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    L'esperienza religiosa (cap. 1 di: Vedere con gli occhi della Bibbia)


    Carmine Di Sante, Vedere con gli occhi della Bibbia, Elledici 1999



    Il capitolo collega insieme tre termini di non facile interpretazione: esperienza, religione e bibbia, intendendo, per quest'ultima, sia il canone ebraico (Antico Testamento) che il canone cristiano (Nuovo Testamento).
    Di qui le quattro parti che compongono questo saggio: la prima dedicata alla chiarificazione del termine esperienza e al perché della sua importanza nell'ambito religioso; la seconda alla fenomenologia del religioso e ai tratti costitutivi che lo definiscono; la terza alla specificità dell'esperienza religiosa secondo la bibbia ebraica; la quarta, infine, alla specificità dell'esperienza religiosa secondo il Nuovo Testamento.
    Più che modi diversi di intendere l'esperienza religiosa - o accentuazioni particolari di alcuni suoi tratti - le quattro parti dispiegano, in maniera progressiva e coerente, il senso dell'esperienza religiosa così come essa si offre all'indagine fenomenologica (la prima e la seconda parte) e all'analisi della testualità biblica sia anticotestamentaria che neotestamentaria (la terza e la quarta parte).
    Scopo del dossier è di aiutare il lettore a scoprire la luce che inabita l'homo religiosus biblico e come essa, celata nel più ordinario e banale dei suoi quotidiani, è possibilità oggettiva ed evento sorprendente per ogni uomo e ogni donna di ogni tempo.

    COS'È L'ESPERIENZA

    Il primato della soggettività

    Se è impossibile intendersi sul termine esperienza, le cui definizioni variano a seconda degli autori e a seconda delle scuole, è meno difficile individuarne alcuni tratti fondamentali che la differenziano e la rendono irriducibile ad altre forme di conoscenza.
    Il primo di questi tratti è il primato della soggettività rispetto all'oggettività, sia essa naturale (il mondo e le sue leggi), istituzionale (la società con le sue norme ed istituzioni) o teorica (sistemi ideologici, filosofici o religiosi). Prima del Concilio Ecumenico Vaticano II i trattati che, nei seminari e nelle università ecclesiastiche, dispiegavano il senso del credo cristiano (creazione, cristologia, soteriologia, ecclesiologia, ecc.) erano costruiti con grande rigore sistematico e razionale ma nonostante questo ed anzi, proprio a causa di questo, non riuscivano a parlare al "cuore" delle persone che vi si accostavano per chiedere ad essi ragioni al loro vivere, soffrire e gioire.
    Parlare di esperienza, nell'ambito del religioso, è affermare, al suo interno, la centralità del soggetto umano, ponendosi in ascolto dei suoi vissuti, delle sue testimonianze e delle sue istanze; e significa ancora, soprattutto, parlare del divino e dei testi che ne oggettivano la presenza e il mistero a partire da questa centralità dove esso appare.

    La riscoperta del pre-razionale

    Il secondo tratto - ulteriore precisazione del precedente - è il recupero del pre-razionale (o pretematico, preconcettuale, prelogico, presistematico, ecc.) della soggettività rispetto alla sua dimensione razionale: dove il "pre-" non va inteso come irrazionale, nel senso di contrario alla ragione, e neppure come un di meno di razionalità, nel senso di una razionalità inferiore rispetto a quella della ragione, bensì come una nuova e più radicale razionalità, anteriore e a fondamento di ogni altra razionalità, sia quella teorico-sistematica che quella scientifico-tecnologica. Tutta la filosofia di questo secolo è stata ed è la messa in discussione del sapere filosofico e scientifico che, illusoriamente, si è voluto solo figlio dell'"Io penso" cartesiano, per scoprire e indagare, alle sue spalle, l'indefinibile e inesauribile mondo del vissuto sulle cui profondità, a sua stessa insaputa, si alimenta. È qui che va individuato il senso profondo della fenomenologia, come nuovo sguardo filosofico sul reale teso, come esprime il termine stesso nel suo etimo, a cogliere il logos, cioè l'intelligibilità e la luminosità di ogni esperienza umana, non apparenza della verità, nel senso deteriore dell'inconsistenza e dell'inganno, ma sua reale apparizione, nel senso positivo di ciò che, rendendosi visibile, si mostra e si dona. A questo livello parlare di esperienza, nell'ambito del religioso, è affermare che il luogo dove esso si rivela non è - né può essere - la ragione che riflette e che indaga, sia pure sui grandi testi religiosi dell'umanità, bensì il vissuto del soggetto. Ciò non vuol dire negare i testi religiosi e il magistero che li tramanda bensì intenderli come le grandi oggettivazioni in cui il vissuto religioso dell'umanità ha preso corpo in forma ideale e alla cui luce ognuno può capire il proprio vissuto religioso, in un rapporto di continua e proficua circolarità ("il circolo ermeneutico").

    Il cambiamento radicale

    Il terzo tratto riguarda il cambiamento radicale che si opera nel soggetto umano. Il termine esperienza non rimanda solo a qualcosa di profondamente soggettivo, nel senso che parte dall'io e si iscrive nelle sue profondità, ma a qualcosa che, soprattutto, lo "tocca", lo "colpisce" e lo "ferisce" (è questo il significato di "affettività", dall'essere "affetti", "colpiti"), mettendolo in discussione e aprendogli nuove possibilità.
    Parlare di esperienza è parlare di un qualcosa che avviene o accade al soggetto umano al di là della sua dimensione desiderativa e progettuale; qualcosa che egli non solo non è in grado di progettare e di volere, ma che, al di là della sua stessa volontà progettuale, lo mette in crisi, lo pone in scacco, lo "in-quieta", proclamando la fine e l'illusione della sua volontà di dominio e del suo imperialismo. Quando si parla di esperienza in senso forte ci si riferisce soprattutto a questa messa in scacco dell'io come razionalità e come volontà progettuale, e come emergenza di una dimensione nuova dove l'io da io di potere si scopre passività, recettività, accoglienza, ospitalità. Ogni esperienza è sempre denuncia del potere dell'io e annuncio di uno spazio dove l'io da padrone si scopre ospite nel senso di ospitato. Ogni esperienza apre lo spazio dell'alterità, dove l'io scopre l'illusione della sua autonomia per percepirsi oltre e altro da come era prima. Da questo punto di vista, la definizione più pertinente di esperienza resta quella di Heidegger: "Fare esperienza di qualcosa - si tratti di una cosa, di un uomo, di un Dio - significa che quel qualche cosa per noi accade, che ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge e ci trasforma. Parlando di 'fare', non si intende affatto qui che siamo noi, per iniziativa e opera nostra, a mettere in atto l'esperienza: 'fare' significa provare, soffrire, accogliere ciò che ci tocca adeguandoci ad esso".[1]
    È soprattutto a questo livello che la categoria dell'esperienza nell'ambito religioso rivela tutto il suo senso: perché tra tutte le esperienze, la religiosa è l'unica che istituisce una vera crisi nel soggetto denunciandone l'autonomia e istituendolo nell'orizzonte della vincolazione e della obbligazione, come vuole l'etimo stesso di religione, da religare, legare. Dischiudere il senso di questo vincolo o legame che istituisce l'esperienza religiosa sarà il compito della seconda parte. Qui, per il momento, è sufficiente avervi accennato.

    Un nuovo sapere

    Il quarto tratto dell'esperienza è la dimensione di conoscenza che essa istituisce. Fare infatti esperienza di una cosa - ad esempio della sofferenza, dell'amore o della preghiera - è instaurare con essa una forma di conoscenza altra dalle altre: non più il sapére derivato dal logos filosofico o scientifico, bensì il sapére come sàpere, nel senso etimologico del sapore. La differenza tra le due forme di sapere è la stessa di quella che intercorre tra chi conosce il sale per via razionale e chi, invece, lo assaggia; oppure tra chi sa cosa è il caldo attraverso la sua definizione concettuale e chi, invece, lo soffre e lo patisce. La differenza profonda tra i due saperi è che il primo attinge il suo oggetto solo indirettamente e che di fronte ad esso il soggetto esercita la sua sovranità di "com-prensione", nel senso della mano che "prende" o "afferra"; mentre il secondo, lungi dal "prendere" l'oggetto, se ne fa passività e recettività, accogliendolo e lasciandolo essere nella sua immediatezza. Da questo punto di vista resta molto pertinente la seguente definizione di esperienza: "Forma particolare del conoscere che sgorga non dal pensiero discorsivo ma dall'immediata recezione di un'impressione. In forza di questa immediatezza, in cui la presenza della realtà esperita si testimonia da sé irresistibilmente, ogni esperienza è accompagnata da una caratteristica certezza".[2]
    Pertanto l'esperienza dischiude un sapere che, come si è notato, lungi dall'essere un sapere inferiore o irrazionale, è il sapere incontrovertibile per eccellenza perché in esso, come vuole la definizione sopracitata, la "realtà esperita si testimonia da sé irresistibilmente", attestandosi come "certezza". Si tratta di un sapere che, per così dire, ha il carattere di una rivelazione, dello svelamento di una dimensione del reale non accessibile attraverso il sapere razionale: "... il concetto di esperienza... riguarda qualcosa che si è subito o vissuto e che permette di scoprire un nuovo senso. Questa scoperta non ha necessariamente il carattere di un sapere. I fenomenologi esistenzialisti hanno richiamato l'attenzione sul carattere rivelatore di alcune esperienze emotive: pensiamo all'angoscia di Heidegger, alla nausea di Sartre, alla speranza di Marcel".[3]
    Riferito all'esperienza religiosa, anche questo tratto è particolarmente importante, perché porta a capire che non è vero che la fede si oppone alla ragione, come vogliono i sostenitori del "salto nel buio" o che ne rappresenta la preistoria infantile, come vuole la lettura illuministica. Come ha mostrato R. Bultmann in tutta la sua lunga ricerca teologica, il credere non si oppone al comprendere quanto piuttosto istituisce una nuova figura del comprendere che, appunto perché ha a che fare con il divino, si vuole decisivo e assoluto per l'esistenza umana.[4]

    L'esperienza tra soggettività e "oggettività"

    Si è sottolineato il carattere profondamente soggettivo - unico e singolare, irripetibile e personale - dell'esperienza: il suo dischiudere al soggetto un nuovo orizzonte che ne modifica l'identità precedente (si pensi all'esperienza affettiva, estetica o filosofica). Ma per quanto profondamente soggettiva ogni esperienza rimanda sempre anche ad una altrettanto profonda dimensione oggettiva.
    Parlando della dimensione oggettiva si intendono soprattutto due cose:
    - che ogni esperienza, per quanto si voglia singolare e personale, nasce sempre al di dentro di una determinata tradizione o cultura. Ciò non vuol dire - si noti bene - che la tradizione generi l'esperienza ma che nessuna esperienza è possibile senza il riferimento ad una determinata tradizione o tradizioni dalle quali il soggetto si sente portato. In ogni esperienza personale c'è sempre riflessa, in un modo o nell'altro, l'esperienza della propria tradizione entro cui si nasce e dalla quale si è alimentati;
    - che ogni esperienza ha bisogno di un linguaggio per esprimersi e dirsi: non solo al cospetto degli altri (ciò che sarebbe comprensibile, dal momento che per comunicare con l'altro bisogna necessariamente assumerne il codice) ma, prima ancora, dinanzi al proprio stesso io. L'esperienza, infatti, diventa comprensibile al soggetto stesso che la vive solo nel momento in cui la immette nell'ordine del linguaggio (prima che tematico pretematico) e del confronto con la tradizione e la cultura entro cui e di cui vive.
    È ovvio che, sia per chi scrive come pure per i lettori della rivista, il contesto reale entro cui mediamente fiorisce l'esperienza religiosa è quello cristiano, soprattutto nella sua figura cattolica (senza dimenticare la figura protestante). Ed è, pertanto a questa tradizione che si farà soprattutto riferimento per capire il senso dell'esperienza del divino.
    Se, infine, ci si chiede qual è il rapporto tra la dimensione soggettiva e la dimensione oggettiva, tra l'esperienza dell'io e la tradizione entro la quale egli si vive e si comprende, la risposta è complessa. Si tratta di un rapporto praticamente non definibile a priori e mai definito una volte per tutte; pertanto un rapporto fluido e dinamico che varia a seconda della storia dei soggetti e della particolare configurazione della sua tradizione nel corso delle epoche; di un rapporto "mobile" e instabile il cui equilibrio è continuamente minacciato o dall'assorbimento del polo soggettivo in quello oggettivo o, viceversa, dall'assorbimento del polo oggettivo in quello soggettivo. Nel primo caso, tipico dei periodi storici chiusi al cambiamento e all'adattamento, la dimensione soggettiva tende a scomparire in quella oggettiva; nel secondo caso, tipico dei momenti storici ricco di grandi rivolgimenti dove ai soggetti viene a mancare il "terreno" del passato, è la dimensione oggettiva che tende a diluirsi e perdersi in quella soggettiva.
    Per quanto riguarda l'esperienza religiosa, la situazione attuale sembra caratterizzata dall'assorbimento del polo oggettivo in quello soggettivo, dal prevalere della soggettivizzazione o ipersoggettivizzazione che assorbe al suo interno la dimensione oggettiva.
    La figura radicale di questa soggettivizzazione è quella di chi rifiuta qualsiasi riferimento alle tradizioni religiose costituite, per crearsi una esperienza religiosa che si vuole esclusivamente - e c'è da chiedersi se non forse illusoriamente - personale.
    Una seconda figura è quella di chi, invece, si ispira a più tradizioni contemporaneamente, "spigolando" qua e là e prendendo sia da una parte che dall'altra, secondo il criterio del "ciò che più piace e aggrada".[5]
    Una terza figura, infine, è quella di chi, pur restando dentro la propria tradizione religiosa, vi aderisce liberamente, scegliendo, per così dire, e selezionando quello che più piace in base ai propri "bisogni" e esigenze. Forse è questa la figura che si sta più diffondendo e che si esprime in una forma di scissione o schizofrenia tra quello che il magistero istituzionale insegna (si pensi, per fare un solo esempio, all'etica sessuale) e quello che i fedeli fanno.

    L'ESPERIENZA RELIGIOSA

    Il confronto con le grandi religioni

    Per quanto la soggettivizzazione dell'esperienza religiosa sia un fatto positivo perché restituisce l'incontro con il divino alla singolarità del soggetto umano, essa, però, corre il rischio di alienarsi, quale ennesima figura dell'io desiderativo o progettuale, se non accetta il confronto con le grandi tradizioni religiose che delle esperienze del divino sono le interpreti e le custodi. Chi dice infatti se la mia esperienza di Dio è veramente tale? Quali sono i tratti che la definiscono e la differenziano dalle altre esperienze quali quella, ad esempio, affettiva, filosofica o estetica? E se la biografia spirituale di un soggetto attesta il passaggio da un'esperienza religiosa all'altra,[6] quale, fra tutte, è da ritenersi la più autentica? Cos'è, insomma, l'esperienza religiosa?
    Il senso di queste domande è che, chi ritiene di fare esperienza religiosa, prima o dopo non può fare a meno del confronto critico con le grandi tradizioni religiose, mettendosi in ascolto dei loro testi e dei loro riti dove prende corpo e si tramanda l'esperienza del divino dei "fondatori" storici delle religioni umane.
    E quale, allora, l'esperienza del divino che prende corpo in questi grandi testi?
    Per quanto sia difficile ricondurre ad unità le molteplici espressioni religiose dell'umanità,[7] comunque, attraverso lo studio della comparazione e dell'analisi fenomenologica, è possibile individuare i tratti ricorrenti e peculiari che, nel loro insieme, definiscono, al di là delle differenze, la sostanza dell'esperienza religiosa, di cui le religioni storicamente date sono le diverse oggettivazioni e interpretazioni. Accenniamo ad alcuni di questi tratti, partendo dalla definizione che G. Filoramo ha dato, con metodo induttivo, della religione nel suo recente Dizionario delle religioni:[8] "Insieme di credenze e di riti che collegano uno o più individui con uno o più esseri extraumani". Alla luce di questa definizione - che, proprio per la sua elementarità può essere considerata comprensiva di ogni altra - l'esperienza religiosa è esperienza del soggetto umano di un qualcosa di extraumano.
    Proviamo ad approfondire attraverso quattro momenti riflessivi il senso di questa esperienza dove il soggetto umano incontra (o, meglio ancora, dopo quanto si è detto sull'esperienza: dove al soggetto umano accade di essere incontrato da) un extra che lo segna e lo cambia radicalmente.

    La dimensione dell'alterità

    L'esperienza religiosa è l'esperienza che il soggetto umano fa di un qualcosa che gli è "extraumano"; stando alla definizione descrittiva di Filoramo: di "uno o più esseri extraumani". Qui extraumano non vuol dire extraterrestre, come nell'accezione comune abituale ma, secondo proprio il suo etimo, ciò che - impersonale o personale - rimane extra, cioè fuori dell'umano, al di là e oltre il suo orizzonte. Nelle grandi religioni questa dimensione di estraneità - di una dimensione altra dalla dimensione umana - viene vissuta ed espressa in vari modi e prende corpo in una molteplicità di linguaggi e di nomi non facilmente riconducibili ad unità: come cielo, montagna, albero (simboli materiali), progenitori, antenati, eroi, dei, dee (simboli personali) o, come nelle religioni monoteistiche, come Dio unico e personale. Al di là delle loro differenze profonde e irriconciliabili queste diverse figure religiose rimandano tutte ad un comune significato fondamentale: la presenza nell'umano di un qualcosa che trascende l'umano, costituendosi, rispetto ad esso, come radicalmente altro. Gli studiosi del fenomeno religioso esprimono questa dimensione radicalmente altra dall'umano con la categoria del sacro, categoria che richiama quella del profano e che si definisce in rapporto a questa come sua negazione o trascendimento. L'autore che, più di ogni altro, ha messo in luce questa dimensione del "totalmente altro" del sacro rispetto al profano è Rudolf Otto che, nel suo celebre saggio intitolato Il sacro [9] e ritenuto un classico, individua i due tratti costitutivi del sacro nella duplice dimensione di tremendum (timore/paura) e di fascinans (attrazione/incanto). L'esperienza del sacro oggettivata nelle religioni è, per Otto, l'esperienza di quanto, per la sua radicale alterità e novità, è, contemporaneamente, esperienza "tremenda" e "affascinante".
    Si chiami, extra, sacro, alterità o totalmente altro (o con altri nomi quali numinoso, divino, trascendente o altrimenti che essere) l'importante è cogliere il contenuto che termini come questi intendono esprimere: l'esperienza di un qualcosa nell'umano che, come si è già detto, resta fuori e oltre l'umano. Parlando di fuori ed oltre si utilizza dei simboli spaziali e temporali i cui significati fondamentali sono almeno due.
    Il primo è di istituire una differenza sostanziale e irriducibile tra il "mondo" dischiuso dall'esperienza religiosa (il sacro) e gli altri "mondi" disegnati delle facoltà percettive, estetiche o razionali (il profano). L'esperienza religiosa è esperienza di questa differenza, della sua novità assoluta e radicale che non ha riscontro o paragoni e che, per questo, si presenta, a chi la vive, come unica e as-soluta, sciolta, slegata, indipendente (è questo il significato etimologico dell'as-soluto), senza legami con gli altri mondi: né di idealizzazione (come nell'esperienza estetica), né di manifestazione o apparizione (come il corpo "manifesta" e "fa apparire" la mente o lo spirito) né di produzione o concatenazione (come l'effetto viene prodotto dalla causa). L'esperienza religiosa è sempre esperienza dell'as-soluto, di un "qualcosa" o di un "qualcuno" che, nel suo essere esperito, è esperito al di fuori della logica di ogni determinismo: sia quello della necessità, del principio o del progetto.
    Ma differenza radicale non vuol dire irrelazione o distanziamento bensì, paradossalmente, profonda relazione e vicinanza. Ed è questo il secondo significato del simbolo dell'esteriorità che caratterizza l'esperienza religiosa: che è sì esperienza di un "qualcosa" o di un "qualcuno" che è radicalmente esteriore al soggetto ma che, proprio nel suo essergli esteriore, gli è più interiore del suo stesso io psicologico e razionale, sovrastandolo irreversibilmente e istituendone una identità così radicalmente nuova da introdurlo, per la prima volta, nella terra della verità e della felicità.
    A. Frossard, entrato per caso alle 17.10 in una cappella del quartiere latino di Parigi dove, inginocchiato, stavano pregando le suore dell'Adorazione Riparatrice davanti al Santissimo Sacramento esposto, ne esce 5 minuti dopo così profondamente cambiato da scrivere che "quel mondo fatto in precedenza di pietra e di catrame" gli si era all'improvviso trasformato in un "gran giardino dove mi sarebbe stato permesso di giocare per tutto il tempo che sarebbe piaciuto al cielo". L'extra - che le diverse religioni nominano in vari modi e che per Frossard ha il nome del Dio personale rivelatosi nel Gesù adorato nel segno sacramentale del pane consacrato - è potenza di trasformazione che ridefinisce il reale da "mondo fatto di pietre e di catrame" (il profano) a "un gran giardino" dove ormai è permesso all'uomo "di giocare" (il sacro). La sostanza di ogni esperienza religiosa è l'esperienza di un extra - differenza, alterità, trascendenza o fondamento, ecc. - che è, sì, altro dall'umano ma non come sua opposizione o dualismo ma come suo principio di ridefinizione che lo sottrae alla apparenza e alla vacuità per insediarlo nell'ordine della dignità e della verità. Il sacro - il mondo al quale introduce l'esperienza religiosa - non è un mondo altro dal profano ma il profano sottratto all'apparenza e alla vacuità e insediato nell'ordine della dignità e della verità.

    La dimensione del Senso

    Parlare dell'esperienza religiosa come esperienza di un extra - oppure come esperienza dell'alterità o differenza radicali - è utilizzare una categoria concettuale sommamente astratta che, proprio per il suo livello di astrazione, da un lato ha il vantaggio di essere applicata a tutte le religioni dalle "primitive" ed elementari (come, ad esempio l'animismo) alle più complesse ed universali (come, ad esempio, quelle del monoteismo); dall'altro, coprendo un'area così estesa e diversificata, di poter essere ritradotta e ripensata in altre e nuove categorie più concrete ed esistenziali. Tra queste, quella più utilizzata dalla maggior parte delle tradizioni religiose è la categoria della salvezza: l'esperienza di sconfitta del negativo che minaccia l'esistenza umana (come, ad esempio, la malattia o il pericolo di un naufragio) a vantaggio del positivo (restando nell'esempio, la guarigione o lo scampato pericolo) colto e vissuto come potenza rigeneratrice; oppure la categoria abbastanza simile della redenzione: l'esperienza della soggettività bloccata, "legata" ed incatenata (come, ad esempio, lo schiavo o il carcerato) sorpresa dal dono imprevisto della liberazione. L'esperienza dell'extra è esperienza di salvezza e di redenzione; incontrare (o meglio: essere incontrati dall'extra) è vivere l'esperienza di chi, malato, recupera la salute, naufrago la vita o prigioniero la libertà.
    Oltre però che dalla categoria della salvezza e della redenzione, il contenuto dell'extra dell'esperienza religiosa può essere ridetto e approfondito attraverso la categoria del Senso,[10] categoria che, rispetto alle due precedenti della salvezza e della redenzione, ha il vantaggio di parlare anche al lettore secolarizzato (e quale lettore, anche se credente o cristiano, non è oggi, almeno in parte, anche lui "secolarizzato"?) per il quale l'area del religioso sembra ridursi o eclissarsi con il rischio di non comprenderne più i linguaggi.
    Quando si parla di senso bisogna distinguere una duplice accezione del termine: una soggettiva, legato all'intenzionalità di chi pone un gesto o compie un'azione, e l'altra oggettiva, indipendente e anteriore all'intenzione dello stesso agente. Se, per es., un bambino prende tra le mani un libro e, con le forbici, si diverte a ridurne le pagine a pezzi, dal punto di vista soggettivo un comportamento come questo ha un senso: è voluto in vista dell'ottenimento di un fine (giocare o vendicarsi del papà al quale vuole fare un dispetto); ma dal punto di vista oggettivo (cioè dal punto di vista di un osservatore esterno: ad es. di chi l'ha scritto per trasmettere un messaggio o di chi l'ha comprato, rimettendoci del denaro) un comportamento come questo non ha senso, perché nega e cancella il fine che vi è immanente: il suo senso (quello del bambino di giocare o di vendicarsi) si realizza attraverso un atto di violenza nei confronti di un altro senso (quello dell'autore anteriore e intrinseco al testo) al quale ci si chiude per sempre.
    Alla luce di questa distinzione fondamentale le religioni possono essere definite come la testimonianza, nel mondo, del Senso oggettivo; come l'affermazione - affermazione non teorica ma, attraverso i loro miti e i loro riti, attestazione e presentificazione - che, prima di ogni produzione di senso da parte dell'uomo nel mondo, l'uomo e il mondo sono dotati di senso; che prima di ogni agire dell'uomo sul mondo, sia l'uomo che il mondo hanno un senso che è compito del primo assecondare e rispettare. L'extra attestato da tutte le religioni, al di là delle loro figure molteplici e spesso contraddittorie ("animali", "antenati", "eroi", "dei", Dio, ecc.), è l'extra del Senso del reale che non si presenta come nudo foglio bianco dove all'uomo è dato poter scrivere liberamente bensì come pagina "scritta" da decodificare nell'obbedienza creatrice.

    La vita e l'ordine

    In cosa consiste questo Senso oggettivo di fronte al quale ogni uomo e ogni donna si trova con la sua nascita e con il quale confrontarsi nella progettazione dei propri "sensi", dei propri obiettivi e dei propri fini?
    Se ci si pone in ascolto delle grandi tradizioni religiose, attraversando, con un minimo di capacità interpretativa, i loro immensi territori mitici e rituali, si scopre una idea di fondo che tutte le attraversa come la loro anima più nascosta e generatrice: la Vita intesa qualitativamente e assiologicamente. Tutte le religioni, da quelle "primitive" a quelle del monoteismo, sono le "custodi" della Vita nel senso che esse affermano (di quell'affermazione che è l'attestazione) che vivere è valore sommo, che nascere è entrare nell'orizzonte di una esistenza positiva (poco importa se questa positività viene vista come già attuale oppure, come nelle religioni gnostiche e dualistiche, come attesa nel momento dell'uscita dal mondo) e che morire non è il ritorno al nulla ma esso stesso evento dotato di senso (anche qui poco importa il motivo: se perché esso stesso iscritto nel Senso oggettivo, come nelle culture mitiche caratterizzate dal ciclo del nascere e del morire, oppure se perché esso introduce in una vita superiore o nella vera vita, come nelle religioni dualistiche). Per tutte le religioni la vita è sacra - da quella del sasso, a quella del chicco di grano a quella dell'uomo fino a quella dell'angelo - : non per quello che se ne riesce a fare con la propria ideazione e con la propria progettazione ma per quello che essa è in sé e per sé: mistero da accogliere e da adorare.
    Mistero è ciò che, per l'io, è e sarà sempre costitutivamente "in-comprensibile" e "in-dicibile": non perché senza origine ma perché questa è al di fuori del mondo dell'io. Per tutte le religioni la vita è mistero perché essa si offre all'uomo ma non proviene dall'uomo che, appunto per questo (per il suo essere al di fuori del suo arco progettuale) egli non può mai "comprendere", nel senso di "prendere", "afferrare" e dispiegare, potendo solo accogliere, contemplare e ringraziare.
    Insieme all'idea della Vita, c'è un seconda idea di fondo che, con immagini e linguaggi diversi, attraversa i testi mitici e rituali delle grandi religioni: quella dell'Ordine; idea che non si giustappone alla precedente ma la definisce integrandola e precisandola. L'ordine dice, infatti, "limite", "confine", "forma" e sta a indicare che la vita - ogni vita - , non si dà in maniera indifferenziata ma in una molteplicità di figure "finite", nel senso di "definite". Per questo la Genesi, nel racconto della creazione, annota ogni volta che quando Dio crea gli esseri viventi, li crea sempre ciascuno "secondo la loro specie": ciascuno secondo quella misura di vita, oltrepassando la quale non si è più nella vita ma nella morte.
    Le religioni sono custodi della "Vita" e dell'"Ordine". Questa endiadi in realtà vuol dire una sola cosa: "Vita ordinata" oppure "Ordine vitale"; Vita che, perché sia tale, esige di restare entro un ordine da rispettare oppure Ordine come condizione perché la Vita si dispieghi. Questo elemento è molto importante perché introduce al tratto più caratteristico delle religioni: la eticità o la moralità che esse istituiscono ed esigono. È a questo livello - il livello etico - che l'extra attestato dalle religioni rivela la sua identità più vera e radicale: imperativo, istanza, comandamento o voce incondizionata che si erge di fronte alla volontà umana istituendola come responsabile perché è attraverso la reciprocità dei responsabili che la vita si sottrae alla minaccia della morte e fiorisce nella pienezza dell'ordine. Ogni religione, al di là di tutti i suoi miti e riti, nella sua intenzionalità ultima, è l'attestazione di una Presenza di fronte alla quale l'uomo è chiamato a camminare per far trionfare la vita sulla morte e dalla quale è giudicato nel suo operare.

    L'ESPERIENZA RELIGIOSA NELLE SCRITTURE EBRAICHE

    La priorità dell'esperienza etica

    Tra tutte le religioni la ebraica è quella che, come nessun'altra, attraverso la sua sconfinata testualità biblica, talmudica e midrashica, che abbraccia un arco di tempo di quasi quattromila anni che va da Abramo ad oggi, ha interpretato, raccontato e tematizzato l'extra dell'esperienza religiosa come imperativo etico o comandamento ad amare.
    E. Lévinas, il grande filosofo ebreo francese ancora vivente, interrogandosi su cosa sia la bibbia per l'ebraismo e l'occidente, ha scritto: "è la priorità dell'altro sull'io". Cioè: la bibbia, attraverso tutti i suoi libri, i suoi racconti, le sue storie, le sue istituzioni, i suoi miti e i suoi riti, ecc. insegna e vuole insegnare una cosa sola: la priorità dell'altro sull'io, che l'altro è più importante di me e che l'io trova la sua identità - si noti bene: la trova non la perde - nel porsi a suo servizio.
    Se questo è vero, ciò vuol dire che, per la bibbia, si ha vera esperienza religiosa - che, etimologicamente vuol dire sentirsi "legati", vincolati - quando si fa questa esperienza etica della priorità dell'altro sull'io, quando si sperimenta la trascendenza dell'altro sul proprio io, quando si sperimenta la trascendenza dell'"orfano", del "povero" e della "vedova", cioè dell'altro nella sua irriducibile alterità, dell'altro non come parte del proprio mondo ma come essere di bisogno non catturabile dall'io ma solo invocativo nei suoi confronti, che nel suo essere di bisogno grida: "dammi da mangiare, dammi da bere". È in questa trascendenza del bisogno invocativo, irriducibile alla volontà di potenza dell'io desiderante, che per la bibbia si fa esperienza "religiosa": esperienza di un rapporto ad un'istanza che vincola. Il luogo originario dove il trascendente appare all'uomo e lo vincola è nel bisogno invocativo del "povero", dell'"orfano" e della "vedova": nell'alterità dell'altro (o, in termini levinasiani, nel volto) che, inoggettivabile, "in-comprensibile" e inafferrabile, toglie all'io la sua pace e lo "in-quieta", sottraendolo alla falsa pace - la pace dell'egoista - per instaurarvi la vera pace: quella dell'io responsabile.

    L'esperienza etica come dovere

    L'esperienza della priorità dell'altro sull'io è, pertanto, l'esperienza di ciò che si deve all'altro: l'esperienza del dovere, della obbligazione e della vincolazione, l'esperienza di un io che non si celebra più e non si rincorre per realizzarsi - fosse pure per realizzarsi eternamente - ma di un io che senza più poteri, da volontà di potenza come volontà di autoespansione, si scopre volontà di servizio, di diaconia.
    Si tratta di un'esperienza - l'esperienza del fascinans et tremendum di Otto - che è un reale capovolgimento, come emerge da tutti i grandi racconti di "conversione", e istituisce una vera morte e una vera risurrezione.
    Una morte non metaforica ma oggettiva: la morte dell'io come principio autocostitutivo del reale: sia a livello percettivo che a livello organizzativo; la morte dell'io come godimento, come "egoismo", intendendo il termine "egoismo" non moralisticamente, come il tratto in-educato, de-formato, non formato, disordinato dell'io ma come la definizione stessa dell'io, la definizione stessa della vita e del bios, prima dell'apparizione della parola di Dio: "L'egoismo è un fatto ontologico, una divisione effettiva e non un vago sogno che aleggia alla superficie dell'essere... L'egoismo è vita, vita di... o godimento".[11]
    Ma, contemporaneamente, questa esperienza comporta anche la risurrezione; una risurrezione non illusoria, giocata entro il registro desiderativo, ma reale, che il soggetto non pone ma ad esso si impone: la scoperta dell'io come altro dall'io precedente, non più soggetto come protagonista ma soggetto come sottoposto, secondo l'etimo originario,[12] come "eccomi"; e la scoperta del reale non più come oggetto da "prendere" e "com-prendere", ma come dono con cui presentarsi a mani piene al cospetto del "povero", dell'"orfano" e della "vedova", per andare incontro al loro bisogno.
    Ridetto in altri termini: l'esperienza della priorità dell'altro sull'io è l'esperienza della bontà: vera follia, come vuole V. Grossman,[13] perché negazione dei "diritti dell'io" (i "miei sacrosanti diritti"); ma anche vera liberazione ed unico miracolo perché, spezzando l'incatenamento dell'io all'io, infrange per sempre il gioco dei determinismi e la violenza introducendo nello spazio della vera libertà: la libertà non più dell'autoaffermazione ma la libertà per l'amore.

    Eticità e trascendente

    L'esperienza della bontà è, per la bibbia, l'esperienza della vera trascendenza del divino, di quell'extra di cui tutte le tradizioni religiose sono nominazioni e tematizzazioni. Le scritture ebraiche, come nessun altro testo religioso dell'umanità, sono il racconto per eccellenza di questo extra, della trascendenza di Dio sull'umano: di un Dio che non fa corpo con il mondo (che per questo è creato), non fa corpo con nessun popolo (neppure con Israele che per questo Dio sceglie), non fa corpo con nessuna cultura (neppure con una cultura grande come quella dei Faraoni che per questo Dio contesta facendo uscire dal suo interno gli ebrei).
    Il senso di questa trascendenza non è di ordine spaziale o temporale (perché Dio "abita nei cieli" o perché, all'inizio del tempi - in illo tempore - ha posto in essere il mondo) bensì di ordine esistenziale: in tanto Dio è trascendente l'io in quanto lo tocca e lo "ferisce" sottraendogli la signoria e costituendolo diaconia. Dio è Dio, per la bibbia ed è "santo!" ("separato" trascendente) perché, con la sua parola imperativa, rivolgendosi all'uomo, lo sottrae al suo essere progettuale e di bisogno per costituirlo come essere responsabile. La creazione, per la bibbia, è creazione etica: è creazione di un io capace di trascendere il suo essere di bisogno in essere responsabile, capace di bontà, di disinteressamento, di gratuità.
    È questa la ragione per la quale, nella bibbia, il luogo - o traccia - della trascendenza divina nella storia è la giustizia o la bontà: non l'eros, non il desiderio, non il desiderabile, non il piacevole, non l'emozionale (l'orizzonte del "ciò che piace e aggrada" l'io psichico); e neppure il logos, lo spirito, la ragione, il sapere (l'orizzonte di ciò che si offre all'io come oggetto da "comprendere" nel senso di "prendere"). È il giusto: perché il giusto - la bontà - istituisce l'orizzonte del diritto, di ciò che si erge (Diritto: ciò che è "ritto", "eretto") di fronte all'io interrompendone il cammino e transustanziandolo da signore a servitore.
    Per la tradizione ebraica si incontra realmente Dio, non esteticamente o illusoriamente, quando si vive entro l'orizzonte della giustizia o della bontà: dimessi dal proprio io e chiamati a servire l'altro. Da questo punto di vista la giustizia non è, per la bibbia, un fatto orizzontale ma la figura prima della trascendenza, la parola prima e incondizionata del divino nella storia di cui ogni altra parola (sia quella dei testi sacri, sia quella che l'attualizzano, come il rito e il sacramento, come pure quella che la "pensa" come la teologia e la filosofia) è seconda, traendo da essa la sua luce e il suo senso.
    Ogni qualvolta si compie un gesto di giustizia o di bontà lì, per la bibbia, Dio - l'extra, il trascendente a fondamento della vita e dell'ordine - incontra l'uomo ed entra nella storia: "La giustizia resa al mio prossimo mi dà di Dio una prossimità insuperabile. Essa è altrettanto intima quanto la preghiera e la liturgia, che senza la giustizia sono nulla".[14]

    L'esperienza di Dio come amore

    Ma la tradizione ebraica è soprattutto l'affermazione che l'extra - il trascendente il mondo e la storia - ha il volto dell'amore, è anzi lo stesso Amore.
    Il tema dell'amore di Dio è comune alle tradizioni religiose, ma, per la bibbia, esso si riveste di un contenuto nuovo che, nella storia della produzione delle idee, va considerato come una vera rivoluzione. L'amore divino di cui essa, infatti, parla si presenta come amore personale da due tratti peculiari e irriducibili: la gratuità e l'imperatività.
    Innanzitutto il tratto della gratuità. Per la bibbia, infatti, l'amore con cui Dio ama l'uomo è gratuito, nel senso radicale e impensabile di un amore che, pur provenendo da lui, non torna a lui.
    Nell'accezione più comune, la gratuità è il tratto che inerisce a quell'agire voluto come fine in sé e non come mezzo al raggiungimento di un altro. Se ad esempio, do un libro senza farmi pagare o presto un servizio senza esigere un contraccambio, in casi come questi si compie un'azione "gratuita", nel senso che ciò che è compiuto è voluto per sé e non come condizione o strumento per ottenerne un altro ("denaro", "stima" o una ricompensa). Per questo, per il linguaggio ordinario, le attività gratuite per eccellenza sono le attività artistiche, quali, ad es., la danza, la musica, la pittura, il gioco, ecc. (prescindendo qui dal fatto che oggi anche l'arte è catturata dal circuito commerciale), espressioni dell'agire umano sottratte all'ordine della strumentalità e volute come "forme" compiute in sé. Da questo punto di vista il gratuito rimanda all'estetico e, come in espressioni quali "un volto grazioso" o un "abito grazioso", è sinonimo di bello. È questa l'accezione fondamentale espressa dalla grecità, il mondo del kalos kai agathos, del "bello e del buono", dove la congiunzione esprime la totale identificazione tra i due termini: non l'esistenza del buono accanto al bello ma la definizione del bello come buono, come valore sommo. Si ricorderà la definizione aristotelica - entrata a pieno titolo nella tradizione cristiana e ancora oggi prevalente - del Bene come "quod omnia appetunt" (ciò che ogni cosa desidera).
    Ma per la bibbia la gratuità dell'agire più che in relazione al fine (se voluto in sé o come mezzo per il raggiungimento di un altro fine), va soprattutto definita rispetto alla sua origine e qualifica quel tipo di comportamento che il soggetto vuole e pone non come realizzazione del suo io bensì come pura espressione della sua benevolenza: della sua volontà di bene che si china sull'altro per nessun'altra ragione che non sia il bene e la felicità di quest'ultimo, in un movimento di cui il suo io è origine ma non ritorno. Se questo è vero, la gratuità biblica è sinonimo di libertà per l'amore: la libertà non come autoaffermazione (la libertà per l'io) bensì come decisione (la libertà per l'altro) e l'amore non come energia (l'amore di eros o desiderio) dalla quale l'io è portato bensì come scelta (l'amore di agape o alterità) che l'io istituisce nella sua irriducibile singolarità.
    La gratuità dell'amore divino di cui parla la bibbia è questa libertà per l'amore. Una libertà per l'amore altra dal mondo ma che si "incarna" nel mondo, ridefinendone il senso come dono radicale, non metaforicamente ma ontologicamente. Quando la bibbia parla della creazione, questa, per essa, non si identifica con l'essere delle cose ma con il loro essere donate; essa, in profondità, è benedizione: il "dirsi" e "dis-piegarsi" di Dio come Bene, del suo amore che dona le cose gratuitamente per la felicità umana. Narrando che il mondo creato da Dio - la totalità del reale - è "sette volte buono", la bontà che essa dischiude e afferma non è né la bontà funzionale, prevalsa soprattutto con la modernità (le cose "buone" in quanto risposta al bisogno umano), né la bontà estetica, tematizzata soprattutto dalla grecità (le cose "buone" in quanto belle), ma la bontà come libertà per l'amore o come gratuità (le cose "buone" in quanto donate), radice e ragione dell'una e dell'altra.
    Oltre la necessità e oltre la casualità, per la bibbia l'extra che inabita il mondo è Grazia: Presenza la cui identità non è di essere-per-se ma di essere-per-l'altro facendolo essere attraverso il dono e il dis-inter-essamento.

    L'amore esigente

    Se il primo tratto dell'amore di Dio è, per la bibbia, la gratuità, il secondo è il suo carattere di imperatività. Ma come è possibile conciliare la gratuità con il comando, la grazia con la legge? Non sembrano termini destinati a contraddirsi, come è avvenuto nella tradizione cristiana - soprattutto cattolica - dove, essendo stato l'amore biblico coniugato con l'eros greco - la spontaneità come impulso naturale è stata pensata come il valore sommo e intrascendibile?
    Ma per la bibbia tra l'amore gratuito di Dio e il suo carattere imperativo non solo non c'è contraddizione ma, tra i due, si istituisce una profonda correlazione, per cui l'uno è pensabile solo grazie all'altro. Perché per essa, l'amore di Dio per l'uomo - il suo essere gratuito, il suo essere dato al di fuori dell'orizzonte del ritorno - non lascia l'uomo al livello della sola fruizione - o godimento - ma lo sottrae alla logica della passività per ricrearlo a quello della responsabilità: la dimensione dove l'uomo si scopre amato non come termine dell'amore di Dio, bensì come libertà in forza della quale lasciarsi amare e riamare. A differenza dell'animale e di ogni altro vivente, anche essi testimoni dell'amore gratuito di Dio che provvede al loro bisogno con sollecitudine (cf Sal 136, 25), l'uomo è amato nella modalità della responsabilità, di colui che non è costretto a farsi amare ma, secondo l'etimo del termine, può rispondervi nella libertà, positivamente o no. Creare l'uomo, per la bibbia, non vuol dire porlo in essere dal nulla ma trascendere il piano del suo essere (dove le cose non possono essere diversamente da come sono: una pianta, pianta; un animale, animale) ed istituirlo in quella della responsabilità: della possibilità del "sì" e del "no", dove all'uomo è data la possibilità di fare a meno dello stesso Dio vivendo nell'"ateismo": "È senz'altro un grande motivo di gloria per il creatore l'aver messo al mondo un essere capace di ateismo, un essere che, senza essere stato causa sui, ha lo sguardo e la parola indipendenti e si sente a casa sua"[15]
    Appunto perché l'amore di Dio - l'amore gratuito - ha bisogno dell'acconsentimento dell'uomo per essere tale, esso si dà nella modalità del comandamento o della legge. Dio ama l'uomo attraverso il comandamento dell'amore. Cioè: dandogli l'amore, ma nella modalità dell'adesione a questo amore.
    C'è da aggiungere - precisazione fondamentale - che, per la bibbia, il contenuto di questo amore comandato (o comandamento dell'amore) non riguarda Dio, ma l'altro uomo. Comandando, infatti, di amare, Dio comanda all'uomo di amare gratuitamente il prossimo, come lui stesso lo ama; in linguaggio biblico: di amare "lo straniero", "l'orfano", "la vedova", ecc. Il significato di queste "categorie" (le "categorie" rappresentative della marginalità e del disvalore) non è quello di insegnarci che, accanto agli "amici" e ai "figli" (i cosiddetti "nostri") bisogna amare anche gli altri; tanto meno che all'amore "per i nostri" deve essere sostituito l'amore per "i diversi"; quanto piuttosto dischiudere, nella coscienza umana, una nuova modalità di amore: l'amore come bontà, come grazia, come gratuità, come disinteressamento.
    Per la bibbia la creazione - il mondo "sette volte" buono - risplende solo lì dove l'amore gratuito di Dio e l'amore gratuito dell'uomo si incontrano, nella logica dell'alleanza. È nota l'importanza che questa categoria occupa nella bibbia e come essa affermi che, oltre ad essere l'uomo ad avere bisogno di Dio, è anche Dio ad avere bisogno dell'uomo: "Sai sempre nel tuo cuore che hai bisogno di Dio, più che di ogni altra cosa; ma non sai anche che Dio ha bisogno di te, proprio di te, nella pienezza della sua eternità? Come ci sarebbe l'uomo, se Dio non ne avesse bisogno, come ci saresti tu? Per essere hai bisogno di Dio, e Dio ha bisogno di te".[16]

    Specificità della tradizione biblica

    Se tutte le religioni affermano l'esistenza dell'extra dal quale dipende la vita e l'ordine e che costituisce il Senso stesso del reale, la specificità della tradizione ebraica è di cogliere questo extra come un Tu che ama gratuitamente e chiama, nella responsabilità, a fare altrettanto. Se ogni nominazione con cui le religioni si rappresentano l'extra - l'assoluto, il divino, il trascendente - conserva sempre inevitabilmente una certa ambiguità, questa si riduce nel Tu della tradizione ebraica: «Ogni formulazione conduce in errore. Tuttavia, se ne è mai trovata una migliore che il "Tu eterno"? Come diventa privo di significato vicina a essa "l'Essere stesso" e persino il "Fondamento dell'essere" di Paul Tillich! Il Dio di Abramo, di Isacco e di Israele non era l'Essere stesso", e nemmeno fu il "Fondamento dell'essere" colui che ordinò ad Abramo di abbandonare la casa di suo padre, o colui che ordinò all'uomo: "voi dovete diventare santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo", o colui al quale il salmista - e, secondo due evangelisti, anche Gesù - gridò: Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato"? Se una parola come il Tu eterno noi non la consideriamo un concetto, ma la capiamo in ciò che essa cerca chiaramente di esprimere, questa è certa la proposta più feconda sul significato della parola Dio che mai un uomo abbia osato fare».[17]
    Rapportandosi a questo extra come Tu che chiama e il cui amore esige la risposta umana, l'esperienza religiosa della tradizione ebraica si vive ad un livello che trascende e contesta l'orizzonte del desiderio, del "riempimento" e dell'appagamento (non sembra essere questo l'orizzonte in cui fiorisce il boom delle nuove "esperienze religiose" quali quelle, ad esempio, che fanno riferimento alla New Age, la Nuova Era?) e che istituisce l'ordine della responsabilità personale dalla quale dipende la creazione e - a causa della disobbedienza umana che la coarta - la redenzione.
    «Quando io ero bambino - racconta Buber in uno dei suoi più importanti libri dedicati all'ebraismo - lessi una vecchia leggenda ebraica che allora non potevo capire. Raccontava nient'altro che questo. 'Dinanzi alle porte di Roma sta seduto un mendicante lebbroso ed aspetta. È il messia. Mi recai allora da un vecchio e gli domandai: 'Che cosa aspetta?'. Ed il vecchio mi diede la risposta ch'io allora non capii e che ho imparato a capire molto più tardi. Egli mi disse: 'Te'».[18]
    L'extra al quale ogni esperienza religiosa rimanda e che vincola il soggetto umano, per la bibbia è il Tu dell'Amore che, per "realizzarsi" - per farsi mondo e storia, cioè creazione - attende da sempre e in ogni istante la risposta del "tu" di ogni uomo e di ogni donna.

    L'ESPERIENZA RELIGIOSA SECONDO IL NUOVO TESTAMENTO

    Lo stesso orizzonte dell'alleanza

    Per capire in cosa consista, per le scritture cristiane, l'extra dal quale dipende la vita e l'ordine del mondo, non bisogna dimenticare che esso è legato, in profondità, a quello delle scritture ebraiche. È questa la ragione per la quale la chiesa, contro la tentazione marcionita - l'eresia di Marcione, l'eretico del secolo III d.C. il quale riteneva che solo il Nuovo Testamento fosse la rivelazione del vero Dio a differenza dell'Antico, espressione di quello cattivo - ha conservato tenacemente le scritture ebraiche, leggendo il proprio canone al loro interno, come avviene fin dalle origini nello spazio della liturgia, dove alla lettura e al commento del brano neotestamentario si fa precedere quello anticotestamentario. La ragione di questa precedenza non è formale e non ha valore propedeutico (secondo la linea vincente della "tipologia": l'interpretazione secondo la quale l'Antico Testamento "prepara" il Nuovo come sua tappa, anticipandola come "ombra" o "gradino") ma teologico ed essa più che come preparazione al Nuovo Testamento va interpretata come l'orizzonte intrascendibile al cui interno leggerlo e comprenderlo: l'orizzonte dell'alleanza, secondo cui Dio ama gratuitamente, attendendo la risposta obbediente del soggetto umano; e l'orizzonte della creazione, secondo cui dona il mondo gratuitamente chiamando l'uomo a fare altrettanto.
    Se questo è vero, l'extra di cui parla la tradizione cristiana è la stessa di quella della tradizione ebraica: l'extra come Tu di "grazia" - di amore gratuito - che, per "realizzarsi" (riprendendo il linguaggio di Buber precedentemente citato) ha bisogno della reciprocità dell'amore del soggetto umano.

    La storia umana come storia di violenza

    Il dato specifico del Nuovo Testamento non è di contestare questa interpretazione dell'extra (negandola, come voleva Marcione, o relativizzandola, come vuole la lettura tipologica prevalsa nella tradizione cristiana) ma di affermare che di fatto non c'è mai stata la risposta obbediente dell'uomo e che, pertanto, la storia umana, invece che storia di "creazione", è stata ed è storia di "anti-creazione": di violenza e di sofferenza.
    In realtà un'affermazione come questa appartiene alla struttura stessa dell'alleanza per la quale negarsi al volere di Dio - il volere dell'amore come creazione, come mondo "sette volte buono" - non è un gesto che "danneggia" solo chi lo compie, compromettendone la salvezza, ma soprattutto rovina l'intera creazione, compromettendone la riuscita. Il senso di un'affermazione come questa - che, per la bibbia, è fondamentale - può essere illustrata attraverso questo esempio: si immagini una madre che, per l'onomastico del figlio, gli prepara una torta per fare festa con gli amici ma che il figlio non "acconsente" al dono della torta condividendola con gli altri ma se la mangi da solo in anticipo. Un gesto eventuale come questo produce la cancellazione dell'intenzionalità di dono della madre: cancellazione che, di fatto, vuol dire il non dispiegarsi della felicità da lei voluta per il figlio e gli amici; e il figlio che lo compie, prima che nuocere a se stesso, nuoce alla madre (negandone il volere) e nuoce agli amici (impedendone la gioia); e se è vero che nuoce anche a se stesso, in tanto nuoce a se stesso in quanto, prima ancora, ha nuociuto a sua madre e agli amici.
    Per la bibbia l'uomo, negandosi al progetto di Dio - il progetto dell'amore - impedisce ad esso di realizzarsi e la vita del mondo e nel mondo, invece che dispiegarsi come creazione, come bontà e come felicità, si aggroviglia come anticreazione: come ginepraio di sofferenza e di violenza, secondo quanto narra la pagina del capitolo 3 della Genesi dove, dopo la disobbedienza di Adamo e di Eva, allo splendore originario dell'eden fa seguito il triste squallore del luogo di "spine" e di "cardi" e il rapporto d'incanto tra l'uomo e la donna si degrada a rapporto di violenza e di sofferenza. Per la bibbia, a monte del male del mondo c'è il no dell'uomo a Dio e l'orrore di violenza e di sofferenza che insanguina la storia umana non è dovuto a Dio (come vogliono le concezioni cosmogoniche e la concezione greca del fato) e neppure è permesso da lui in vista di un bene superiore (come vogliono le concezioni evolutive e dialettiche) ma va fatto risalire all'uomo, al suo "peccato", alla sua libertà con cui si nega al volere divino.
    Se questo modo di intendere il malum mundi (il male del mondo) appartiene alla struttura stessa dell'alleanza (e, quindi, ancora rientra pienamente nella concezione dell'extra testimoniata dalle scritture ebraiche), ciò che il Nuovo Testamento vi aggiunge è la sua radicalizzazione paradossale: il male che l'uomo fa non è contingente ma inerisce al suo io come una potenza che lo domina inconsapevolmente, come mostra Paolo nella prima parte della lettera ai Romani: "Tutti sono sotto il dominio del peccato, come sta scritto:

    Non c'è nessun giusto, nemmeno uno,
    non c'è sapiente, non c'è chi cerchi Dio!
    Tutti hanno traviato e si sono pervertiti;
    non c'è che compia il bene, non ce n'è neppure uno.
    La loro gola è un sepolcro spalancato,
    tramano inganni con la loro lingua,
    veleno di serpenti è sotto le loro labbra,
    la lor bocca è piena di maledizione e di amarezza.
    I loro piedi corrono a versare il sangue;
    strage e rovina è sul loro cammino
    e la via della pace non conoscono.
    Non c'è timore di Dio davanti ai loro occhi" (Rm 2, 9-18).

    L'extra come perdono

    In una parabola di rara efficacia, recentemente Tournier, contro le ideologie del progresso (che pensano la storia guidata da un principio intrinseco teso alla sua realizzazione finale) ha richiamato con vigore quanto essa, in realtà, sia piuttosto guidata dal principio violenza: "Ogni donna incinta porta in seno due bambini. Quello più forte non tollera la presenza del più debole. Non vuole dividere con lui il nutrimento materno. Lo strangola nella pancia della madre. Lo divora. Poi si affaccia al mondo da solo. Macchiato da quel peccato originale, tradito dalle stigmate che si porta addosso. L'umanità è fatta di orchi. Sì, di uomini giganteschi, con mani di strangolatori e denti di cannibali. E questi uomini vagano per il mondo disperatamente soli, pieni di rimorsi, perché sanno che il loro fratricidio originario ha scatenato il torrente di crimini e di violenza che noi chiamiamo Storia".[19]
    Questa parabola di Tournier esprime efficacemente la radicalizzazione del male operata da Paolo (e, con Paolo, da tutto il Nuovo Testamento) che legge la storia umana in questa prospettiva disincantata, condividendo la concezione apocalittica dell'epoca che, nella coscienza giudaica, aveva fatto esplodere il problema dell'incapacità dell'uomo di compiere il bene in risposta al comandamento dell'amore;[20] ma non si capirebbe nulla di questa radicalizzazione paolina (e del Nuovo Testamento di cui egli è, insieme con Giovanni, l'interprete principale) se subito non si aggiungesse che si tratta di una radicalizzazione paradossale: perché fatta non per sostenere la ineliminabilità del male ma per aprire in essa una breccia mostrando in che modo esso può e deve essere s-radicato (è questo il senso profondo della lettera ai Romani, soprattutto da 3,21 in poi). E il modo attraverso il quale, per Paolo e per il Nuovo Testamento, nella storia di violenza è possibile riaprire la possibilità di una storia non violenta è il gesto di perdono da radicare al suo interno: gesto paradossale che non è né la legittimazione del male, lasciando libero corso alla sua potenza, ma condizione - l'unica condizione in una storia di violenza - per la sua delegittimazione e la sua sconfitta.
    A questa scoperta del principio perdono come principio di ri-creazione del mondo, Paolo non arriva attraverso la riflessione bensì attraverso la sua esperienza del Cristo risorto, nella cui vicenda di uomo ingiustamente crocifisso, che invece di rispondere al male con il male, l'assume su di sé in obbedienza a Dio e per amore all'umanità peccatrice, vede riaccendersi l'amore di Dio nella storia e la reinstaurazione del suo regno come regno di amore e come creazione. Nella vita di Gesù, nelle sue parole e nelle sue azioni, ma soprattutto nella sua morte vissuta non con ribellione ma come atto di amore, Paolo legge il gesto di chi, come il servo di Isaia, "maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca" (Is 53,7) scegliendo di portare lui stesso la violenza invece che reagirvi con una nuova violenza; ma soprattutto vi legge non il gesto sterile di un ingenuo o di un illuso che, vittima delle sue intenzioni, rimane sconfitto dalla verità della realtà (la verità della realtà come realtà di violenza, come vogliono, ad esempio, i miti cosmogonici e il fato della grecità) ma il gesto di chi, nella suprema libertà dell'amore e dell'obbedienza a Dio, non reagendo alla violenza con la violenza, smaschera quest'ultima come irreale (di quella irrealtà che è tale perché fuori dal volere di Dio, che definisce la verità del reale), sottraendola all'ordine della verità e riconsegnandola all'ordine della colpa umana e della contingenza. Detto in altri termini: nella vita di Gesù, nelle sue parole e nelle sue opere e soprattutto nella sua morte in croce, Paolo (e con Paolo tutto il Nuovo Testamento) non vede il realizzarsi di una vicenda personale ma il rivelarsi del mistero ultimo e radicale di Dio come perdono. Dio - l'extra al quale tutte le religioni rimandano e che per le scritture ebraiche è il Tu personale che ama gratuitamente - per il Nuovo Testamento rivela il suo volto ultimo e radicale nel perdono: un Tu che ama di quell'amore impensabile che non solo ama gratuitamente ma che si assume lui stesso il male causato dall'uomo che gli si nega: "Dio ha tanto amato il mondo da dare a noi il suo figlio unigenito" (Gv 3,16).
    È questo l'euagellion, il "vangelo", la buona notizia che le scritture cristiane vedono dischiudersi sulla croce, evento di morte e di risurrezione: di "morte" che capovolge la "morte", secondo la sconvolgente affermazione della lettera agli Ebrei che riassume in questa finalità l'opera di Gesù: "per ridurre all'impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita" (Eb 2, 14-15).
    È questo e solo questo (vincere la "morte" - il negativo - con la "morte" - la sua assunzione nel perdono) il senso dell'evento che le scritture cristiane dispiegano dalla prima all'ultima delle sue pagine

    Il perdono che chiama a perdonare

    Gandhi, una delle coscienze antropologiche più alte di questo secolo e più attraversate dalla originalità del messaggio cristiano, quando fu ucciso il 30 gennaio del 1948, venti ore prima di essere assassinato aveva detto: "Se una pallottola domani mi trapasserà e io cadrò a terra senza inveire contro nessuno, ma invocando solo il nome di Dio, allora è certo che la mia pretesa un giorno sarà riconosciuta".
    Commentando queste parole E. Balducci commenta: "Qual era la sua pretesa? La pretesa di Gandhi è nientemeno questa: che la forza che costruisce un mondo veramente umano non è quella dell'aggressività che usa gli strumenti di morte, ma è la forza della nonviolenza la quale ha il suo momento alto quando, di fronte ad un conflitto, l'uomo non violento addossa su di sé la malvagità del suo avversario soffrendo lui quel che l'avversario dovrebbe soffrire, sicuro che così l'avversario scoprirà lui stesso la propria iniquità".[21]
    Se per il Nuovo Testamento la dimensione ultima e radicale dell'extra - di cui tutte le religioni sono attestazioni e tracce - è quella del perdono che nel crocifisso del Golgota si è fatto "carne" e "storia", il senso di questo perdono trova il suo fine e il suo compimento nell'insegnare il perdono ad ogni uomo e ad ogni donna perché è solo dal perdono, come riconosce Gandhi e come commenta Balducci, che la malvagità - il malum mundi - si autosmaschera e, pertanto, si autocondanna, ridischiudendo, nel mondo, la possibilità della creazione.
    Se il Nuovo Testamento celebra l'extra come perdono e vede in questo l'"evangelo" (la "buona notizia" che, ad un condannato a morte, giunge come sospensione della condanna), non è per interesse speculativo ma per la profonda esperienza e convinzione che questo mondo, malgrado il negativo che lo avvolge, e non per legge divina ma per la colpa umana, è sotto lo sguardo della misericordia e del perdono di Dio; e che, soltanto a chi è capace di accostarlo con lo stesso sguardo di misericordia e di perdono esso, al di là del suo spessore di male, ri-appare nella sua figura originaria di creazione, di "mondo edenico" (Gn 2), "sette volte" buono (Gn 1).
    Parlando dell'extra secondo l'Antico Testamento se ne è notato - caso forse unico nella storia delle religioni - il duplice tratto di amore esigente: l'extra come Tu che ama di amore gratuito e che, con la forza della parola come comandamento, chiede di fare altrettanto. Anche per le scritture cristiane l'extra al quale tutte le religioni rimandano conserva questo duplice tratto, ma ad un livello ancora più radicale: il Tu che ama e chiama ad amare è un Tu che, nel mondo fattosi anticreazione per il peccato dell'uomo, perdona e chiama a perdonare, portando lui, per primo, il negativo del mondo e chiamando l'uomo a fare altrettanto. Per il Nuovo Testamento l'extra del quale tutte le religioni parlano e al quale esse vincolano è l'extra rivelatosi, sulla croce del crocifisso, come perdono ed è consegnandosi a questa logica di perdono che il mondo riscopre il suo senso originario e l'uomo la sua salvezza "eterna".

    CONCLUSIONE

    Il nostro percorso è iniziato con una riflessione generale sul termine esperienza, mettendone in luce il carattere esistenziale: nel senso che il mondo che essa dischiude non è riconducibile né al logos umano né al dinamismo vitale del soggetto umano. Esperienza non è quella che il soggetto umano produce, sia esso il soggetto razionale o estetico, ma quello che al soggetto si offre mettendone in discussione la pretesa dominatrice.
    Ma esistenziale non vuol dire irrelazione con il mondo dell'oggettivo (miti, riti, racconti, tradizioni e istituzioni) che, lungi dall'opporvisi, è polo necessario per verificarne il livello di autenticità.
    Definito il termine esperienza, successivamente si è caratterizzato il senso dell'aggettivo religiosa nella presenza di un extra al quale e dal quale il soggetto umano, come individuo e come gruppo, si sente incondizionatamente vincolato. Al di là di qualsiasi spessore emotivo - importante ma non determinante - la sostanza dell'esperienza religiosa è esperienza di legame o vincolazione (come vuole rigorosamente il termine religione) ad una istanza dalla quale l'io si sente misurato e decapitato nella sua volontà di potenza, chiamato ad un compito che è responsabilità nei confronti dell'altro e del mondo. Stando alle grandi oggettivazioni delle tradizioni religiose, la sostanza dell'esperienza religiosa è stata individuata nel dovere etico e proprio in questa dimensione di dovere essa trova ciò che la distingue e contraddistingue da qualsiasi altra esperienza sia erotica che estetica. Mentre, infatti, queste sono esperienze di autoespansione dell'io, l'esperienza etica è esperienza del suo limite da accettare e da acconsentire. Se questo è vero, c'è da chiedersi seriamente se molte delle esperienze che oggi si pretendono religiose non siano, in realtà, esperienze estetiche che solo ingenuamente o ludicamente si vogliono far passare per incontro con il divino.
    Si sono poi abbozzati i due tratti specifici dell'extra secondo la tradizione biblica - l'extra come Tu che ama gratuitamente e che comanda di fare altrettanto - e si è mostrato come il Nuovo Testamento li riprende e radicalizza dischiudendo, nell'evento del crocifisso, l'amore di Dio come perdono che chiama a perdonare.
    Si ha esperienza religiosa quando si scopre e ci si sente vincolati all'extra, alla cui luce si vive e si interpreta la propria esistenza e il mondo. I nomi che le grandi tradizioni hanno dato a questo extra sono molti e, tra tutti, la tradizione biblica, ha privilegiato quello dell'amore e del perdono. Ma al di là dei nomi ciò che conta è la trasfigurazione che l'extra opera nell'esistenza del soggetto, dischiudendogli la dimensione della salvezza ("sono nella pace") e la dimensione della vocazione ("sono nel mondo per un compito").
    L'esperienza religiosa è esperienza della vita "eterna": della vita sottratta alla apparenza e abitata dal Senso: che è l'amore di Dio che ama gratuitamente.


    NOTE

    [1] M. Heidegger M., In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, p. 127.
    [2] Dal dizionario Herders Kleines Philosphisches Wörterbuch, a cura di Müller, Marx-Halter Alois, Friburgo 1962, p. 50.
    [3] S. Strasser, Antiphénoménologie et phénoménologie dans la philosophie d'Emmanuel Lévinas, in Révue philosophique de Louvain 1977, pp. 121-22.
    [4] Non è senza significato che l'autore citato ha raccolto tutti i suoi scritti in 4 volumi sotto il titolo Credere e comprendere, pubblicati in italiano in un unico volume dalla Queriniana (Brescia 1977).
    [5] Il movimento della New Age ("Nuova era"), che in pochi anni ha raggiunto una diffusione di milioni di adepti ha molto di questa figura.
    [6] Uno dei tratti della situazione spirituale attuale è il "pendolarismo" di molti da un'esperienza religiosa all'altra, sia all'interno della stessa religione, passando da un "gruppo" o "movimento" all'altro, che uscendone per aderire a religioni altre dalla propria.
    [7] A proposito si può consultare la Enciclopedia delle Religioni, Vallecchi, Firenze 1970-1976, in cinque grossi volumi, a cura di M. Alfonso Di Nola.
    [8] Einaudi, Torino 1993, p. 621.
    [9] Feltrinelli, Milano 1973. L'originale è del 1917 ed ha come sottotitolo: L'irrazionale nell'idea del divino e la sua relazione al razionale. Da notare che qui irrazionale non vuol dire ciò che è contro ragione ma ciò che non è il prodotto della ragione.
    [10] Devo l'introduzione di questa categoria ad A. Rizzi, che l'ha proposta e sviluppata come chiave di lettura nel seminario estivo da lui tenuto su La religione a Fiesole nell'agosto 1993.
    [11] Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, Jaca Book, Milano 1990, p. 179 e XXXV.
    [12] Soggetto: da sub-jectum, letteralmente "messo sotto.
    [13] Cf a proposito il mio Pane e perdono. L'Eucaristia celebrazione della solidarietà, Elle Di Ci, Torino 1992, pp. 85-86.
    [14] E. Lévinas, Difficile libertà, La Scuola, Brescia 1986, p. 74).
    [15] E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, Jaca Book, Milano 1990, p. 57.
    [16] M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, a cura di A. Poma, Edizioni s. Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1993, p. 118.
    [17] W. Kaufmann, cit. in nota nell'edizione italiana di M. Buber, cit., p. 111. Nell'individuare nel "Tu eterno" il tratto peculiare del divino, Buber - al quale si riferiscono le parole di Kaufmann - si fa interprete della sostanza e dell'originalità della bibbia ebraica.
    [18] M. Buber, Sette discorsi sull'ebraismo, Carucci, Assisi/Roma 1976, p. 116).
    [19] M. Tournier, Il re degli ontani, Garzanti, Milano 1987 (brano riportato in "La Repubblica" 22.1.1993, p. 28).
    [20] Cf a proposito il 1° capitolo del mio recente saggio Il futuro dell'uomo nel futuro di Dio. Ripensare l'escatologia, Elle Di Ci, Torino 1994.
    [21] E. Balducci, in "Testimonianze" 308/1998, p. 27.


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