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    Ciò che rende credibile un educatore


    Ernesto Diaco *

    (NPG 2023-03-47)


     

    È trascorso un intero secolo da quando, negli anni Venti del Novecento, Romano Guardini assumeva la guida del movimento giovanile Quickborn (fonte viva), facendo del castello di Rothenfels sul Meno, nel centro della Germania, un laboratorio di sperimentazione pedagogica, liturgica e artistica. Nonostante la distanza che ci separa da allora, il pensiero educativo maturato in quegli anni dal giovane teologo, a stretto contatto con la vita dei giovani e con i fermenti che animavano l’Europa del primo dopoguerra, resta di avvincente attualità.
    Sono del 1928, ad esempio, le sei introduzioni preparate per un raduno di educatori e insegnanti a Rothenfels, raccolte e pubblicate in italiano con il titolo La credibilità dell’educatore[1]. Si tratta di riflessioni poste in apertura dei lavori quotidiani, dedicati a “percorsi e mete” del compito educativo. Il taglio è semplice e colloquiale, ma la proposta si indirizza decisa verso gli aspetti più essenziali e profondi.
    Chiunque voglia educare – esordisce Guardini – si trova a fare i conti abbastanza presto con un interrogativo: da dove gli viene la possibilità (e il diritto) di educare un’altra persona? Come si può cercare di orientare qualcuno verso la sua realizzazione? Certo non basta riconoscersi ‘già educati’ per assumere una responsabilità nella crescita altrui: un uomo che pensasse così “non avrebbe compreso che noi non possiamo mai considerarci ‘a posto’, ma cresciamo e diveniamo continuamente. Sarebbe più giusta un’altra risposta: perché io stesso lotto per essere educato. Questa lotta mi conferisce credibilità come educatore; per il fatto che lo sguardo medesimo che si volge all’altra persona insieme è rivolto anche su di me”[2].
    È la cura di sé, senza trascurare nessuno degli aspetti che compongono la propria personalità, che permette di potersi prendere cura anche di altri. Poiché educare significa aiutare una persona a “conquistare la libertà sua propria”, non basta avvalersi di discorsi, stimoli o “metodi d’ogni genere”. “La vita – spiega Guardini – viene destata e accesa solo dalla vita. La più potente ‘forza di educazione’ consiste nel fatto che io stesso in prima persona mi protendo in avanti e mi affatico a crescere… È proprio il fatto che io lotti per migliorarmi ciò che dà credibilità alla mia sollecitudine pedagogica per l’altro… Siamo credibili solo nella misura in cui ci rendiamo conto che un’identica verifica etica attende me, e colui che deve essere educato. Innanzitutto, vogliamo entrambi diventare ciò che dobbiamo essere”[3].

    Una sana inquietudine

    Alla base dell’opera educativa – e non solo all’inizio, ma lungo tutta la sua durata – sta dunque una sana inquietudine, che consente di non sentirsi mai ‘arrivati’ senza per questo cadere preda del senso di incapacità e di insoddisfazione. Il fatto di riconoscersi “figure incompiute, soltanto abbozzate”, paradossalmente, è una risorsa necessaria ed efficace per l’educatore, che può avvicinarsi agli altri in maniera dignitosa e affidabile solo se sinceramente convinto di dover (e poter) in primo luogo educare se stesso. Due sono i pericoli che possono minacciare tale atteggiamento costruttivo: la presunzione di credersi infallibili e la disperazione di chi, davanti alle cadute e agli insuccessi, getta la spugna e rinuncia a educare.
    Ma questo lavoro su se stesso come avviene? In primo luogo – risponde Guardini – serve il “dono del discernimento” di ciò che si muove nel nostro intimo. Dentro di noi convivono bene e male; vanno portati in superficie, nella lucidità della coscienza.
    Vi è poi una seconda via, che egli definisce “esercizio”. Si tratta di scegliere ciò che porta la vita fuori dal caos e le dà ordine, inscrivendolo gradualmente “nelle fibre vive del nostro essere. Allora, l’esercizio ha raggiunto il suo scopo: la virtù. Virtù è ciò in cui ‘valgo’; in cui sono ‘attivo’ e ‘uno’ con me stesso”[4].
    Questa unità interiore è frutto di un’opera paziente e costante che conduce al possesso di sé, in un piano profondo dell’esistenza, dove verità e amore coincidono. Educazione, dirà più avanti, “significa rafforzare tutto ciò che ha influsso benefico sulla persona e combattere ciò che è causa della sua distruzione”[5]. L’educatore credibile è quello che non attende i giovani al termine della strada che ha loro indicato, ma colui che la percorre con loro.

    Conoscere e accettare se stessi

    Se c’è un’esperienza che l’educatore non tarda a fare è quella dei propri limiti. Senza ingrandirli oltre misura – potrebbe essere una comoda via di fuga – occorre essere sinceri con se stessi e con gli altri, così che il proprio volto, il volto dell’educatore, non finisca per ridursi a una maschera. Accettare se stessi è l’unico modo per “rimanere” nelle relazioni educative anche quando si fanno particolarmente difficili ed esigenti. Senza uno spazio in cui stare bene con se stessi, non è possibile alcun rapporto autentico con gli altri.
    Conoscere e accettare se stessi è un cammino lungo e difficile. Romano Guardini – in un altro scritto debitore agli anni del Quickborn – lo paragona al viaggio di Dante nell’oltretomba, che egli considera un’opera interiore e spirituale, dunque educativa, oltre che letteraria. Un percorso in cui “al viaggiatore viene rivelato il mistero di Cristo, attraverso il quale la nostra essenza umana viene accolta nell’esistenza del Figlio di Dio. Egli allora non solo comprende ciò che sta al di là d’ogni realtà terrena, bensì anche se stesso”[6].
    Per il teologo italo-tedesco, una persona non può comprendere se stessa solo a partire da sé. Agli interrogativi sulla propria identità ed esistenza, non si può dare risposta prendendo le mosse dalla propria natura. Risposta ad essi la dà solo Dio. La via puramente etica o psicologica non bastano: per accettare davvero se stessi occorre entrare nel campo della fede, dove cogliamo che “l’uomo non viene dalla natura, bensì dalla conoscenza e dall’amore, il che però significa dalla responsabilità del Dio vivente”[7]. Scoprire di essere dati a noi stessi porta a guadagnare il rispetto di sé, perché “Dio ha questo rispetto”[8].
    In questo movimento, conoscersi e accettarsi stanno in un rapporto di stretta reciprocità: l’una cosa presuppone l’altra. Ed entrambi sono possibili unicamente nell’amore. “C’è sapere solo dove c’è amore”. L’uomo si conosce e si accetta “solo in quella magnanimità e libertà che si chiama amore. Ma l’amore ha inizio in Dio: nel fatto ch’Egli mi ama e che io divengo capace d’amarlo; e che Gli sono grato per il suo primo dono che m’ha fatto, ossia: me stesso”[9].

     

    * Direttore dell’Ufficio Nazionale per l’educazione, la scuola e l’università della CEI e responsabile del Servizio Nazionale per l’insegnamento della religione cattolica della CEI.

     

    NOTE

    [1] R. Guardini, La credibilità dell’educatore, in Id., Persona e Libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, La Scuola, Brescia 1987, pp. 221-236.
    [2] Ivi, p. 222.
    [3] Ivi, pp. 222-223.
    [4] Ivi, p. 228.
    [5] Ivi, p. 235.
    [6] R. Guardini, Accettare se stessi, Morcelliana, Brescia 1992, p. 29.
    [7] Ivi, p. 24.
    [8] Ivi, p. 25.
    [9] Ivi, p. 30.


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