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    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2008-03-28)

    Andate a chiederlo ai poeti...
    (Sigmund Freud)

    Esiste una ragione poetica: all’interno di ogni narrazione poetica, di ogni poema, di ogni romanzo, è presente un principio d’ordine che sottrae la ragione poetica alla critica di essere inconcludente e solo sregolata: chiamiamo mythos ciò che fornisce il contesto alla poesia.
    Mythos si potrebbe tradurre impropriamente come intrigo o fabula, e costituisce una funzione d’ordine all’interno della quale la parola poetica si colloca quasi come apportatrice di disordine e di dinamismo: scrivere poesie è portare caos nell’ordine, inventare un ordine per poi scardinarlo, graffiarlo, spettinarlo.
    La faccia materiale del mythos è la lexis, che esteriorizza l’ordine interno del mythos: si tratta della poesia che ascoltiamo recitare («A Silvia)», del racconto che leggiamo, dello spettacolo teatrale che viene messo in scena; la materialità della narrazione è importante e viene spesso ignorata da un’estetica astratta e concettualistica che si concentra esclusivamente sul «messaggio»; non c’è messaggio senza un medium (e la frase ormai diventata slogan «il medium è il messaggio» ha senso se si comprende che ogni medium esteriorizza un principio d’ordine che gli è immanente).

    Il principio d’ordine

    La narrazione è allora un modo per comunicare ed esteriorizzare alcune nuove e inedite categorie di ordinamento del reale, e anche nelle narrazioni che apparentemente fluiscono in modo anarchico è possibile scorgere quel principio. Certo, c’è modo e modo di ordinare, di porre ordine nel reale, di narrare un ordine che si porta dentro di sé: e le perfette costruzioni geometriche di certi racconti di H.P. Lovecraft sono lontanissime da un Finnegan’s Wake: ma in entrambi i casi la materialità della narrazione porta ad esistenza (e dunque concretizza) un ordine interno; in uno stream of consciousness joyciano c’è dell’ordine, e forse quella estetico/narrativa è una delle poche accezioni del termine «ordine» che non richiama la repressione o l’irreggimentazione.[1]
    C’è allora un ordine della narrazione che non soffoca le energie positive della metafora e della poesia, ma semmai provvede loro un contesto vitale; la dialettica tra scoprire e inventare un possibile ordine nel reale (uno possibile, non l’ordine unico e definitivo) non è mai risolta a favore di uno dei due poli. Non possiamo dire mai con certezza se la ginestra leopardiana sia stata scoperta e attendesse il poeta per poter parlare attraverso lui, oppure sia una invenzione che letteralmente ha messo al mondo qualcosa di nuovo; la verità sta nella tensione tra questi due poli: così come è inesauribile e non risolvibile la tensione tra la precarietà dell’ordine scoperto/inventato (una lieve metafora poetica che dà luogo a un mondo che vive solo nella fantasia e che potrebbe morire con il suo autore) e la solidità (anche materiale: il foglio stampato, il libro, il cd-rom) della narrazione come esteriorizzazione di quell’ordine.
    Proprio nella esistenza del principio d’ordine però sta la differenza tra narrazione e libera associazione, e tra poeta e semplice giocoliere di parole; e proprio per la difficoltà e la delicatezza di questa operazione, la poesia (nel senso più ampio del termine) ha bisogno di mestiere, ed è per questo che ad esempio i bambini non sono poeti anche se scrivono qualcosa di simile alle poesie.
    In questi tempi di spontaneismo imperante questa affermazione potrà non piacere: ma la creazione artistica è legata all’esplosione dell’intuito solo in pochi casi, e quasi sempre ha bisogno, anche in quei casi, della mediazione del «mestiere». Un poeta, un pittore, un romanziere possono avere una intuizione infantile di un nuovo principio d’ordine (o di disordine), ma nel momento in cui si mettono a mediare con le dimensioni reali e materiali per esteriorizzare quel principio necessitano di una capacità adulta di trattare i materiali. In questo il genio è mediazione tra infanzia ed età adulta, intuizione e mestiere, anarchia e nuovo ordine.

    La fragilità del principio

    Ma la poesia è fragile. La precarietà del nuovo ordine che la poesia immette nel mondo (ancora una volta: uno dei tanti ordini possibili, mai quello definitivo) è un arduo bilanciamento tra il tentativo di dire le cose e la consapevolezza che mai nessuna parola le potrà dire del tutto, perchè «ci sono più cose in cielo e in terra, o Orazio, che nella tua filosofia» (Shakespeare).
    È la mimesis a tradurre in realtà il nuovo ordine ipotizzato dal mythos; la mimesis è allora il vero motore della poesia. Siamo abituati a tradurre il termine mimesis con «imitazione», ma si tratta di traduzione riduttiva: la mimesis presuppone un «fare», un poiein che va al di là della semplice reduplicazione del reale: potremmo chiamarla una «imitazione che esalta».[2]
    Vi è allora una duplice tensione nella mimesis: è la dialettica tra assoggettamento alla realtà (in fin dei conti ogni poesia ha bisogno della carta per essere vergata, ogni dramma ha bisogno di un teatro e di una scena, ecc.) e invenzione immaginifica: è quando questa tensione viene meno che la mimesis si riduce ad ornamento e la metafora a sostituzione.
    La poesia ri-descrive dunque il reale, fingendo di imitarlo, ma in realtà strizzando l’occhio a una inedita forma di categorizzazione; in questo senso essa assomiglia al peculiare movimento della natura intesa come physis: anche questa non è solamente un fare, ma uno schiudersi, uno sbocciare, uno smuoversi interiore che al limite non prevede soggetto umano. C’è dunque uno strano rapporto di parallelismo senza contatto tra phyhis e poiesis: la poiesis è il tentativo umano di imitare (non reduplicandolo, ma esaltandolo per mimesis) il movimento interno della natura rendendolo però esterno in un «prodotto», una lexis.
    La metafora poetica dunque non torna a far coincidere parola e cosa, non annulla la Spaltung, la frattura tra linguaggio e realtà, ma fa come vibrare il mondo della parola sulla stessa lunghezza d’onda delle vibrazioni della realtà. Come quando due strumenti a corde si mettono a vibrare sulla stessa nota perché soltanto uno dei due è stato sfiorato da una mano esperta, così la mimesis poetica innalza un essere dal mondo della realtà al mondo fittizio del mythos, senza peraltro toccare l’essere stesso, né reduplicandolo, ma ri-descrivendolo.
    In questo la poesia è gioco: meglio, è gioco infantile reso consapevole di se stesso nel gioco adulto, gioco serio nel quale si riflette tutta la serietà del gioco dei bambini: «maturità è ritrovare da adulti la serietà che da bambini si metteva nel gioco» (Nietzsche).
    Per l’adulto, sarà allora necessario «sbirciare» delicatamente e con pudore queste nuove costellazioni oggettuali create dalla poesia, come secondo Benjamin occorreva fare quando si sfogliavano i libri per l’infanzia:[3] solo a uno sguardo obliquo, indiretto, mediato, che cerchi di ricostruire i rapporti segreti tra gli oggetti «le cose indigenti, misere, spregiate, distolte dal loro fine»[4] possono mostrare i loro lati in ombra e le loro celate corrispondenze, possono trasformarsi in metafore di altro da sé, anche del totalmente-Altro, come per il piccolo Benjamin accadeva per le calze arrotolate negli armadi,[5] o per il «rovescio del foglio» su cui la madre lavorava ad aghi, che svelava figure inedite e «sempre più aggrovigliate».[6]
    Imparando a giocare con le metafore e con la poesia come con il più serio dei giochi, cercando di dare uno spessore alla materialità poetica che da sempre anima i bambini nel gioco, osservando i rovesci delle cose, guardando la realtà da un peculiare punto di vista, sottratto per un soffio al cerchio magico dell’esistente, anche per l’adulto si schiudono tracce d’Utopia: «soltanto i nascondigli dell’infanzia, i recessi bui delle scale, ospitano la speranza. La resurrezione dei morti dovrebbe avvenire in un cimitero di automobili».[7] È a partire da questa raffinata speranza che la poesia potrà finalmente iniziare il lungo e periglioso viaggio di ritorno dal suo secolare esilio.

     
    NOTE

    [1] Lo aveva notato Herbert Marcuse a proposito di un verso di Baudelaire: «Là, tout n’est qui ordre et beauté/Luxe, calme, et volupté», cf Herbert Marcuse, Eros e Civiltà, Torino, Einaudi, 1967, pag. 187.

    [2] Paul Ricoeur, La metafora viva, Jaca book, 1989, pag. 55.2) Paul Ricoeur, La metafora viva, Jaca book, 1989, pag. 55.

    [3] Walter Beniamin, Orbis Pictus, Milano, Emme, 1981, pag. 43. 51.

    [4] Theodor Adorno, Note per la letteratura, vol.I, Torino, Einaudi, 1979.

    [5] Walter Benjamin, Infanzia berlinese, Torino, Einaudi, 1973 pag. 90.

    [6] Ivi, pag.104.

    [7] Theodor Adorno, Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Torino, Einaudi, 1972, pag. 281.


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