Passeggiate nel mondo contemporaneo /2
Provocazioni e indicazioni per la pastorale giovanile
Domenico Cravero
(NPG 2021-06-56)
Le riflessioni sono ispirate al libro di G. Todeschini, Ricchezza francescana (Il Mulino Bologna 2004).
Giovani senza
Economia dei big data, internet delle cose, automazione spinta stanno ridisegnando industria e mercato. Non ritornerà più il lavoro di prima, anche se il futuro rimane l’industria e le nuove professionalità che si stanno creando. La sensazione di essere derubati del proprio futuro, la preclusione dell’avvenire, può avere effetti a lungo termine. La chiusura della temporalità sopprime la progettualità.
Le nuove generazioni hanno perso consistenza numerica e si sentono sempre meno protagoniste della società che abitano. La dispersione del contributo dei giovani è una gelata precoce dei loro sogni di vita e una perdita drammatica per il paese. Un crescente numero di giovani vive nell’inazione, una condizione drammatica e degenerativa. Il disincanto scuote le fondamenta stesse dell’identità personale, fino a trascinarli in uno stato d’insicurezza profonda che rasenta la disperazione. Nella protesta muta (l’ansia, la depressione, le dipendenze) ci si ritira dalla società. La generalizzazione della disperazione irreparabile forma il nucleo centrale della sindrome depressiva fino alla malattia mentale. I giovani colgono che solo attraverso il lavoro e la professione si può accedere a una condizione di identità riconosciuta. Le forme di dipendenza (non solo l'abuso di sostanze chimiche) segnano il fallimento dell'agire protagonista e compromettono l'apporto insostituibile dei giovani nella costruzione della società.
Del lavoro si è perso anche il senso e la motivazione. Oggi ci troviamo immersi in situazioni così critiche da mettere in discussione sicurezza, fiducia, autostima e prospettive future.
C’è molto da fare e anche da sognare. Per questo ci vogliono i giovani.
La creatività giovanile però non si è spenta. Le nuove generazioni inventano nuovi margini di autonomia; se la competizione e il confronto procurano ansia e affanno, escogitano nuove forme di fantasia, avventura e creatività. Nella loro socializzazione hanno come l'impressione di sospendere il tempo, o almeno, di inventare qualcosa di diverso.
Occorre però invertire la linea del tempo: non esaurirsi nel presente, pensarsi nel futuro, con una determinazione tale da renderlo praticabile.
Il lavoro del futuro nasce adesso
Nella società ipermoderna nessuno è più precario del disoccupato, anche quando avesse un po’ di pane assicurato. Perché non manchi il cibo, la casa e il vestito, perché la vita non sia inumana, perché ci sia futuro, ci vuole il lavoro. Un’opera di misericordia oggi prioritaria sarebbe quindi “donare il lavoro”. Non solo “dare lavoro”, cosa che pochi oggi possono fare, ma innanzitutto “donarlo”, che è una responsabilità di tutti. Si è creata, infatti, una situazione sociale che prima ancora di deteriorare l’economia ha svalutato il lavoro. Fino agli anni ’90 si è continuato a vivere sopra le righe, si è tardato a percepire l’incongruenza di un preconcetto di libertà senza limiti. È avvenuto un lungo doping emozionale che ha fiaccato tutti. I giovani oggi sono più poveri, dipendenti dalle famiglie, immobili, smarriti. È indispensabile un’azione congiunta per lo sviluppo delle capacità creative delle nuove generazioni.
Il libro di G. Todeschini Ricchezza francescana illustra in modo convincente quanto i moventi ideali, spinti alla più radicale coerenza, possano imprimere alla storia delle svolte che il pensiero razionale mai riuscirebbe a prevedere e a immaginare.
Un illuminante paradosso storico
Il movimento francescano, fondato su un carisma dove la povertà e il distacco dal denaro erano formulati nel modo più estremo, ebbe un esito sorprendente e paradossale. Frati e laici convinti dalla loro predicazione, si avvicinarono alla ricchezza che avevano abbandonato per rileggerla da poveri radicali, come materia umane e attività (il commercio medioevale) di cui era importante capirne il valore sociale e storico. Leggere, scrivere e fare i conti, comprendere le attività economiche, imparare a tenere nota delle pratiche amministrative, stavano diventando, per la giustizia e la carità, compiti importanti come pregare e predicare l’evangelo. In una città animata da commercianti e imprenditori, l’azione economica s’imponeva con la sua potenza emergente. Il momento richiedeva una svolta concettuale e politica, dove la fede cristiana poteva essere sale e lievito. Fede e vita della città non erano confuse ma neppure separate. Essere giusti e precisi nell’amministrazione era il primo dovere, perché dove non c’è precisione e trasparenza, trasgredire moralmente con il denaro è un esito prevedibile.
Occorreva imparare a definire il prezzo delle merci secondo regole giuste, per fare del mercato una comunità cristiana e una socialità condivisa. Diventava essenziale definire la nozione di mancanza per stabilire che cosa servisse, che cosa fosse effettivamente necessario e per quanto tempo. Nulla doveva essere sprecato delle cose preziose, utili e rare. Esse non devono mancare agli indigenti né ammassarsi nelle case di pochi ricchi.
Bisognava capire come definire il valore d’uso dei beni necessari alla vita. Il valore dipende dalla scelta del loro uso. Il principio socialmente fondante della valutazione delle cose è il bisogno. Etico e socialmente sensato sono il desiderio e l’uso delle cose per soddisfare necessità di cui si conoscono significato e valore. Non è però sempre necessario possederle. Di molte cose può possono godere le qualità, senza bisogno di appropriarsene, come non ci si impossessa del viaggiare o dello studiare.
La povertà dei frati e la capacità amministrativa dei vescovi diventavano modelli di riferimento morale. Essi erano guide spirituali ma anche riferimenti politici. La base spirituale ed economica rimaneva però la virtù della povertà. Lusso e ricchezze fine a se stesse erano considerate un oltraggio al popolo. Risultava però difficile determinare oggettivamente la materia, considerare le circostanze, le occasioni, le esigenze, le necessità sociali. Stimare i confini del bisogno esige impegno costante, comprensione delle differenze. La definizione giuridicamente puntuale della povertà richiede intelligenza, credibilità, immersione esistenziale e quotidiana nella vita delle città, nelle comunità di fede. La compravendita di somme di denaro per avviare attività economiche sono forme di usura? Come si stabilisce il giusto prezzo? Qual è l’uso appropriato, pubblicamente utile, dei patrimoni utilizzati? Le risposte richiedono abilità e competenza ma comportano anche rischio e richiedono prudenza e capacità in una vita difficile e faticosa. Un mercato equilibrato richiede figure amministrative nuove come il mercator: importatore, banchiere imprenditore. La sua credibilità ne fa un maestro di economia pratica. La sua abilità di artigiano nel calcolare prezzi e valore delle cose richiede intelligenza, impegno, attenzione.
La gratuità della fiducia, risorsa economica essenziale
La buona reputazione fa del mercante una professione preziosa e rara. Prende forma un vero e proprio gusto del calcolo, della valutazione e dell’analisi. La ricchezza di chi commercia può così valere come la povertà dei frati. I veri mercanti devono però essere riconosciuti dal pubblico e distinti dagli usurai per la competenza nel valutare, l’affidabilità etica e la correttezza amministrativa. La garanzia della correttezza sta nel riconoscimento della buona fede e del primato del bene comune (l’utilità pubblica). Solo la fiducia fa del denaro un capitale produttivo, dove importante non è accumulare ma distribuire. Il mercante è il gestore di una ricchezza collettiva: i suoi comportamenti non contraddicono quelli etici e religiosi. È sempre il bene di Cristo che deve prevalere: procurare pane ai poveri, infatti, è servire Lui! Nel mercante c’è qualcosa di virtuoso ed eroicamente civico che ne fa un interlocutore dei poveri di Cristo.
L’incertezza dei guadagni, l’instabilità dei mercati, la provvisorietà dei profitti rendevano i mercanti ricchi e poveri insieme. Nessuna falsa sicurezza nel denaro: il ricco può trovarsi improvvisamente povero. Commerciare appariva una forma essenziale e legale della socialità. I mercanti erano esperti di relazioni economiche e di valori insieme. La scelta di povertà si esplicitava nell’uso regolato e consapevole dei beni. Scoprire la logica di mercato come chiave di volta della socialità cristiana. L’evangelizzazione si confrontava necessariamente con l’organizzazione quotidiana della comunità economica e politica.
L’analisi francescana delle tecniche d’uso della ricchezza, come vita cristiana dei laici, avvicinava i poveri per scelta agli amministratori giusti. Privato e pubblico non potevano contrapporsi. Appariva così tutta la malvagità dell’usura e della corruzione: una rottura violenta delle relazioni tra persone nel mercato. All’opposto si riconosceva la produttività del denaro gestito da istituzioni di pubblica utilità. I frati economisti definivano il ruolo pubblico del mercante e il significato dell’investimento in titoli di credito. I temi della giustificazione della proprietà privata, dell'etica del commercio si affiancano a quelli che riguardavano la figura dell'imprenditore e difendevano il lavoro onesto. L’amministratore giusto fornisce servizi utilissimi a tutta la società: ridistribuisce i beni, limitando i danni di eventuali carestie, trasforma in prodotti lavorati le materie altrimenti grezze e inutili. Per essere onesto, sostiene san Bernardino, l'imprenditore dev'essere dotato di quattro grandi virtù: efficienza, responsabilità, laboriosità, assunzione del rischio. La risorsa più importante è il suo buon nome, garanzia di correttezza e onestà. La fiducia, bene gratuito, è infatti l’anima dell’economia. Un bene immateriale, la giusta stima, che non può essere acquistata ma solo donata, fonda la scienza più materiale: l’economia. Fede religiosa e credibilità economica si presuppongono reciprocamente; il popolo lo riconosce immediatamente. Il risultato di questa felice combinazione si poteva osservare nel valore attribuito a ogni creatura, nel riconoscimento dell’amicizia come terreno fecondo dell’economia e della solidarietà basate sulla pratica dell’inclusione.
I principi ispiratori dell’attuale economia civile sono già riconoscibili fin dal tardo medioevo.
Anima e garanzia della socialità è l’affidabilità dell’imprenditore, la cui qualità consiste nel combinare in equilibrio profitto individuale, bene comune e virtù morale. Chi non sa gestire con correttezza e competenza le proprie risorse, piuttosto che indebitarsi, meglio fallisca in modo che rimetta in circolo i beni.
Tre secoli di predicazione sulla povertà evangelica, di riflessione sulla scelta dei poveri, di ricerca sull’uso transitorio e cristiano delle cose crearono un vasto movimento europeo di cattedre universitarie, di costante discernimento delle coscienze nei confessionali, di leggi e costumi, sulla giusta amministrazione delle cose preziose, utili e rare. Francesco d’Assisi, testimone della radicalità cristiana della povertà, aveva catalizzato e razionalizzato le tensioni di un mondo in trasformazione su un’indicazione ben difficile da normare e da realizzare: pensare la vita come ciò di cui non si dà mai proprietà ma solo un uso comune[1]
Quella straordinaria sintesi di terra e di cielo, di lavoro indefesso e di bene comune durò fino a quando si sfaldò la cristianità e la ricchezza delle nazioni fu fondata su tutt’altri valori.
Il paradosso delle povertà oggi
La governance aziendale non può essere affidata alla solo correttezza dei calcoli e al controllo dell’evasione fiscale. Il nemico della trasparenza va ricercato nella frattura drammatica che si è consumata con lo sviluppo industriale tra lavoro e affetti. La scomparsa dell’amicizia (philia) nell’impresa e tra le imprese ha reso evidente che senza fiducia l’economia si arresta e la vitalità dei mercati si estingue. Senza philia (che in questo contesto si può tradurre con “solidarietà”) tra i lavoratori di un’impresa, rimane solo la motivazione economica individuale. La tentazione della corruzione, il mito della carriera e la pratica degli incentivi trovano terreno fertile nel deserto relazionale e nello spirito competitivo. La debolezza amministrativa rende l’impresa più vulnerabile, particolarmente nelle economie a movente ideale che mettono la loro identità e loro forza nella pratica della giustizia.
La giusta governance è un’applicazione dell’etica della cura. Si esercita nell’arte di ascoltare, formare e responsabilizzare persone motivate e responsabili, preoccupate della qualità valoriale della loro impresa. La trasparenza amministrativa aiuta il responsabile e vedersi con gli occhi dei dipendenti. Ricevere cura è condizione necessaria affinché si dischiudano le possibilità di crescita e l’eventuale protesta (Voice) diventi un’alternativa alla demotivazione e all’abbandono (Exit). Esiste un diritto di sfogo che richiede che ai lavoratori sia dedicato tempo per l’ascolto. Efficacia di un colloquio non è solo trovare risposte ma, prima ancora, esprimere disagio. Nella trasparenza e nella philia l’impresa diventa anche comunità, dove crescono fiducia, affidamento e legalità (Loyalty).[2]
La qualità motivazionale dei dirigenti e il movente ideale dell’organizzazione dipendono molto dalla trasparenza dell’amministrazione e dalla sua giustizia. Le persone (operatori e clienti) più interessati alla qualità e alla giustizia sono i primi a protestare quando osservano un deterioramento della trasparenza. Sono anche i primi ad assumersi responsabilità e compiti per il bene comune e a contribuire nei momenti difficili.
Prendersi cura significa essere attenti, preoccuparsi e passare all’azione nelle situazioni problematiche.
Il segreto della giusta governance è introdurre costantemente un criterio terzo nel rapporto con le persone e nel confronto con i problemi: la giustizia. In questo modo si sottrae l’impresa a una visione esclusivamente diadica (gli obiettivi della produzione, i vincoli del mercato, il movente ideale al servizio degli svantaggiati o dei poveri). Senza un criterio terzo si rischia di restare catturati nell’immediatezza perdendo il valore che rende un’amministrazione efficace ed efficiente.
Il mio posto nel mondo attraverso il lavoro
Nella drammatica condizione dell’inazione, prevale la sensazione che il futuro non possa iniziare. La giovinezza è defraudata del suo sogno. È ridotta alla combinazione, sempre problematica, di realismo e fantasia (perché mancano i grandi sogni), di ragione e desiderio (i giovani sono sensibili E intelligenti e non smettono di interrogarsi) nel tentativo, troppo fragile, di prendere le distanze da quello che c'è (perché visibilmente riduttivo e insoddisfacente), con la paura che il futuro non possa iniziare (perché troppo difficile).
Per reagire a questa situazione è indispensabile un’azione sociale concertata, che non solo crei opportunità di lavoro ma anche ne restituisca il senso e ne rigeneri le motivazioni. Il problema non è solo economico. I giovani acquisiscono la loro identità e sono pronti ad assumersi le loro responsabilità adulte quando riescono a individuare un progetto, una speranza cui riferire le proprie azioni. I giovani non smettono di porre domande su se stessi, sulle relazioni con gli altri, sul loro posto in società, sul futuro, sul senso del morire e del vivere. Hanno bisogno, a volte, di fermare il tempo per riflettere, per ragionare sulle proprie possibilità e trasformarle in progetto. Cogliere queste tracce di speranza potenzialmente emergenti oggi nelle forme confuse dell'autorealizzazione è compito del riconoscimento operato dal diritto e dalla stima sociale, della giustizia e della solidarietà sociale. Ci vuole dunque un’economia della speranza[3] che creda nella forza delle motivazioni ideali e di una saggia spiritualità dei paradossi umani che ci rassicura sulla irriducibilità nostra ai giochi del calcolo e al potere della società automatica (B. Stiegler).
NOTE
[1] Cfr. G. Agamben, Altissima povertà, Neri Pozza (2011).
[2] Exit, Voice e Loyalty è un trattato scritto da Albert O. Hirschman.
[3] Cfr. il mio Economia della Speranza, Ecra, Roma, 2019.