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    Vivere di fede nella vita quotidiana /4

    Le parole della fede

    Riccardo Tonelli


    L
    a fede, come tutte le esperienze che afferrano la vita nella sua totalità, esige di essere « detta» per essere compiutamente vissuta.

    Il cristiano dice la sua fede attraverso gesti e parole.
    La passione operosa per il Regno di Dio è uno dei grandi gesti della fede del credente. Sono gesti di fede anche le celebrazioni sacramentali e i riti liturgici.
    Parole sono le differenti e molteplici espressioni con cui proclamiamo i contenuti della nostra fede.
    Gesti e parole, come tutte le espressioni della comunicazione umana, sono sempre nell'ordine simbolico. C'è qualcosa che si vede, si percepisce, si può persino registrare sulla carta, in una pellicola, in un supporto magnetico. Esso si porta dentro una realtà, più profonda e più intensa, che resta invisibile.
    Nel caso della fede, quello che non si vede è la decisione di piegare la propria libertà, affidando la vita all'amore esigente del Dio di Gesù; quello che si constata sono appunto parole e gesti, segnati profondamente dalla cultura del soggetto e del contesto in cui la persona dice la sua fede.
    Quanto più è misteriosa e intensamente personale la realtà nascosta, tanto riesce difficile immaginare il rapporto ed è complesso tentare spiegazioni a fil di logica. Per questo non possiamo sicuramente metterci a cercare le parole per dire la fede, con la pretesa di chiarire tutto a puntino, come se si trattasse di spiegare il funzionamento di un calcolatore. In fondo, solo nella fede siamo in grado di comprendere e pronunciare le parole della fede.

    1. PAROLE UMANE PER DIRE L'INDICIBILE

    Tutte le parole che pronunciamo su Dio, per dire a noi i frammenti del suo mistero che abbiamo scoperto dentro la nostra vita e per dire a lui la nostra gioia di vivere da figli suoi, sono sempre parole umane, fragili e provvisorie come ogni parola d'uomo.
    Non abbiamo altra possibilità a nostra disposizione. Persino Dio, quando ha deciso di farsi parola per noi, per immergerci nella sua vita, si è fatto parola come le nostre, nella parola umana che è Gesù e che Gesù ha pronunciato: lo ricorda in modo solenne il documento del Concilio che riflette sulla rivelazione di Dio: «Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell'uomo, come già il Verbo dell'Eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell'umana natura, si fece simile all'uomo» (DV 13).
    È bello constatare che questa logica vale per le parole che pronunciamo noi, ogni giorno, balbettando qualcosa della nostra fede e della nostra speranza. Ma vale anche per le parole solenni che i credenti hanno progressivamente elaborato per dire autenticamente la loro fede e che oggi la comunità ecclesiale propone come espressione autorevole e consolidata. Tutte restano parole umane, pronunciate nella ricerca e nell'incertezza dell'avventura dei nostri linguaggi.
    Rivelano grandi cose, che resterebbero sconosciute se non passassero attraverso la porta stretta della nostra possibilità di comunicare. Ma nascondono sempre qualcosa che resta indicibile, perché nessuna parola può svelare completamente il mistero santo di Dio.
    Anche Gesù e i suoi interlocutori hanno sofferto di questa esperienza. Gesù ha detto parole e ha fatto gesti che rivelavano e nascondevano Dio. Non tutti infatti l'hanno capito, fino a decidersi ad accogliere il progetto di Dio per la loro vita. Qualcuno l'ha capito così male che l'ha rifiutato violentemente.
    Anche i discepoli, che hanno condiviso un pezzo della loro vita con Gesù, a cui Gesù ha continuamente spiegato le cose che diceva, l'hanno davvero capito poco. Non si vergognano di raccontarcelo, perché si sono resi conto che questa è la condizione normale di ogni parola umana. C'è voluto l'intervento specialissimo e riservato dello Spirito di Gesù, per rivelare alla fine il senso totale di quanto Gesù aveva comunicato loro, giorno dopo giorno (Gv 14,15-31).
    Tutto questo non possiamo considerarlo un limite, triste e poco rispettoso della nostra presunzione. Al contrario, rappresenta il segno meraviglioso di quanto Dio abbia preso sul serio la nostra umanità. Per farci creature nuove, si è fatto solidale con noi in Gesù di Nazaret. Per metterci al corrente dei segreti della sua vita e per rivelarci i progetti che ha verso di noi, continua a parlarci con le nostre quotidiane parole.
    Davvero, il Dio grande e indicibile si fa dei nostri nelle nostre parole umane. E noi gli diciamo la gioia di questa esperienza con le nostre parole umane.

    2. PRENDIAMO SUL SERIO LA DIMENSIONE SIMBOLICA

    Parliamo di Dio e della fede in lui con le nostre parole. Quali dobbiamo cercare e privilegiare?
    Per dire la fede non possiamo progettare parole che siano come quelle che utilizziamo tutti i giorni, nelle nostre conversazioni: sicure, forti, un po' violente o, magari, fatte apposta per imbrogliare le carte. La fede ha un suo linguaggio: assomiglia molto a quello dell'amore e della poesia e pochissimo a quello della scienza e della tecnica.

    2.1. Il linguaggio simbolico

    Tento di spiegarmi un po', analizzando le caratteristiche del linguaggio simbolico.
    Quando poniamo dei segni (diciamo una parola per ricordare certe realtà o poniamo dei gesti per sottolineare atteggiamenti interiori: il bacio, per esempio, rispetto all'amore che due persone si portano), scateniamo un'operazione complessa. In essa si intrecciano tre elementi: il significante, il significato e il referente.
    La parola o il gesto prodotto (in gergo sono chiamati il « significante») sono facilmente constatabili da tutti coloro che li osservano: la parola pronunciata viene udita o il gesto viene visto. Nel rapporto tra due persone nulla finisce qui: il gesto va interpretato e riportato al suo significato convenzionale. Parole e gesti fanno venire in mente qualcosa verso cui sono indirizzati, che evocano e rivelano, anche se non sono mai in grado di obiettivare totalmente.
    La forza evocativa del significante si chiama (ancora in gergo) il suo « significato». In ogni segno c'è perciò qualcosa che si può toccare, udire, manipolare (un gesto, una cosa, una parola) e un suo significato.
    L'insieme di significante e di significato (e cioè il segno) trascina verso il referente (l'oggetto reale che il segno ha il compito di evocare, rendendolo presente e vicino, anche se continua ad essere fisicamente assente). Quel rapido contatto viene interpretato come un « bacio» e gli osservatori constatano che le due persone che se lo scambiano si vogliono bene.
    Si è realizzato un avvenimento linguistico: è stato prodotto un segno.
    Le parole e i gesti della fede percorrono la stessa logica: comunichiamo eventi misteriosi e indicibili attraverso avvenimenti linguistici di natura simbolica.
    Quando diciamo: « Dio è padre», nel significante « padre» evochiamo quel qualcosa, fisicamente assente nella parola « padre», che è dato dall'esperienza di paternità. Il segno « padre» (parola e esperienza di paternità: significante e significato) manifesta, rende presente simbolicamente l'oggetto reale: Dio come padre.
    La struttura simbolica è tutta giocata nel rapporto presenza-assenza, vicinanza-lontananza. Ciò che posso vedere, toccare, sentire chiama in causa e fa venire in mente qualche realtà, fisicamente assente e lontana, ma così implicata in ciò che si constata da essere, in qualche modo, presente e vicina.
    Nella struttura simbolica non possiamo quindi contrapporre presenza e assenza, come facciamo giustamente di fronte a eventi fisici. La realtà che il simbolo evoca è nello stesso tempo presente e assente, vicina e lontana. Il segno rivela e nasconde: rende presente sulla forza dell'autocoinvolgimento personale qualcosa che continua a restare fisicamente lontano e assente.

    2.2. Simboli denotativi o evocativi?

    Il rapporto tra segno ed evento si può realizzare secondo modalità differenti. Semplificando un po' le cose, si possono immaginare modelli comunicativi a carattere denotativo e modelli a carattere evocativo.
    Mi spiego con un esempio.
    Chi cerca un libro in una grande biblioteca, può lavorare sullo schedario o può ottenere l'autorizzazione di accedere alla sala-deposito.
    Lavorando nello schedario, rintraccio la scheda di collocazione del libro desiderato. Essa mi dà informazioni preziose per reperire il libro. Non ho ancora il libro tra le mani. Ma sono in grado di arrivare sicuramente a esso.
    In questo caso, il rapporto tra segno (la scheda) e referente (il libro) è molto stretto e ben determinato. La scheda informa in modo denotativo rispetto al libro.
    La scheda deve contenere informazioni esatte, identiche tutte le volte che ricorre nello schedario.
    Chi invece accede nella sala-deposito, si muove con alcune informazioni generali. Conosce la pianta della biblioteca e conosce la logica di sistemazione dei libri. Forse sa anche in quale scaffale è collocato il libro desiderato.
    Cercandolo, si imbatte in altri libri. Li consulta frettolosamente e forse arriva a concludere che ce ne sono di più aggiornati rispetto a quello richiesto o si convince, a ragion veduta, della scelta prevista.
    L'informazione conduce al libro, in un gioco raffinato di fantasia e di responsabilità personale. Si tratta di un segno a carattere evocativo. Informa, evocando e responsabilizzando.
    Le parole della fede sono sempre di natura simbolica. Di che ordine: denotativo o evocativo?

    2.3. Perché preferire la logica evocativa

    Le prime volte che mi sono posto in modo riflesso l'interrogativo, sono rimasto profondamente inquietato.
    L'ipotesi evocativa mi affascinava, anche come modalità matura di vivere nella fede.
    Eppure non riuscivo a concludere in termini tranquilli. Una lunga tradizione ecclesiale sembra spingere in altre direzioni. Mi faceva anche paura il gioco scatenato della soggettività, a cui sembra aprire la scelta di privilegiare i modelli evocativi.
    Per capirci un po' di più, sono andato all'esperienza fondante della nostra esistenza cristiana: i vangeli e le lettere apostoliche. E ho fatto scoperte che mi hanno rincuorato.
    Gli apostoli e i primi discepoli, quando hanno raccontato la storia di Gesù per testimoniare la loro fede
    in lui, non hanno mai preteso di fare come piacerebbe a noi: dire come sono andate le cose, senza una virgola in più, nel modo più freddo e distaccato possibile.
    Hanno fatto esattamente il contrario. La loro testimonianza è sempre appassionata. Nelle cose che raccontano, la loro esistenza è tanto coinvolta che spesso lo stesso avvenimento dà origine a racconti diversi.
    Per fare un esempio significativo, pensiamo ai racconti della Cena.
    Nel Nuovo Testamento esistono quattro redazioni della Cena: tre dei Sinottici (Mt 26,26-30; Mc 14,22-25; Lc 22,15-26) e una nella prima Lettera di Paolo ai cristiani di Corinto (1 Cor 11,23-25).
    Le redazioni dei Sinottici sono molto simili (non certamente identiche). Si limitano a raccontare il fatto, senza particolari commenti. Paolo, invece, cambia registro. Racconta a cenni rapidi l'avvenimento, tutto preoccupato di sottolinearne le conseguenze sul piano dello stile di vita. Raccomanda la condivisione del pane terreno a coloro che partecipano dello stesso gesto eucaristico. Minaccia di morte spirituale quelli che invece conservano nel cuore e nei fatti la divisione e il sopruso.
    Nel suo vangelo Giovanni non racconta esplicitamente la Cena. Sembra quasi ignorare questo momento solenne della vita cristiana. Propone però un racconto che ha il medesimo ritmo narrativo: la lavanda dei piedi (Gv 13,1-20). Analizzando con attenzione la pagina, ci si accorge dello stesso schema di fondo, quasi a carattere liturgico, fino a sollecitare alla medesima conclusione della Cena: « Fate lo stesso, in mia memoria», raccomanda Gesù.
    Perché racconti così diversi?
    Non sono il resoconto stenografico di un avvenimento, ma la sua espressione nella fede e nella passione di un testimone. L'autore non vuole descrivere dei fatti. Li ripropone come avvenimento salvifico. Li ricorda e li fa rivivere, perché sono la fonte, unica e definitiva, della salvezza. Ma li esprime, allargandoli con le parole della sua fede e con i bisogni concreti dei suoi destinatari.
    Giovanni vuole riportare la comunità ecclesiale allo spessore autentico dell'Eucaristia: Gesù dà la sua vita perché tutti abbiano la vita e chiede ai suoi discepoli di continuare lo stesso gesto. Sembra sostituire il simbolo del pane a quello più provocante della lavanda dei piedi, proprio per sollecitare all'evento che dà sostanza all'Eucaristia: la croce.
    Paolo grida la sua minaccia, nel nome del pane della vita, perché si rivolge a cristiani intorpiditi, consegnati al loro egoismo mentre celebrano il sacramento dell'amore e della condivisione.
    L'evento ricordato, la fede del testimone, la vita dei destinatari sono dimensioni dell'unico racconto.
    La stessa analisi può essere fatta su tutti gli avvenimenti raccontati dai vangeli.
    Basta pensare, per fare un altro esempio, ai testi solenni della preghiera del «Padre nostro»: le parole riprodotte nei testi evangelici sono diverse, anche se la coscienza di aver appreso la preghiera alla scuola di Gesù resta vivissima.
    Risulta evidente una conclusione: i vangeli e le testimonianze apostoliche non sono mai il resoconto materiale degli avvenimenti della vita di Gesù di Nazaret, di cui i discepoli sono stati testimoni; essi sono invece l'espressione autentica di eventi, riscritti nella confessione trepidante dell'agiografo e in dialogo con i concreti destinatari.
    In fondo, i vangeli e le testimonianze apostoliche privilegiano ampliamente la prospettiva evocativa. Ci chiedono di imparare a dire così, anche oggi, la nostra fede, con decisione e coraggio.

    3. LA FEDE DELLA CHIESA PER DIRE LA NOSTRA FEDE

    La constatazione che il linguaggio della fede è sempre di stile simbolico, a prevalente carattere evocativo, sollecita a pensare in questa prospettiva anche il problema della «verità» della fede, così importante per non radicare sul vuoto la nostra speranza.
    Noi possediamo espressioni consolidate per dire la nostra fede. Ci vengono da lontano. Alcune hanno origine direttamente dai tempi della prima comunità cristiana, come manifestazione dell'esperienza fatta con Gesù. Altre sono andate maturando nella coscienza della Chiesa nel lungo cammino dei secoli, e le incontriamo ormai, precise e solenni, nei documenti ufficiali. Altre, infine, propongono, con l'autorevolezza che riconosciamo al Papa e ai Vescovi, il livello oggi raggiunto dalla fede ecclesiale, su temi e problemi importanti.
    Tutte esprimono quel modo comune per dire la fede che ci permette di credere in compagnia con i cristiani dei tempi passati e con quelli sparsi nei quattro angoli del mondo.
    Un fatto è innegabile e decisivo: il credente deve imparare a dire la sua fede nella professione di fede della Chiesa, perché la Chiesa è il luogo della verità, nell'unità e nella carità.
    Il riferimento alle formule della fede ecclesiale e il confronto con i documenti in cui sono contenute non vanno pensati come un progressivo avvicinamento della personale professione di fede a un codice già confezionato e concluso di affermazioni, da ripetere con la preoccupazione di non sbagliare neppure una virgola.
    È certamente importante riconoscere la funzione autorevole dei testimoni della fede e della Parola. L'esigenza è decisiva sempre, per rispettare il progetto di Gesù sulla Chiesa; e lo è in modo particolare oggi, in un tempo in cui siamo tutti ammalati di soggettivismo e ci viene facile e spontaneo sostituire le nostre parole a quelle con cui i credenti hanno confessato la loro fede e la loro speranza.
    Non possiamo però immaginare che questo riconoscimento funzioni solo quando affidiamo al magistero il compito di controllare quale sia ancora la distanza tra la formulazione ufficiale e quella personale. In questo modello, la confessione di fede assomiglia molto all'ascolto di una bella sinfonia musicale, in una camera insonorizzata e con strumenti di registrazione raffinati. Tutto è gradevole, perché la riproduzione è perfetta... e quando non è così, si richiede l'intervento dei tecnici per riparare i guasti.
    La persona del credente è sempre al centro della sua professione di fede. Dice parole che si avvicinano al mistero con la stessa forza coinvolgente dei simboli dell'amore e della poesia.
    Quando pretende di descrivere il mistero in modo sicuro e definitivo, con le sue parole o con quelle prese a prestito dai documenti ufficiali, corre il rischio di perdersi nella ricerca affannosa di qualcosa che non riuscirà mai a trovare.
    Il procedimento è un altro, molto più impegnativo. Siamo invitati a crescere verso le espressioni consolidate e verso l'obbedienza sincera e cordiale nei confronti dei fratelli che hanno il compito di sostenere nella verità la nostra ricerca.
    Tutto questo rappresenta il punto d'arrivo del nostro cammino, la tensione verso la maturità piena, il confronto che giudica e inquieta il nostro quotidiano procedere.
    Diremo sempre la fede con le nostre parole, anche quando riusciremo a dirla con le parole che altri hanno costruito per noi, nella loro fede. Non possono non restare « parole nostre», perché solo così diciamo nella verità la nostra fede.
    Spesso le parole saranno tanto nostre che ci metteremo del nostro: battute, espressioni, inflessioni di voce, qualche virgola di troppo. Non possiamo essere in crisi per questo: perché nessuna parola potrà mai essere tanto perfetta da dire tutto il mistero.
    Ci lasceremo invece inquietare dalla necessità di far progredire la nostra confessione di fede, fino a esprimere la nostra passione e la nostra speranza nel modo che risuona, alto e solenne, nella comunità ecclesiale.
    Tutto questo per una ragione semplicissima e affascinante, che non mi stancherò mai di sottolineare: c'è una differenza sostanziale tra il dire la fede e ripetere una formula di chimica o un teorema di matematica. Nel secondo caso dico cose vere e autentiche solo quando ripeto esattamente ciò che ho appreso. Nel primo, invece, sono nella verità e nell'autenticità quando dico io, con la vita e con le parole che so elaborare, quello che ho sperimentato del dono affascinante dello Spirito di Gesù.

    4. LA PREGHIERA

    I cristiani hanno un modo speciale e originale per dire la loro fede: la preghiera. So che tutti gli uomini religiosi pregano. La preghiera cristiana condivide questa esperienza comune; e la supera in qualcosa che le è tutto specifico.
    Nella preghiera l'uomo parla al suo Dio e gli ricorda preoccupazioni e desideri, sogni e speranze, certo della sua vicinanza. Assomiglia all'incontro con un amico potente, che ha mezzi e capacità per darci una mano. Il cristiano non si vergogna di trattare così il suo Dio. Gesù stesso ci ha insegnato a invocarlo in questo modo (Mt 21,22).
    Nella preghiera il cristiano vive però anche una esperienza diversa. Parla a Dio, ricomprendendosi nel suo mistero. Si contempla, immerso in un amore che tutto lo avvolge, per possedersi nella verità. Non può dire quello che ha scoperto di sé con le parole controllate con cui si esprime nel ritmo della esistenza quotidiana. Ha bisogno di parole intessute di silenzio, di espressioni pronunciate nel vortice dell'amore, della fantasia scatenata in cui si sono espressi alcuni santi.
    Qualche volta le proprie parole non bastano più. E si è contenti di far proprie le parole, solenni e austere, dei salmi, della liturgia, dei padri della nostra fede.
    Pregando, il credente parla a Dio e parla di sé e di Dio. Vive di fede e dice la sua fede.
    L'uomo di fede è sempre un uomo di preghiera.
    Ripensiamo ancora per un attimo a queste ultime riflessioni. Hanno riportato la nostra ricerca sulla fede a un livello che sta oltre il quotidiano esercizio della nostra scienza e sapienza. Ci troviamo immersi in un mondo che non è più quello della vita di tutti i giorni. Ci affacciamo, timidi e felici, alla soglia del mistero di Dio.
    Vivere di fede è un evento specialissimo nell'esistenza di un uomo. Lo colloca in un'altra esperienza esistenziale, pur immergendolo intensamente nel suo mondo quotidiano.


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