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    1. Individuo vs comunità

    Uno sguardo culturale su società e giovani


    I giovani sono i figli della cultura sociale che abitano e in cui sono nati e sono stati educati. Il loro essere nel mondo, al di là delle singolarità che ognuno di essi esprime e di quelle introdotte dalla sottocultura giovanile, è plasmato con i materiali offerti dalla cultura sociale. Uno di questi materiali è costituito da quella che Bauman definisce come «liquefazione dei legami comunitari» e che è alla base dell’attuale ipertrofia del soggetto nel dominio della vita sociale.

    COMUNITÀ, TERRITORIO, GIOVANI

    La comunità, nelle sue varie forme e manifestazioni culturali, ha sempre rappresentato il luogo in cui le persone potevano inscrivere il proprio personale progetto di vita all’interno di un progetto collettivo e, quindi, condividerlo attraverso i vincoli di solidarietà e altruismo che caratterizzano le comunità autentiche.

    La liquefazione dei legami comunitari e la deterritorializzazione

    Oggi, in questa fase storica che si proietta al di à della modernità, si assiste all’attribuzione all’individuo di una centralità assoluta che gli assegna, in modo esclusivo, l’onere di tessere l’ordito della sua vita e la connessa responsabilità del successo o del fallimento, che cade perciò principalmente sulle sue spalle.
    Questo genera una profonda angoscia, essendo ogni individuo sottodeterminato rispetto alla propria autocostruzione, che viene esorcizzata in vari modi, ma in particolare con espressioni di forme di egoismo radicale che sconfinano verso il narcisismo e che sono socialmente validate attraverso i miti dell’autorealizzazione.
    La dissoluzione dei legami comunitari tocca anche quella particolare comunità che è la famiglia, che perde la sua caratteristica di luogo del progetto collettivo per divenire, in molte situazioni, il luogo della convivenza, all’interno di una relazione di intimità, di progetti individuali reciprocamente impermeabili.
    In questa famiglia, così come in genere in ogni forma comunitaria di vita, nessun membro sembra disponibile a rinunciare a una parte del proprio progetto personale per sostenere o il progetto dell’altro o la costruzione di un progetto che realizzi il bene comune della famiglia.
    Questo individualismo, che si nutre dell’illusione della assoluta libertà individuale, si manifesta all’interno di sistemi sociali che appaiono sempre più rigidi e immodificabili dall’azione dei singoli.
    E questo genera una libertà illusoria. Tra l’altro questo avviene mentre accanto alle comunità tradizionali, per effetto della deterritorializzazione, prodotta dai media elettronici e dai processi di globalizzazione, stanno nascendo nuove forme di comunità definite «comunità di sentimenti» o «comunità di destino».
    Si tratta, cioè, di gruppi che immaginano collettivamente perché fruiscono collettivamente di video e di film e che vengono anche definiti sodalizi di culto e carisma.
    Questi sodalizi sono comunque sempre comunità che possono passare dall’immaginazione condivisa all’azione collettiva.
    Un esempio di questo sodalizio è quello che si è sviluppato, all’interno dell’islamismo radicale, intorno al terrorista Bin Laden.
    Il fatto che questi sodalizi siano spesso transnazionali, fa sì che al loro interno si possano intrecciare le diverse esperienze locali, che convergono nella produzione dell’azione translocale. Questo fenomeno è leggibile nella deterritorializzazione che, nel mondo moderno, vivono in particolare le grandi masse di persone che emigrano dal loro luogo di origine alla ricerca di lavoro
    Basti pensare agli immigrati che attraverso i media elettronici possono restare in contatto con l’immaginario del proprio paese. Ad esempio, il tassista pakistano che nel suo taxi a New York ascolta la cassetta dell’omelia del mullah del suo villaggio che gli hanno spedito i suoi parenti o, ancora, l’immigrato turco che in Germania ogni sera vede i programmi televisivi del suo paese di origine.
    Per non parlare della possibilità offerta da internet, non solo di contatti in tempo reale con i propri connazionali, ma anche, più semplicemente, di leggere i quotidiani appena editati dei propri paesi di origine.

    La soggettivizzazione

    La liquefazione dei legami comunitari in un contesto di deterritorializzazione ha fortemente contribuito a produrre in questa fase storica l’esaltazione, come mai in passato era accaduto, della centralità del soggetto e della sua apparente autonomia, rendendo massivo quel fenomeno marginale che nel passato era detto soggettivismo, che però nella lingua e nella cultura odierna viene definito con il termine di soggettivizzazione che, a rigore, non è che il nome del processo che produce il soggettivismo.
    Il soggettivismo, secondo un comune dizionario filosofico contemporaneo non è nient’altro che un «sinonimo di relativismo, per tutte quelle posizioni che negano l’esistenza di criteri di verità e di valore in qualche modo indipendenti dal soggetto e tali da condizionarlo», tipico di chi segue una posizione che riduce la realtà o l’essere al soggetto.
    Questo significato non è che una modesta evoluzione di quello che a suo tempo il Tommaseo, riprendendolo dal Rosmini, riportava nel suo dizionario della lingua italiana: «il soggettivismo, o sistema soggettivista, è scettico di necessità nelle sue conseguenze, ancorché chi lo professa non se ne accorga. Si dice di quelli che derivano tutte le idee e cognizioni dal puro soggetto umano.[...] Dalla soggettività delle idee si trapassa alla soggettività del mondo universo; e il sognatore si fa creatore».
    La liquefazione dei legami comunitari, tuttavia, non è l’unico fattore alla base del fenomeno della soggettivizzazione.
    Infatti esso è il frutto dell’intreccio di alcuni fenomeni culturali, sociali e psicologico-esistenziali che sono all’origine di questa particolare fase storico-culturale che qualcuno chiama surmodernità, altri seconda modernità e altri ancora modernità liquida.
    Il primo di questi fenomeni è costituito dalla cosiddetta complessità sociale che, attraverso il suo policentrismo di valori, di idee, di concezioni del mondo e della vita, oltre che di poteri, il suo relativismo e la sua posizione fragile verso il «reale», ha prodotto la frammentazione della cultura sociale in un arcipelago in cui non trovano posto né la verità né l’oggettività.
    Il secondo fenomeno è costituito dalla crisi delle grandi narrazioni, ovvero dei grandi sistemi ideologici e di pensiero attraverso cui le persone interpretavano se stesse, la loro vita e il mondo facendo riferimento ad un punto di vista a loro esterno.
    Il terzo fenomeno è costituito dalla perdita della capacità delle persone di interpretare il fluire del tempo lungo l’asse lineare della storia e, quindi, di dare alla propria vita la coerenza e l’unitarietà di un progetto capace di dare un senso al frammento di tempo i cui confini sono la nascita e la morte, all’interno del frammento di tempo più grande i cui confini sono, invece, l’inizio e la fine della storia umana.
    L’intreccio di questi tre fenomeni culturali con la liquefazione dei legami comunitari ha prodotto in gran parte la deriva del soggettivismo e la conseguente chiusura delle stesse persone in quell’orizzonte di senso costituito principalmente dai bisogni personali, dalle argomentazioni del desiderio, dai sentimenti, espressi o non, e dai sistemi simbolici interiorizzati.
    Questa chiusura si attenua in micro-aperture disegnate dalla relazionalità primaria con le persone con cui si condivide, in un clima di solidarietà affettiva, il piccolo mondo vitale quotidiano.
    Anche se spesso, in questi casi, più che di vere aperture, si tratta di una reciproca accettazione da parte delle persone in relazione della propria soggettività.

    GIOVANI E SOGGETTIVIZZAZIONE

    Il processo di soggettivizzazione che i giovani vivono, e che è figlio dei fenomeni culturali della seconda modernità, si manifesta in vari aspetti della loro condizione esistenziale.

    I principali di questi aspetti sono rintracciabili nel relativismo etico, nella a-progettualità e nella prigionia del presente che si esprime anche nella reversibilità delle scelte, nella frammentazione dell’identità, nell’abitare i non-luoghi e una realtà sempre più virtuale, oltre che in alcuni caratteri della loro esperienza religiosa.

    Il relativismo etico

    Anche se la credenza che mediamente i giovani oggi non abbiano valori è alquanto diffusa, essa è però falsa. Infatti quando si indaga sulla presenza dei valori nel mondo giovanile, si ha la sorpresa di scoprire che la maggioranza di essi condivide molti di quei valori che il mondo adulto ritiene importanti per la realizzazione di una condizione umana evoluta e matura.
    I problemi inerenti i valori dei giovani non sono perciò legati alla loro assenza, ma piuttosto al prevalere nella loro gerarchizzazione della dimensione personale e soggettiva.
    Infatti i sistemi di valore che i giovani hanno interiorizzato vedono nelle posizioni centrali quei valori che sono funzionali alla realizzazione personale e alla relazionalità all’interno del mondo vitale quotidiano che essi abitano.
    Non è un caso perciò che le ricerche mettano in evidenza che le tre cose più importanti per la maggioranza dei giovani oggi siano la famiglia, l’amore e l’amicizia.
    Quella relazionale è indubbiamente la dimensione esistenziale centrale nell’orizzonte di senso della maggioranza dei giovani italiani come lo è, quasi certamente, per gli adulti.
    La chiusura dell’orizzonte esistenziale di molti giovani nella dimensione della relazionalità primaria è anche sottolineata dall’importanza, assolutamente straordinaria, che il gruppo dei pari ha nella vita quotidiana dei giovani.
    Questa importanza la si ha anche purtroppo in negativo, in quanto in alcuni casi il gruppo primario assume la funzione di stimolatore e facilitatore dei comportamenti trasgressivi e devianti.
    Comunque, il gruppo dei pari assume una sua rilevanza particolare non tanto per le attività che offre o le discussioni che consente, ma solo per le relazioni il cui scopo è quello di rassicurare ogni membro sul fatto di esistere e di essere accettato e riconosciuto dagli altri membri del gruppo.
    Il gruppo dei pari dunque come luogo della relazione per la relazione, ma in cui sono assenti, seppur a livello germinale, i legami comunitari.
    L’importanza della dimensione relazionale primaria è testimoniata poi anche dal fatto che nel rapporto amoroso di coppia ciò che viene ritenuto più importante dai giovani è il rispetto, la comprensione, la fedeltà e la capacità di comunicare. Si noti che l’intesa sessuale è ritenuta meno importante di questi aspetti relazionali immateriali.
    Questa centralità dei valori legati al mondo vitale quotidiano dei giovani si esprime normalmente anche in un modo di vivere la responsabilità etica che, di fatto, è la negazione dell’esistenza di norme a carattere universale o comunque esterne al sentire del soggetto.
    Infatti vi è solo una minoranza di giovani che accetta come fondamento del proprio agire un codice etico, religioso o laico, esterno alla loro esperienza personale.
    Una parte consistente dei giovani, specialmente nel periodo dell’adolescenza, tende invece a porre come fondamento dell’agire etico o i propri bisogni e desideri, oppure la rivendicazione della centralità della propria coscienza.
    Questa rivendicazione di libertà soggettiva nell’agire etico si manifesta soprattutto nella sfera della sessualità.
    Infine vi è un’altra parte dei giovani, specialmente tra coloro che sono usciti dall’adolescenza, che riconosce come fondamento dell’agire etico una relazione dialogica tra la scoperta della propria finitudine e del proprio limite personale con quella della responsabilità verso l’altro con cui si ha una relazione primaria, verso la sua dignità, la sua libertà e i suoi diritti.
    Questa parte dei giovani rivela la maturazione di una concezione di alterità che, pur essendo sempre di breve raggio relazionale, può favorire la scoperta di un fondamento etico più solido, senza però riuscire a farli uscire dalla gabbia dorata del mondo vitale quotidiano e dalle spire del relativismo.
    Relativismo che, come si accennato prima, è uno dei prodotti nella attuale cultura sociale del policentrismo e che fa sì che per una gran parte di persone, giovani in particolare, sia spesso impossibile acquisire la certezza che i valori che gli sono proposti o che ha già scelto come fondamento del proprio agire siano veri, importanti e giusti, perché essi formano solo uno dei tanti sistemi valoriali presenti con pari dignità nella vita sociale.
    Il relativismo prodotto dal policentrismo non si ferma a questo effetto ma va ben oltre, frammentando il tessuto culturale della società in un puzzle matto, in cui ogni tessera pretende di contenere il disegno del tutto. In modo meno ermetico si può dire che il giovane nel corso del suo quotidiano vivere sperimenta luoghi differenti che, sovente, gli offrono valori, modelli di vita, codici e norme assai diversi tra di loro quando non addirittura antagonisti.
    Il passaggio quotidiano del giovane dalla famiglia alla scuola, al lavoro, al gruppo dei pari, alle associazioni, alle polisportive e ai mass media... è l’esperienza di un cammino in una realtà sociale disomogenea e frammentata, che lo invita a vivere in modo pragmatico e a-progettuale e ad evitare scelte coerenti se vuole poter usufruire di tutte le promesse che ogni luogo che attraversa gli fa.
    La centratura delle scelte etiche alla sfera della propria coscienza e delle relazioni di mondo vitale in questo quadro sociale è non solo congruente al relativismo etico presente nella cultura sociale, ma è anche un modo che consente al giovane di godere delle opportunità di appagamento dei suoi desideri e bisogni che la realtà sociale gli offre.

    L’a-progettualità e la prigionia del presente

    Uno degli effetti della radicale trasformazione della temporalità che è attualmente in corso nella cultura sociale sul percorso di crescita umana e personale dei giovani è visibile in particolare dal loro porsi in modo incerto, e a volte angoscioso, nei confronti del futuro, dalla debolezza delle loro radici nella memoria culturale, dal come vivono debolmente, nella maggioranza dei casi, le relazioni intergenerazionale con gli adulti, dalla sperimentazione, molto diffusa, dell’assenza dei padri dalla funzione di trasmissione dei valori e delle norme che costituiscono il canone culturale e dal come, al contrario, essi vivano in modo fortemente significativo la relazionalità con i pari età nel loro percorso di crescita personale.
    Questa trasformazione della temporalità è prodotta dall’indebolimento dell’asse storico, verticale, del tempo e dal contemporaneo straordinario rafforzamento dell’asse orizzontale dello stesso tempo.
    Quest’ultimo asse, detto anche del tempo sociale, è quello su cui si declina il coordinamento nel presente dell’agire sociale degli individui, e si esprime per mezzo delle relazioni comunicative che connettono gli individui e che formano quelle che, solitamente, vengono definite come le reti sociali.
    Le moderne tecnologie della comunicazione e della telematica (computer, tv satellitare, fax, modem, telefoni cellulari, ecc.) stanno creando delle reti di comunicazione che in tempi sempre più ravvicinati consentono agli individui di entrare in relazione tra di loro anche se sono fisicamente dislocati in luoghi molto lontani tra di loro. Internet e la posta elettronica sono un buon esempio di questa rete.
    Allo stesso modo la tv via satellite e via cavo consente alle persone di partecipare come spettatori in tempo reale ad avvenimenti che accadono in luoghi remoti.
    Mentre questa rivoluzione tecnologica e culturale interrela sempre di più le persone all’interno di uno spazio sociale sempre più grande, accade che le stesse persone tendano a perdere, o perlomeno a indebolire, le loro relazioni comunicative con gli esseri umani che hanno abitato prima e che abiteranno dopo di loro lo spazio e il tempo. In altre parole, le persone tendono a perdere «memoria», intesa anche come la capacità di percepire la loro vita quale figlia e madre di una storia, ovvero il legame di responsabilità che le lega alle generazioni precedenti e a quelle future.
    In questo spazio sociale il tempo, grazie alla velocità della comunicazione elettronica sempre più prossima a quella della luce, tende a zero generando accanto allo spazio-tempo lo spazio-velocità.
    I fenomeni sociali, economici e tecnologici che sono alla base della formazione dello spazio-velocità hanno avuto dei profondi effetti anche sul tempo, in particolare ha trasformato il tempo noetico in tempo spazializzato, che non sarebbe altro che il risultato della supremazia nell’attuale vita sociale delle coordinate spaziali su quelle temporali che, di fatto, anestetizza l’idea del tempo e della storia, del vissuto diacronico a favore della sincronicità spazializzante.
    Immersi in questo tempo spazializzato, gli individui perdono la coscienza della propria appartenenza alla storia e, quindi, anche la propria capacità di produrre storia e divengono delle comparse prive di memoria e di sogni di futuro.
    Questo fa sì che solo ciò che è immediato e simultaneo venga vissuto come reale.
    Le dimensioni del passato e del futuro sono espulse dalla coscienza, la memoria e il sogno sono esiliati. L’istante diviene un punto nello spazio in cui non vi è durata ma solo l’appartenenza atemporale ad un insieme spaziale. All’origine di questa trasformazione della temporalità vi sarebbero quei fenomeni sociali complessi come l’urbanizzazione, l’espansione della tecnologia, la presenza dei fondamenti tecnico-scientifici di tipo universalistico nelle culture locali, il predominio del senso ottico, ovvero al predominio delle immagini rispetto alla parola parlata e scritta e, infine, l’influenza dell’industria culturale che, per evitare che l’effetto del rapidissimo succedersi delle sue proposte abbia effetti distruttivi sulla sua stessa produzione, deve appiattire l’esperienza del tempo a favore della simultaneità.
    Uno degli effetti di questa trasformazione della temporalità prodotta dallo spazio-velocità è anche l’annullamento della distinzione tra causa ed effetto. È infatti noto che la relazione di causa ed effetto si regge sul fatto che la causa precede temporalmente l’effetto, ma se la percezione del tempo rende gli eventi «simultanei», la relazione causale si dissolve e viene sostituita da relazioni di tipo sistemico. Da relazioni, cioè, in cui i singoli eventi si influenzano reciprocamente e dove nessuno di essi è solo causa o solo effetto, ma dove ognuno di essi è tanto causa quanto effetto.
    In questa trasformazione della temporalità le generazioni tendono sempre di più ad isolarsi all’interno del loro segmento temporale indebolendo il legame della solidarietà intergenerazionale nel presente. La contemporanea indifferenza del mondo degli adulti per quello degli anziani e dei giovani non è che un segno di questa trasformazione.
    Trasformazione che oltre a investire i rapporti temporali delle persone con quelle delle altre generazioni che le hanno precedute e che le seguiranno, riguarda anche il loro attuale tempo di vita, e si manifesta nell’incapacità di percepire la propria esistenza come una storia dotata di senso. Vita in cui solo il tempo presente sembra avere un valore e un senso e che, quindi, appare più come un susseguirsi di presenti che come un racconto dotato di un inizio e di una fine legati da un intreccio che ne svela il significato.
    L’identità debole e frammentata, l’impossibilità di pensare alla propria vita come un progetto seppur aperto, l’incoerenza con i suoi corollari del pragmatismo e dell’opportunismo, l’angoscia vestita di depressione o di fuga nell’evasione della ricerca di gratificazioni attraverso il consumo ossessivo che sembra segnare la vita di molti giovani, affondano le loro radici in questa crisi del tempo della storia detto dagli studiosi della temporalità umana «tempo noetico».
    I giovani emergendo alla vita si sono trovati immersi in questo nuova temporalità costruita dall’ipertrofia delle relazioni orizzontali e dall’ipotrofia di quelle verticali.
    E questo è, comunque, il loro tempo in cui debbono, volenti o nolenti, costruire la loro vita.

    Segni di un nuovo tempo di vita

    Tuttavia questa trasformazione non è ancora compiuta, ed esistono alcuni spiragli che indicano che il nuovo tempo della vita può essere diverso da quello che i segni di questa cultura sociale e lasciano presagire.
    Uno di questi spiragli è costituito dal rapporto dei giovani con l’evento della morte, che è uno degli elementi costitutivi del tempo noetico. Infatti come sostiene Fraser, uno dei più profondi studiosi del tempo, il tempo degli esseri umani è caratterizzato dal fatto che essi «sono capaci di comprendere il mondo nei termini di un futuro e di un passato distanti, e non solo nei termini delle impressioni sensoriali del presente» e che le loro azioni nel presente sono influenzate dalla consapevolezza della morte, che appare come «un ingrediente essenziale del tempo dell’uomo maturo, i cui orizzonti si estendono senza limiti nel futuro e nel passato».[1]
    Ora le storie di vita degli adolescenti e dei giovani dimostrano come molti di essi non abbiano rimosso dal loro orizzonte esistenziale, come invece spesso hanno fatto gli adulti, l’evento della morte. Questa mancata rimozione della morte da parte dei giovani indica che il discorso sulla possibilità di costruire un nuovo modo di vivere il tempo – che pur accentandone l’estensione orizzontale non ne vanifichi quella verticale – è ancora aperto.
    Questa apertura sfida la responsabilità educativa degli adulti e della loro capacità di dare anima e vita, accogliendo con fiducia e amore la costruzione di sé di ogni giovane con cui entrano in relazione.
    Tuttavia per ora questo rimane un semplice spiraglio su cui agire educativamente perché nella realtà attuale i giovani non vivono il tempo noetico e, quindi, la loro vita si declina in un susseguirsi di presenti che riescono solo debolmente ad assumere il volto di una storia dotata di senso e di coerenza.
    Questo ha comportato e comporta una profonda crisi della progettualità, ovvero della capacità del giovane di vivere il presente in coerenza con il suo passato personale e storico culturale e, soprattutto, con il suo sogno di futuro; e il fatto che il giovane viva la sua vita in una sorta di frammentazione centrata sul presente, in cui le scelte sono prodotte dalla utilità e dai sistemi di valore delle situazioni in cui è inserito, invece che dall’esigenza di unitarietà e coerenza di un progetto esistenziale.
    A questo modo di vivere che può essere definito come a-progettuale, che tra l’altro è tipico della complessità sociale, appartiene anche la tendenza da parte dei giovani di vivere le scelte come reversibili, tra cui anche quelle legate a comportamenti rischiosi o distruttivi.

    La reversibilità delle scelte e il rischio

    Sono dati inquietanti che emergono dalle inchieste dello IARD [2] e riguardano la propensione al rischio e il consumo di droga e di alcool.
    Infatti una quota molto consistente di giovani dichiara di essersi assunto dei rischi nel presente che potevano avere dei riflessi negativi sulla loro vita futura. Rischi che vanno da quelli relativi alla salute a quelli inerenti la guida dell’auto o della moto in stato di ubriachezza.
    C’è da notare che l’assunzione dei rischi da parte dei giovani avviene all’interno di una cultura sociale fortemente segnata dalla competitività che dà un valore positivo al rischio come fattore di successo e di realizzazione personale.
    Tuttavia la spiegazione della propensione dei giovani al rischio non può essere ridotta solo a questo fattore culturale, perché nell’attuale cultura sociale, forse a causa della perdita del senso lineare e monodirezionale del tempo della storia di cui si parlava prima, c’è la presenza della concezione che il tempo è reversibile. Questa concezione si manifesta nel fatto che molti giovani ritengono che da ogni loro scelta, per impegnativa o rischiosa che sia, si può sempre, o quasi, tornare indietro e ripartire in un’altra direzione.
    Se questo dato, da un lato, è positivo perché indica la presenza di quella flessibilità necessaria all’abitare una società complessa, dall’altro lato esso è negativo perché indica la presenza nei giovani di un atteggiamento a-progettuale nei confronti della costruzione della loro vita.
    Atteggiamento a-progettuale che, tra l’altro, consente ai giovani che lo vivono di non negarsi nulla, anche di ciò che è ritenuto trasgressivo, perché tanto si tratta di una scelta da cui ritengono sia possibile tornare indietro.
    Purtroppo, invece, in molte situazioni esistenziali la reversibilità è solo parziale e relativa o, perlomeno, molto difficile. È questo il caso, ad esempio, del consumo di sostanze stupefacenti o psicotrope che vede molti giovani imprigionati nella distruttività della dipendenza e che vi erano entrati con l’illusione di poterne uscire quando volevano.
    L’ideologia della reversibilità delle scelte è perciò da considerarsi molto pericolosa, vista la forte esposizione che i giovani in questa fase storica hanno all’abuso dell’alcool e delle droghe, e la maturazione in una quota significativa di essi della concezione dell’ammissibilità del consumo di droghe cosiddette leggere che, molto spesso, non sono affatto leggere o che comunque svolgono la funzione di iniziazione al consumo di droghe pesanti.

    La frammentazione dell’identità

    Questo concetto indica un’esperienza del vissuto personale da parte dei giovani divisa in tanti frammenti, tra loro isolati, che non riescono a dar vita ad una esperienza esistenziale unitaria. In conseguenza di questo ogni esperienza che il giovane vive assume un significato relativo che si esaurisce all’interno dell’esperienza stessa, non riuscendo a collegarsi alle altre esperienze esistenziali e quindi ad un senso più generale.
    Questo comporta, tra l’altro, una forte difficoltà da parte del giovane a dare coerenza ai suoi atteggiamenti e comportamenti che manifesta lungo l’asse del suo tempo quotidiano.
    Questa difficoltà crea una sorta di labirinto della complessità sociale che, per poter essere percorso senza troppi problemi e frustrazioni, richiede al giovane di non avere una identità stabile, coerente e unitaria.
    Il modello di identità necessario a navigare nella complessità della modernità è, infatti, quello di una identità frammentata, composita, in continua evoluzione, ambivalente, contraddittoria e mai compiutamente raggiunta.
    Questo tipo di identità è teorizzato sia a livello filosofico che sociologico e continuamente riproposto dalla comunicazione di massa la giovane.
    Nel rapporto poi con la realtà esterna si tenta di accreditare, in coerenza con questo concetto di identità debole, l’impossibilità di comprendere e di dominare efficacemente la realtà. L’unico modo possibile per l’abitante delle società complesse di porsi nei confronti della realtà è quello di chi tace e se formula una domanda non pretende risposta.

    L’incontro virtuale con l’altro

    La vita delle persone è sempre più immersa nella «finzione», nel mondo delle immagini prodotto dai mass media elettronici.
    Questa immersione sembra aver dilatato enormemente le conoscenze di cui sono in possesso le persone, mentre in realtà ha solo reso astratti gli oggetti del loro conoscere.[3]
    Infatti sempre più oggi si è convinti di conoscere, quando in realtà si è in grado solo di riconoscere. Solo perché una cosa la si è vista si pensa di conoscerla, come ad esempio accade nei confronti dei personaggi televisivi che la gente crede di conoscere ma che in realtà riconosce solamente, perché vedere non significa necessariamente osservare, comprendere e interpretare.
    Questa immersione nel regime della finzione mass mediatica fa sì che si produca un indebolimento della capacità di rapportarsi all’altro, che è si visto ma che contemporaneamente è privato della sua realtà complessa e reso astratto in una immagine.
    Questa crisi della capacità di alterità mette in crisi anche l’identità delle persone che, come è noto, si nutre della dialettica identità/alterità.
    Alcuni studiosi osservano, sulla scia della lezione di Durkheim, nell’indebolimento della dialettica tra alterità e identità un fattore di produzione della violenza.
    Tuttavia tra i giovani alcuni segni indicano, come si già accennato parlando del relativismo etico, che è in atto un processo di riappropriazione dell’alterità che – se anche per ora si sta giocando solo all’interno del mondo vitale quotidiano – potrà comunque portare alla scoperta di una autentica alterità.
    A questo proposito è da segnalare l’esistenza di una minoranza di giovani che ha messo al centro della propria vita una costellazione di valori che può essere definito dell’alterità solidale e che è formata da valori quali: l’uguaglianza, ovvero l’esistenza di uguali opportunità per tutti, la giustizia sociale, intesa come tutela dei più deboli, la disponibilità ad aiutare promovendo il benessere degli altri, la responsabilità, nel senso di essere affidabile per gli altri, l’armonia interiore, il rispetto di sé, la libertà di pensiero e di azione, l’apertura mentale e la tolleranza, e la relazione negativa di tutti questi valori con quelli del potere sociale e della ricchezza materiale.
    Questa costellazione valoriale è importante perché segnala la presenza di un sistema di valori ascrivibile, come si è detto, alla categoria della alterità, che è un vero e proprio fondamento etico in grado di ristrutturare l’intero sistema di valori della cultura sociale, restituendo ad esso quella gerarchia che la complessità ha fatto smarrire, imprigionando le scelte etiche di molti giovani nell’angusto limite dei loro bisogni e desideri soggettivi. L’alterità, infatti, è in grado di restituire al soggetto quel confronto con l’altro da me essenziale per la realizzazione di una eticità meno narcisistica.
    La potenzialità trasformatrice della cultura sociale, che la presenza di questa costellazione di valori può innescare, offre un fondamento concreto alla speranza.

    2. Individuo pro comunità

    Il servizio civile come apertura all’alterità


    L’alterità, come già detto, deve essere considerata la restituzione al soggetto di quel confronto con l’altro da me essenziale per la realizzazione di una eticità meno narcisistica e lo sviluppo dell’identità. La coppia identità/alterità, infatti, costituisce un nucleo essenziale della vita umana.

    Infatti è attraverso le relazioni con le persone, con le istituzioni, con la cultura e la natura, con tutto ciò che è altro da sé, che ogni individuo umano disegna i suoi confini individuali e sociali, si autocomprende e comprende, dandogli una forma intelligibile, il mondo che abita.
    La relazione va intesa naturalmente come quella forma di comunicazione complessa in cui si intrecciano in modo inestricabile significati, sentimenti ed emozioni e in cui in molti casi, simultaneamente, si dispiegano linguaggi differenti, a volte convergenti e a volte divergenti.
    La relazione richiede l’esistenza di un oggetto esterno a chi la vive e la capacità di creare tra i mondi abitati dall’oggetto e dal soggetto un mondo almeno parzialmente comune.
    Senza l’esistenza di questo mondo comune non solo non esiste relazione ma, più radicalmente, per il soggetto l’oggetto non esiste.

    L’alterità esplosiva: la condivisione come scoperta di sé attraverso la scoperta dell’altro

    L’elemento che è in grado di spostare questo mondo dalla soggettività solitaria all’oggettività della compagnia è l’esperienza dell’alterità, ovvero l’esperienza dell’ascolto e della condivisione dell’Altro.
    L’Alterità, quindi, come movimento attraverso il quale la persona può sfuggire all’implosione verso quella forma di soggettività distruttiva che è il narcisismo o semplicemente l’egocentrismo e aprirsi a quella soggettività, specchiata dalle soggettività altre, che è alla base sia della costruzione di un Sé maturo che della capacità di una efficace partecipazione solidale alla vita sociale.
    Tuttavia la relazionalità non si esaurisce nel rapporto della persona con l’Altro, perché essa richiede per essere produttiva ai fini della crescita dell’individuo, anche la dimensione della comunicazione intrapersonale.
    In altre parole richiede alla persona la capacità di accettare, anzi di coltivare, l’esistenza in lei di un nucleo personale che non può essere in alcun modo condiviso, salvo la perdita di se stessi.
    Nella cultura sociale attuale il concetto di «identità sociale» è andato perduto ed è stato sostituito da quello di «immagine» o di «modello di identificazione»: le identità culturali perciò[…] non sono che immagini assolutamente analoghe a quelle diffuse dalla pubblicità e soggette alla stessa obsolescenza e rapido deterioramento. [4] In questo contesto la funzione socializzante della cultura non è più svolta dal pensiero nelle tre forme della critica, della scienza e dell’ideologia, ma dall’immaginario sempre più dipendente dai media, che sono diventati lo strumento principale della mediazione del rapporto della persona con la realtà.
    La sostituzione da parte dei media delle mediazioni simboliche è la principale responsabile dell’interruzione o del rallentamento della dialettica identità/alterità. Se l’alterità è un simulacro, anche l’identità diviene un simulacro. Perdere il contatto con l’altro significa perdere il contatto con se stessi.
    Per recuperare il contatto con l’altro è necessario quell’esperienza di uscita e di ritorno a sé che si vive all’interno di una esperienza di condivisione autentica, ossia di una condivisione che valorizza la differenza come dono reciproco delle persone in relazione.
    Per questo motivo l’educazione alla condivisione assume un ruolo centrale nel percorso di formazione delle nuove generazioni il cui orizzonte di crescita è limitata dalla prigione del soggettivo, del relativo e del presente.
    Questa educazione può avvenire all’interno dell’esperienza del Servizio Civile quando intesa e vissuta come esperienza di «volontariato», cioè non unicamente come anno di lavoro precario in attesa di tempi migiori, ma come scelta «volontaria» di volgersi all’alterità, della responsabilità verso l’altro, della disponibilità alla condivisione autentica e al dono di sé, anche se essa manca della caratteristica di «gratuità» piena richiesta dall’esperienza «pura» del volontariato. Per cui le indicazioni che ora diamo circa la «qualità» del volontariato si applicano ovviamente anche al Servizio Civile in quanto espressione che partecipa dell’anima propria del volontariato.
    Passeremo poi sotto a una descrizione della qualità educativa del Servizio Civile in quanto esperienza di possibile iniziazione all’adultità, appunto in quanto – a differenza del volontariato proprio che è in genere di adulti (quello giovanile è di tipo particolare, appunto educativo) – esso è esperienza tipicamente giovanile.
    Per divenire concretamente il luogo della profezia della riscoperta dell’alterità, tale esperienza deve essere sempre di meno il luogo della compensazione, il luogo cioè in cui la persona cerca di realizzare quell’amore per l’altro che non riesce ad esprimere nella vita quotidiana, per divenire invece l’impegno quotidiano che attraversa ogni istante della sua vita.
    Infatti, l’unità della persona esige che la condivisione e la solidarietà siano esercitate anche nei luoghi dello scambio economico, dello scambio affettivo oltre che in quelli del dono e della gratuità. Non si può, infatti, aderire passivamente e acriticamente alle regole della competitività più sfrenata nella vita «normale» e riservarsi momenti di donatività attraverso il volontariato.
    La schizofrenia non ha mai fatto bene alla crescita della persona umana. Essere volontari significa esserlo nel lavoro, nel tempo libero, nella vita famigliare, nella vita politica, nella vita associata, ecc., portando, per quanto possibile, in ognuno di questi luoghi lo stile della condivisione
    Essere volontari, oggi, coincide, di fatto, con la ricerca di un modo più vero di essere cittadini, non solo del proprio paese ma del mondo.
    Essere volontari significa, infine, ed è questo il suo significato fondante, lasciarsi provocare dallo scandalo della sofferenza e dell’ingiustizia rispondendo ad esso con quella follia che ha nella croce il suo modello radicale.
    È necessario a questo proposito ricordare che il volontariato non è ricerca del successo, non è delirio di potenza, in quanto sa che per quanto generosa ed efficace possa essere la sua azione, i problemi della sofferenza e dell’ingiustizia saranno appena sfiorati. Il volontario sa perciò che la sua può essere solo una condivisione che egli realizza nonostante conosca a priori la sua limitata efficacia pratica immediata.
    Si tratta in questo caso di una vera e propria educazione al limite, all’accettazione della radicale finitudine che caratterizza la condizione umana che, tra l’altro, è uno dei fondamenti del percorso di scoperta della propria identità e di quella dell’altro.

    IL VOLONTARIATO DEL SERVIZIO CIVILE COME INIZIAZIONE ALL’ADULTITÀ

    Il Servizio Civile può essere considerato, oltre che una esperienza forte di volontariato, il luogo del rito di passaggio, di transizione dall’età giovanile all’età adulta. E per la convergenza di queste due esperienze, esso può giocare un ruolo importante anche nella formazione di un io, di una personalità matura non egocentrica e nell’abilitazione ad una nuova cittadinanza centrata sulla condivisione e sulla solidarietà.

    Il Servizio Civile come rito di passaggio

    Per prima cosa occorre ricordare che oggi siamo in presenza di un prolungamento della giovinezza che, come ci ricordano le ricerche sociologiche, dura oramai sino ai 32-34 anni. L’Italia detiene il record mondiale di durata della giovinezza: infatti il nostro è il paese in cui l’età giovanile è più prolungata e in cui i giovani permangono nella famiglia d’origine il più a lungo di ogni altro paese del mondo. Basta osservare che il 59,1% dei giovani, in particolare maschi, compresi nella fascia di età dai 25 ai 29 anni abita ancora nella famiglia d’origine.
    Dopo aver segnalato il record mondiale italiano è però necessario segnalare che il prolungamento della giovinezza, anche se in modo più contenuto, sta avvenendo in tutti i paesi europei, sia in quelli mediterranei che in quelli del nord Europa. Questo dato fa sì che alcuni studiosi parlino della presenza in Europa di una vera e propria moratoria della giovinezza, nel senso che i giovani sarebbero collocati in una sorta di limbo, o meglio in un parcheggio, che nei paesi europei è molto comodo e confortevole. Tuttavia, anche se comodo, quello in cui in qualche modo essi vengono neutralizzati e il loro inserimento nella vita adulta sospeso e ritardato è solo e sempre un parcheggio che non consente loro un pieno inserimento nella vita sociale.
    Al prolungamento della giovinezza corrisponde, quindi, una perdita di protagonismo del mondo giovanile, in quanto i giovani nella nostra società attuale non sono protagonisti nella vita sociale e politica, se non come consumatori, come target specifico del consumo. Nella società italiana attuale i giovani sono resi attivi e protagonisti quando ormai l’energia creatrice della giovinezza si sta esaurendo, quando oramai cominciano ad essere meno vitali e la stanchezza dell’adattamento sociale passivo affiora.
    Questo è uno dei problemi che la nostra società non riesce a risolvere ma che, anzi, sembra aggravarsi sempre di più perché si assiste – contemporaneamente al ritardo nell’ingresso dei giovani nella vita sociale ed economica attiva – da un lato ad un allungamento dell’età della vita, e dall’altro lato ad una grave crisi di natalità.
    Nell’ultimo secolo la speranza di vita è raddoppiata, e questo fa sì che in Italia, ma in genere nei paesi europei, si abbia una popolazione anziana che diventa sempre più numerosa e, in conseguenza della denatalità, una popolazione giovanile sempre meno numerosa.
    Uno degli effetti di questo squilibrio demografico è che per cercare di ridurre il deficit di bilancio della Previdenza Sociale, si allunga la permanenza degli anziani al lavoro. E questo rende ancora più problematico e difficile l’accesso delle nuove generazioni alla vita attiva, per cui si genera un circolo vizioso che aumenta la probabilità dei giovani di passare un tempo cospicuo nel parcheggio loro riservato.
    Un’altra delle conseguenze per i giovani dello stare a lungo socialmente parcheggiati è la perdita del senso del passaggio dalla giovinezza alla vita adulta. I giovani, cioè, transitano verso la vita adulta in modo lineare e progressivo, senza un vero momento di passaggio del confine che immette nella vita adulta, quasi che questo confine non esistesse più. Anche perché non c’è più un rito che segni l’abbandono della età giovanile e l’ingresso nella vita adulta.
    Nell’antica Roma, ad esempio, quando i ragazzi uscivano dall’adolescenza, in genere tra i quindici e i sedici anni, compivano un importante rito di passaggio attraverso una cerimonia che comportava anche una processione. La cerimonia avveniva in casa ed era presieduta dal pater familias. La notte precedente la cerimonia il giovane, in segno di buon auspicio, indossava per dormire una tunica particolare (la tunica recta). Il mattino seguente il ragazzo abbandonava le «insegne della fanciullezza», la «bulla» che portava al collo a scopo apotropaico, che veniva dedicata ai Lari della casa, e la toga praetexta per vestire la toga virile. Dopo questa parte privata casalinga della cerimonia avveniva quella pubblica, dove il ragazzo veniva accompagnato in corteo al Foro e in Campidoglio. L’ingresso nel Foro rappresentava l’introduzione del giovane romano nella vita comunitaria, mentre quello nel tempio di Giove al Campidoglio rappresentava l’affidamento della crescita del giovane al dio Giove e anche alla dea Iuventas (dea protettrice dei giovani che militavano nell’esercito), che si era rifiutata di abbandonare il Campidoglio e di lasciarlo, quindi, in esclusiva a Giove.
    Nel recente passato anche nelle nostre culture locali esisteva un rito meno raffinato ma significativo di questo tipo. Ad esempio, in tanti paesi questo rito era costituito dalla festa dei coscritti, quella che si faceva in occasione della visita di leva, in quanto l’andare militare rappresentava il momento del passaggio dalla giovinezza all’adultità.
    In questi ultimi decenni c’è stata una svalutazione dei riti, in particolare di quelli di passaggio, e questo ha comportato un impoverimento, a livello simbolico, della vita sociale.
    Per comprendere questa affermazione è necessario ricordare che la parola «rito» deriva dalla parola indoeuropea rthà, il cui significato, come indica il Rigveda, è l’ordine immanente del cosmo, sono i compiti da eseguire in ogni stagione in connessione con le leggi cosmiche. Secondo la sua radice indoeuropea, quindi, il rito mette in rapporto l’uomo con le leggi del cosmo.
    In questa prospettiva allora cosa significa fare del Servizio Civile un rito di passaggio? La risposta è semplice: fare in modo che il passaggio dall’età della giovinezza all’età adulta sia per la persona che lo vive un ingresso all’interno di un ordine, se non cosmico almeno sociale. In altre parole, il Servizio Civile divenendo un rito di passaggio contribuisce all’ordine della società e all’ordine della vita delle persone che lo vivono.
    Ma per poter divenire un rito di passaggio, il Servizio Civile deve diventare il luogo in cui le persone entrano con i calzoni corti ed escono con quelli lunghi. Un luogo, cioè, in cui i giovani si distaccano dalla loro vita sociale precedente, affrontano delle prove e ritornano con un nuovo status nella vita sociale. Tutti i riti di passaggio dalla giovinezza all’età adulta, in particolare quelli arcaici, comportavano un momento di distacco, di separazione dalla collettività, dalla comunità in cui i giovani avevano sempre vissuto, l’affrontare delle prove, in cui era presente l’esperienza della paura e dell’angoscia, superarle per poi rientrare con il nuovo status all’interno della comunità da cui si erano separati.
    Il Servizio Civile, pur in forme più moderne, può svolgere questa funzione di rito di passaggio perché il giovane si separa dal suo mondo, mette alla prova le sue competenze, ciò che ha appreso, verificando le sue abilità, affrontando la paura e l’insicurezza che questo crea, e rientrando successivamente nella comunità con lo status di colui che sa di possedere le competenze e le abilità necessarie alla vita adulta.

    Il Servizio Civile e la costruzione del Sé

    La seconda funzione formativa del Servizio Civile è, come si è detto all’inizio, quella di contribuire alla formazione di un Sé maturo. Spesso oggi si sente parlare di adolescenza prolungata: questa espressione esprime la convinzione che i giovani oggi tarderebbero a definire la propria identità, il proprio Sé e, quindi, sarebbero incapaci di uscire dalla centratura egocentrica per assumere la responsabilità nei confronti degli altri. Analizzando questa situazione si può sostenere che – più che di una adolescenza prolungata – si sia in presenza di percorsi di formazione umana che sono centrati eccessivamente sulla dimensione soggettiva, sulle esigenze del soggetto. Ora, questo eccesso di soggettivizzazione è un carattere dell’attuale cultura sociale che riguarda anche gli adulti e gli anziani, in quanto esso attraversa tutte le età della vita.
    Si è visto prima come l’uscita dalla soggettivizzazione possa avvenire attraverso la via dell’alterità.
    Il Servizio Civile può rappresentare un’autentica esperienza di alterità perché obbliga il giovane ad entrare in contatto con l’Altro e, quindi, con persone che sono fortemente diverse rispetto a quelle che incontra nella sua esperienza quotidiana normale. In ogni caso, che siano poco o molto diversi nel servizio autentico, c’è sempre l’esperienza dell’uscita da Sé. Certamente questo non avviene se il Servizio Civile è speso a fare le fotocopie o cose similari.
    Questo significa che il Servizio Civile per essere un luogo di formazione deve richiedere al giovane la partecipazione all’erogazione di un servizio verso la collettività, verso l’altro, che stimoli l’uscita dai suoi bisogni soggettivi e l’andare verso l’altro. Senza questo il Servizio Civile rischia di essere un tempo che semplicemente passa senza produrre alcuna maturazione personale nel giovane.
    Oltre a possedere questo carattere di apertura all’alterità, il Servizio Civile deve anche essere un rito di iniziazione che consente al giovane di acquisire quelle abilità e capacità che sono necessarie per l’ingresso nella vita adulta.
    Questa funzione è importante perché oggi il percorso di ingresso del giovane nel mondo del lavoro è afflitto da un paradosso. Quello che per accedere ad alcune professioni viene richiesto il possesso di una adeguata esperienza ma, allo stesso tempo, nessuno offre ai giovani la possibilità di fare questa esperienza.
    Il Servizio Civile può e deve essere il luogo in cui il giovane comincia a sperimentare una professionalità, in cui comincia a mettere a frutto le acquisizioni del percorso formativo scolastico cercando di tradurlo in un sapere professionale, in abilità e competenze. In altre parole il giovane può acquisire quei saperi pratici che nel percorso formativo scolastico non ha incontrato.

    Per una nuova cittadinanza

    Proprio in quanto via all’alterità, il Servizio Civile deve educare ad una nuova cittadinanza, facendo scoprire al giovane che la cittadinanza non è solo un insieme di diritti ma anche un insieme di doveri, tra cui in particolare quello di solidarietà che è anche costituzionalmente sancito.
    Al di là dell’enunciazione solenne, il dovere di solidarietà consiste nella capacità di prendersi cura delle persone con cui si condivide il cammino di vita. La cittadinanza in questa ottica è una cittadinanza che si fonda sulla consapevolezza che i problemi delle persone con cui si condivide il cammino della vita non riguardano solo lo Stato e i suoi servizi, in altre parole il sistema di protezione sociale denominato Welfare State, ma riguardano anche la responsabilità di ogni cittadino.
    Ancora in un recente passato, si pensava che fosse sufficiente pagare le tasse per assolvere agli obblighi societari di solidarietà, perché le tasse servivano a mettere in moto la macchina della protezione sociale che doveva garantire ai cittadini una tutela dalla culla alla tomba. Se una persona aveva un problema, questo non riguardava la responsabilità del singolo cittadino ma esclusivamente quella dei servizi deputati ad affrontare quel tipo di problema. Questa mentalità era, e forse lo è ancora, fortemente radicata nel modo di concepire il proprio. Oggi però qualcosa sta cambiando, anche per la crisi profonda che attraversa il sistema di protezione sociale e che ha fatto prendere coscienza alle persone che è necessaria la costruzione di un nuovo Welfare State in chiave comunitaria o societaria, perché un vero ed efficace sistema di protezione sociale può esistere solo attraverso la creazione di una rete della solidarietà, in cui deve giocare un ruolo fondamentale l’esercizio della solidarietà diretta da parte dei cittadini, singoli e associati, all’interno dei vari luoghi in cui si svolge la loro vita quotidiana.
    In altre parole, si è scoperto che molti servizi sociali sono di fatto dei tentativi di riparazione a dei guasti provocati sia dalla vita economica che dai modelli di convivenza presenti all’interno di una data realtà sociale e, quindi, che è possibile eliminare questi servizi modificando sia alcune regole dello sviluppo economico, sia i modelli di convivenza sociale. Ma non solo. Si è anche scoperto che molti di questi servizi possono essere erogati direttamente dalle famiglie, dalle associazioni e dalla comunità locale, purché l’azione di questi soggetti sociali sia sostenuta, almeno in parte, da opportune risorse materiali e immateriali. Risorse comunque nettamente inferiori a quelle che lo stato dovrebbe impiegare per gestire in proprio questi servizi.
    Questo modo di concepire il Welfare postula che questa azione solidale dei cittadini debba far parte organicamente di un sistema di servizi sociali in cui sono presenti e agiscono sia i servizi pubblici che quelli privati, in particolare per quelle aree di intervento più complesso che sfuggono sia alle azioni preventive che alle possibilità e alle responsabilità concrete dei cittadini.
    Questo nuovo modello di Welfare postula, quindi, l’integrazione in un’unica rete delle azioni della famiglia, del volontariato, del privato sociale, del privato e del pubblico. Il tutto all’interno di un sistema sociale che mette al centro, nel disegnare la propria vita e il proprio sviluppo, non solo gli imperativi dell’economia ma anche quelli della persona umana e, quindi, del sociale.
    La centralità del sociale accanto all’economico è l’unico modo concreto che un sistema sociale ha a disposizione per prevenire nuove forme di povertà, di emarginazione e di devianza. Il sistema di Welfare, secondo questo punto di vista, tende a sviluppare sia un’azione preventiva che un’azione curativo-riabilitativa, responsabilizzando in essa direttamente i cittadini e le loro organizzazioni. È per questo che tale nuovo Welfare per realizzarsi richiede l’educazione delle persone ad un nuovo modo di esercitare il loro modo di essere cittadini.
    Cittadinanza che implica la riscoperta del dovere di solidarietà e, quindi, della comunità intesa come gruppo umano caratterizzato dall’esistenza di intensi rapporti di solidarietà tra i suoi membri.
    Un esempio può chiarire questa affermazione. Si prenda il caso di un anziano solo con qualche piccolo problema di autosufficienza, e si provi a pensare che quell’anziano che abita in un condominio abbia dei vicini che passano a trovarlo, che gli danno una mano quando ha bisogno di qualche lavoretto, che quando vanno a fare la spesa se lo prendono in macchina con loro e vanno al centro commerciale insieme. Si tratta di gesti tutto sommato non eroici normali in una vita comunitaria.
    Ora, se ci fosse questo modo di vivere comunitario, alcuni servizi diventerebbero inutili e la qualità della vita delle persone migliorerebbe. Questo è il significato di una cittadinanza fondata sulla condivisone, in cui i cittadini non aspettano che intervenga lo stato con i suoi servizi, ma intervengono direttamente per quanto gli è possibile.
    Ricostruire comunità significa ritessere i rapporti di solidarietà, e in questo contesto l’educazione alla nuova cittadinanza significa l’educazione della persona ad assumere responsabilità e cura nei confronti degli altri.
    Il Servizio Civile può essere il luogo in cui si istillano i germi, i virus di questo modo di concepire la cittadinanza, che aiutano il giovane a superare quello che un tempo veniva chiamato rispetto umano, e che consisteva nel non fare certe cose perché si temeva di esporsi, di fare brutta figura, di provocare reazioni sgradevoli. Il rispetto umano è un freno nei confronti dei gesti di solidarietà. Ora il Servizio Civile consente di superare tutto questo, perché abitua a compiere in modo naturale dei gesti di solidarietà verso l’altro. In questo senso il servizio civile è il luogo in cui il giovane può finalmente concludere il suo percorso di maturazione e iniziare un nuovo cammino di cittadino adulto.
    Carl Gustav Jung diceva che dopo l’adolescenza, in cui la persona conclude il percorso che dal Noi conduce all’Io, si apre una nuova fase evolutiva, quella in cui dall’Io si va verso il Noi, dove la persona, pur mantenendo la sua individualità, raggiunge un’armonia più profonda con la natura, con gli altri e con se stessa. Jung ha chiamato questo processo «individuazione», e ha indicato che esso ha il suo apice nella terza età. Dal suo punto di vista la terza età è ancora un’età evolutiva, e non solo l’età della decadenza. Questo cammino si conclude nella terza età ma comincia nell’adolescenza, e prosegue in tutte le età della vita. Ora, se dopo l’adolescenza questo cammino non si inizia, difficilmente l’individuazione si concluderà nella terza età, con il risultato di avere un anziano poco saggio.

    L’apertura al trascendente

    Questo percorso di scoperta di sé attraverso l’apertura all’altro, per essere autentico e dotarsi di un senso non contingente, richiede un’ulteriore meta: l’apertura al trascendente, che alcune esperienze di Servizio Civile possono offrire.
    Questa apertura è necessaria, perché senza di essa la vita della persona umana si giocherebbe all’interno di una relatività paralizzante che dimora al confine dell’angoscia e della distruttività.
    Il giovane non può dare senso al proprio mondo, alla propria cultura, alla propria vita e al suo stesso essere con gli altri, se non possiede un punto di vista che sia al di là del suo limite personale e di quelli della sua cultura e del suo mondo. Solo se comprende se stesso, la cultura e il mondo attraverso le vie di una fede o di un pensiero trascendente, il giovane può formulare un giudizio sulla verità e sulla coerenza della propria vita e della realtà, sociale e culturale, in cui essa si disegna.
    Senza il respiro della trascendenza il giovane rimane chiuso in un mondo in cui tutto può essere vero e tutto può essere falso, tutto può essere espresso e tutto può restare inespresso, ma nulla ha valore in sé, nulla ha un significato tale da consentirgli di porsi come riferimento etico per una scelta esistenziale orientata verso un obiettivo che sia oltre la frontiera dell’utilità.
    L’esperienza del Servizio Civile, senza il grido, l’invocazione alla trascendenza, rischia di perdersi nel rumore delle cose e di non riuscire a svelare a chi la vive che il dono che essa porta con se è l’espressione di una realtà e di un amore che sono prima e dopo l’uomo e il suo mondo.
    Attraverso l’apertura alla trascendenza il giovane può sperimentare in modo radicale che la speranza non è un’illusione, ma l’unica vera realtà che si svela nella sua pienezza solo dopo che nella fatica del quotidiano donarsi si è stati redenti redimendo il mondo.
    Da quanto detto, emerge che il Servizio Civile serve da innesco, da aiuto per uscire da un’ego-centratura adolescenziale e, quindi, per avviare al cammino verso il noi e alla scoperta del radicalmente Altro.
    Questo però solo se il Servizio Civile è un’esperienza significativa dal punto di vista umano, professionale, sociale e, possibilmente, religioso.
    Se non ha questa significatività, il Servizio Civile apre ad un bel niente, e non realizza il rito che introduce la persona nel un nuovo ordine cosmico della responsabilità adulta.
    Il pensare in questo modo al Servizio Civile è forse un’utopia, ma senza utopie non si educa.

     

    NOTE

    [1] Fraser J. T., Il tempo: una presenza sconosciuta, Feltrinelli 1993.

    [2] Cf i vari rapporti di ricerca IARD, Mulino, Bologna.

    [3] Augè M., La guerra dei sogni, Elèuthera, Milano 1998.

    [4] Perniola M., La società dei simulacri, Bologna, Cappelli, 1980, 149.

     


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