Certi discorsi


Francesco Cravero

(NPG 1991-09-42)

«Ma, vedi, ho ricominciato a frequentare un certo ambiente perché ho fatto certe scelte e voglio riprendere un certo cammino» (un amico - non me ne voglia - una sera in birreria, dopo aver ricominciato a bazzicare nel gruppo).

1.1. Certi discorsi, appunto

Non è che un esempio, ma l'uso dell'espressione «un certo» nei discorsi dei gruppi giovanili, anche, se non specie, da parte degli educatori, colpisce, e non sembra spiegarsi solo con la pigrizia. L'espressione «un certo» o, al plurale, «certi», permette infatti di economizzare le parole: con essa si può rinviare l'interlocutore a tutta una serie di realtà senza fare la fatica di enumerarle, descriverle, nominarle.
Al lettore il compito di verificare se e quanto certi discorsi facciano parte del suo mondo.

1.2. «Certo, certuni certamente sapranno che il certo...»

La parola in questione, ci informa il vocabolario, appartiene a più categorie grammaticali: aggettivo, pronome e aggettivo indefinito; avverbio e nome in frasi come «lasciare il certo per l'incerto».
Per i curiosi di erudizione, il termine deriva dal participio passato del verbo latino «cernere»: distinguere; ma è l'ambiguità del suo significato che qui interessa.
Mentre da un lato la parola richiama chiarezza ed evidenza: il certo è sicuro e preciso («è certamente successo così»); dall'altra si presta a veicolare tutta una serie di sfumature indefinite ed incerte: non ben conosciuto («un certo sig. Rossi»), che lascia in apprensione («la cosa non è poi così certa», che manca di risolutezza e decisione («certe volte...») ... insomma, siamo nell'area del dubbio oltre che dell'impreciso e del vago (cf vocabolario Zingarelli, voci certo ed incerto).

1.3. Meccanismi del comunicare, mistero della parola parlata

Ce ne rendiamo conto, l'uso di una parola al posto di un'altra è solo una questione di modi di dire, ma... ma partiamo da un'altra considerazione.
Chi sa tacere con le labbra, spesso, sa tacere anche dentro e ascoltare, e imparare a tacere con le labbra può essere un buon esercizio per imparare ad ascoltare dentro. Se, come, quando, uno ascolti poi effettivamente, non ci è dato di saperlo.
Qui la questione è un po' la stessa. Non abbiamo a disposizione che dei segni (le parole in questione, il tacere con le labbra), l'interiorità - grazie a Dio - ci sfugge, per farsi mistero.
Scommettendo ancora una volta sui segni, ci lasciamo interrogare dalle parole e dai modi di dire: che meccanismi mettono in scena certi discorsi?

1.4. L'itinerario

L'oggetto della nostra breve inchiesta dovrebbe ormai essere chiaro: una inflazione del termine «certo» nel parlare dei gruppi giovanili.
Quanto all'approccio, ci interesseremo dei meccanismi comunicativi e dei fatti linguistici coinvolti dal e nell'uso di «certo». Ecco, in sintesi, l'itinerario che seguiremo: dopo aver sommariamente delineato gli effetti del certo ed esserci appropriati di un semplice strumento di analisi (2.0 e 2.1), vedremo come questi modi di dire lavorino i contenuti dei discorsi (2.2) e le relazioni fra i parlanti (2.3); in un secondo tempo (3.0) avanzeremo una lettura più audace e precaria: l'ambiguità che segna il certo come manifestazione di un'altra ambiguità che, uomini, ci portiamo dentro.

2.0. Parlar angelico

L'uso del qualificativo «certo», specie se accompagna termini come scelte, valori, cammino e simili, permette un angelico parlar «dai tetti in su» che elude il problema della identificazione degli oggetti di cui parla e, forse, mostra un timore o una paura reverenziale a nominarli. Un dire reticente, a cui cioè e quale/i fanno da degna replica: «certe scelte...», «quali?»; «un certo cammino...», «cioè?».

2.1. Venire allo scoperto

Nella comunicazione interpersonale nel cui ambito situiamo e interroghiamo il certo, non si realizza mai un semplice e neutro scambio di informazioni: ogni trasmissione di informazione, infatti, obbliga l'interlocutore a reagire in qualche modo.
Così una domanda, per ingenua che sia, impone una risposta e con ciò impegna l'interlocutore ad esporre il proprio sapere al rischio della critica o al piacere della approvazione.
In modo ancor più marcato, la più innocente delle richieste costringe l'altro a «venire allo scoperto», ad esporsi e compromettersi.
La parola dialogata non manifesta e modifica solo ed eventualmente idee e opinioni, ma relazioni fra parlanti, posti o posizioni che essi occupano nel discorso e nella percezione di sé e degli altri.
Vediamo ora come esporre ed esporsi siano implicati nei modi di dire che ci interessano.

2.2. Un esporre incerto

I discorsi intorno a scelte, valori e cammini non sono fra i più semplici da condurre e i loro dialoghi non sono facili da gestire.
Questo può spiegare, almeno in parte, la reticenza che li avvolge e la problematicità del nominare e identificare che li intacca.
A questo limite sul piano dei contenuti, dell'esporre, corrisponde una limitazione della efficacia comunicativa.
È il limite della genericità che dichiara, mentre è più convincente mostrare.
Portare esempi, essere concreti, descrivere, offrire dettagli che coinvolgano l'ascoltatore, che lo commuovano ecc. convince più che dichiarare, semplicemente, o asserire, categoricamente.
È più efficace insomma districarsi sul piano dell'evocare piuttosto che su quello della «verità».
Un esempio: «Certe condizioni del traffico creano nervosismo» (dichiarazione).
Ecco la stessa idea, mostrata: «Restare imbottigliati nel traffico davanti a un semaforo avanzando di pochi metri per volta, oppure trovare una automobile parcheggiata in terza fila che ostruisce completamente la strada e non permette di proseguire, crea un senso di astio e di aggressività, ci si sente intrappolati nella propria gabbia di metallo».[1]
Far vedere scelte e valori con la stessa evidenza non è probabilmente possibile, ma raccontarli sì e, oltre che più efficace, potrebbe anche essere più vero: «Non so spiegarti perché sono qui, perché ho fatto questa scelta, però posso raccontartelo».

2.3. Un esporsi a metà

Sul versante delle relazioni, dell'esporsi, il parlare intorno a cui stiamo indagando si presta ad almeno due interpretazioni.
Come tattica del dire a metà, mostra la prudenza di chi, senza tradire i diritti della verità, non risponde sempre con chiarezza per non lasciarsi scoprire o «possedere», per non ritrovarsi impegnato a sostenere posizioni scomode: dire a metà, esporsi a metà.
Circospezione che tiene lontane le critiche e la contestazione dunque (viene in mente un «parlar politico») o, con maggior autenticità, fatica di chi non sa, di chi non riesce a chiarire, di chi - felicemente - sta ancora cercando ma non vuole ancora raccontare (ancora il «possedere»: non raccontare, non raccontarsi, per timore di diventare di pubblico dominio)

3.0. Parlar diabolico

Mentre finora ci siamo soffermati sulla imprecisione - voluta? - sulla vaghezza, sul mancato riscontro in termini di identificazione, passiamo a considerare più da vicino l'aspetto del nominare.
Si può fare un'altra ipotesi: che i meccanismi del certo siano assai più ambigui di quanto visto. Occorrerà partire un po' da lontano: dall'elusione di un divieto.
Alcune cose non si possono fare e altre non si devono dire; si ricorre così all'eufemismo e, in modo più o meno elegante, si riesce a pronunciare ciò che andava taciuto.
Alcune parole si trovano così ad essere, linguisticamente, degli esistenti- vietati: esistono, ma non si possono pronunciare.
Fra questi esistenti-vietati, e di prim'ordine, i nomi del sacro. Ecco allora che non potendo nominare il sacro, la bestemmia si fa eufemismo: «Madonna!» diventa «mamma mia!», «Dio ci salvi!» si muta in «dinci!», oppure «Dio!» si trasforma in «diavolo!», «Gesù» in «Giuda!», ecc. [2]
Dunque perché certi discorsi? Pigrizia e fatica del nominare non sembrano spiegare l'uso di «certo».
Anche il timore di esporsi non dà ragione sufficiente del ricorso alla penombra...
Quando parliamo di certi valori e certe cose tacendole, con l'eufemismo «certe cose» appunto, invece che nominandole, stiamo riconoscendo loro lo statuto di sacro: alterità che ci attira e impaurisce, che sporca e guarisce... che non padroneggiamo?
La ambiguità dei meccanismi del certo è un po' la stessa del sacro, affascinante e tremendo? La loro reticenza è la stessa di quella della bestemmia che vuole dire e non dire? La loro problematicità è la stessa che patiamo quando ci accorgiamo che vita e morte camminano insieme, che bene e male sono misteriosamente intrecciati, che amiamo e odiamo allo stesso tempo?
... nomina nuda tenemus.

NOTE

1 L'esempio è tratto da M.T. Serafini, Come si fa un tema in classe, Bompiani.
2 Su questo: E.Benveniste, «Blasfemia ed eufemia», in Problemi di linguistica generale 2, Il Saggiatore.