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    Il gioco di Dio è un gioco di squadra


    Matteo Zuppi

    Cardinale Arcivescovo di Bologna


    (NPG 2021-04-14)

    È difficile parlare di sport in tempo di Coronavirus, perché le tante limitazioni per tenere in sicurezza gli altri e, quindi, noi stessi sono state un freno alla pratica fisica. In questi mesi di duro lockdown abbiamo capito che cosa lo sport insegna. perché anche le persone più critiche nei confronti del professionismo sportivo hanno dovuto ammettere che gli atleti professionisti sono stati tra i più disciplinati, e per questo sono stati un esempio. E hanno fatto bene, perché grazie al loro carisma tanti hanno deciso di imitarli pensando che se la mascherina la portavano loro, allora la si doveva portare tutti.
    Che cosa in generale lo sport ci insegna? Intanto che se si mette a disposizione degli altri qualcosa di proprio ci si ritrova con quel qualcosa moltiplicato, e questo è molto simile all’algebra di Dio dove chi perde trova e chi divide raddoppia. Ormai i cortili non esistono più, ma l’esempio può valere per una spiaggia o per un parco quando si potrà tornare a frequentarli senza essere distanziati. C’è un ragazzo con un pallone, ma se lo tiene per sé e non lo mette al servizio degli altri non serve a nulla, magari all’inizio potrà anche compiacersi del fatto che gli altri non possono giocare se lui non vuole, ma con il passare del tempo anche lui si stuferà di questa situazione. Solo se mette il suo pallone al servizio di tutti si potrà iniziare a giocare, e quindi lui insieme agli altri si divertiranno. Inizia la partita e tutti si mettono a giocare, ma se nelle due squadre c’è uno che quando ha il pallone tra i piedi o tra le mani non passa mai la palla, ecco che il divertimento incontra un altro ostacolo, lui difficilmente farà gol o canestro perché gli avversari capita l’antifona lo marcheranno stretto sapendo che gli altri possono essere lasciati liberi. La sua squadra è destinata a perdere perché lui è stato egoista. Anche in questo caso il divertimento sta a zero perché non ha saputo condividere e si è ritenuto più bravo degli altri. Questo esempio che può sembrare un po’ banale rispecchia quello che in realtà accade ogni giorno negli sport di squadra: quante volte abbiamo sentito dire quel tizio sarebbe un campione se non facesse tutto da solo e se imparasse a giocare di squadra?
    Il vero campione è quello che sa mettere a frutto tutte le sue qualità al servizio degli altri, e che sa quando tirare o quando passare la palla. Immagino che a tutti sia venuta in mente la parabola dei talenti a cui io aggiungerei quella del seme che germoglia fino a diventare un albero che dà molto frutto, ma lo sport è proprio questo fare fatica insieme per arrivare ad un obiettivo. Non si vince mai da soli, ma c’è sempre un altro che vince con te, anche nelle discipline singole. C’è sempre un allenatore, un massaggiatore, un professionista che ha faticato insieme all’atleta, e anche in questo caso c’è stata la necessità di fare squadra.
    Torniamo al nostro esempio. Supponiamo che il proprietario del pallone decida di cambiare le regole perché la sua squadra non vince. Se gli altri non accettano lui prende la palla e se ne va. Il gioco è comunque destinato a finire perché gli altri sanno che anche impegnandosi al massimo perderanno, ma anche i compagni di chi vuole vincere a tutti i costi non saranno così contenti di arrivare al successo non perché sono più bravi, ma perché sono migliori. Le regole sono, quindi, fondamentali, e il fatto che lo sport le pretenda ha una valenza educativa che spesso viene sottovalutata. La prima regola è che quando si gioca si può vincere e si può perdere, che la delusione per la sconfitta è un sentimento normale che, però, non cancella quanto di buono è stato fatto per arrivare a quella prova. Anzi, a volte aiuta a capire cosa è mancato, cosa si poteva fare di più per avvicinarsi alla vittoria, oppure se gli altri erano effettivamente così forti da non poter essere raggiunti. Le altre disposizioni sono, invece, scritte e il fatto di rispettarle è una delle migliori basi per diventare buoni cittadini, ovvero persone che sanno come non si possa convivere senza rispettare quelle norme necessarie per garantire a tutti il bene comune nella città degli uomini.
    L’ultimo tratto che voglio esplorare in questa breve introduzione è quello del “migliorarsi”. Spesso lo sport viene vissuto come un qualcosa solo di fisico, dove l’aspetto dei muscoli e della prestazione è l’unico orizzonte. In realtà è anche una palestra di convivenza a tutti i livelli: ormai le squadre sono composte da atleti di diversa nazionalità, e solo se all’interno dello spogliatoio si accende il dialogo e l’integrazione la squadra riuscirà a dialogare anche in campo. Non è un aspetto secondario, tanto che Papa Francesco lo ha spesso sottolineato parlando della pratica sportiva. Questo saper parlarsi senza conoscere perfettamente la lingua è anche un vettore di speranza, perché è un esempio di come ci si possa intendere quando si ha un obiettivo comune e si è pronti a rinunciare o a mettere a disposizione degli altri un qualcosa di proprio per raggiungerlo. È l’esatto contrario della Torre di Babele.
    Desidero infine esprimere un sincero ringraziamento a tutti coloro che ogni giorno mettono a disposizione un po’ del loro tempo libero per rendere quotidianamente vivo quello che in queste poche righe sono riuscito ad illustrare e che in questo Dossier viene approfondito.


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