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    Testimoni di una chiesa evangelica


    Pierluigi Cameroni

    (NPG 2017-05-38)


     

    «Negli ultimi decenni è aumentato l’interesse religioso e culturale per i campioni della santità cristiana, che mostrano il vero volto della Chiesa, sposa di Cristo “senza macchia né ruga” (cfr Ef 5,27). I santi, se giustamente presentati nel loro dinamismo spirituale e nella loro realtà storica, contribuiscono a rendere più credibile e attraente la parola del Vangelo e la missione della Chiesa. Il contatto con essi apre la strada a vere risurrezioni spirituali, a conversioni durature e alla fioritura di nuovi santi. I santi normalmente generano altri santi e la vicinanza alle loro persone, oppure soltanto alle loro orme, è sempre salutare: depura ed eleva la mente, apre il cuore all’amore verso Dio e i fratelli. La santità semina gioia e speranza, risponde alla sete di felicità che gli uomini, anche oggi, avvertono».[1]
    Queste parole del papa emerito Benedetto XVI ci presentano i santi come Vangelo vissuto, come parole di Dio incarnate che immettono nella storia dell'umanità l’energia pulita dell’amore, del perdono, della fratellanza, della mitezza e della pace. Con la loro grande bontà essi rendono più ospitale la città dell’uomo e più luminosa la città di Dio, che è la Chiesa. I Santi cambiano il mondo, ma anche la Chiesa, resa più evangelica e più credibile dalla loro testimonianza. I Beati e i Santi non solo dalla Chiesa ma anche dalla società civile vengono accolti con fierezza e cordialmente onorati, perché considerati eroi del bene e modelli di sana umanità, offrendo alla Chiesa intera il dono di esistenze evangeliche preziose, autentici gioielli umani e spirituali, degni di adornare la corona di gloria di Cristo e la veste preziosa della Chiesa sua sposa.
    Martiri, Confessori, Venerabili, Beati, Santi, Dottori della Chiesa non sono quadri di musei o di antiche dimore abbandonate, ma sono esistenze vive, che ispirano ancora oggi la Chiesa a evitare la paralisi del bene e a mantenere l’ottimismo della fede, dell’amore alla vita e della speranza. La nave della Chiesa trova nei Santi le guide sicure, che, ancorate in cielo, l’aiutano a non naufragare nel mare della storia, ma a raggiungere il porto sicuro della Gerusalemme celeste. Per questo la Chiesa ha bisogno dei Santi. La Chiesa fa i Santi perché i Santi cambiano il mondo e la glorificano davanti a Dio e all’umanità. I ritratti di santi dei nostri tempi che seguono mostrano come anche oggi la Chiesa è viva nei suoi figli e figlie: Chiesa dei piccoli, dei martiri, dei poveri, dei pastori.

    La Chiesa dei piccoli - Santi Francesco e Giacinta Marto

    «Ti benedico, o Padre, (...) perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11, 25). La Vergine Maria, venuta dal Cielo, parla ai pastorelli con voce e cuore di mamma: li invita ad offrirsi come vittime di riparazione, dicendosi pronta a condurli, sicuri, fino a Dio. Ed ecco, essi vedono uscire dalle sue mani materne una luce che penetra nel loro intimo, così che si sentono immersi in Dio come quando una persona – essi stessi spiegano - si contempla allo specchio. Più tardi Francesco, uno dei tre privilegiati, osservava: «Noi stavamo ardendo in quella luce che è Dio e non ci bruciavamo. Com’è Dio! Non si può dire. Questo sì, che noi non lo potremo mai dire». Dio: una luce che arde, però non brucia. Ciò che più meravigliava Francesco e lo compenetrava era Dio in quella luce immensa che li aveva raggiunti tutti e tre nel loro intimo. Una notte, suo padre lo sentì singhiozzare e gli domandò perché piangesse; il figlio rispose: «Pensavo a Gesù che è tanto triste a causa dei peccati che si fanno contro di Lui». Un unico desiderio - così espressivo del modo di pensare dei bambini - muove ormai Francesco ed è quello di «consolare e far contento Gesù».
    Nella sua vita si opera una trasformazione che si potrebbe dire radicale; una trasformazione sicuramente non comune per bambini della sua età. Egli si impegna in una intensa vita spirituale, con una preghiera così assidua e fervente da raggiungere una vera forma di unione mistica col Signore. Proprio questo lo spinge ad una crescente purificazione dello spirito, mediante tante rinunce a quello che gli piace e persino ai giochi innocenti dei bambini. Francesco sopportò le grandi sofferenze causate dalla malattia, della quale poi morì, senza alcun lamento. Tutto gli sembrava poco per consolare Gesù; morì con il sorriso sulle labbra. Grande era, nel piccolo, il desiderio di riparare per le offese dei peccatori, offrendo a tale scopo lo sforzo di essere buono; i sacrifici, la preghiera.
    Anche Giacinta, la sorella più giovane di lui di quasi due anni, viveva animata dai medesimi sentimenti. Nella sua sollecitudine materna, la Santissima Vergine è venuta, a Fatima, per chiedere agli uomini di «non offendere più Dio, Nostro Signore, che è già molto offeso». Per questo Ella chiede ai pastorelli: «Pregate, pregate molto e fate sacrifici per i peccatori; tante anime finiscono nell'inferno perché non c'è chi preghi e si sacrifichi per loro».
    La Chiesa con la loro canonizzazione ha posto sul lucerniere queste due fiammelle che Dio ha acceso per illuminare l'umanità nelle sue ore buie e inquiete. Alla luce del cuore materno della Vergine, «figura della Chiesa nell’ordine della fede, della carità e della perfetta unione con Cristo», Francesco e Giacinta fanno, nella loro spiritualità, una sintesi di ciò che la Chiesa è continuamente chiamata ad essere: contemplativa e ricca di compassione.
    Il profilo spirituale di Francesco è caratterizzato dall’appello all’adorazione e alla contemplazione. Appena gli era possibile, si appartava in un luogo isolato per pregare da solo, passando lunghe ore nel silenzio della chiesa parrocchiale, vicino al «sacrario», per tener compagnia a «Gesù nascosto». Nella sua intimità, Francesco scopre un Dio rattristato davanti alle sofferenze del mondo, soffre con lui e desidera consolarlo. Evidenzia così che la vita di preghiera si alimenta nell’ascolto attento del silenzio, luogo dove Dio parla. Francesco si lascia abitare dalla presenza inafferrabile di Dio – «Sentivo che Dio era in me, ma non sapevo come egli fosse» – ed è a partire da questa presenza che egli accoglie gli altri nella sua preghiera. La sua vita di fede è una vita di contemplazione di Cristo «nascosto».
    Il profilo spirituale di Giacinta è caratterizzato dalla sincera generosità della fede. Nelle piccole cose della sua vita semplice di bambina, Giacinta offre tutto come dono riconoscente al cuore di Dio, in favore dell’umanità. Spesso esprimeva il suo desiderio di condividere l’amore ardente che sentiva verso i cuori di Gesù e di Maria, che la faceva crescere nell’attenzione ai peccatori. Tutti i minimi particolari della sua giornata, incluse le contrarietà della sua malattia, erano motivo di offerta a Dio per la conversione dei peccatori e per il Santo Padre.

    La Chiesa dei martiri - San José Sánchez del Río

    Era un ragazzo sano e gioviale, che si distingueva per il suo impegno nelle difficili attività parrocchiali, vietate in quei tempi di persecuzioni. Si avvicinava ai sacramenti, quando poteva, perché anche il culto pubblico era proibito, mettendo a repentaglio la sua vita. José era nato a Sahuayo (Messico) il 28 marzo 1913, battezzato nella parrocchia di San Giacomo Apostolo, lo stesso luogo del suo martirio. Era il sesto di sette fratelli, in una famiglia di agricoltori che economicamente stava bene, conosciuta anche per la sua solida fede cristiana.
    L’esempio dei martiri rafforzò ancora di più in José il desiderio di donare la propria vita a Cristo. Alle obiezioni della madre, il ragazzo rispondeva: «Mamma, mai è stato così facile come adesso andare in Paradiso». Nell'estate del 1927 riuscì a unirsi ai cristeros, movimento cattolico e dissidente messicano, servendo come portabandiera, senza però prendere parte ai conflitti armati Poco tempo dopo quando cadde prigioniero delle truppe governative: aveva ceduto il suo cavallo ad uno dei responsabili dei cristeros, perché potesse fuggire. E José era perfettamente consapevole che ciò avrebbe significato una morte atroce. Dal carcere, nella cittadina di Cotija, José poté mandare una lettera a sua madre: «Oggi sono stato catturato in combattimento. Credo che sto per morire, ma non importa, mamma. Rassegnati alla volontà di Dio; io muoio molto contento, perché muoio vicino a Nostro Signore. Non soffrire per la mia morte, ne sarei mortificato; piuttosto, dì agli altri miei fratelli che seguano l’esempio del più piccolo e tu fa' la volontà di Dio. Mandami la tua benedizione con quella di papà. Ricevi il cuore di tuo figlio, che tanto ti ama e avrebbe voluto vederti prima di morire».
    Portato a Sahuayo, venne rinchiuso nella chiesa parrocchiale, trasformata in prigione e stalla dalle truppe governative. I soldati, fra altre profanazioni, avevano convertito il presbiterio in un pollaio per “galli da combattimento”. Di fronte a ciò, José reagì con forza ammazzando i galli, senza paura delle minacce di morte del capo militare locale. Il ragazzo, che si era distinto sempre per la sua devozione all’Eucaristia, rispose all'ufficiale: «La casa di Dio è per pregare, non una stalla di animali. Sono disposto a tutto. Puoi fucilarmi». Uno dei soldati lo colpì sulla bocca con il calcio del fucile, rompendogli i denti. Al ragazzo furono fatte diverse proposte, molto lusinghiere: iscriversi alla prestigiosa scuola militare del Regime o fuggire negli Stati Uniti, ma José le rifiutò con fermezza, dicendo che «la sua fede non era in vendita». Lo trasferirono in una locanda vicina. Qui, i soldati gli scorticano i piedi con un coltello. José aveva scritto una lettera a una zia, in cui le comunicava che sarebbe stato ucciso per la sua fedeltà a Cristo e chiedeva gli fosse portata la Comunione: «Sono stato condannato a morte. Alle otto e mezza arriverà il momento che tanto, tanto ho desiderato. Non me la sento di scrivere alla mia cara mamma. Salutami tutti e ricevi il cuore di tuo nipote che ti vuole molto bene. Cristo vive, Cristo regna, Cristo impera! Viva Cristo Re e Santa Maria di Guadalupe!». Era il 10 febbraio 1928.

    La Chiesa dei poveri - Beato Alberto Marvelli

    La santità di Alberto Marvelli (1918-1946), sbocciata in una famiglia di intensi valori cristiani, cresce e si sviluppa a contatto con il mondo salesiano. Nella sua parrocchia di Rimini, dedicata a Maria Ausiliatrice e tenuta dai Salesiani, esiste un fiorente oratorio. I Salesiani capiscono subito di che stoffa è fatto; lo impegnano, gli danno fiducia, lo guidano sulla via della crescita spirituale. A quindici anni è già delegato aspiranti e generoso animatore dell'oratorio. Alberto prega con raccoglimento, fa catechismo con convinzione, manifesta zelo, carità, serenità, purezza. Su questa base si struttura un forte e significativo cammino di maturazione umana e cristiana che lo porterà alle vette della santità riconosciuta.[2]
    Fin dall’adolescenza Alberto ha un potente desiderio della santità, concepito non solo come bisogno della sua anima, ma anche come mezzo indispensabile per cooperare alla salvezza del prossimo. Una meta chiara e precisa: «Questo dev’ essere il programma, il proposito: imitare Gesù e i santi, ricopiare la loro vita santa» (Gennaio 1938). E qualche mese dopo: «Una meta mi sono prefisso di raggiungere, oggi, ad ogni costo, con l’aiuto di Dio. Meta alta, sublime, radiosa, preziosa, desiderata da tempo, ma finora mai attuata. Essere santo, apostolo, caritatevole, studioso, puro, forte. Non stare un attimo in ozio. Forse è presunzione? Forse credo di essere così forte da riuscire? Lo sai, o Signore, nulla io posso da me… Confido completamente nel tuo aiuto, e da parte mia cercherò di mettere la maggior volontà possibile» (Pasqua 1938).
    Dopo essere stato congedato dal servizio militare nel settembre 1944, ritorna a Rimini, dove viene coinvolto nelle vicende drammatiche della città, devastata dalla guerra non ancora finita. Si dedica con slancio alla ricostruzione morale e materiale della città; ha vari incarichi: direttore dell’Ufficio alloggi, Assessore comunale, ingegnere del Genio Civile, membro della direzione cittadina della Democrazia Cristiana; tutto ciò gli dà una visibilità pubblica, facendolo diventare necessario per tutti. In campo diocesano nel 1945 entra a far parte della Società Operai del Getsemani, di cui fonda a Rimini un reparto; ha l’incarico di Presidente dei Laureati Cattolici. Le eccezionali doti che possiede, umane e spirituali, vissute con genuinità, sincerità e naturalezza, esercitano un fascino su tutti, di qualunque idea politica o sociale siano. Si dedica generosamente, nell’Italia del dopoguerra, all’attività politica ispirata ai principi cristiani. Si candida nella lista della Democrazia Cristiana per l’elezione della prima Amministrazione Comunale. Protagonista ammirato e stimato anche dagli avversari politici: non solo per la sua fede e per l’integrità della sua vita, ma anche per l’attivo e intelligente impegno sociale e politico. Fa della politica uno dei luoghi concreti dove è possibile sperimentare la fede, esercitare la carità, organizzare la speranza, coniugando in modo mirabile le domande della gente con l’annuncio del vangelo. «Con l’aiuto del Signore desidero e propongo di essere sempre di esempio ai compagni e di difendere la mia fede in ogni occasione si presenti senza rispetti umani, ma con la mente sempre rivolta alla maggior gloria di Dio» (Maggio 1936).
    Giorgio La Pira dirà di questo giovane cristiano: «A me pare che mettere sul candelabro questa lampada, risponda alle esigenze più pressanti della Chiesa, oggi: perché il problema delle generazioni nuove è, oggi, fondamentalmente, quello della loro vita interiore, del loro modo di unione con Dio, della vita della grazia: e non è tutto qui il senso della testimonianza cristiana di Marvelli? Mostrare questa testimonianza, situare sul candelabro questa lampada di gioia e di purità, perché faccia luce e testimoni una esperienza tanto marcata in mezzo al mondo d’oggi, non è cosa urgente, e quasi necessaria? La Chiesa potrà dire alle generazioni nuove: ecco, io vi mostro cosa è l’autentica vita cristiana nel mondo».

    La Chiesa dei buoni pastori - Beato Paolo VI

    Era stato eletto Papa nel 1963. «Il grande timoniere» lo ha definito Benedetto XVI. Amato da Papa Francesco, che l'ha proclamato beato alla fine del Sinodo della famiglia nel 2015, in sintonia con l’Evangelii Nuntiandi e il suo impeto missionario. Nato a Concesio, Brescia, nel 1897, fu protagonista del Concilio Vaticano II: lo aveva ereditato da Giovanni XXIII e dopo di lui aveva guidato la Chiesa nella modernità. Il Concilio secondo papa Montini, doveva promuovere il rinnovamento interiore della Chiesa stessa, senza rottura con le sue tradizioni. I fini che egli assegnava al Concilio erano pastorali, tuttavia, «viene celebrato per risvegliare, rinnovare, purificare, ammodernare, intensificare, dilatare la vita della Chiesa, che è in cerca di nuove vie per annunciare Cristo». Inoltre Paolo VI ricorda che tra le finalità assegnate da Giovanni XXIII «vi era la presentazione integra della dottrina cattolica e l’affermazione del Magistero della Chiesa; se essa rinvigorirà il suo Spirito, nello sforzo continuo di fedeltà a Cristo, avrà una fraterna e apostolica capacità di avvicinare l’uomo». Con l’evento conciliare e il pontificato di Paolo VI inizia un tempo in cui la Chiesa cerca di essere e di manifestarsi più comunionale, incarnata pluralisticamente nelle diverse realtà e culture, pastoralmente decentrata perché tesa all’uomo concreto, al povero soprattutto, vedendo in esso il volto del Signore. Si comincia a vedere una Chiesa che cerca il 'dialogo' verso tutti, imparando il lessico dell’uomo moderno: non per parlargli di sé e dei suoi 'trionfi', ma per annunciargli il Vangelo.
    Vedeva il mondo correre lontano da Cristo e dal Vangelo, già in anni in cui la Chiesa si sentiva ancora trionfante e pochi si rendevano conto della virata che arrivava da lontano e stava per attaccarla: il secolarismo, il divorzio, l'aborto, le chiese vuote, i sacerdoti in fuga dai seminari. A Milano, da arcivescovo si alzò dalla scrivania e si buttò in ginocchio piangendo, quando uno dei suoi preti gli disse che voleva lasciare il sacerdozio. «Pensi alla Chiesa» lo implorò. Il sacerdote racconta che sentì qualcosa dentro, cadde anche lui in ginocchio e rimase sacerdote. Ogni Natale e ogni Pasqua, nel pomeriggio usciva e andava a trovare gli ex preti, quelli che avevano lasciato. Non era, non lo è ancora, un gesto scontato.
    Non riuscì più a contenere la piena e rimase sommerso dalle critiche per la fortezza nell'andare controcorrente. Come con l’Humanae Vitae, l'enciclica in cui nel pieno della rivoluzione sessuale, era il 1968, scrisse che l'apertura alla vita era parte fondamentale dell'amore tra gli sposi e che gli anticoncezionali non rispondevano al progetto di Dio sull'uomo e sulla donna. A farlo beato, è stato il miracolo di un bimbo inspiegabilmente guarito nella pancia della mamma che aveva rifiutato di abortire.
    Amò la Chiesa fino alla fine come lasciò scritto nel testamento: «Prego pertanto il Signore che mi dia grazia di fare della mia prossima morte dono, d'amore alla Chiesa. Potrei dire che sempre l'ho amata; fu il suo amore che mi trasse fuori dal mio gretto e selvatico egoismo e mi avviò al suo servizio; e che per essa, non per altro, mi pare d'aver vissuto. Ma vorrei che la Chiesa lo sapesse; e che io avessi la forza di dirglielo, come una confidenza del cuore, che solo all'estremo momento della vita si ha il coraggio di fare. Vorrei finalmente comprenderla tutta nella sua storia, nel suo disegno divino, nel suo destino finale, nella sua complessa, totale e unitaria composizione, nella sua umana e imperfetta consistenza, nelle sue sciagure e nelle sue sofferenze, nelle debolezze e nelle miserie di tanti suoi figli, nei suoi aspetti meno simpatici, e nel suo sforzo perenne di fedeltà, di amore, di perfezione e di carità. Corpo mistico di Cristo. Vorrei abbracciarla, salutarla, amarla, in ogni essere che la compone, in ogni Vescovo e sacerdote che l'assiste e la guida, in ogni anima che la vive e la illustra; benedirla. Anche perché non la lascio, non esco da lei, ma più e meglio, con essa mi unisco e mi confondo: la morte è un progresso nella comunione dei Santi… E alla Chiesa, a cui tutto devo e che fu mia, che dirò? Le benedizioni di Dio siano sopra di te; abbi coscienza della tua natura e della tua missione; abbi il senso dei bisogni veri e profondi dell'umanità; e cammina povera, cioè libera, forte e amorosa verso Cristo. Amen. Il Signore viene. Amen».[3]

    Conclusione

    Concludiamo ancora con alcune espressioni di Benedetto XVI: «Quando la Chiesa venera un Santo, annunzia l’efficacia del Vangelo e scopre con gioia che la presenza di Cristo nel mondo, creduta e adorata nella fede, è capace di trasfigurare la vita dell’uomo e produrre frutti di salvezza per tutta l’umanità. Inoltre, ogni beatificazione e canonizzazione è, per i cristiani, un forte incoraggiamento a vivere con intensità ed entusiasmo la sequela di Cristo, camminando verso la pienezza dell’esistenza cristiana e la perfezione della carità (cfr Lumen gentium, 40)... I Santi, segno di quella radicale novità che il Figlio di Dio, con la sua incarnazione, morte e risurrezione, ha innestato nella natura umana e insigni testimoni della fede, non sono rappresentanti del passato, ma costituiscono il presente e il futuro della Chiesa e della società. Essi hanno realizzato in pienezza quella caritas in veritate che è il sommo valore della vita cristiana, e sono come le facce di un prisma, sulle quali, con diverse sfumature, si riflette l'unica luce che è Cristo. La vita di queste straordinarie figure di credenti, appartenenti a tutte le Regioni della terra, presenta due significative costanti, che vorrei sottolineare. Innanzitutto, il loro rapporto con il Signore, anche quando percorre strade tradizionali, non è mai stanco e ripetitivo, ma si esprime sempre in modalità autentiche, vive e originali e scaturisce da un dialogo con il Signore intenso e coinvolgente, che valorizza e arricchisce anche le forme esteriori. Inoltre, nella vita di questi nostri fratelli risalta la continua ricerca della perfezione evangelica, il rifiuto della mediocrità e la tensione verso la totale appartenenza a Cristo. “Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo”: è l'esortazione, riportata nel libro del Levitico (19,2), che Dio rivolge a Mosè. Essa ci fa comprendere come la santità sia tendere costantemente alla misura alta della vita cristiana, conquista impegnativa, ricerca continua della comunione con Dio, che rende il credente impegnato a “corrispondere” con la massima generosità possibile al disegno d'amore che il Padre ha su di lui e sull’intera umanità».[4]


    NOTE

    [1] Benedetto XVI al Collegio dei Postulatori di cause di Beatificazione e Canonizzazione della Congregazione delle Cause dei Santi (17 dicembre 2007).
    [2] M. MASSANI, (a cura di), Diario di Alberto Marvelli, Edizioni Gioventù Studiosa “A. Marvelli”, Rimini 1978.
    [3] Paolo VI, Pensiero alla morte, in L’Osservatore Romano, edizione settimanale in lingua italiana n. 32-33, 9 agosto 1979.
    [4] Discorso di Benedetto XVI ai Superiori, officiali e Collaboratori della Congregazione delle Cause dei santi, in occasione del 40° anniversario dell’istituzione del Dicastero (Sala Clementina Sabato, 19 dicembre 2009).


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