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    Alcune premesse e chiavi di lettura (del dossier "FARE. DISFARE. RIFARE L'ORATORIO?")


    Stefano Guidi *

    (NPG 2024-01-10)

     

    L’introduzione che apre questo dossier intende offrire – in premessa – la chiave di lettura dell’intero lavoro. Qui non intendiamo proporre soluzioni a buon mercato, rapide e sicure. Vorremmo invitare ad iniziare un percorso di rinnovamento della forma dell’oratorio che – includendo anche la dimensione immobiliare – lavora sul nucleo essenziale della sua proposta.
    Tale introduzione tocca tre punti. Il primo richiama le ragioni che hanno guidato la realizzazione di questo dossier. Il secondo richiama la necessità di collocare la riflessione sulla struttura dell’oratorio all’interno di una revisione sostanziale del progetto educativo dell’oratorio, che prende le mosse dall’incontro con il destinatario e dallo studio del contesto territoriale. Il terzo punto accenna molto brevemente ai criteri qualificanti del discernimento ecclesiale.

    Sul primo punto è sufficiente dire questo: il dossier segna un iniziale passo esplicito di riflessione attorno ad un tema che agita e preoccupa molti. Non è forse un caso che la Rivista abbia deciso di affidare questa riflessione iniziale alle diocesi lombarde. Infatti, proprio l’oratorio lombardo rappresenta un caso interessante. Esso si presenta anche (soprattutto) esteriormente come un ambiente riconoscibile, codificato e strutturato. Strettamente connesso al vissuto sia della parrocchia che della comunità civile, e parte integrante della trama che costituisce il tessuto della comunità locale.
    Vogliamo quindi aprire esplicitamente la riflessione sull’oratorio inteso come edificio e come struttura visibile, riconoscibile, identificabile. Questa scelta è mossa a sua volta da una constatazione che sta maturando da diversi anni. E cioè: che – sotto il profilo quantitativo – gli oratori lombardi siano sproporzionati e non sempre adeguati. Qualche parola di spiegazione e di approfondimento.
    Sono sproporzionati sia rispetto alla popolazione giovanile della regione, sia rispetto alle modalità e ai tempi di socializzazione che questa generazione esprime, sia rispetto alla partecipazione alla vita della comunità religiosa locale che questa generazione pratica. Si avverte poi una certa sproporzione sia rispetto alle energie educative che la parrocchia riesce effettivamente a mettere a disposizione, non solo per l’attività gestionale, ma – punto assai più delicato – per l’attività progettuale, sia rispetto alle forze presbiterali, religiose e laiche effettivamente disponibili al servizio educativo. Precisiamo che questa riflessione si basa non solo o non tanto su sensazioni raccolte dal territorio e dagli operatori, ma più seriamente su studi e ricerche che la giustificano. Studi e ricerche che in parte sono già state svolte e in parte sono in fase di avvio. Va anche detto che la diffusione capillare impressionante degli oratori in Lombardia non risponde ad una logica di affluenza e di riempimento ma di proposta. L’oratorio è indubbiamente tra le espressioni più riuscite e longeve del cattolicesimo popolare nel territorio lombardo, espressione di una Chiesa che si pensa di tutti e per tutti, e che per questo propone a tutti l’esperienza elementare del Vangelo. Occorre cautela e prudenza rispetto all’istinto prevalente – anche tra gli addetti ai lavori – che talvolta tende a liquidare troppo frettolosamente questa modalità ecclesiale definendola come ormai del tutto superata.
    Al senso di sproporzione (detto in una parola con una espressione rapida: sono troppi, e sono alternativamente pieni e vuoti) si aggiunge l’intuizione di una certa inadeguatezza. Sul piano specificamente spaziale, l’oratorio lombardo somma in un’unica sede almeno due tipologie di strutture: l’edificio scolastico e l’impianto sportivo. Di cui il primo – per necessità – esprime esplicitamente l’idea di una formazione catechistica statica, razionale e di stampo scolastico. Da fare in un’aula. Come a scuola. Il canone scolastico-sportivo ha avuto l’ovvio vantaggio di integrare con un certo successo altre dimensioni altrettanto costitutive dell’esperienza oratoriana: penso alle esperienze espressive e artistiche (quanti piccoli e grandi teatri praticamente presenti in ogni parrocchia e oratorio!) e a quella di socializzazione e ricreativa, fino ad integrare quella abitativa (le esperienze di vita comune dei giovani).
    Questa forma di oratorio, pensato come dispositivo educativo integrato, con il suo impianto complessivo e articolato, ha risposto adeguatamente per decenni a molteplici esigenze educative, sia famigliari che sociali, e soprattutto ecclesiali. La continuità tra l’oratorio e la Chiesa, ossia tra la dimensione educativa-ricreativa e la dimensione religiosa personale e sociale, sembrava essere garantita anche dalla continuità spaziale. Se non sotto il profilo propriamente personale credente, almeno sotto il profilo della intuizione di senso soggiacente a tale esperienza.
    Viene ora da chiedersi – legittimamente – se questa forma sia ancora adeguata o se il progetto educativo complessivo debba essere rivisitato e rinnovato, e quanto. Il senso di crisi infatti, non riguarda solo l’affluenza e il gradimento. Potremmo dire l’audience che l’oratorio ancora oggi riscuote. La sensazione che è che occorra scavare più in profondità. È in crisi il processo di costruzione di senso che consente al soggetto di passare dalla pratica al suo significato, anche religioso. Se in passato questo passaggio avveniva quasi automaticamente e naturalmente nella vita personale, oggi l’identità del soggetto individuale si sta sempre più qualificando come serbatoio di accumulo e consumo di dati ambientali e di emozioni indecifrate – quasi totalmente privo di criteri interpretativi – ed è sequestrata dal criterio del più alto gradimento e della soddisfazione dei propri bisogni, che da soli non aprono ad alcuna relazione successiva. I processi di costruzione di senso diventano prolissi. Caratterizzati da discontinuità, interruzioni e riprese imprevedibili. Un tracciato meno lineare rispetto all’immaginario dei processi educativi nel recente passato.
    Questa crisi – è la lettura dell’autore di queste note introduttive – genera notevole sofferenza alla comunità ecclesiale, fino al punto di provocare istintivo rigetto verso alcune esperienze che l’hanno costituita. Si è tentati di credere che la soluzione a questo problema derivi da una scelta identitaria forte, essenziale, semplificatrice. Ci si illude che sia sufficiente gridare più forte il Vangelo, esplicitare l’annuncio. Questa illusione trova facilmente un complice nella percezione di indebolimento crescente che interessa oggi il corpo ecclesiale. Pur volendolo, la comunità sente oggi di non riuscire più a fare tutto quello che ha sempre fatto finora. Uno stato di cose che porta inevitabilmente alla scelta del ridimensionamento – prima come distacco psicologico che come decisione pratica – a cominciare dalle esperienze percepite come più esterne o addirittura estranee, relativamente a ciò che si ritiene il nucleo essenziale dell’evangelizzazione.
    Una immediata conseguenza è il senso di estraneità del corpo e dei processi educativi che lo riguardano. Si torna ad una pericolosa semplificazione dei percorsi formativi, riconoscendo valore assoluto alla dimensione razionale, a scapito di quella più faticosa – ma realistica – che vuole considerare l’intero della persona. La cura educativa della interiorità non può separarsi dalla cura educativa della corporeità. L’anima non si dà come un concetto astratto. Ma nell’unità con il corpo.
    Questa sensazione di crisi scava quindi in profondità. La riflessione sulle strutture innesca inevitabilmente la domanda sulla qualità del progetto educativo ecclesiale complessivo, di cui l’oratorio è strumento. La serietà della riflessione implica la presa in carico e la cura dello stato d’animo ecclesiale. Quel distacco psicologico tale per cui è come se la comunità dicesse all’oratorio: non so più chi sei, non so più perché sei qui, non so più cosa possiamo fare insieme. La censura della crisi e della sofferenza non risolvono il problema. Nemmeno è sufficiente fare appello ai principi ideali. È indispensabile e urgente lavorare insieme con generosità e impegno ai processi educativi ecclesiali. Per evitare che la crisi produca una frattura. Per evitare che l’unica risposta portata come soluzione sia quella della – indiscussa – utilità sociale dell’oratorio. Non è questa la sintesi che auspichiamo. In quanto determinerebbe l’attrazione e lo scivolamento dell’oratorio verso l’ambito delle prestazioni sociali. È sempre quindi necessario investire le migliori energie ecclesiali nella elaborazione teorica e pratica di una forma dell’oratorio fondata sulla testimonianza credente della comunità educante da cui deriva un’originale proposta educativa possibile per tutti, che si qualifica come esperienza di relazione e di responsabilità.
    La domanda, quindi, tocca la qualità e l’efficacia dell’esperienza educativa ecclesiale nel suo complesso, inclusi quindi anche gli spazi in cui questa accade. Occorre anzi fare molta attenzione a non separare questi aspetti. Per non investire ingenuamente energie smisurate su muri, tetti e cortili, illudendoci che questi – da soli – possano fare qualcosa. La riflessione sulle strutture quindi richiama inevitabilmente la riflessione sul progetto complessivo dell’oratorio. Richiama quindi la comunità ecclesiale alla propria responsabilità educativa originale. La richiama a pensarsi come comunità educante e a superare la logica del mantenimento e della sopravvivenza, non tanto di se stessa, ma della immagine – talvolta nostalgica – che ha di se stessa. La richiama alla necessità della propria formazione. Intende risvegliarla dallo stato di inerzia in cui spesso si trova e la incoraggia ad osare sentieri nuovi. A provare di nuovo l’inquietudine dell’assenza e il brivido dell’intraprendenza. Perché la posta in gioco è veramente alta. E non riguarda la gestione immobiliare. Ma più in profondità, l’ideazione di nuovi dinamismi di evangelizzazione in questo mondo frenetico e impazzito.

    Secondo. I diversi contributi del dossier intendono affrontare la questione delle strutture oratoriane da diversi approcci. In questo studio abbiamo voluto privilegiare l’attenzione al contesto urbanistico e sociale in cui gli oratori cercano di realizzare la loro missione educativa. Riteniamo infatti che il territorio non sia un oggetto inanimato e che lo spazio non sia soltanto materia a disposizione. Ogni territorio ha la sua biografia e il suo vissuto. Potremo dire che ogni territorio ha la sua identità, in cui la dimensione geografica e urbanistica gioca un ruolo determinante. Questa considerazione è abbastanza nuova nell’ambito della riflessione pastorale sull’oratorio. Più facilmente l’elaborazione teorica del progetto educativo individua alcuni aspetti educativi di riferimento, li confronta con il dato evangelico e li declina nel contesto concreto, più o meno adattandoli alla situazione reale. Il territorio, quindi, appare solo successivamente alla fase di elaborazione valoriale che viene svolta quasi privatamente e separatamente dall’ambiente reale per cui essa è pensata e in cui essa è chiamata a prendere forma. Ne risulta che il territorio è accessorio al progetto.
    Lo stesso destino riguarda chi comunemente viene indicato come il destinatario del progetto: cioè i giovani, gli adolescenti e i ragazzi. Individuati i valori educativi di riferimento questi vengono declinati per le diverse fasce di età, a seconda dei bisogni e degli interessi prevalenti. Anche il destinatario, quindi, come il territorio, entra in gioco molto tardi e senza possibilità di espressione. Nell’incontro con il destinatario e con il territorio il progetto si limitava a prevedere un lavoro di traduzione e di interpretazione. Sostanzialmente in un processo di comunicazione a senso unico: dal progetto al destinatario. Non c’è traccia né allusione ad una dinamica di reciprocità. Non era del resto necessario. Fortunatamente il Sinodo sui giovani recentemente celebrato ha spazzato via questa modalità scadente e superata di progettazione educativa. L’annuncio del Vangelo infatti è sempre contestualizzato e situato in un incontro reale con una persona concreta e con la sua condizione esistenziale, biografica e territoriale. La pastorale non è mai il momento esecutivo e successivo di un processo discendente innescato nelle camere segrete di qualche ufficio parrocchiale. La pastorale è un fatto che accade precisamente nel momento stesso in cui avviene l’incontro. Ammesso e non concesso che l’incontro avvenga realmente. L’impianto complessivo della progettazione educativa pastorale chiede quindi di essere rivisto e sostanzialmente ribaltato. Diventano prioritari l’incontro e l’ascolto con il destinatario nel suo contesto. Il progetto educativo infatti non ha altro scopo che questo: renderlo soggetto della propria esperienza credente e non recettore passivo di un trasferimento di dati religiosi. Il progetto educativo deve quindi lavorare con impegno sulle condizioni interiori ed esteriori che consentono questo incontro e che lo rendono possibile ed efficace. In questo quadro devono essere considerate anche le strutture dell’oratorio.

    Terzo. Invitiamo allora alla lettura del dossier. Accanto ai contributi di natura teorica vengono presentate tre esperienze concrete tra le tante attuate nelle nostre diocesi lombarde. Pensiamo che queste possano essere di ispirazione per molti altri, soprattutto per la modalità con cui queste esperienze sono state preparate. Esse nascono innanzitutto da un discernimento ecclesiale e non da iniziative private, seppur geniali. Hanno poi consentito all’oratorio di cambiare forma ma di proseguire la propria missione educativa. Così facendo la comunità ecclesiale ha trovato le energie necessarie all’inevitabile elaborazione del lutto, riconoscendosi nella esperienza nuova appena iniziata. Anche se appena accennati, ci sembra che questi elementi siano indispensabili nella riflessione che si apre: il discernimento ecclesiale ampio e articolato, il cambio di forma che conferma la scelta educativa, una proposta educativa che diventa segno – anche profetico – nel proprio territorio. Un primo passo promettente che apre un tempo di rinnovamento interessante.

    * Direttore Fondazione diocesana per gli oratori milanesi; Coordinatore Oratori diocesi lombarde.


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