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    Europa e democrazia


    Lettere europee /10

    Renato Cursi

    (NPG 2021-05-62)

    La democrazia non è sempre stata una parola amica della pastorale giovanile. Ci son voluti quasi duemila anni e ben due guerre mondiali, perché il magistero pontificio arrivasse a riconoscerne esplicitamente l’importanza e l’idoneità. Era infatti la Vigilia del Natale del 1944, con il secondo conflitto mondiale che volgeva al termine, quando papa Pio XII apriva il suo “radiomessaggio ai popoli del mondo intero” affrontando “il problema della democrazia”. Dopo aver premesso che “la democrazia, intesa in senso largo, ammette varie forme”, Pio XII individuava due diritti del cittadino alla base del concetto di democrazia: quello di “esprimere il proprio parere sui doveri e i sacrifici, che gli vengono imposti” e quello di “non essere costretto ad ubbidire senza essere stato ascoltato”. Da allora, possiamo dire che questi diritti e questa visione sono stati necessariamente compagni di strada della Chiesa e della pastorale giovanile.
    Più avanti, infatti, esattamente nel centesimo anniversario della promulgazione da parte di Leone XIII della celebre Enciclica Rerum Novarum, san Giovanni Paolo II indicò (nell’Enciclica intitolata appunto Centesimus Annus) che “la Chiesa apprezza il sistema della democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche e garantisce ai governati la possibilità sia di eleggere e controllare i propri governanti, sia di sostituirli in modo pacifico, ove ciò risulti opportuno”. Si capisce in questo modo come la democrazia non rappresenti in sé un principio fondamentale dell’insegnamento o dottrina sociale della Chiesa (DSC), quanto piuttosto “un sistema” apprezzabile nella misura in cui, tra le altre cose, garantisca un’autentica “partecipazione” (questa sì, tra i principi fondamentali della DSC, in qualità di “conseguenza” del principio della “sussidiarietà”).
    A ben vedere, già nel corso del conflitto mondiale citato sopra, un professore francese che si trovava in quegli anni negli Stati Uniti d’America per sfuggire al nazismo, scrisse un’opera in cui argomentava come il Cristianesimo sia all’origine della democrazia stessa, individuando quegli elementi fondamentali della democrazia che il Vangelo ha saputo risvegliare nelle coscienze dei popoli nel corso del loro cammino storico verso questo determinato sistema di convivenza politica. Questo professore, Jacques Maritain, esponente di spicco del personalismo comunitario e propugnatore di un umanesimo integrale, avrebbe poi ispirato molti lavori del Concilio Ecumenico Vaticano II e del pontificato di Paolo VI. In quegli anni Maritain scriveva di “fine di un’epoca”, di “tragedia delle democrazie” e del problema per l’Europa di “ritrovare la forza vivificatrice del cristianesimo nell’esistenza temporale”. Ottant’anni più tardi, papa Francesco ci parla di “cambiamento d’epoca” e di “dimensione sociale dell’evangelizzazione”. Quelle sfide, insomma, sono ancora valide, sono anche le nostre sfide.
    Nuove forme di totalitarismo e nuove condizioni di vita minacciano le democrazie oggi, non solo in Europa. Al termine della cosiddetta Guerra Fredda, onda lunga ed eredità del secondo conflitto mondiale, nonché epilogo del cosiddetto “secolo breve”, sempre più popoli del subcontinente europeo si sono cercati per trovare forme soddisfacenti di cooperazione regionale in un mondo improvvisamente globalizzato, dove presto nuovi grandi attori sono sorti con il progetto di contrastare il monopolio culturale, economico e politico del cosiddetto “occidente”. La democrazia fa parte di questa eredità pericolante? L’Unione Europea, sorta formalmente nel 1993, dopo decenni di sforzi tesi ad una maggiore integrazione tra i popoli dell’Europa occidentale, e allargata in particolare dal 2004 anche a molti popoli della sua parte orientale, come si colloca in questo scenario?
    Alcuni osservatori del sistema decisionale delineato dal Trattato di Lisbona, che determina gli obiettivi, le competenze e il funzionamento dell’Unione Europea dal 2009, ritengono che oggi i cittadini europei si trovino a confrontarsi con una forma, più o meno partecipativa, di “tecnocrazia” piuttosto che con una vera e propria democrazia. Per trovare una via all’unità regionale rispettosa delle identità nazionali, i popoli europei hanno sostituito il concetto verticale di “government” statuale, semplice e chiaro a tutti ma non applicabile oltre i confini nazionali senza pregiudicare le pretese sovrane, con il concetto di “governance” multilivello, più complesso e di difficile comprensione, quanto basta per resistere ostinatamente ad una soluzione autenticamente federalista.
    Se da una parte le elezioni europee del maggio 2019 hanno registrato un’affluenza alle urne senza precedenti, d’altra parte ricerche e sondaggi confermano che i cittadini europei rivendicano un ruolo più incisivo in un processo decisionale chiamato a diventare più trasparente e più efficace. La pandemia di covid-19 ha dimostrato una volta di più che l’Europa, così com’è organizzata oggi, non è in grado di proteggere e promuovere il bene comune dei propri cittadini. Con il proposito di rilanciare il processo di integrazione e di ridisegnarne dal basso le priorità, le istituzioni europee hanno quindi convocato una “Conferenza sul futuro dell'Europa”. Questo ambizioso esercizio democratico paneuropeo è stato aperto ufficialmente nella data simbolica del 9 maggio, giorno dell’Europa, ed è destinato a concludere i suoi lavori nella primavera del 2022. Più che in una classica conferenza, questa iniziativa consisterà in una serie di dibattiti e discussioni avviati su iniziativa dei cittadini, una moltitudine di eventi e dibattiti organizzati in tutta l'UE in presenza e tramite una piattaforma digitale interattiva multilingue.
    Le dichiarazioni ufficiali annunciano sforzi multipli per coinvolgere i giovani e le nuove generazioni in questo processo. La società civile risponderà convintamente a questi appelli delle istituzioni statuali e intergovernative? E come si presentano la Chiesa e la pastorale giovanile di fronte a questa sfida? Storicamente l’associazionismo è stato una palestra di democrazia. Oggi questo spazio è in crisi, almeno sul piano quantitativo, tanto nel mondo civile quanto in quello ecclesiale. Come ravvivarlo? Come educano comunità e movimenti ecclesiali alla democrazia? E poi sono forse ormai anche altri i luoghi dell’educazione alla democrazia oggi. Quante realtà ecclesiali accompagnano l’impegno dei giovani alla responsabilità democratica nella scuola o nell’università? Quale accompagnamento si sta offrendo ai giovani impegnati nelle nuove forme di attivismo contro le ingiustizie, le discriminazioni e i discorsi d’odio o per la salvaguardia dall’ambiente? I giovani più vulnerabili raggiunti dalla carità ecclesiale sono poi riconsegnati ad un sistema di assistenzialismo o abilitati alla tutela dei propri diritti e all’assunzione responsabile dei propri doveri? Stiamo contribuendo alla crescita di una massa di individui o ad un popolo fondato su comunità di fratelli e sorelle? Quale Europa sognano i giovani? E la pastorale giovanile? Questa Conferenza può offrire spunti di riflessione e impegno anche a partire da queste domande.
    Sempre più emerge la sensazione che le forme di democrazia rappresentativa ed elettorale debbano confrontarsi con le nuove opportunità di partecipazione diretta facilitate dagli strumenti digitali, senza lasciarsi sostituire acriticamente da quest’ultime. Allo stesso tempo nella visione delle nuove generazioni emerge anche la necessità di un’autentica “democrazia internazionale”, come quella prefigurata a suo tempo dal professor Antonio Papisca, fondata sul rispetto universale dei diritti dell’uomo e su un’identità di popolo capace di trascendere i confini nazionali. In questo senso, lo stesso papa Francesco nell’Enciclica Fratelli Tutti (151-153) promuove le forme di integrazione regionale e i processi educativi volti a sostenerle, perché queste cooperazioni regionali fanno sì “che l’universalità non dissolva le particolarità”, e anche perché oggi “nessuno Stato nazionale isolato è in grado di assicurare il bene comune della propria popolazione”.
    Se la categoria di popolo è centrale tanto nella DSC quanto nell’esperienza pre-pontificia dell’arcivescovo Bergoglio, autore del saggio Noi come cittadini, noi come popolo, sin dal già citato radiomessaggio di papa Pio XII è evidente che “la massa è la nemica capitale della vera democrazia”. Di qui la necessità di rilanciare con vino nuovo in otri nuovi un autentico popolarismo, con una campagna di vaccinazione dal virus delle varie forme possibili di populismo, una campagna che per una volta dia priorità alle nuove generazioni. Non bastano misure pur logiche in un contesto demografico mai visto prima, come la concessione dell’elettorato attivo a 16 anni o la previsione dell'obbligo della valutazione dell'impatto generazionale per ogni legge e provvedimento pubblico. In Italia come in Europa, occorre ristabilire connessioni tra troppi individui sensibili ma isolati da un sistema imperniato sulla competizione di tutti contro tutti. E poi occorre accompagnarle queste connessioni, formando comunità generative e “glocali” di persone animate dall’amore per il popolo e per il suo destino nella prospettiva del Regno di Dio, infiammate dall’amicizia sociale e dalla carità politica.


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