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    Cos'è la spiritualità per la Bibbia (cap. 2 di: Vedere con gli occhi della Bibbia)


     Carmine Di Sante, Vedere con gli occhi della Bibbia, Elledici 1999



    L'intento di questo capitolo è triplice: 1) abbozzare una definizione del termine "spiritualità"; 2) presentare gli elementi costitutivi della spiritualità biblica, attraverso l'interrogazione sia delle scritture ebraiche (l'Antico Testamento) che delle scritture cristiane (il Nuovo Testamento), lette in chiave di integrazione e non di contrapposizione; 3) dispiegare - e sarà questa la parte più consistente e ampia del lavoro - i tratti peculiari della spiritualità biblica, alla luce del quadro teologico fatto emergere nel punto precedente.
    Il sottotitolo precisa il destinatario ideale di questo saggio: i giovani di oggi; dove il primo termine ("i giovani") si riferisce a quanti, lasciandosi alle spalle la dipendenza e la sicurezza dell'infanzia e incamminandosi sulla via della responsabilità e della maturità, si trovano, per la prima volta, a confrontarsi con i grandi interrogativi dell'esistenza (l'esplodere della sessualità, la scoperta dell'amore, la relazione con l'altro, la progettazione del futuro, l'esperienza della solitudine, la ricerca del senso, ecc.); mentre il secondo termine ("oggi") dice la peculiare situazione dei giovani della stagione di fine millennio caratterizzati, stando a molte indagini sociologiche, dal prevalere di sentimenti di fragilità, di insicurezza e di narcisismo.
    È pensando a questi giovani, i figli della crisi epocale e della società postmoderna (la società i cui fondamenti e i cui linguaggi nati con la modernità stanno traballando e invocano coraggiosi ripensamenti), che verranno interrogati i testi fondativi della tradizione cristiana, nella convinzione che in essi si celano possibilità di senso che, forse, mai come oggi attendono di essere riscoperte.


    1. Cosa si intende per spiritualità

    Ambiguità di un termine

    Nel 1992 la casa editrice Laterza ha pubblicato il libro di Fernando Savater, Etica per un figlio, dove il filosofo spagnolo intraprende un dialogo per insegnare a suo figlio la via della felicità che consiste - e, per l'autore, può solo consistere - nella ricerca dell'amor proprio" e dell'"egoismo".
    Per l'occasione, intervistato da Franco Marcoaldi sulla Repubblica e richiesto di precisare il senso di questo "egoismo", non esaurito dal solo interesse economico, l'autore ha chiarito: "... come tutti sappiamo bene, esistono molti altri interessi: dall'autoaffermazione, alla creatività, alla necessità di vivere in un mondo più armonico ed esteticamente migliore. Forse che questi non sono interessi altrettanto reali?"[1] conclude: "Mi fan ridere quando definiscono la nostra società ipermaterialista. Al contrario mi sembra eccessivamente spiritualista [2] cosa di più astratto del denaro o delle carte di credito? Se abbiamo perso qualcosa, questo qualcosa fa parte della sfera dei piaceri materiali, fisici, corporali. Per cos'è che rinunciamo alla compagnia, alla parola, alla simpatia? Per una carta di credito, che è una cosa molto più astratta della Teologia di San Tommaso".[3]
    Contrariamente all'opinione comune che vuole l'attuale società dominata dal materialismo sfrenato, il filosofo spagnolo sostiene che essa "sembra eccessivamente spiritualista".
    Si è riportata per esteso questa dichiarazione per offrire un esempio dell'ambiguità del termine "spiritualità" che, per l'autore sopraccitato, è sinonimo stesso dell'astrazione e della simbolizzazione, dal momento che per lui l'attuale società è "eccessivamente spirituale", perché dominata dal "denaro" e dalle "carte di credito".
    Di fronte al termine "spiritualità" si richiede, pertanto, vigilanza critica, non solo per "dis-ambiguare" (sottrarre all'ambiguità) la polivalenza semantica che l'avvolge e che corre il rischio di trasformarlo in strumento di confusione invece che di chiarificazione, ma soprattutto (e questo è importante particolarmente per il credente) per cogliere l'originalità della spiritualità biblica che non è riconducibile alla forma della spiritualità classica e delle altre "spiritualità".

    Due referenti fondamentali

    Il termine "spiritualità" rimanda, semanticamente, a "spirito" ed indica tutto ciò che ha a che fare con lo "spirito". Ma - ed eccoci alla radice della polivalenza semantica e del suo potenziale onnicomprensivo e, quindi, ambiguo - cos'è lo "spirito"? Nella lingua italiana il termine include significati che vanno dallo "spirito" inteso come alcol a quello inteso come fantasma o come arguzia (come nell'espressione: "una battuta di spirito"). Comunque, a parte queste accezioni secondarie, attestate nel linguaggio ordinario, due sono le accezioni più importanti sedimentatesi nel linguaggio riflesso e tematizzato: lo spirito come sinonimo di anima, la dimensione specifica e irriducibile dell'essere umano, e lo spirito come sinonimo di divino, la dimensione oltre e altra dall'umano e dal mondano, relativa a Dio. Parlare di spiritualità è correlare questi due termini, per cui essa può essere definita come l'esistenza umana di fronte a Dio.
    Questa definizione della spiritualità come esistenza di fronte a Dio deve essere intesa a due livelli semantici che, anche se correlati, restano comunque irriducibili.
    Il primo livello è quello del vissuto e dell'esistenziale, il livello metaconcettuale e metalinguistico che, oltre la parola e il discorso, è dentro ogni parola e discorso: a questo livello l'esistenza spirituale è l'esistenza vissuta di fronte a Dio, nell'alternarsi dei giorni e delle notti, nel silenzio delle responsabilità e delle scelte, nel modo di amare, di sperare, di sognare, di soffrire e di morire. Da questo punto di vista ogni esistenza spirituale - l'esistenza di fronte a Dio - è unica e irripetibile, avvolta, come ogni esistenza, nel mistero e quindi - secondo il significato rigoroso del termine - nell'indicibile; e ogni tentativo di violarlo, con il giudizio o con la critica, non è soltanto atto di indiscrezione ma anche gesto di violenza.
    Il secondo livello è quello del discorso, il livello del linguaggio (nel senso ampio del termine da quello poetico a quello più teoretico) e della comunicazione in cui si ritrascrive e si ridice il livello del vissuto: a questo livello per spiritualità non si intende più l'esistenza spirituale ma il discorso sull'esistenza spirituale, l'insieme delle metafore, dei simboli, dei concetti e delle categorie con cui, in una determinata religione o cultura, ci si rappresenta e interpreta l'esistenza di fronte a Dio; qui essa, pertanto, da indicibile si fa dicibile, divenendo oggetto di comprensione (per lo stesso soggetto che la vive), di trasmissione, di confronto e di giudizio; in una parola da fatto personale si fa atto pubblico, oggetto di ermeneutica e possibilità per tutti. Diviene chiaro così che ogni critica ad una spiritualità non é né può essere critica all'esistenza spirituale dei soggetti che la incarnano (da questo punto di vista indicibile, come si è notato, e non giudicabile) ma al discorso e ai modelli che la traducono e la tematizzano.

    Il modello della spiritualità classica

    Se la spiritualità è la narrazione - discorso e tematizzazione - dello spirito dell'uomo di fronte allo spirito di Dio, i modi di intenderla saranno vari, a seconda dei due termini della correlazione in causa. Si avranno così diverse "spiritualità", in base alla comprensione dell'uno e dell'altro e al tipo di articolazione che viene a instaurarsi.
    C'è nell'occidente un modello di spiritualità che, per la sua potenza di convincimento e per il suo radicamento nelle profondità dell'immaginario, da millenni è considerata più che un modello l'unico modello di spiritualità. È il modello greco-platonico, fatto proprio, nel suo dinamismo, dalla tradizione cattolica e giunto fino a noi nella sua struttura di fondo, al di là e nonostante i grandi cambiamenti epocali e le profonde trasformazioni subite nella storia e nella coscienza ecclesiale.
    In questo modello viene affermato un legame costitutivo di affinità tra l'uomo e Dio. Per esso tra ciò che nell'uomo c'è di più specifico ed essenziale, il suo spirito (o, con altri termini che varieranno a seconda dei secoli e delle filosofie e delle prospettive: la sua natura, il suo cuore, la sua anima, la sua volontà, la sua ragione, la sua intelligenza o il suo essere, ecc.) e ciò che in Dio costituisce la sua realtà ultima e radicale, anche qui il suo Spirito (o con altri termini che varieranno ugualmente a seconda delle epoche e delle sensibilità: il suo Essere, la sua Perfezione, Bellezza, Bontà, Intelligenza, Razionalità o Amore, ecc.) esiste un rapporto di correlazione originaria per cui l'uno è fatto per l'altro.
    Si tratta di una correlazione che si istituisce nell'ordine del desiderio, la stessa di quella esistente tra il soggetto desiderante e l'oggetto desiderato, per cui l'uomo - il suo "spirito", la sua identità, la sua natura, la sua essenza - si realizza e può solo realizzarsi nel raggiungimento e nel possesso del divino, e Dio - il suo Spirito, il suo Essere, la sua Identità, la sua Deitas [4] - si realizza e può solo realizzarsi nel farsi raggiungere e nel farsi possedere. L'uomo come spirito desiderante e Dio come bene appagante: è questo l'asse portante della spiritualità classica che ha trovato la sua espressione più alta nel simbolismo coniugale. Secondo questo simbolismo, caro soprattutto alla tradizione mistica, l'anima è per Dio ciò che l'amante è per l'amata e Dio per l'anima ciò che l'amata è per l'amante. Amata ed amante: manifestazione e realizzazione dell'Amore come pienezza di autopossesso e di autoappagamento.
    Questo asse portante della spiritualità tradizionale è lo stesso che ritroviamo nelle due definizioni più alte e note dell'antropologia occidentale; la prima di Agostino, con la sua celebre affermazione dell'uomo come "inquietudine" finché non riposa in Dio ("il nostro cuore, Signore, è inquieto finché non riposa in te") e la seconda di Tommaso, con la sua altrettanto celebre affermazione dell'uomo come "desiderio naturale di vedere Dio".

    Il prezzo del dualismo

    Se per la spiritualità tradizionale esiste una profonda correlazione tra lo spirito dell'uomo e Dio, si tratta ora di precisare che lo spirito dell'uomo di cui essa parla è la sua anima intesa dualisticamente, secondo l'accezione dell'antropologia greca: non l'anima che nel corpo si manifesta e si esprime, ma l'anima altra dal corpo e ad esso irriducibile, avendo l'una come meta ed oggetto di appagamento Dio, l'altro invece il mondo.
    Il modello della spiritualità tradizionale è, così, attraversato da un duplice dualismo: non solo antropologico, interno al soggetto umano diviso in corpo ed anima come due piani separati, ma anche cosmologico,[5] interno alla concezione del reale, diviso ugualmente in terra e cielo e concepiti sempre come due piani separati.
    Di queste due forme di dualismo è importante cogliere la loro specularità nel senso che all'uomo come corpo corrispondono i beni della terra o materiali, mentre all'uomo come anima i beni celesti o spirituali; ma più importante ancora è cogliere la loro dimensione trasversale e conflittuale, nel senso che la realtà del corpo resta inaccessibile e in contraddizione con i beni celesti, allo stesso modo che l'anima con i beni materiali. È qui che, per la tradizione spirituale classica, va individuata la sostanza del dualismo: in questa contraddizione, insanabile per principio, tra la parte dell'uomo (il suo corpo) destinato ai beni materiali e l'altra (la sua anima) destinata ai beni spirituali. Contraddizione che per principio - va ribadito - è insanabile, essendo la verità dell'uomo costituita dalla sua anima e dai beni spirituali (Dio stesso) che, a differenza di quelli materiali, sono i soli in grado di realizzarla nella pienezza e nella verità.
    Per questo, coerentemente, la spiritualità classica si istituisce sulla fuga mundi (fuga dal mondo): non come fine o valore in sé bensì come mezzo e condizione per accedere al valore supremo che è Dio: "La fuga mundi è soltanto condizione di quel movimento positivo che è la ricerca di Dio... Nella tradizione spirituale, come già nel platonismo, la parola fondante è l'unità tra l'uomo e Dio, l'affinità tra l'anima e il divino; l'incompatibilità tra l'uomo e il mondo ne è la risultante, non la causa".[6]
    Questa incompatibilità riguarda non solo il dualismo forte che legge negativamente il corpo come carcere (dualismo mai entrato nella spiritualità cristiana perché troppo apertamente in contraddizione con il dato biblico della creazione "sette volte" buona") ma lo stesso dualismo debole per il quale il corpo e il mondo - che ne è il correlato - non negano né contraddicono il divino ma lo riflettono e ne partecipano gradatamente (teoria della partecipazione). Ma per quanto il corpo e il mondo siano realtà buone, l'identità ultima dell'uomo (la sua anima) non è di "accasarsi in essi" ma, pur godendone, di tendere, come il viandante, verso la vera patria che è Dio. Di qui l'immagine potente del viaggio e del pellegrinaggio, entrata a far parte non solo della vita spirituale come cammino verso Dio ma di tutta l'antropologia occidentale caratterizzata, nelle sue molteplici figure, dalla teleologia, dalla tensione e dalla ricerca del fine mai raggiunto e sempre da raggiungere.

    Il modello della spiritualità biblica

    Il modello della spiritualità tradizionale non solo non può né deve essere identificato con la spiritualità (la realtà non va mai confusa con i suoi modelli o con le sue mappe) ma neppure può essere considerato come l'unico modello valido. Più che il modello, esso è un modello e - cosa ancora più importante per il credente che fa riferimento alle scritture ebraiche e cristiane - più che avvicinarsi al modello biblico, esso lo contrasta nel suo stesso dinamismo. Qualsiasi discorso sulla spiritualità biblica può solo partire dalla presa di coscienza di un modello altro da quello della tradizione classica.[7]
    Quando, infatti, si parla della spiritualità biblica, qui il termine non rimanda allo spirito dell'uomo - alla sua anima o dimensione spirituale contrapposta al suo corpo e alla sua dimensione materiale - ma allo Spirito di Dio. Il termine ebraico che, nella bibbia, esprime lo spirito è ruah e non traduce mai la componente interna alla natura umana (come è, per esempio, per l'antropologia classica) ma il tratto costitutivo ed esclusivo del divino: la sua potenza creatrice e trasformatrice che opera efficacemente, senza farsi possedere e sfuggendo ad ogni forma di "prensione" e di "com-prensione". Ruah, infatti, di per sé vuol dire "vento" ed esprime la sua inafferrabilità e trascendenza rispetto al soggetto umano che ne è posseduto, come lo sono i profeti, ma non lo possiede, come ricorda Gesù a Nicodemo: "Quel che è nato dalla carne è carne, e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. Non ti meravigliare se te l'ho detto: dovete rinascere dall'altro. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito" (Gv 3, 6-8).
    Questo carattere di irriducibilità dello Spirito di Dio rispetto all'uomo e al mondo è messo soprattutto in luce dall'aggettivo che lo qualifica e, quasi sempre, lo accompagna: lo Spirito santo o, meglio ancora, di santità, che, etimologicamente, rimandano alla "separazione", cioè all'alterità. Dio è spirito ed è spirito santo perché altro dall'uomo e dal mondo e perché "av-venendo ad essi" e scendendo su di essi (evento e miracolo della discesa dello Spirito) dischiude in essi un orizzonte altro. La vita spirituale per la bibbia è l'esistenza umana toccata e abitata dallo Spirito che, accadendo in essa, le apre una dimensione di alterità che è nuovo senso; e il discorso spirituale è discorso di tematizzazione di questo nuovo senso dischiuso dall'avvento dello Spirito.
    Riassumendo in una formula essenziale ed efficace la differenza tra il modello della spiritualità tradizionale e quella biblica si può dire che, mentre la prima si offre e si tematizza come movimento di ascesa dell'uomo verso Dio (desiderio, ricerca, cammino, passione o amore appartengono tutti allo stesso campo semantico), la seconda si offre e si tematizza come movimento di discesa di Dio verso l'uomo (Spirito, agape, amore, grazia appartengono anche qui allo stesso campo semantico); in altri termini: la prima si offre come eros e autorealizzazione, la seconda come bontà e disinteressamento.
    Di questo movimento di discesa di Dio verso l'uomo, le pagine che seguono delineeranno la struttura e i tratti peculiari.

    2. La struttura della spiritualità biblica

    L'amore di Dio

    Quando la bibbia parla dell'amore di Dio, il genitivo ha valore soggettivo e non oggettivo: essa non annuncia, in primo luogo, l'amore che ha l'uomo come soggetto e Dio come oggetto, bensì l'amore che ha Dio come soggetto e l'uomo come oggetto.[8]
    Questa affermazione, che capovolge alla radice il modello della spiritualità classica, sembra, all'apparenza, ovvia, mentre, in realtà, nella storia della produzione delle idee (o meglio sarebbe dire delle esperienze umane del divino), ha rappresentato e rappresenta una delle conquiste più alte ed impensabili.
    Nel mondo greco, infatti, l'idea di Dio che ama l'uomo è inconcepibile, potendo essere egli amabile ed amato ma non amante. Se Platone, Aristotele o Spinoza (per rifarsi anche ad un autore più vicino a noi) avessero sentito parlare di Dio che ama l'uomo avrebbero preso questo linguaggio per assurdo. Questo vale non solo per il mondo greco ma anche per la maggior parte dei modelli culturali conosciuti che, estranei alla tradizione ebraico-cristiana, pensano il divino come forza, come energia, come natura o come principio. "Nessuno ha difficoltà a comprendere che qualcuno possa provare un amore appassionato per la natura, ma lo si considererebbe matto se egli pretendesse di essere ricambiato dalla natura. Ora, siccome Dio e la natura sono la stessa cosa, lo stesso vale per Dio. Ciò contribuisce alla nostra felicità di amare Dio, ma è privo di significato e assurdo da parte nostra attenderci che Dio ci ami".[9]
    Ogni esperienza spirituale è, in profondità, l'esperienza di essere amati da Dio, l'esperienza del suo Amore indicibile e inesprimibile alla cui luce si trasfigura l'esistenza umana.
    La bibbia, nella sua intenzionalità portante, è il racconto di questo Amore cantato, narrato e dispiegato in una miriade di modi, di tonalità e di linguaggi.
    Di questo amore il testo biblico mette in luce soprattutto la tenerezza: come quella della madre che si commuove per il piccolo delle sue viscere o quello dell'amante pazzamente innamorato dell'amata. È forse questa ultima - quella dell'eros il cui "demone", invadendo il corpo umano ne ridisegna la geografia - l'immagine più espressiva capace di ritrascrivere ciò che, per il soggetto spirituale, rappresenta il sentirsi amati da Dio: "Se ti sei innamorato una volta, sai oramai distinguere la vita da ciò che è supporto biologico e sentimentalismo, sai ormai distinguere la vita dalla sopravvivenza. Sai che la sopravvivenza significa vita senza senso e sensibilità, una morte strisciante: mangi il pane e non ti tiene in piedi, bevi acqua e non ti disseti, tocchi le cose e non le senti al tatto, annusi il fiore e il suo profumo non arriva alla tua anima. Se però l'amato è accanto a te, tutto, improvvisamente, risorge, e la vita ti inonda con tale forza che ritieni il vaso di argilla della tua esistenza incapace a sostenerla. Tale piena della vita è l'Eros: Non parlo di sentimentalismi e di slanci mistici ma della vita, che solo allora diventa reale e tangibile, come se fossero cadute squame dei tuoi occhi e tutto, attorno a te, si manifestasse per la prima volta, ogni suono venisse udito per la prima volta, e il tatto fremesse di gioia alla prima percezione delle cose. Tale eros non è privilegio né dei virtuosi né dei saggi, è offerto a tutti, con pari possibilità. Ed è la sola pregustazione del Regno, il solo reale superamento della morte. Perché solo se esci dal tuo io, sia pure per gli occhi belli di una zingara, sai cosa domandi a Dio e perché corri dietro di Lui".[10]
    Un testo biblico dove l'amore di Dio per Israele - per l'uomo, per ogni uomo - è espresso con grande poesia è Dt 32, 10-14 dove ricorrono le due immagini della "pupilla dell'occhio" e dell'"aquila che veglia sulla sua nidiata":

    "Egli lo [Israele] trovò in terra deserta,
    in una landa di ululati solitari.
    Lo circondò, lo allevò,
    lo custodì come pupilla del suo occhio.
    Come un aquila che veglia la sua nidiata,
    che vola sopra i suoi nati,
    egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali,
    il Signore lo guidò da solo,
    non c'era con lui alcun dio straniero.
    Lo fece montare sulle alture della terra
    e lo nutrì con i prodotti della campagna;
    gli fece succhiare miele dalla rupe
    e olio dai ciottoli della roccia;
    crema di mucca e latte di pecora
    insieme con grasso di agnelli,
    arieti di Basan e capri,
    fior di farina di frumento
    e sangue di uva che bevevi spumeggiante".

    Ma dell'amore di Dio per Israele, il testo biblico canta soprattutto la sua gratuità che un altro celebre passo deuteronomico così riassume: "Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, il Signore vi ha fatto uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del Faraone, re di Egitto" (Dt 7, 7-8).
    Per la bibbia l'amore di Dio è gratuito perché dato gratis: senza "contraccambio", senza "interesse".
    Cosa vuol dire che l'amore divino è senza "contraccambio" e senza interesse? Che tipo di "interesse" e di "contraccambio può avere Dio nell'amare, se egli - Dio - è il Signore e il creatore del cielo e della terra, l'Onnipotente e l'Onnisciente non bisognoso di nulla?
    Se si vuole trascendere il livello retorico di espressioni come queste e penetrare nella novità sconvolgente della rivelazione biblica bisogna osare la seguente interpretazione: l'amore di Dio è gratuito (o grazia) nel senso che è senza ritorno; gratuito perché, pur partendo da sé, il suo amore non torna a sé e non è quindi - rivoluzione e capovolgimento dell'amore in bontà - autorealizzazione e autoglorificazone ma autolimitazione e, come scrive Paolo nella sua lettera ai Filippesi a proposito dell'amore del Crocifisso, autospogliazione.
    Per esprimere questo tipo di amore che, altro dall'amore, è gratuità e grazia, bontà e disinteressamento, il Nuovo Testamento ricorre al termine agape che, a differenza del termine eros, non esprime il movimento ascensionale verso il valore che appaga bensì il movimento discensionale verso il disvalore da eliminare. La bibbia è la narrazione - evento e miracolo - dell'amore di Dio che libera e crea non per manifestare se stesso e la sua magnificenza bensì per far essere l'uomo e realizzarne la felicità, rinunciando alla sua onnipotenza (è la celebre teoria luriana della creazione divina come zimzum, come autoriduzione) e facendo, così, spazio ad esseri altri dal suo Essere.

    L'uomo "povero"

    Dall'affermazione paradossale dell'amore di Dio come gratuità consegue, per la bibbia, l'altrettanto paradossale affermazione della fragilità dell'uomo. Questi, per la bibbia, non è di natura immateriale, abitato, come vuole l'antropologia platonica e gnostica, da un frammento o "scintilla" divini ma, non diversamente da ogni realtà vivente che appare sulla terra, è sottoposto alla legge del nascere e del morire e, quindi, fragile, caduco e mortale:

    "Una voce grida:
    'Annuncia un messaggio!';
    e io domando: 'che cosa devo annunciare?'.
    'Annuncia che ogni uomo è come l'erba;
    e la sua consistenza è come il fiore del campo:
    secca l'erba, il fiore appassisce
    quando il Signore
    fa soffiare il vento su di essi.
    Sì, l'uomo è come l'erba:
    secca l'erba e il fiore appassisce;
    ma la parola del nostro Dio
    dura per sempre' " (Is 40, 6-8).

    Il termine originale che, in questa traduzione interconfessionale, è stato reso con uomo, è carne, la categoria fondamentale dell'antropologia biblica (si ricordi il celebre inizio del prologo giovanneo: "E il Verbo si fece carne") il cui significato rimanda alla nudità del corpo e il cui tratto peculiare è di essere passività, come il corpo di un bambino o il corpo di un malato: esposto, colpito, ferito, debole, cioè mortale.[11]
    L'immagine vivente e paradigmatica di questa "fragilità" esistenziale è, nella tradizione biblica, il "povero", nella sua duplice figura di "malato", perché privo del benessere del corpo (ciechi, sordi, muti, zoppi, ecc.) e di "oppresso", perché privo del benessere sociale (perseguitati, calunniati, emarginati, ecc.). Il motivo di questa centralità del povero nella letteratura biblica - soprattutto del profetismo e dei racconti sinottici - va ricercato nel fatto che, per essa, il povero è la definizione stessa dell'umano, la sua "messa in scena" nella concretezza quotidiana. Per la bibbia il povero, prima che categoria psicologica, che indica lo stato di malessere del soggetto, e prima che categoria sociologica, che indica la collocazione marginale del soggetto nello spazio sociale, è categoria teologica che definisce l'uomo di fronte a Dio: di fronte al quale egli è "povero", in quanto essere di bisogno che per essere ha bisogno di ciò che è al di fuori del suo essere.
    Ma - sorpresa e miracolo - su questo uomo che è "carne", fragilità e impotenza, si china Dio gratuitamente con il suo gesto liberazione e con il suo atto creatore.
    In un noto saggio del 1966, Foucault scrive: "Una cosa comunque è certa: l'uomo non è il problema più vecchio o più costante postosi al sapere umano. Prendendo una cronologia relativamente breve e una circoscrizione geografica ristretta - la cultura europea del XVI secolo in poi - possiamo essere certi che l'uomo vi costituisce un'invenzione recente... L'uomo è un'invenzione di cui l'archeologia del nostro sapere mostra agevolmente la data recente e forse la fine prossima... A seguito di qualche evento di cui possiamo tutt'al più presentire la possibilità ma di cui non conosciamo per ora né la forma né la promessa... possiamo senz'altro scommettere che l'uomo sarebbe cancellato come sull'orlo del mare un volto di sabbia"[12]
    Il volto dell'uomo è come un "volto di sabbia" che, come vuole Foucault con disincanto, basta un nonnulla per far scomparire e disperdere. Ma per la bibbia su "questo volto" di sabbia veglia l'amore di Dio che, riflettendo su di esso la luce del suo Volto, vi imprime i tratti della sua "immagine" e della sua "somiglianza" (cf Gn 1, 27). Il soggetto spirituale per eccellenza è il soggetto di "carne" o, in termini di Foucault, il "volto di sabbia" che, avvolto dall'amore di Dio, si vive nella sorpresa e nella meraviglia, sospeso, per così dire, tra l'insignificanza della sua piccolezza e lo stupore della sua grandezza, come canta il poeta del salmo 8:

    Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,
    la luna e le stelle che tu hai fissate,
    che cosa è l'uomo perché te ne ricordi
    e il figlio dell'uomo perché te ne curi?
    Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli
    di gloria e di onore lo hai coronato:
    gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,
    tutto hai posto sotto i suoi piedi;
    tutti i greggi e gli armenti
    tutte le bestie della campagna;
    gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
    che percorrono le vie del mare.
    O Signore, nostro Dio,
    quanto è grande il tuo nome su tutta la terra (vv. 4-10).

    In questo salmo si ritrovano i due tratti fondamentali dell'uomo biblico che, all'apparenza, sembrano contraddirsi: da una parte la sua fragilità disarmante che contrasta con lo splendore dei cieli; dall'altra la sua grandezza sovrumana che uguaglia quasi quella degli angeli: "eppure l'hai fatto poco meno degli angeli" (v. 6).

    L'amore esigente

    L'uomo spirituale è "il povero" che, nella materialità delle cose e dell'esistenza, coglie dovunque l'amore di Dio che lo avvolge: "È l'amore di Dio che mi scalda nel sole, è l'amore di Dio che mi manda la pioggia gelida. È l'amore di Dio che mi nutre del pane che mangio, ed è Dio che mi nutre anche con la fame e il digiuno. È l'amore di Dio che manda i giorni d'inverno quando ho freddo e sono ammalato, e l'estate torrida quando sono affaticato e ho gli abiti inzuppati di sudore: ma è Dio che respira su di me con il vento appena percettibile del fiume, con la brezza del bosco. Il suo amore allunga l'ombra del sicomoro sopra la mia testa e manda lungo i campi di grano l'acquaiolo con un secchio riempito alla sorgente, mentre i lavoratori riposano e i muli stanno sotto l'albero. È l'amore di Dio che mi parla negli uccelli e nelle acque dei ruscelli, ma anche oltre il clamore della città Dio mi parla nei suoi giudizi, e questi sono tutti semi mandati a me dalla sua volontà".[13]
    Ma l'amore di Dio che è dentro le cose e le fa essere come dono, per l'uomo spirituale si offre come imperativo che comanda: "imitami", "riproducimi", "come io sono amore gratuito per te, così anche tu sii amore gratuito per gli altri".
    L'uomo spirituale per eccellenza è colui per il quale l'esperienza dell'amore di Dio è soprattutto esperienza della sua vocazione ad amare, per il quale l'amore di Dio fa tutt'uno, per lui, con il comandamento dell'amore o il comandamento ad amare.
    Nella tradizione e nel linguaggio comune si è soliti opporre amore e comandamento, sostenendo che il primo è spontaneo e non può né deve essere comandato, mentre il secondo innaturale che contraddice la realtà dell'amore. Ma, per la bibbia, l'amore - l'amore con cui Dio ama l'uomo e che è il paradigma stesso dell'amore - si dà solo nella modalità del comandamento: " 'Tu devi amare l'Eterno, il tuo Dio, di tutto cuore, e con tutta l'anima e con ogni tua forza'. Tu devi amare... quale paradosso contiene questa espressione? Si può comandare l'amore? L'amore non è forse un destino, un esser-presi, e là dove è libero, allora non è forse libero dono e nulla più? E qui viene comandato? Sì certo, l'amore non può essere prescritto, nessuna terza persona può ordinarlo né ottenerlo con la forza. Nessuna terza persona, appunto, ma l'Uno lo può. Il comandamento dell'amore può venire soltanto dalla bocca dell'amante. Solo l'amante (ma l'amante lo può realmente) può dire e infatti dice: 'amami'. Sulla sua bocca il comandamento dell'amore non è un comandamento estraneo, ma non è altro che la voce stessa dell'amore. L'amore dell'amante non ha altra parola per esprimersi se non il comandamento".[14]
    L'amore di Dio come comandamento vuol dire il suo amore come esigente: un amore che non lascia l'uomo passivo ma che, sul suo essere di bisogno, istituisce una dimensione altra dal bisogno, alla quale si rivolge, chiedendo ed esigendo: "ama allo stesso modo con cui sei amato".
    "Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date" (Mt 10, 8): questo imperativo con cui i dodici vengono inviati in missione è il cuore stesso dell'alleanza stipulata da Dio sul Sinai e rifondata da Gesù con il dono della sua morte sulla croce, "nuova ed eterna alleanza".

    Il soggetto responsabile

    Il senso di questa alleanza, di cui l'esodo è il momento fondativo e la morte di Gesù il momento rifondativo, è nella costituzione del soggetto responsabile: del soggetto non più solo oggetto dell'amore divino ma egli stesso soggetto di un amore come quello di Dio. Ciò infatti che sul Sinai Dio chiede ad Israele è di accettare la sua Legge, ed essendo la sua Legge la legge dell'amore come grazia, ciò che gli chiede è di fare altrettanto. Di qui il ritornello costante del racconto esodico successivo alla stipulazione dell'alleanza: "non lederai il diritto del forestiero e dell'orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova. Ricordati che sei stato schiavo in Egitto e te ne ha liberato il Signore tuo Dio, perciò ti prescrivo di fare questo" (Dt 24,17-18; Dt 15, 15; cf Es 22, 20 ss). Al di là del grande risvolto sociale - comportarsi con rispetto nei confronti delle categorie sociali emarginate e meno abbienti - questi testi sono rilevanti soprattutto per la motivazione teologica che sottintendono. La ragione per la quale Israele non deve "ledere il diritto del forestiero e dell'orfano" non è per garantire un migliore ordine sociale o una minore conflittualità politica, ragioni immanenti al funzionamento di qualsiasi società, ma per essere fedele alla compassione di Dio della quale egli ha fatto esperienza: "ricordati che sei stato schiavo in Egitto e che te ne ha liberato il Signore tuo Dio, perciò ti prescrivo di fare questo". L'amore di Israele per il "forestiero" e "l'"orfano" è, per Israele, l'oggettivazione dell'amore gratuito di Dio che, sperimentato nel passato, chiede di essere imitato e riprodotto nel presente.
    Ma è possibile amare lo "straniero", l'"orfano" e la "vedova" e, per il Nuovo Testamento, "il nemico" con quello stesso movimento di gratuità con cui Dio ha amato Israele e con cui Gesù, sulla croce, ha amato l'umanità peccatrice? Non è l'uomo un essere che, come ogni essere - dalla roccia, al fiore, alla piante, all'animale - è tensione irresistibile all'autoconservazione e all'autorealizzazione, tensione (conatus, forza, spinta, istinto, teleologia, determinismo o con quanti altri termini la si voglia chiamare) che, costitutiva dell'io, rende qualsiasi discorso sulla gratuità retorico e impossibile, come ha decretato, con disincanto, la modernità? Non ha l'uomo una dimensione intranscendibile di animalità al cui servizio è posto la sua psiche, il suo eros è il suo stesso logos (linguaggio, razionalità e intelligenza) come vuole la più alta e la più nobile delle definizioni dell'uomo come animale razionale data nella grecità da Aristotele?
    Per la bibbia la figura più alta e conclusiva dell'amore di Dio per l'uomo è di infrangere, con la potenza del suo amore come comandamento, l'animalità dell'uomo: la sua struttura come essere di bisogno, essere curvato su di sé e chiuso nel cerchio del suo io; e di istituirlo come essere responsabile, non più preoccupato solo del suo essere, ma capace, come lui, di grazia e di disinteressamento. Per la bibbia il senso della creazione divina è nella creazione dell'uomo come responsabile. Per essa, creare l'uomo non è porlo in essere, come si pone in essere un sasso o una pianta, ma istituirlo nella responsabilità, nel senso etimologico del termine di risposta ad un appello che lo chiama e gli affida il compito di amare: "Responsabilità presuppone uno che mi appella primariamente, da una regione indipendente da me, al quale io debbo rendere conto. Egli mi parla di qualcosa che mi ha affidato e mi chiede di prenderne cura. Egli mi appella a partire dalla sua fiducia e io rispondo nella mia fedeltà, oppure nella mia infedeltà nego la risposta, o, ancora, dopo essere caduto nell'infedeltà, me ne libero con la fedeltà della risposta. Questa è la realtà della responsabilità: rendere conto di qualcosa che ci è stato affidato a un essere che ci dà fiducia, in modo tale che fedeltà e infedeltà vengano alla luce, ma con uguali diritti, perché ora la fedeltà appena rinata può vincere l'infedeltà. Dove nessun appello primario mi può toccare, perché tutto è 'mia proprietà', la responsabilità è diventata un'ombra".[15]
    Sulla porta aurea dell'antropologia biblica sono incise a caratteri di fuoco, le parole di Gen 1,27: "Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò".
    L'"immagine" e la "somiglianza" di cui parla il testo biblico non vanno intese secondo la tradizione ellenistico-cristiana per la quale nell'uomo si riflette il divino, ma secondo il contesto biblico per il quale Dio lo istituisce - lo crea - come suo "rappresentante", suo "luogo-tenente", suo "vice", chiamato, nel mondo, a riprodurre il suo amore come grazia.
    Per la bibbia il soggetto spirituale, è il soggetto che, ad immagine e somiglianza di Dio, si vive come supremamente responsabile, perché al suo "cuore", alla sua "intelligenza" e alle sue "mani" è affidato il principio Amore che, ogni mattina, genera e rigenera il mondo nella grazia.


    3. I tratti della spiritualità biblica

    La meraviglia

    Il primo tratto della spiritualità biblica - del soggetto che si scopre abitato dal Dio della rivelazione e della creazione - è la meraviglia, il segreto nascosto della vita, di ogni filosofia (per Platone, per Aristotele e per Schopenhauer ogni vero "pensare" presuppone il meravigliarsi) e, come per il bambino, di ogni conoscenza. Meravigliarsi: è il lasciarsi sor-prendere da ogni cosa che i sensi colgono ed accolgono, è il lasciarsi prendere e afferrare dal mistero che le custodisce e dal sorriso che nel loro silenzio si cela e si svela in un gioco di intrecci che, all'infinito, è rivelazione e nascondimento.
    L'uomo spirituale è l'uomo che coglie il mondo come domanda alla quale prima che rispondere è necessario prestare ascolto, come Dio stesso ricorda a Giobbe nel momento della sofferenza:

    "Porgi l'orecchio a questo, Giobbe, soffermati,
    e considera le meraviglie di Dio.
    Sai tu come Dio le diriga
    e come la sua nube produca il lampo?
    Conosci tu come la nube si libri in aria,
    i prodigi di colui che tutto sa?
    Come le tue vesti siano calde
    quando non soffia l'austro e la terra riposa?
    Hai tu forse con lui disteso il firmamento,
    solido come specchio di metallo fuso?" (Gb 37, 14-18).

    Il soggetto spirituale è il soggetto che ascolta la voce delle cose, cogliendone, al di là della loro dimensione utilitaristica e fruitiva, che risponde al bisogno umano, "il di più", irriducibile ad esse, che le fa essere.
    Nell'ascolto di questa voce, che è canto e musica, il soggetto spirituale vive in comunione con ogni creatura, nella pace e nella riconoscenza.

    La gratitudine

    Se per lo sguardo greco, che ha "inventato" la poesia, "il di più" delle cose è la bellezza e l'armonia delle loro forme, per lo sguardo biblico è la bontà di colui che le dona.
    Per l'uomo spirituale le cose non solo rivelano uno spessore di bellezza, al di là della loro fruibilità, ma dischiudono una dimensione ulteriore che è la bontà di Dio che le dona per amore. Per questo, nella tradizione biblica, l'uomo spirituale è l'uomo della benedizione,[16] l'uomo che, di fronte ad ogni cosa e prima di fruirne, pronuncia la benedizione riconoscendo in esse, al di là della loro dimensione fruitiva e estetica, la bontà di Dio che le dona e, donandole, le "trasfigura" e "transustanzia": "Se in ogni cosa io considero soltanto il caldo o il freddo, il cibo o la fame, la malattia o la fatica, la bellezza o il piacere, il successo e l'insuccesso o il bene e il male materiali che le mie opere mi hanno procurato per mia volontà troverò vuoto soltanto, non felicità. Non sarò nutrito, non sarò sazio. Perché il mio cibo è la volontà di Colui che mi ha fatto e che ha fatto tutte le cose per darSi a me per mezzo loro...".[17] Appunto perché ogni cosa parla dell'amore di Dio come grazia (allo stesso modo che all'amata ogni regalo le rimanda il volto dell'amante), il soggetto spirituale è il soggetto riconoscente, che sa di vivere non in forza delle sue opere e dei suoi meriti - della sua progettualità - ma in forza della grazia, di ciò che, in ogni istante, gli viene dato. Abitato dalla coscienza della grazia - rottura del cerchio dell'io e radicale libertà perché libertà dall'io - il soggetto spirituale si fa "azione di grazie", riconoscenza, nel duplice senso del termine di nuova conoscenza e di gratitudine conseguente.
    Il soggetto spirituale è il soggetto grato che, cogliendo l'amore di Dio in ogni cosa - e non nella pretesa della totalità - vive ogni istante come eterno, perché in ogni cosa coglie la totalità; è il soggetto del dayenu ("Ciò ci sarebbe bastato"), l'inno che gli ebrei cantano e danzano con gioia incontenibile nella notte della pasqua:

    "Di quanti benefici noi siamo debitori al Signore!
    Se ci avesse fatto uscire dall'Egitto
    e non avesse fatto giustizia di loro,
    dayenu.
    Se avesse fatto giustizia di loro
    e non dei loro dèi
    dayenu.
    Se avesse fatto giustizia dei loro dèi
    e non avesse ucciso i loro primogeniti
    dayenu.
    Se avesse ucciso i loro primogeniti
    e non ci avesse dato le loro ricchezze,
    dayenu.
    Se ci avesse dato le loro ricchezze
    e non avesse diviso il mare per noi
    dayenu.
    Se avesse diviso il mare per noi
    e non ci avesse fatto passare in mezzo ad esso all'asciutto,
    dayenu...[18]

    La fiducia

    Il terzo tratto della spiritualità biblica è la fiducia: il fidarsi di quell'amore che, dentro le cose e altro dalle cose, si rivolge all'io costituendolo soggetto, chiamandolo per nome e dicendogli: "Ti amo". Nel salmo 63, attribuito a Davide quando dimorava nel deserto, in pericolo di vita, il salmista (la cui anima, fin dall'aurora, cerca Dio e ha sete della sua presenza "come terra deserta, arida, senz'acqua", v. 2) trova conforto, placando la sua angoscia, nella scoperta/esperienza che l'amore di Dio è più importante della sua stessa vita: "la tua grazia vale più della vita" (v. 4).
    Questo versetto, che per Von Rad costituisce uno dei vertici dell'Antico Testamento, non è tanto l'affermazione della vita dopo morte come migliore rispetto a quella della terra (non si dimentichi che l'idea dell'aldilà appare nella bibbia nell'epoca maccabaica, negli ultimi decenni prima dell'era cristiana), quanto la radicale fiducia nell'Amore di Dio al quale abbandonarsi, "malgrado tutto".
    Se il "di più" che abita il mondo è l'Amore gratuito di Dio che lo dona, la fiducia è consegnarsi a questo Amore, al di là della stessa comprensione e delle smentite che sembrano contraddirlo: come un bambino che crede a sua madre anche se questa dovesse chiedere al chirurgo di amputargli una gamba per salvarlo. Per questo il "bambino" resta la metafora insuperabile della fiducia in Dio del soggetto spirituale:

    "Signore, non si inorgoglisce il mio cuore
    e non si leva con superbia il mio sguardo;
    non vado in cerca di cose grandi,
    superiori alle mie forze.
    Io sono tranquillo e sereno
    come bimbo svezzato in braccio a sua madre,
    come un bimbo svezzato è l'anima mia.
    Speri Israele nel Signore ora e sempre" (Sal 131; cf pure Mt 6, 25 ss).

    Il soggetto spirituale è come un "bimbo svezzato in braccio a sua madre" che sa - di quel sapere che è sapienza ed esperienza - che la prima ed ultima parola della storia non è né più essere la Morte. Lo "sa": non per lucidità razionale, che può mancare o essere smentita, e neppure per ingenuità o buona fortuna, che basta un nonnulla per smascherare, ma perché consegnato a quell'Amore che non tradisce anche se può essere tradito. È su questa fiducia che fiorisce l'ottimismo dell'uomo spirituale, la cui essenza, come scrive Bonhoeffer, "non è guardare al di là della situazione presente ma è una forza vitale, la forza di sperare quando gli altri si rassegnano, la forza di tener alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, ma lo rivendica per sé".[19]

    L'autoaccettazione

    È noto quanto sia difficile accettarsi. Perché si è poco amati, come vogliono le scienze psicologiche le quali mostrano, con dovizia di argomenti, quanto siano terribili i danni procurati nella psiche dei bambini dalla mancanza di genitori amorevoli; perché si è sottoposti a continue aspettative e richieste, come vogliono le scienze sociologiche le quali sottolineano i pericoli di una società i cui modelli siano troppo competitivi e irraggiungibili; perché diminuisce il sostegno e la conferma dell'altro, come vuole la filosofia dialogica di Buber per il quale la degradazione dell'umano va ricercata nel prevalere dell'"Esso" sul "Tu"; ecc.
    Ma - sorpresa ed evento liberante - è all'autoaccettazione che accede il soggetto spirituale per il quale essere è essere accettati da Dio e vivere è accettarsi in forza della sua accettazione. Sono amato, per questo sono: è questa l'esperienza che si accende nella coscienza del soggetto spirituale la quale, come scrive Tillich, un noto teologo protestante, coincide con la stessa esperienza della grazia:

    Cosa significa essere colpiti dalla grazia?
    Non significa che improvvisamente
    crediamo che Dio esiste
    o che Gesù è il salvatore
    o che la bibbia contiene la verità (...).
    La grazia non significa semplicemente
    che facciamo dei progressi
    nel nostro autocontrollo morale,
    nella lotta contro la società (...).
    La grazia ci colpisce quando siamo oppressi
    da grande dolore e irrequietezza.
    Ci colpisce
    quando attraversiamo la valle oscura
    di una vita insignificante e vuota.
    Ci colpisce quando avvertiamo
    che il nostro isolamento è più profondo del solito,
    perché abbiamo violato un'altra vita.
    Ci colpisce quando il disgusto per noi stessi,
    la nostra indifferenza, debolezza, ostilità
    e mancanza di una direzione
    e della padronanza di noi stessi
    ci sono divenuti intollerabili.
    Ci colpisce
    quando, un anno dopo l'altro,
    la sognata perfezione della vita non compare,
    quando gli antichi impulsi ci dominano
    come è accaduto per anni,
    quando la disperazione annienta tutta la gioia e il coraggio.
    Talvolta, in quel momento, un raggio di luce
    si fa strada nelle nostre tenebre
    ed è come se una voce dicesse:
    'sei accettato,
    accettato da ciò che è più grande di te
    e il cui nome non sai.
    Ora non chiedere il nome;
    forse lo scoprirai più tardi.
    Ora non cercare di far nulla;
    forse più tardi farai molto.
    Non cercare nulla,
    non compiere nulla
    non proporti nulla.
    Semplicemente accetta il fatto che sei accettato!'.
    Se ci capita una cosa del genere
    ci è data l'esperienza della grazia.
    Dopo una tale esperienza
    può darsi che non siamo migliori di prima
    e può darsi che non crediamo più di prima
    ma tutto è trasformato".[20]

    Piacere, felicità e gioia

    Si è soliti associare l'uomo spirituale con l'ascetismo e la rinuncia ai piaceri della vita. Recentemente Savater, il filosofo citato all'inizio di questo saggio, ha ribadito questo convincimento nell'intervista sopra riportata: "L'idea cristiana che ci portiamo appresso continua a punire qualunque soddisfazione istintiva e sensoriale, perché intorbiderebbe, appunto, l'idea etica come dovere. Mi sembra un'assoluta atrocità, il parto di un puritanesimo aberrante".
    Contrariamente all'affermazione appena fatta (che, se può avere delle ragioni a livello storico, si mostra infondata a livello biblico e teologico), il soggetto spirituale non solo non disprezza i "piaceri" (come Plotino, ad esempio, il quale, si vergognava di avere un corpo) ma vede in essi il fine stesso della creazione, voluta da Dio non per manifestare se stesso ma per realizzare la felicità dell'uomo. Cos'è infatti il primo racconto della creazione, che parla del mondo uscito dalle mani di Dio "sette volte" buono, se non l'affermazione dell'originaria alleanza tra l'uomo, essere di bisogno, e il mondo offertogli per colmarlo? E cos'è il secondo racconto della creazione, che descrive come un "paradiso" (o eden) il luogo del primo Uomo e della prima Donna - simboli di ogni Uomo e di ogni Donna - , se non l'affermazione di un umano pienamente realizzato perché in comunione con Dio, con se stesso, con il proprio partner e con lo stesso mondo materiale? Non sono questi racconti fondatori (che in realtà costituiscono un unico racconto) la celebrazione della positività del vivere mondano che contrasta con qualsiasi concezione pessimista o tragica che vorrebbe l'uomo condannato all'infelicità, allo spaesamento o alla "gettatezza", come ad esempio - uno tra gli ultimi in ordine di tempo e di importanza - ha tematizzato Heidegger?
    Per il soggetto spirituale il piacere non è un male da evitare ma un bene da ricercare che Dio stesso vuole per il suo essere di bisogno, al quale è destinato il mondo. Per questo, secondo una massima talmudica paradossale, l'uomo "dovrà rendere conto [a Dio] dei piaceri permessi che rifiuta".
    Ma appunto perché il piacere dell'uomo - di ogni uomo - si iscrive nella volontà creatrice, esso esige il rispetto di questa volontà. È esperienza comune che ogni piacere si perverte nel suo contrario quando si disattendono le condizioni che lo garantiscono: si pensi, ad esempio, a chi, per una abbuffata, non essendo stato capace di controllarsi, paga la sua sregolatezza stando male.
    Se ogni piacere esige il rispetto della verità, questa, per la bibbia, è l'orizzonte del dono. A livello ultimo e radicale, la verità del piacere non è l'autolimitazione (ciò che fa parte della buona educazione e della sana intelligenza) ma la coscienza che il proprio essere di bisogno non è autocolmato dall'io ma gratuitamente da Dio. Non si tratta di una affermazione retorica o ingenua ma abissale: tra le due si apre la stessa differenza che permane tra il mangiare comprandosi il cibo da solo al mercato e l'essere invitati a cena dall'amico. La differenza non riguarda il livello del cibo, dove sia quello comprato che quello donato hanno lo stesso potere nutritivo (anche se non va sottovalutato il fatto che, secondo l'esperienza, stando soli si mangia di meno o troppo) ma l'orizzonte, interpersonale l'uno, e egoistico l'altro, entro il quale il bisogno della fame viene colmato.
    Per la bibbia - e per l'uomo spirituale - la pienezza del piacere è la coscienza della grazia: coscienza recettiva, come consapevolezza del mondo che Dio dona, ogni giorno, gratuitamente al bisogno umano per colmarlo; ma soprattutto coscienza attiva, come responsabilità, come giustizia e come bontà a ridonare ciò che ogni giorno da Dio è donato: "gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date" (Mt 10, 9).
    Il piacere che fiorisce nell'orizzonte della grazia ha un altro timbro rispetto a quello che si consuma entro l'orizzonte dell'io "egoistico". Questa differenza di timbro è espressa dal termine felicità, il sentimento che accompagna l'io quando, prima che al suo, pensa al piacere dell'altro; e soprattutto dal termine gioia, il sentimento che accompagna l'io quando vive nella reciprocità della comunione e della amicizia: "oh quanto è bello e quanto è gioioso che i fratelli stiano insieme!" (Sal 133, 1).
    Della gioia, che è riconciliazione e intreccio di piacere e di felicità, Gesù resta, per Giovanni, il Segreto che l'incarna e l'annuncia: "Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena" (Gv 15, 11).

    La compassione e la simpatia

    Ma è soprattutto la compassione il tratto peculiare dell'uomo spirituale: il sentire la sofferenza dell'altro come propria, preoccupandosi di quella più che della sua e provando simpatia per lui, nel senso etimologico di "con-patire" e "con-soffrire". In Es 3, 7-8 si descrive il movimento originario con cui Dio entra nella storia e si rivela alla coscienza d'Israele, rappresentante dell'umano: "Il Signore disse: 'Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano d'Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele...". Il Dio biblico è colui la cui identità ultima e radicale non si costituisce intorno al suo io ma intorno all'alterità dell'altro di cui "osserva la miseria", "ode il grido" e "conosce la sofferenza", nel senso che la patisce.
    Il soggetto spirituale, incontrato da Dio, è coinvolto in questo stesso movimento discendente e, come Dio, rinunciando alla signoria del suo io, si china sulla "miseria", sul "grido" e sulla "sofferenza" di chi incontra sulla sua strada. Se definire Dio è definire l'umano nella verità, questa, per la bibbia, non consiste nella negazione del dolore ma nell'accoglierlo e nel com-patirlo insieme con chi lo patisce.
    Parlando della crisi epocale che stiamo vivendo e del problema della violenza la cui radice sempre inestirpabile, Aldo Bodrato recentemente ha scritto: "...affinché sia possibile un più efficace confronto con la violenza, dovrebbe svilupparsi una concezione del sapere e del potere diversa da quella sviluppata dalla teologia del cristianesimo e dalla filosofia dell'umanesimo laico, una concezione basata più sulla partecipazione e sulla condivisione che sulla direzione e sul governo, più sulla valorizzazione del patire che su quella dell'agire, più sulla pazienza e la gradualità del recupero che sulla draconianità del giudizio, più sul valore terapeutico della convivenza non consenziente col male, che sul potere taumaturgico della sua asportazione chirurgica. E [si dovrebbe] concludere che probabilmente anche questo non sarà risolutivo, ma solo ci permetterà di aggiungere, ai vecchi, nuovi parziali strumenti di contenimento più che di annullamento del male, di resistenza più che di vittoria".[21]
    La parola ultima che custodisce l'umano e che lo ricostituisce ogni volta che la violenza lo degrada in disumano, non è la lotta (con le sue inesauribili figure che vanno dalla rivoluzione, alla ribellione, alla contestazione, alla rabbia, al mutismo o al "fare il muso", ecc.) ma la compassione; non la voce profetica ma il cuore paziente che, come rivela il crocifisso - per questo "messia", "figlio" di Dio e lui stesso Dio! - vince il male non combattendolo ma patendolo e assumendolo. Per questo, in quello che viene considerato il suo Manifesto (il discorso delle Beatitudini), Gesù proclama beati i poveri, gli afflitti, i miti, gli affamati, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace e i perseguitati: persone che, prive di potere e accomunate dalla sofferenza, godono della possibilità oggettiva di assumere la loro situazione non come dannazione bensì come appello alla compassione, con-soffrendo con l'umano sofferente e così inaugurando il Regno di Dio: la reinstaurazione del mondo come creazione. Questa infatti - il mondo sette volte buono, senza più ombra di male - si istituisce là dove il mondo alienato, avvolto dalla compassione di chi lo guarda, muore alla logica della negazione - che, etimologicamente, vuol dire "uccisione" - e rinasce a quella della pace.

    Il superamento della estraneità o bontà

    La compassione o simpatia (nel senso del con-soffrire, sentendo come propria la sofferenza altrui) è il solo principio capace di abbattere il muro dell'estraneità che separa l'io dall'altro e di instaurare l'evento o il miracolo della comunione.
    Lo spazio dove l'io e l'altro restano radicale estraneità, l'uno straniero all'altro, l'uno fuori (extra, secondo l'etimo a cui rimandano i due termini di estraneità e di straniero) dall'orizzonte dell'altro, non è quello geografico (vivere a chilometri di distanza), né quello culturale (parlare un'altra lingua) né quello ideologico (coltivare altri ideali) bensì quello desiderativo o progettuale. Qui, nel regno del desiderio, dove l'io esercita, incontrastato, la sua signoria, sul volto delle cose - oggetti e persone - si stende il velo della desiderabilità che le sottrae alla loro alterità, riducendole a meri oggetti di appetizione e di bisogno.
    Nell'orizzonte del desiderio si istituisce la vera e radicale estraneità perché in esso ogni cosa vive solo come desiderabile e appetibile che ne occultano la dimensione di alterità. Questa si dischiude solo al soggetto che, dall'orizzonte del desiderio, si converte a quello della bontà.
    La bontà è il movimento originario con cui lo Spirito di Dio, abitando l'io e costituendolo soggetto spirituale, lo sottrae all'orizzonte desiderativo come ultima parola dell'umano e lo istituisce capace di chinarsi sull'altro (in linguaggio biblico: di amare "il povero", "l'orfano" e la "vedova"), superando, così, l'estraneità dell'io murato nella casa (poco importa se dalle pareti più o meno dorate) del proprio egoismo.
    Nel vangelo è nota la domanda del dottore della Legge che chiede a Gesù su chi fosse il suo "prossimo", colui da ritenere il "vicino" da amare; e la risposta che Gesù gli offre attraverso il racconto del buon samaritano denunciando la domanda come falsa e costringendo a riformularla in una prospettiva totalmente altra: non quella del chi è il mio prossimo ma quella del cosa devo fare io per rendermi prossimo.
    Il motivo che rende falsa - di quella falsità istituita dalla volontà creatrice - la domanda del "chi è il mio prossimo" è che, per Gesù, ogni vicinanza o prossimità naturale (come, ad esempio, quella biologica tra genitori e figli o fratelli) costituisce una irraggiungibile lontananza che è alla radice stessa della violenza e della guerra; e che per lui l'unica vera vicinanza che rende impossibile la stessa idea della lontananza, è quella che istituisce l'io stesso facendosi, con il suo gesto di bontà o gratuità, prossimità ad ogni alterità.
    La bontà - gratuità e disinteressamento, amore al "povero", all'"orfano" e alla "vedova", cioè all'alterità dell'altro - è l'orizzonte in cui si cancella l'estraneità e dove si instaura la comunione radicale che nessuna sofferenza e nessuna violenza hanno più il potere di minacciare.
    Finita nei campi di concentramento per solidarietà con il suo popolo e trasportata ad Auschwitz al cui orrore non sopravvisse, Etty Hillesum in una delle sue lettere scritte da Westerbork all'amica Maria, ha lasciato questo testo sconvolgente: "Qui molti sentono languire il proprio amore per l'umanità, perché questo amore non è nutrito dall'esterno. Dicono che la gente di Westerbork non ti offre molte occasioni di amarla. Qualcuno ha detto: 'La massa è un orribile mostro, i singoli individui fanno compassione'. Ma Ho dovuto ripetutamente constatare in me stessa che non esiste alcun nesso causale tra il comportamento delle persone e l'amore che si prova per loro. Questo amore del prossimo è come un ardore elementare che alimenta la vita. Il prossimo in sé ha ben poco a che farci. Maria cara, qui di amore non c'è molto eppure mi sento indicibilmente ricca, non saprei spiegarlo a nessuno".[22]
    L'amore non dipende dal comportamento dell'altro perché, per la bibbia, non è la risposta dell'io alla sua prossimità ma il dono della prossimità dell'io alla sua estraneità che - evento di bontà - istituisce l'orizzonte della pace non come equilibrio della forza bensì come pienezza della comunione.

    Abolizione della categoria inimicale

    Ma l'esperienza e la storia umana sono attraversate e lacerate da una estraneità ancora più radicale che è l'estraneità dell'inimicizia: di chi rimane "estraneo" (extra) all'io non perché, in quanto essere di bisogno, non vi si integra, bensì perché vi si oppone e lo ferisce con una volontà di male il cui tratto costitutivo è di volerne la distruzione per principio. Il nemico, infatti, non è colui che fa da concorrente all'io dove, come nell'agonismo, si confrontano due forze dalla pari dignità e legittimità, ma colui che non lo riconosce neppure come concorrente, rivendicando la sua signoria su di lui e negandone, per diritto, l'esistenza. Il nucleo perverso e abissale dell'inimicizia non è la forza con cui l'altro vince la mia forza bensì la trasformazione della sua forza in diritto per cui, per principio, lui è dalla parte della ragione ed io del torto. Il nemico non è colui che vince la mia forza con la sua forza bensì colui che nega la mia stessa possibilità di esistenza di cui l'omicidio - il linguaggio per eccellenza dell'inimicizia - costituisce l'oggettivazione che la visibilizza.
    Il soggetto spirituale è il soggetto che abbatte non solo il muro dell'estraneità del "povero", dell'"orfano" e della "vedova", transustanziandosi da io che pretende a io che serve, ma soprattutto il muro dell'estraneità del nemico, transustanziandosi da io che rivendica e si difende a io che perdona e rinuncia a vincere.
    Perdonare e rinunciare a vincere non è subire l'inimicizia, lasciando l'ultima parola alla sua violenza, ma negarsi alla sua logica, contestandone lo stesso diritto all'esistenza.
    Narra una suggestiva parabola chassidica che una notte "dei ladri si introdussero... in casa di Rabbi Wolf e rubarono tutto quello che venne loro sottomano. Il rabbi li stette a guardare dalla sua camera e non li disturbò. Quando ebbero finito presero, insieme con altre suppellettili, un boccale in cui prima era stata portata a un malato la pozione della sera. Rabbi Wolf corse loro dietro: 'Buona gente', gridò, ciò che avete trovato consideratelo come mio dono. Ma fate attenzione, vi prego, a codesto boccale; vi è rimasto attaccato l'alito di un malato e potrebbe contagiarvi'. Da allora ogni sera prima di andare a letto diceva: 'Io regalo a tutti ciò che possiedo'. In quel modo, se fossero tornati dei ladri voleva togliere loro ogni colpa".[23]
    Rabbi Wolf, affermando che ciò che i ladri hanno preso è suo dono e ripetendo ogni sera, prima di andare a letto: "Io regalo a tutti ciò che possiedo", elimina il muro dell'inimicizia tra lui e loro e rende impossibile la stessa costituzione dell'inimicizia, diventando i ladri, nell'orizzonte del dono da lui istituito, non più ladri, ma destinatari della sua volontà di bene. Racconto ingenuo privo di ogni dimensione veritativa o svelamento del principio che ricostituisce il mondo violento in creazione "sette volte" buona?
    Per la bibbia il soggetto veramente spirituale - costituito dall'avvento dello Spirito nella sua vita - più che colui che pensa utopicamente ad un mondo senza inimicizia, è colui che quotidianamente abolisce nel suo cuore la stessa categoria dell'inimicizia, consapevole che l'amore e l'inimicizia non sono fuori ma dentro di lui: Se " 'l'altro mi fa nemico' dipende da lui; ma dipende da me non essergli nemico e non fare lui nemico. Questa è l'essenza della nonviolenza, sia personale che politica. La quale consiste proprio nel combattere la violenza e non il violento, il male e non chi lo fa, anzi nell'allearsi con l'avversario contro il male che fa, cercando, scoprendo, liberando e amando l'uomo dentro l'avversario. Il nemico è l'armatura, l'uomo è il corpo".[24]

    L'utopia del quotidiano

    Il soggetto spirituale, infine, è il custode per eccellenza dell'utopia. Nella storia umana l'invenzione di uno spazio abitato solo dal positivo senza più l'ombra del negativo - lo spazio appunto dell'utopia - la si deve al profetismo biblico, che lo proietta al futuro, e alla modernità che, riprendendola dal profetismo biblico, ne ha tentato la traduzione storica ponendo la ragione e la tecnologia a suo servizio. La caduta del muro di Berlino, la fine dei grandi "racconti" fondativi e, soprattutto, il Culto della Morte mai così trionfante come sugli altari del nazismo e del comunismo (culto che, secondo gli studiosi, in nessun altro periodo della storia ha avuto l'uguale) ha causato la crisi dell'utopia e il rinchiudersi dell'io nel suo narcisismo. Non salvare il mondo ma il proprio mondo, cioè l'io: è questo il messaggio che sembra respirarsi nel disagio e nella crisi in atto.
    Il soggetto spirituale - abitato dallo Spirito - non rinuncia all'utopia: ma questa, per lui, non si iscrive nell'orizzonte della totalità (nella tensione e nella costruzione di un mondo tutto buono, da venire) e neppure nell'orizzonte del proprio io (nella tensione e nella costruzione di una identità tutta centrata sulla propria felicità) bensì nell'orizzonte interpersonale: non quello dove l'io trova nel tu il suo appagamento, come nell'abbraccio dell'eros, ma quello dove l'io, morendo a se, si china sull'alterità dell'altro - il "povero", l'"orfano", "la vedova", per riprendere le categorie bibliche - divenendone il custode e il responsabile irremissibile.
    Lo spazio originario che istituisce l'utopia non è la totalità e neppure la soggettività ma l'evento dell'incontro tra due soggettività dove l'una avvolge l'altra nello sguardo di bontà che è grazia, perdono e disinteressamento.
    Nel suo recente libro autobiografico,[25] L. Pintor ha scritto: "Nella vita non c'è nulla di più importante da fare che chinarsi perché uno, cingendoti il collo, possa rialzarsi".
    Nella storia l'utopia si accende ogni qualvolta l'io "si china" per far "rialzare" un altro, nascendo, così, all'evento della bontà, della grazia e del disinteressamento: evento utopico - cioè avvento del mondo "sette volte buono", del reale riconciliato - perché riproduzione del gesto divino del "chinarsi" che è la stessa rivelazione, e del gesto divino del donare che è la stessa creazione.
    Questa utopia - il cui spazio è il quotidiano e il cui principio di realizzazione è la responsabilità personale che va all'altro "a mani piene", portandogli il mondo e trasformandolo - è l'unica vera utopia da riscoprire e da custodire.
    E che questa - l'utopia della responsabilità o della bontà - non sia né esercizio retorico né sogno illusorio è quanto viene testimoniato dai "giusti" e dai "santi", sui quali, secondo la tradizione ebraico-cristiana e secondo la grande sapienza umana, in ogni generazione si regge il mondo. Tra gli altri è quanto viene testimoniato da Etty Hillesum, la giovane ebrea morta nei campi di concentramento dove, perfino qui dentro, non rinuncia all'utopia della bontà, come ci ha lasciato in una bellissima preghiera affidata al suo diario: "Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano: Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l'oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani - ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L'unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l'unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch'esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all'ultimo la tua casa in noi".[26]


    NOTE

    [1] Intervista rilasciata a F. Marcoaldi, in "Repubblica" 26 giugno 1992, p. 33.
    [2] La sottolineatura è mia.
    [3] Ivi.
    [4] Deitas: ciò che costituisce e definisce il suo essere "deità", cioè Dio.
    [5] O, ciò che è lo stesso, metafisico, il dualismo tra Dio e il mondo.
    [6] A. Rizzi, Dio in cerca dell'uomo. Rifare la spiritualità, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1987, p.27.
    [7] Cf a proposito il già citato saggio di A. Rizzi, Dio in cerca dell'uomo. Rifare la spiritualità, che costituisce lo smontaggio coraggioso del modello della spiritualità classica e la sua ricostituzione, come vuole provocatoriamente il sottotitolo, alla luce della verità biblica.
    [8] È ovvio che qui "oggetto" è riferito alla struttura grammaticale del discorso.
    [9] B. Magee, I grandi filosofi. Una introduzione alla filosofia occidentale, Armando Editore, Roma 1994, p. 104. Questa affermazione, che l'autore fa a proposito della filosofia di Spinoza, vale, in genere, per tutto il pensiero greco e per tutte quelle concezioni organiche dove il divino è pensato non come Persona e come Volontà ma come Principio e come Natura.
    [10] Christos Yannaras, Variazioni sul Cantico dei Cantici, Interlogos Schio, (VI) 1994.
    [11] Oltre alla fragilità fisica, il termine "carne", soprattutto nell'antropologia paolina, rimanda anche alla fragilità morale, e indica la comune condizione umana segnata dall'alienazione del peccato e incapace di bontà.
    [12] M. Foucault, Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 1978.
    [13] Semi di contemplazione, Garzanti, Milano 1968, p. 21.
    [14] F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1985, p. 188.
    [15] M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1993, p. 234.
    [16] Rimando, a proposito al mio Pane e Perdono. L'Eucaristia celebrazione della solidarietà, Elle Di Ci, Torino 1992, pp. 87-107.
    [17] Th. Merton, cit., p.21.
    [18] Per il testo integrale cf C. Di Sante, La Preghiera di Israele. Alle origini della liturgia cristiana, Marietti, Genova 1991, p. 169.
    [19] Resistenza e Resa, Paoline, Milano 1989, p. 72.
    [20] Cf H. Zahrnt, ed., Dialogo su Dio. La teologia protestante nel 20° secolo, Queriniana, Brescia 1976, p. 85.
    [21] Il potere del male. La resistenza del bene, in Il foglio 209/1994, p. 4.
    [22] Lettere 1942-1943, Adelphi 1990, pp. 114-15.
    [23] M. Buber, I racconti dei chassidim, Garzanti, Milano 1979, pp. 204-05. Un episodio simile si trova in s. Francesco d'Assisi, nella Leggenda Perugina, 90.
    [24] E. Peyretti, Senza nemici, ovvero apologia del reato di intelligenza col nemico, in Servitium 91/1994, p. 52.
    [25] Servabo. Il libro di un uomo che non si 'dimetterà' mai, Bollati Boringhieri,
    [26] Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1987, p. 169. Sottolineatura mia. E in una sua lettera dalla prigionia di Westerbork scriveva: "Se tutto questo dolore non allarga i nostri orizzonti e non ci rende più umani... è stato inutile... Un nuovo senso delle cose... nuovi pensieri, nuove conoscenze dovranno portar chiarezza oltre i recinti di filo spinato... Sulla base di una comune e onesta ricerca... dovremo costruire un mondo completamente nuovo".


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