altro che bellezza, potremmo dire, per educare ci vuole ben altro. Invece, proprio quando i tre ingredienti indicati dal nostro santo vengono ben amalgamati divengono indistinguibili e assumono nel loro insieme il volto di qualcosa di bello da vedere e di buono da mangiare. È azzeccata l’immagine della massaia che impasta – pastorale d’altra parte è anche riconducibile alla sua radice dell’“impastare”, oltre che a quella classica del “pascolare” – e genera qualcosa di nuovo attraverso elementi antichi.
    Noi dobbiamo sempre metodologicamente distinguere – per avere la chiarezza dei fattori in gioco nell’educazione – per poter, nella pratica concreta, creare unità vivente nel dare forma alla libertà dei giovani che accompagniamo. Cioè riconoscere che tutti i diversi elementi hanno il compito di integrarsi in una sintesi superiore che non perde nulla di ciò che è stato utilizzato, ma che fa emergere dinamismi inediti, che hanno nella bellezza il loro compendio unificante.
    Quando il cammino educativo sta funzionando bene la ragione non manca mai: chiedere cose sensate, saper argomentare le proprie posizioni, risvegliare una capacità critica. Nemmeno può mancare la religione: far passare dai bisogni immediati ai grandi desideri, aprire l’umano alla trascendenza, uscire da un immanentismo sempre più insopportabile, risvegliare la spiritualità che è sopita nel cuore di ogni giovane. Guai se manca poi l’amorevolezza: stili relazionali familiari, autentici, rispettosi, che fanno davvero la differenza sia nell’accompagnamento personale che nei cammini comunitari.
    Detto tra parentesi – ma non troppo, perché il rischio di generare malintesi non è così lontano – sento importante segnalare che quest’ultimo ingrediente dell’amorevolezza è talmente decisivo che spesso rischia di fagocitare gli altri due, quando per esempio si usa come slogan l’idea che “l’educazione è cosa di cuore”. Non è evidentemente sbagliata questa espressione, ma rischia di essere riduttiva se non è corroborata da altri elementi altrettanto importanti, quali la ragione e la religione.
    Qui però ci preme dire che la bellezza è il risultato finale e riassuntivo: quando questi elementi formano un insieme significativo, armonico e sinfonico l’educazione va bene, la sintesi educativa è riuscita. Nel linguaggio di papa Francesco si direbbe: l’educazione è questione di testa, di cuore e di mani. E quando questi tre sono concordi ecco che il prodigio dell’educazione avviene.

    L’intuizione della bellezza

    Se la bellezza sta come sintesi finale, cuore del mondo e retrogusto della vita buona, per l’azione educativo-pastorale la bellezza è anche un punto di partenza, un innesco ineludibile che dissoda il terreno e lo rende fertile. Qui emerge l’estetica nel suo senso più proprio, come percezione iniziale di qualcosa di vero, buono, giusto e santo. Come un qualcosa che attira, seduce, rapisce, innalza.
    E qui dobbiamo purtroppo essere critici, nel senso costruttivo del termine. Non possiamo negare che nella Chiesa nel suo insieme – basti solo pensare, per fare qualche esempio, ad alcuni edifici di culto esteticamente impresentabili ai giovani d’oggi, oltre che fatiscenti, oppure alla poca cura degli ambienti dedicati all’educazione e anche dei nostri cortili – tante volte siamo scialbi e indecorosi. Per non parlare di alcuni stili liturgici incapaci di generare un vero incontro con Dio e con i fratelli. Penso e credo che non ce lo possiamo più permettere, perché l’educazione è diventata sempre più esigente da tutti i punti di vista.
    Nel mio girovagare in questi ultimi lustri per tante diocesi d’Italia, dentro e fuori istituti religiosi dove passano migliaia di giovani, quotidianamente rimango davvero rattristato dalla bruttezza e dalla trascuratezza che troppe volte incontro. Per chi ci vive non sembra essere più un problema. Per me che ci entro per la prima e l’ultima volta, è sempre un pugno nello stomaco. Mi chiedo spesso: “Ma come possiamo educare i ragazzi, gli adolescenti e i giovani in un ambiente tenuto così male, così trascurato, così abbandonato?”, “come può un ragazzo, vedendo l’iconografia proposta in qualche cappella o aula di catechismo, innamorarsi di Gesù, essere rapito dall’esempio dei santi e ammaliato dallo splendore di Maria?”.
    La vita buona del Vangelo è anche una vita bella, che ha bisogno di indizi espressivi che ci spingano almeno ad intuire la bellezza delle nostre anime e delle nostre proposte educative. Soprattutto che ci accompagnino dentro l’incanto ineguagliabile della rivelazione che Dio ci ha dato, mandandoci il suo amato Figlio. Forse che la nostra attuale sciatteria esteriore sia il segno di una fede superficiale?

    Quale bellezza per i giovani?

    Il Dossier di questo mese – mirabilmente curato da due “pezzi grossi” della Conferenza Episcopale Italiana, Ernesto Diaco e Michele Falabretti, colonne portanti della nostra Rivista, che ringrazio anche per questa ulteriore fatica – parte da una domanda impegnativa, incisiva e provocatoria: “Quale bellezza per i giovani?”. Essa ci spinge a fare i conti con la sensibilità giovanile attuale e a metterla a confronto con quella ecclesiale, per poter poi indicare qualche via percorribile, che sia il frutto di ascolto e dialogo autentici. Ci mettiamo ancora una volta in discernimento, che in fondo è sempre uno stato di conversione e di riforma.
    C’è tanta nostalgia di Dio nelle giovani generazioni. Tutti lo sanno. Le ricerche lo documentano abbondantemente. L’abbandono della pratica religiosa va di pari passo con un’apertura verso la ricerca spirituale. La pandemia ha allargato questa forbice, che d’altra parte c’era già prima.
    Non ci si accontenta dell’immanenza. Non siamo fatti per questo, ma per ben altro. Penso alla nostalgia di Dio nell’arte contemporanea. Tante volte, mettendo a confronto le opere d’arte classiche della cristianità con quelle odierne rimaniamo abbastanza scioccati. Ci sentiamo talvolta perfino offesi nella nostra sensibilità. Ma quando incominciamo davvero ad entrarci con intelligenza critica ci accorgiamo quanto esprimono non solo il disagio di un’epoca, ma soprattutto una sana inquietudine che va prima di tutto accolta, ascoltata e rispettata.
    La bellezza è da sempre uno spiraglio di trascendenza, uno spazio gratuito capace di dilatare il cuore, un’apertura in grado di far entrare aria pulita, una luce capace di gettare il nostro sguardo verso rinnovati scenari. Auguro a tutti i lettori di fare questa esperienza, e soprattutto a farla insieme ai giovani, che più di tutti rimangono naturalmente sensibili alla bellezza.

     


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