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    Per definire nuovi «sistemi simbolici»



    Mario Pollo

    (NPG 1987-08-10)


    L'espressione «sistemi simbolici» indica qui tutti i sistemi di segni e di simboli che consentono al giovane di entrare in relazione con il «religioso», di vivere cioè, o semplicemente di percepire, l'esperienza religiosa che si sviluppa all'interno della nostra cultura sociale.
    Si è preferito l'espressione «sistema simbolico» a quella più usuale di «linguaggio», perché si intende fare riferimento a tutte le esperienze di comunicazione che avvengono nella sfera del religioso e non solo a quelle più tipicamente linguistiche. Il termine sistema simbolico può riferirsi, infatti, tanto ad un insieme di gesti quanto a quell'evento complesso che è un rito.
    Più precisamente. Il termine «sistema simbolico» indica un insieme di segni/simboli che sono in relazione ed interagiscono tra di loro.
    Un rito è un insieme di gesti, segni e simboli e silenzi in relazione non casuale tra di loro, che è stato istituzionalizzato in una tradizione al fine di favorirne la partecipazione e la ripetizione. Anche il sogno e la visione devono essere intesi come sistemi simbolici.
    Con il termine «segno» si indica quella entità a due facce che attraverso una presenza (il significante) evoca una assenza (il significato).
    Con il termine «simbolo» si fa riferimento a quel particolare segno in cui il significante non rinvia solo ad un particolare significato, convenzionalmente stabilito, ma anche ad un altro, nascosto o non immediato, la cui relazione con il significante non è né arbitraria né convenzionale.
    Ad esempio, la parola «pesce» è un segno quando significa un animale acquatico; è invece un simbolo quando, come nelle pitture catacombali, significa la persona di Gesù.
    Questo significato ultimo non è frutto di una convenzione arbitraria, ma di ben definiti motivi storici e antropologico-psicologici.
    Confluiscono infatti in questo simbolo motivi ideografici, tradizioni mitologiche pressoché universali che vedono nel pesce un simbolo di amore, saggezza e fecondità; e infine il fatto che Cristo risuscitato ne ha mangiato lo fa divenire un simbolo del pasto eucaristico (Lc 24, 42). Il fatto poi che il pesce vive nell'acqua ha fatto sì che la sua immagine potesse essere assunta come simbolo del battesimo. Infatti il cristiano che nasce nel battesimo è paragonabile ad un pesciolino.
    Fatti questi chiarimenti iniziali e sottolineato che il termine «sistemi simbolici» consente di raggruppare un insieme che comprende il linguaggio naturale e simbolico, l'esperienza del sogno e delle visioni, il rito ed il mito, si può finalmente tentare di delineare un percorso che consenta alla fine di capire quali siano i sistemi simbolici che oggi supportano un'autentica iniziazione cristiana.

    La funzione dei sistemi simbolici nell'esistenza umana

    I sistemi simbolici sono quelli che consentono alla persona umana di aprire la porta del senso oltre la quale si snodano i sentieri che conducono a quella dimora dell'esistenza in cui è possibile vivere l'esperienza della autonomia e della libertà dell'essere autocosciente. I sentieri del senso però vanno oltre questa dimora. Vanno infatti verso quella terra, in cui è possibile vivere l'esperienza, segnata dall'amore, della unità solidale con gli altri esseri viventi. Terra che è posta ai confini di un abisso in cui risuona il mistero del Totalmente Altro.
    Il primo tratto del sentiero può essere compiuto utilizzando il quotidiano linguaggio naturale e tutti i sistemi di segni che aiutano l'uomo nella sua quotidiana fatica di vivere nel mondo.
    Il secondo tratto di strada, oltre la dimora dell'io, può essere compiuto solo con i sistemi di simboli veri e propri, tra cui il rito ed il sogno/visione.
    Anche se questa distinzione è un po' schematica, in quanto i sistemi simbolici utili nel secondo tratto lo sono anche nel primo e viceversa, essa serve a capire meglio la vocazione di ogni tipo di sistema simbolico.
    Questo fa dire che il «simbolo» più del segno apre all'uomo l'esperienza del religioso, che il rito più di un'assemblea estemporanea fa risuonare la relazione dell'uomo con il totalmente altro e, infine, che il sogno più del progetto dà all'uomo il possesso del senso della sua storia.

    I SISTEMI SIMBOLICI ODIERNI TRA SECOLARIZZAZIONE E MAGIA

    Oggi i sistemi simbolici che costituiscono l'esperienza del religioso sembrano oscillare tra due polarità estreme.

    L'orizzonte dell'utilità

    La prima è costituita, di fatto, dal rifiuto nell'esperienza religiosa di tutte le forme di significazione che trascendano l'orizzonte dell'utilità alla costruzione dell'umano .
    Si ritiene cioè che tutte le esperienze di comunicazione nell'ambito del religioso (riti, attività educative, preghiere, impegno sociale, ecc.) trovino il loro senso solo nella misura in cui servono all'uomo per fare se stesso, per autorealizzarsi secondo un progetto, anche cristiano. Questo significa che l'uomo di fronte ai fattori che sfuggono al suo controllo e che possono vanificare i suoi sforzi di autorealizzazione può, attraverso i sistemi simbolici tipici dell'esperienza religiosa, evadere da questa situazione di insicurezza e precarietà esistenziale, immergendosi in quella esperienza fondamentale del sacro, che sola può rigenerare e rifondare la sicurezza dell'azione umana nel mondo.
    In altre parole attraverso il rito, la preghiera, la meditazione, il sogno l'uomo si de-storifica; ma lo fa solo per poter salvare i valori della sua esistenza concreta minacciati da una situazione di crisi.
    L'esperienza a cui aprono, in questo caso, i sistemi simbolici, serve a far uscire la persona da una situazione di angoscia e di precarietà e a consentirle, quindi, di tornare a quelle attività di relazione sociale e di produzione necessarie alla autorealizzazione e alla partecipazione nella costruzione della società. La destoricizzazione è funzionale alla storicizzazione dell'esperienza umana.
    Di fatto in questa prospettiva non si riconosce all'esperienza religiosa, o del sacro, altra funzione che quella di essere utile a risolvere i problemi esistenziali che la cultura sociale non è in grado, o non lo è ancora, di risolvere.
    In questo caso i sistemi simbolici non servono a mettere l'uomo in relazione con il Totalmente Altro, ma solo a farlo dialogare con le strutture più intime della sua personalità e della cultura sociale che abita. Di fatto l'esperienza del sacro, che pure avviene, è totalmente sbilanciata a favore dell'esperienza profana. Sembra quasi che l'accesso al sacro che il rito, il simbolo o la preghiera realizzano, siano solo una necessità dovuta alla esistenza di personalità individuali umane e di culture sociali non ancora pienamente mature.

    L'orizzonte magico

    La seconda polarità si situa, naturalmente, all'estremo opposto e può essere definita magica.
    Essa parte dal presupposto che il profano, costituito dalla storia umana, è in sé inconsistente e perciò effimero e privo di un significato autentico per l'essere.
    Solo il tempo mitico, a cui l'esperienza del sacro consente di accedere, ha un valore per l'essere umano, e solo ciò che l'uomo vive al suo interno ha la consistenza della realtà.
    In questo contesto l'uomo religioso, di solito primitivo, vive nella storia ma non appartiene ad essa, pratica il profano e segue le leggi dell'utile, ma con il suo essere più profondo è cittadino del tempo mitico dell'esperienza del sacro.
    Un aspetto peculiare di questa concezione è che essa postula che il divino sia la struttura portante del mondo e, quindi, che le istituzioni umane non siano che manifestazioni di questi nell'ordine del mondo.
    I gesti culturali sono considerati semplicemente delle imitazioni di un modello esemplare, stabilito nel tempo favoloso degli inizi, dalla divinità. L'esperienza del sacro consente all'uomo religioso di accedere a questo tempo mitico degli inizi e di rivivere le azioni ed i gesti esemplari che hanno creato il mondo, l'uomo, la società e la cultura.
    Ogni azione umana è efficace ed ha valore solo se è una ripetizione dei gesti esemplari degli inizi. Se un utensile viene costruito, se un malato guarisce, è solo perché i gesti che hanno segnato l'azione del costruttore o del guaritore possedevano in sé l'energia della creazione originaria. In questo caso anche un'azione profana, come la costruzione di un utensile, è di fatto un gesto che è efficace solo se è rituale, quindi solo se si inserisce nell'orizzonte del sacro.
    In questa seconda concezione è la dimensione della vita quotidiana, del profano, ad essere inconsistente.

    Al di là della rimozione

    Ma perché porre questa concezione tipica di mentalità e culture umane primitive o arcaiche accanto all'altra?
    Noi viviamo, infatti, in una civiltà tecnologica che ha subito un profondo processo di secolarizzazione. La ragione di questa scelta è data dalla scoperta che nella nostra società il sacro cacciato dalla porta è rientrato dalla finestra, magari sotto forme di credenze astrologiche o magiche, di mitologie camuffate, di simbolismi e di riti degradati. In questo quadro il religioso assume il significato magico, perché induce a ritenere che il problema dell'esistenza umana sia risolvibile solo con l'ausilio del rito. Infatti attraverso il rito e le tecniche ad esso connesse l'uomo cerca di impadronirsi della potenza del sacro e di utilizzarla per realizzare la pienezza dell'essere. L'uomo attraverso la magia del rito vuole appropriarsi del potere che è alla base della sua esistenza, di quella della società e del mondo che abita.
    Questo tipo di intenzionalità è presente nelle divinazioni, nei riti magico-rituali, nelle interpretazioni simboliche della realtà e nella produzione di miti che caratterizzano parte della vita contemporanea.
    Qualcuno sostiene che questo ritorno del sacro magico avviene perché queste esperienze religiose ancestrali sono scritte nelle regioni più profonde della psiche umana e non sono facilmente cancellabili.
    Forse, come notano Acquaviva e Guizzardi, la ragione è un'altra, e cioè che la secolarizzazione radicale, che ha negato addirittura - in modo quasi ossessivo - ogni esperienza del sacro, «lungi dal facilitare l'acquisizione di una nuova validità della fede, sembra determinarne piuttosto la morte per asfissia. Una volta tolta di sotto i piedi dell'uomo tecnopolitano la buona terra del mistero, del linguaggio simbolico, della sensibilità per le piccole, grandi meraviglie quotidiane; una volta robotizzato a tal punto che lo spirito diventa apolide e rinchiuso nell'incomunicabilità fino all'alienazione dell'ego, in quale baratro precipita? Dove appoggerà la sua leva metafisica?».
    La rimozione radicale del sacro, quindi, ha prodotto nella nostra cultura sociale un ritorno di esperienze religiose primitive, o perlomeno segnate da profondi accenti pagani, quando non ha prodotto, addirittura, la prima posizione (quella della subordinazione del sacro al profano).
    È una ipotesi da verificare meglio, ma non sicuramente infondata a priori, il ritenere che entrambe le posizioni che si sono illustrate siano il frutto della secolarizzazione ossessiva.

    VERSO LA RISCOPERTA DEL «SANTO RELAZIONALE»

    Come uscire da questa bipolarità tra sacro asservito al profano e profano asservito al sacro, senza cedere alle lusinghe dell'abolizione del sacro che la secolarizzazione propone? Quali sistemi simbolici possono aiutare l'uomo ad articolare una risposta efficace a questo dilemma? La risposta è, per fortuna più semplice della domanda.
    La ragione di questa semplicità è nella costatazione che la risposta a queste domande è dentro il Padre Nostro, che essendo l'unica preghiera che Gesù ci ha insegnato, possiede una validità assoluta.
    Nel Padre Nostro, dopo aver riconosciuto l'enormità e la gratuità del dono con cui Dio ci ha fatti suoi figli e che non annulla la sua totale alterità, dopo avere riconosciuto la nostra finitezza e la nostra precarietà che può essere risolta solo nell'abbandono alla volontà di Dio che si manifesterà nella sua pienezza nel Regno, chiediamo a Dio di darci il nostro pane quotidiano.
    Nel Padre Nostro si ha la sintesi, non dialettica, del sacro e del profano, perché all'interno di una esperienza religiosa di preghiera (che è uscita dalla nostra finitudine spazio temporale) Dio ci autorizza a chiedergli che questa esperienza sacra abbia una ricaduta positiva per la nostra esistenza quotidiana.
    Tuttavia questa coesistenza tra sacro e profano non può avvenire solo per una sorta di accostamento o, peggio, di fusione delle due polarità. L'operazione è più complessa ed esige una profonda riformulazione della concezione del sacro e del suo rapporto con il profano.

    Alterità divina e bisogni umani

    In cosa consiste questa riformulazione del rapporto sacro/profano? In due semplici movimenti concettuali.
    Il primo è il rifiuto, coerente con l'intenzionalità purificatrice della secolarizzazione, del «sacro-pagano», di quella concezione cioè che vede nel sacro una realtà a parte, un in-sé che si oppone al profano (profanum = fuori dal luogo sacro) e portatore dell'unica consistenza della realtà e dell'essere.
    Il secondo movimento consiste nel recupero dell'originale nozione biblica di «Santo Relazionale». Secondo P. Vanzan il «Santo indica una relazione col Tutt'Altro o, rispettivamente, da cui esso viene investito ogni volta che il Santo lo irrora con la sua rugiada. Perciò, nella concezione biblica, il profano conserva tutta la consistenza della sua natura e la relazione che lo santifica non lo distrugge ma perfeziona sprigionandone tutte le inedite potenzialità. (...) Ancora, quando l'uomo si serve della natura per i suoi fini propri e la sottrae a una funzione sacro-pagana, la «dissacra», rispetto a una tale concezione, ma in forza dell'Incarnazione la cristifica. Il logos incarnato, portando a compimento l'opera del logos creatore, ha eliminato per sempre la divisione tra il sacro ed il profano e ha reso così chiara la realtà e la consistenza del creato».
    Questo significa che il riconoscimento dell'autonomia e della consistenza della realtà non deve condurre all'eliminazione della consapevolezza dell'«apertura» della stessa realtà al mistero del Tutt'Altro. Abolire l'esperienza del sacro-pagano-primitivo non significa abolire l'esperienza del sacro, ma solo liberare il vero sacro, quello di cui è scritto il linguaggio nelle più profonde regioni della psiche umana.

    Autonomia e impegno

    Questo doppio movimento consente alla fine anche la comprensione del senso più profondo delle cose e dello stesso mondo. Infatti l'esperienza del sacro come relazione con il Totalmente Altro, fa comprendere anche il ruolo dell'uomo in rapporto al profano, alla realtà del mondo che abita. Consente all'uomo, e qui è ancora il Padre Nostro che viene in aiuto, di realizzare se stesso, la propria vita, la società e la cultura, che abita sì nel segno dell'autonomia, ma all'interno però della volontà di Dio, che si esprime anche nel rispetto dell'ordine del creato.
    È l'esperienza del sacro che consente all'uomo di sottrarsi alla tentazione di Prometeo, che è un modo di dire il peccato originale; di capire, cioè, che la sua signoria sul mondo, sugli animali, le piante e le cose che lo abitano, non può prescindere dall'ordine che Dio ha posto in esso.
    Il disastro ecologico, ad esempio, è un segno della degenerazione prometeica della volontà di potenza umana. Di una concezione in cui la natura è desacralizzata e ridotta a materia priva di qualsiasi senso che non sia quello che pone in esso l'uomo con la sua azione. L'uomo, che pur giustamente ha desacralizzato la natura, deve comprendere, proprio attraverso la sua relazione con Dio, che essa ha una sua consistenza ed autonomia che si esprime in un senso ben definito. Il fare la volontà di Dio, senza cadere in tentazione, vuol dire che l'uomo deve interpretare e trasformare la natura rispettando l'ordine che è inscritto in essa.
    Questa concezione del sacro consente di dare un senso al lavoro umano, che è di cooperazione all'ordine della creazione e non solo una risposta più o meno coerente al suo personale progetto.
    Risacralizzare il lavoro ha questo senso profondo e non quello della sua trasformazione in un atto rituale che ripete, monotonamente, l'atto della creazione.
    Questa riscoperta del sacro, depurato però dalle sue valenze magico-pagane, vuol dire sottrarne l'esperienza alla funzione di conservazione dell'esistente, per farla divenire uno stimolo alla costruzione di una realtà che trova nella profezia la sua consistenza. Una profezia che indica che l'ordine del sociale nel mondo non è fissato una volta per tutte, in quanto esso non è la ripetizione del modello esemplare divino, ma che esso deve continuamente essere ricreato/rinnovato per renderlo, faticosamente e sempre imperfettamente, il più vicino possibile alla profezia del Regno.

    QUALI SISTEMI SIMBOLICI PER L'APERTURA AL TOTALMENTE ALTRO

    I sistemi simbolici che si inscrivono in una prospettiva quindi, di iniziazione cristiana sono quelli che rispettano da un lato la consistenza e l'autonomia della realtà umana e dall'altro pongono in relazione questa realtà con il mistero del radicalmente Altro.

    Iniziazione al segno

    Questa prospettiva dell'iniziazione cristiana significa, per prima cosa, che il linguaggio fondamentale dell'esistenza umana - la lingua - deve essere in grado di rinviare il giovane alla realtà. Deve consentirgli, cioè, la comprensione ed il possesso della natura e della cultura.
    Perché questo avvenga, è necessario che l'iniziazione dia «terra» alle parole, dia loro cioè quel significato che è sedimentato nella storia del loro uso sociale; e - nello stesso tempo - attraverso una esperienza autentica di interazione, consenta al giovane di costruirsi una esperienza di condivisione di questo significato con le altre persone che condividono con lui lo spazio naturale e culturale in cui abita.
    Di fronte alla perdita di significato del linguaggio, allo smarrimento della sua capacità di rinviare alla realtà, l'iniziazione cristiana deve porsi prioritariamente questo obiettivo. Tutti gli altri obiettivi riguardanti i sistemi simbolici non sono raggiungibili, se non si realizza questo che deve essere considerato fondante.

    Iniziazione al simbolo

    Accanto all'obiettivo di dar «terra» alle parole che formano la lingua, è necessario riscoprire il linguaggio del simbolo nelle sue varie espressioni che vanno dal rito, ai sogni, alle visioni.
    Innanzi tutto per rimanere all'interno della prospettiva del «Santo Relazionale», occorre superare la concezione che vede il simbolo come il veicolo che conduce dall'apparenza ingannevole del profano alla vera realtà del sacro. Questa concezione è quella che vede il simbolo come strumento dello svelamento della realtà nascosta, come tecnica magica di comprensione del vero significato dell'essere. Molto più semplicemente occorre comprendere che il simbolo va preso nel suo significato più genuino, che è quello di mettere insieme e di confrontare. Il simbolo, quindi, non va inteso come la negazione della realtà illusoria, ma invece come messa in relazione della realtà con il mistero del trascendente, come apertura della realtà al mistero che è oltre le sue porte e che la comprende.
    Il simbolo, quindi, va compreso non come il separatore del sacro dal profano, ma come il luogo del dialogo tra queste due realtà. Perché questo avvenga è necessario una iniziazione al simbolismo delle realtà naturali - luce, fuoco, acqua, ciclo delle stagioni, ecc. - vissuta all'interno di una esperienza forte di convivialità, di donazione e di riscoperta della solitudine come via all'interiorità. È cioè necessario un processo formativo articolato che sappia:
    - proporre la ricchezza della tradizione cristiana cumulata intorno queste realtà-simbolo;
    - far risuonare questi simboli all'interno di esperienze rituali forti;
    - stimolare la capacità di dialogo interiore con se stessi attraverso l'educazione al silenzio;
    - far vivere esperienze di solidarietà gratuita e di apertura incondizionata all'altro, al diverso da sé;
    - far vivere esperienze di espressione personale e di gruppo;
    - far vivere la festa come l'esperienza di un tempo in cui il tempo anticipa la felicità della pienezza dell'essere.
    Dopo questa c'è l'ultima iniziazione, forse più difficile, quella al sogno.
    Quella alla visione non si può indicare perché è un dono.

    Iniziazione al sogno

    Questa proposta di iniziazione al sogno a qualcuno potrà sembrare paradossale. Come è possibile, infatti, iniziare ad una attività tanto naturale, spontanea, incontrollata ed incontrollabile quale è il sogno? Per evitare questo possibile fraintendimento, è bene affermare subito che l'iniziazione al sogno non vuole proporsi tanto di intervenire sul sogno, quanto di aiutare il giovane ad utilizzarne meglio le potenzialità ed a rivalutarne la funzione nella sua vita quotidiana.
    Il sogno sin dalla antichità ha sempre goduto di una ampia considerazione, perché in esso l'uomo vedeva una fonte di aiuto sia a risolvere i minuti problemi della vita quotidiana, sia ad accedere ad alcune esperienze del sacro, tra cui la divinazione e la guarigione dalla malattia.
    Questo naturalmente valeva per i sogni non ingannevoli, per cui esistevano delle tecniche e dei metodi per distinguere questi da quelli ingannevoli.
    Anche nella Chiesa primitiva il sogno godeva di una elevata considerazione. Si riteneva, infatti, che il sogno, come la visione, fosse un dono di Dio e che segnasse il compimento di una chiamata, l'inizio di una missione o l'autenticazione delle tappe di un viaggio verso la santità. I sogni, almeno quelli di origine divina, manifestavano la loro autenticità ed il loro potere perché, attraverso la traduzione che nella sua vita quotidiana ne faceva il sognatore, essi si riverberavano sulla vita dell'intera comunità cristiana. I sogni richiedevano ed ottenevano quasi sempre una testimonianza di vita del sognatore: non erano, quindi, un fatto privato di quest'ultimo.
    Sempre nella Chiesa primitiva esisteva, vista l'importanza che si attribuiva al sogno, il timore che il demonio intervenisse in essi sviando e corrompendo il sognatore. Erano state elaborate allora varie procedure per controllare la bontà del sogno. Tuttavia il metodo più semplice si rifaceva al Vangelo di Matteo, prendendo da esso la regola già proposta da Gesù: «Dai loro frutti li riconoscerete».
    Bastava osservare il riverbero del sogno, attraverso la vita del sognatore, sulla comunità per capire se esso fosse un dono di Dio o un frutto del demonio.
    Anche se in forme meno chiare e limpide il sogno ha mantenuto in epoche successive il suo valore. Un esempio è il sogno di S. Anselmo in epoca medioevale, così come in tempi più moderni lo sono i sogni di S. Giovanni Bosco. Il sogno di S. Anselmo è esemplare per la sua semplicità, la sua trasparenza e l'immediata rilevanza che acquista per la vita del sognatore. Anselmo sogna di essere stato chiamato da Dio alla corte regale, in cima alla montagna. Avvicinandosi ai piedi della stessa, vide delle contadine al servizio del gran re occupate a mietere il grano, pigramente e svogliatamente. Egli ascese la montagna e trovò il re solo, con il siniscalco, e ne dedusse che tutti gli altri erano impegnati nel raccolto. Si avvicinò al re, gli si assise e gli venne chiesto da dove venisse e che cosa cercasse. Dopo che Anselmo ebbe risposto, Dio-il re gli fece portare dal siniscalco il pane più bianco che ci fosse e Anselmo subito lo mangiò.
    Il biografo di S. Anselmo, Eadmer, monaco benedettino di trent'anni più giovane del santo, che aveva vissuto con lui a Canterbury, raccontando questo sogno si limita a dire che, quando il giorno dopo S.Anselmo si svegliò, si sentì convinto da questo sogno e raccontò alla gente di essere stato in cielo e di essersi nutrito del pane di Dio.
    Questo racconto, la cui veridicità oltretutto è accertata dal fatto che lo stesso S. Anselmo ebbe modo di leggere la biografia di Eadmer, dimostra come l'esperienza del sogno fosse ritenuta reale quanto l'esistenza quotidiana da S. Anselmo e dai suoi contemporanei.
    I sogni di D. Bosco hanno la stessa semplice evidenza, solo che a differenza di quello di S. Anselmo possiedono un aspetto progettuale, una indicazione all'azione che influisce profondamente, e per tutta la vita, sulla avventura esistenziale del santo. Questi sogni, la cui realizzazione concreta avviene non il giorno dopo ma nel corso dell'intera esistenza del santo, dimostrano che essi hanno agito come una sorta di progetto che i gesti quotidiani di D. Bosco hanno cercato di realizzare.
    Questo tipo di sogno non è però una esclusiva dei santi e della dimensione religiosa dell'esistenza; esistono infatti anche esempi di sogni che hanno agito per orientare la produzione intellettuale di alcuni grandi filosofi e di alcuni grandi scienziati. Valga tra tanti l'esempio di C. G. Jung e di Descartes. Jung ha lavorato circa trent'anni per dare una forma compiuta ad una teoria che gli era stata suggerita da un sogno del 1927. Descartes, analogamente, nel triplice sogno fatto nella notte tra l'11 ed il 12 novembre 1619 ha ricevuto il chiarimento dei fattori che sono stati determinanti per lo sviluppo del suo metodo.
    Occorre costatare, invece, che ai nostri giorni, nella cultura della tecnopolis, il sogno è divenuto quasi esclusivamente un fatto psicologico, buono per il divano dell'analista, salvo naturalmente gli usi magici che ne ripropongono un'altra validità (divinazione, metempsicosi, ecc.).
    Il sogno può però ancora dire qualcosa all'uomo di oggi, anche al di fuori del tessuto magico superstizioso, purché se ne recuperi la vera funzione. Il sogno va compreso infatti non come fuga dalla realtà, come mondo totalmente separato dallo spazio-tempo in cui l'uomo declina la sua esistenza, ma come mediatore tra la realtà ed il mondo dei valori, delle idee e dei progetti. Il sogno come elemento di unione, di passaggio tra la realtà astratta dei concetti e dell'immaginario e la vita quotidiana. Il sogno, come azione che dà forma, trasformandolo, al mondo del reale. Solo chi sogna riesce a tradurre in realtà i propri progetti di vita, le proprie idee ed i propri valori.
    I Santi hanno sognato e sono stati fedeli ai propri sogni.
    Tuttavia, perché il sogno possa svolgere realmente questa azione di mediazione, è necessario che esso - come facevano i primi cristiani - si riverberi nella vita sociale attraverso la testimonianza esistenziale del sognatore.
    Il sognatore vero lo si vede non dal racconto dei suoi sogni, ma dalle opere che raccontano i suoi sogni.
    Educare al sogno è, quindi, abituare il giovane al coraggio della fedeltà all'utopia radicale della propria fede, è dare spazio alla molla potente del suo desiderio di futuro, è infine abilitarlo a confrontare i suoi sogni con il suo quotidiano. Se si riesce a far entrare il giovane in questo atteggiamento verso il sogno, egli cambierà anche i propri sogni che diventeranno sempre di più il luogo in cui la realtà del mondo si apre all'esperienza della relazione con il sacro. Nessuno può insegnare a sognare, eppure si può imparare a sognare.


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