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    Vivere di fede nella comunità ecclesiale (cap. 8 di: Una spiritualità per la vita quotidiana)



    8. Vivere di fede nella comunità ecclesiale

    La nostra vita si porta dentro un grande «mistero». È il luogo della presenza interpellante e salvifica di Dio. Nella sua trama di gesti, di esperienze, di desideri, essa è anche progressiva accoglienza del dono della salvezza o suo tradimento, scelta della vita o decisione suicida di allargare il dominio della morte.
    L'ho ricordato molte volte nelle pagine precedenti.
    Ora dobbiamo fare un passo avanti.
    La nostra vita è sacramento di salvezza anche se noi non ci pensiamo. Viviamo immersi in questo mistero non perché lo sappiamo e ne siamo consapevoli, ma per una ragione costitutiva, che riguarda la struttura stessa dell'esistenza umana.
    L'uomo maturo non si accontenta però di questa situazione. È davvero troppo poco «essere» una realtà tanto entusiasmante e non saperlo. Vogliamo invece «possederci»: riconquistare ad una consapevolezza personale, ampia e meditata, quello che siamo.
    Questa consapevolezza ci fa crescere in umanità e in verità. In questo caso, poi, dal momento che quello che ci sfugge è l'evento che ci fa vivere di vita nuova, la crescita in consapevolezza rappresenta anche una preziosa crescita in salvezza.
    Lo «svelamento» (quella crescita in consapevolezza che riporta il mistero della salvezza sulle dimensioni dell'uomo maturo e responsabile) non è solo un processo intellettuale, come è quello che mi permette di conoscere cose che prima ignoravo. Coinvolge invece tutta l'esistenza. E la persona, nella sua irrepetibile totalità, che si riconquista nella verità, si immerge con coscienza tematica nel mistero in cui esiste e, di conseguenza, vive in un realtà tutta nuova: in un vortice di salvezza che la spinge a lasciarsi afferrare sempre di più dalla novità di Dio.
    Si scopre «salvata», e, accogliendone il dono, vive nella salvezza.
    I cristiani chiamano questa esperienza «la fede», con un termine, preso a prestito dal linguaggio comune ma riempito di uno spessore tutto originale. Chi vive così la sua esistenza, la vive nella fede, vive di fede.
    La fede è la qualità della vita di un cristiano. Sulla fede si distingue e si diversifica. Per la luce della fede vive in questo mondo come se fosse ormai di un altro mondo.
    Senza fede, la vita resta muta, catturata nell'intreccio complicato delle vicende di cui ciascuno si sente protagonista assoluto. Senza fede, l'uomo annaspa nella solitudine del suo silenzio.
    Il tema è davvero importante: fondamentale per ogni esistenza cristiana, l'abbiamo scoperto decisivo nel nostro progetto di spiritualità.
    Come per tutti gli altri punti di snodo, ci siamo accorti che non era sufficiente ricordarlo. Per affermare le esigenze della fede, dovevamo un po' riscriverle.

    1. LA FEDE È VIVERE IL QUOTIDIANO DALLA PARTE DEL MISTERO

    Incominciamo a comprendere cosa significa «vivere di fede».
    L'espressione viene utilizzata in differenti contesti. Si parla di fede politica, di fede in una persona o in una istituzione; qualche tifoso scatenato dichiara persino la sua fede in una squadra di calcio.
    In questi modelli esiste un denominatore comune: fede è un complesso di ideali, capaci di guidare gli orientamenti di una persona, fino a sollecitare un impegno coerente di vita.
    Nella declinazione religiosa la fede riferisce a Dio il fondamento di questi ideali e l'orizzonte ultimo della vita.
    La fede cristiana, in qualche modo, assume e condivide questo atteggiamento. Lo radica sulla rivelazione che Dio ha fatto di sé nella creazione e nella storia. E si esprime come risposta personale alla Parola ascoltata. Si differenzia dalle altre fedi religiose perché riconosce in Gesù di Nazareth il testimone definitivo di Dio.

    1.1. La fede è stile di vita quotidiana

    Ho già ricordato una pagina molto importante della Lettera agli Ebrei. Va rimeditata con attenzione proprio in questo contesto.
    Prima di tutto l'autore dà una definizione di fede: «La fede è un modo di possedere già le cose che si sperano, di conoscere già le cose che non si vedono» (Eb 11,1).
    Poi, per farsi capire meglio, racconta una serie di storie di vita.
    Nel racconto egli passa in rassegna personaggi diversi. E interessante notare come siano molto differenti le manifestazioni esterne interpretate come segni di fede.
    Ci sono gli uomini che consegnano tutta la loro esistenza alla Parola che Dio loro rivolge, fino a compiere gesti impensabili e inediti. Significativo è l'esempio di Abramo. Aveva ardentemente desiderato un figlio. L'aveva sognato sulla promessa di Dio. Ora accetta di sacrificarlo sulla parola esigente del suo Dio. Nella sua fede, forte come la roccia, diventa padre di una moltitudine di gente.
    Ci sono personaggi e situazioni dal sapore molto più quotidiano. Dice, per esempio, l'autore della Lettera agli Ebrei che per fede la mamma di Mosè decide di non obbedire alla parola del tiranno che le chiedeva di uccidere il bambino. Il suo gesto «normale» di mamma affettuosa e coraggiosa viene interpretato come grande gesto di fede.
    Sono citate anche situazioni abbastanza strane: a partire dalle «cose che non si vedono», diventano gesto di fede anche l'intrigo con cui Giacobbe ruba la primogenitura ad Esaù e l'ospitalità che la prostituta Raab offre agli esploratori ebrei.
    Questa pagina della Lettera agli Ebrei ci ricorda una dimensione qualificante della fede cristiana: il suo rapporto con la vita di tutti i giorni, con i suoi ritmi e con le sue scelte. La fede non si interessa infatti di alcuni temi e problemi tutti suoi, che si aggiungono a quelli che già pervadono l'esistenza quotidiana. E non è certamente l'adesione intellettuale ad alcune informazioni. Oggetto della fede è invece l'esistenza concreta e quotidiana, la storia profana, che è storia e avventura di tutti e luogo dove si affaccia l'avventura salvifica dell'amore di Dio.

    1.2. Una lettura della realtà a differenti livelli

    Questa conclusione è bella e importante. Sembra però fatta apposta per far nascere grossi problemi.
    La fede riguarda la vita quotidiana nella trama complessiva degli avvenimenti, personali e collettivi, che la caratterizzano. Di questi eventi e del loro intreccio si interessano però anche la scienza dell'uomo e quel modo sapienziale di intendere le cose che supera l'approccio tecnico.
    Nasce, per forza di cose, un conflitto di competenze.
    Per vivere di fede da uomini maturi e riconciliati, dobbiamo imparare a non vedere le cose in modo dissonante, quando le guardiamo dalla parte della fede e da quella della vita. Questo modo di fare ci porterebbe ad un pericoloso «strabismo» interiore.
    C'è strabismo, infatti, quando si guarda nello stesso tempo in due direzione diverse. Soffre di strabismo il cristiano che si sente costretto ad osservare, con sguardo non omogeneo (o, peggio, conflittuale) le esigenze della sua esperienza credente e la sua prassi quotidiana, nell'impegno storico, culturale, politico, economico, affettivo.
    Il riferimento all'Incarnazione ci aiuta ad elaborare un modello di vita nella fede, capace di superare lo strabismo, proprio mentre recupera alla verità le esigenze della fede cristiana. Esso ci ricorda quella sacramentalità diffusa, già tante volte richiamata: la realtà quotidiana è costituita da qualcosa che si vede e si può manipolare, e da un mistero, profondo e nascosto, che tutta la pervade.
    Visibile e mistero non sono due realtà separabili, quasi che una potesse esistere senza l'altra o si potessero studiare indipendentemente l'uno dall'altro e attraverso approcci separati. Nella nostra vita quotidiana, visibile e mistero sono come le due facce della stessa realtà. Hanno logiche diverse; presuppongono metodologie conoscitive molto differenti. Ma si richiamano reciprocamente.
    Dal momento che il mistero è incontrabile solo dentro il suo visibile, per coglierlo e farsene possedere è necessario prima di tutto leggere bene il visibile, decifrarlo in tutta la sua pregnanza.
    La verità del visibile è però data, in ultima analisi, dal mistero che si porta dentro. Solo quando esso è compreso nelle pieghe più profonde, dove si affaccia, insondabile e coinvolgente, il mistero, possiamo dire di possedere il visibile nella sua piena verità.
    Questo rapporto conoscitivo, diverso e complementare, che lega visibile a mistero, determina la qualità della «lettura di fede». In una prima lettura analizziamo e comprendiamo quello che costatiamo, attraverso gli strumenti della tecnica e della scienza. Utilizzando i contributi della sapienza, che l'uomo ha accumulato nel lungo cammino della sua storia, cogliamo anche quella trama nascosta delle cose e degli avvenimenti, che sfugge allo sguardo superficiale e distratto. Leggiamo così il visibile in tutte le sue logiche.
    Questa prima lettura va integrata con una seconda, più profonda e più penetrante. In essa decifriamo il visibile dal mistero che si porta dentro.
    Il mistero è collocato oltre la nostra scienza e sapienza. Non lo vediamo e non possiamo manipolarlo. Lo possiamo solo invocare e sperare. Eppure lo possediamo già, tanto intensamente da riuscire ad utilizzarlo come chiave di interpretazione e di decisione delle vicende in cui ci sentiamo protagonisti e responsabili.
    Questo mistero è l'amore che Dio ci porta e la sua passione per la vita di tutti. Ha un nome e un volto: Gesù il Signore. Si staglia, crocifisso risorto, tra le pieghe della nostra storia, personale e collettiva.

    1.3. Il rischio della fede

    In ogni gesto della nostra vita ci ritroviamo di fronte ad una alternativa molto seria: comprendere le cose solo alla luce di quello che riusciamo a decifrare, nell'esercizio sapiente della nostra ricerca; oppure riconoscere che la loro verità è più profonda e più intima, le pervade tutte dal mistero di una presenza che confessiamo in un gioco appassionato di fantasia, di rischio calcolato, di esperienza di amore.
    Non si tratta certo di capire le cose per conoscerne meglio gli ingranaggi. Comprenderle, in questo caso, è vivere. Per questo l'alternativa risulta drammatica: consegnare a Dio la ricerca della propria sicurezza o assumersene personalmente il carico?
    Il credente accoglie il mistero come fondamento della sua esistenza. Nella fede sceglie di affidarsi totalmente a Dio, anche quando nutre il sospetto doloroso che ad attenderlo, invece di braccia accoglienti, ci siano soltanto nude rocce.
    Vivere nella fede non è quindi accettare qualcosa, ma accettare Qualcuno, rinunciare ad abitare noi stessi in un geloso possesso, per lasciarsi abitare da Dio.
    Vivere di fede è un rischio e una scommessa. Una lettura di fede della realtà rappresenta sempre il coraggio di abbandonare la propria presunzione nell'abbraccio imprevedibile di Dio. Le conclusione a cui si giunge non sono mai un insieme di informazioni sicure e immutabili; offrono invece un punto di riferimento, sperimentato e sofferto nello stesso tempo.

    2. DIRE LA PROPRIA FEDE

    La fede, come tutte le esperienze che afferrano la vita nella sua totalità, esige di essere «detta» per essere compiutamente vissuta.
    Il cristiano dice la sua fede attraverso gesti e parole. I due modi sono nell'ordine simbolico: sempre cioè quello che si vede manifesta una realtà, più profonda e più intensa, che resta invisibile. Quello che non si vede è la decisione di piegare la propria libertà, affidando la vita all'amore esigente del Dio di Gesù. Quello che si costata sono appunto parole e gesti, segnati profondamente dalla cultura del soggetto e del contesto in cui la persona dice la sua fede.
    La passione operosa per il Regno di Dio, di cui ho parlato in un precedente capitolo, è uno dei grandi gesti della fede del credente.
    Non è l'unico.
    Sono gesti di fede anche la preghiera, le celebrazioni sacramentali e i riti liturgici.
    Parole sono le differenti e molteplici espressioni con cui proclamiamo i contenuti della nostra fede.

    2.1. Gesti e parole della fede

    Spendo qualche riflessione per sottolineare la qualità delle espressioni della fede cristiana. Abbiamo nel sangue la tentazione di ridurla sulla misura del nostro quotidiano conversare.
    La seconda lettura (quella che vuole penetrare fino alle soglie del mistero) possiede strumentazioni tutte speciali, molto lontane dalle logiche della sapienza umana (tipiche della prima lettura). I credenti le raccolgono nella Parola di Dio, scritta e vissuta nella Chiesa.
    La Parola di Dio è già una esperienza di fede: una lettura, credente e confessante, della realtà, operata al secondo livello. Per l'autorevolezza del suo protagonista e per una presenza specialissima dello Spirito, questa «interpretazione» può «interpretare» in modo normativo la nostra comprensione della realtà dalla parte del suo mistero. Anzi, ci mette tra le mani l'unico strumento, di cui l'uomo può disporre, per cogliere nella verità di Dio la sua quotidiana avventura.
    Il suo contributo è tutto al secondo livello di comprensione. Al primo, non solo non ha nulla di speciale da suggerire; ma anzi lo richiede, come in ogni corretta esperienza di fede, per poterci dire qualcosa.
    Anche nel contributo che le è specifico, non possiamo utilizzare la Parola di Dio come fosse un dato della scienza, tutto dimostrabile e da cui derivare conclusioni sicure e rassicuranti. Guida e ispira la nostra ricerca, orienta le nostre decisioni, giudica le nostre esperienze, mettendo sempre in primo piano la ricerca, la decisione, l'esperienza dell'uomo. Essa infatti resta «parola d'uomo»: parola di Dio pronunciata dentro le povere parole dell'uomo. È parola che cerca la libertà dell'uomo e la sua responsabilità. La sorregge contro l'incertezza e il tradimento; la esige contro il facile disimpegno.
    Anche il linguaggio, elaborato per dire i risultati di questa lettura, è molto diverso da quello che usiamo di solito per raccontare le conquiste della nostra scienza. Il linguaggio della fede è fatto di fantasia, di creatività, di rischio calcolato e accettato. Assomiglia molto di più al linguaggio dell'amore che a quello della scienza.
    I cristiani hanno un modo speciale e originale per dire la loro fede: la preghiera. So che tutti gli uomini religiosi pregano. La preghiera cristiana condivide questa esperienza comune; e la supera in qualcosa che le è tutto specifico.
    Nella preghiera l'uomo parla al suo Dio e gli ricorda preoccupazioni e desideri, sogni e speranze, certo della sua vicinanza. Assomiglia all'incontro con un amico potente, che ha mezzi e capacità per darci una mano. Il cristiano non si vergogna di trattare così il suo Dio. Gesù stesso ci ha insegnato ad invocarlo in questo modo (Mt 21,22).
    Nella preghiera il cristiano vive però anche una esperienza diversa. Parla di Dio, ricomprendendosi nel suo mistero. Si contempla, immerso in un amore che tutto lo avvolge, per possedersi nella verità. Non può dire quello che ha scoperto di sé con le parole controllate con cui si esprime nel ritmo della esistenza quotidiana. Ha bisogno di parole intessute di silenzio, di espressioni pronunciate nel vortice dell'amore, della fantasia scatenata in cui si sono espressi alcuni santi.
    Qualche volta le proprie parole non bastano più. E si è contenti di far proprie le parole, solenni e austere, dei salmi, della liturgia, dei padri della nostra fede.
    Pregando, il credente parla a Dio e parla di sé e di Dio. Vive di fede e dice la sua fede.
    L'uomo di fede è sempre un uomo di preghiera.
    Ripensiamo ancora per un attimo a queste ultime riflessioni. Hanno riportato la nostra ricerca sulla fede ad un livello che sta oltre il quotidiano esercizio della nostra scienza e sapienza. Ci troviamo immersi in un mondo che non è più quello della vita di tutti i giorni. Ci affacciamo, timidi e felici, alla soglia del mistero di Dio.
    Vivere di fede è un evento specialissimo nell'esistenza di un uomo. Lo colloca in un'altra esperienza esistenziale, pur immergendolo intensamente nel suo mondo quotidiano.

    2.2. La solitudine del credente nella compagnia con tutti gli uomini

    Lo stretto rapporto, nella vita di fede, tra prima e seconda lettura e la diversità di strumentazioni e di linguaggi portano ad una importante costatazione: nella vita di fede la persona è al centro, nella sua responsabilità, nella piena espressione della sua creatività.
    La fede è una esperienza che inonda di luce nuova, improvvisa e abbagliante, le esperienze della vita quotidiana. Per questo le riempie di senso nuovo, senza sottrarle alla fatica di sperimentare, produrre e ricercare il senso che esse si portano dentro, da spartire con tutti, in una compagnia legata all'avventura dell'uomo.
    Il senso sperimentato nella fede colloca veramente in un altro mondo, perché porta a risignificare le cose che si vedono e si manipolano dal mistero che si portano dentro. Non riesce però a trascinare lontano dalle trame dell'esistenza di tutti, perché «il senso dal mistero» emerge solo tra le pieghe del vissuto: la vita quotidiana, appunto, che è vita di tutti.
    La «compagnia» del credente con tutti gli uomini resta però sempre un poco strana, tutta originale. Egli testimonia infatti, sedendo a mensa con tutti, la forza della croce ed una speranza che va oltre ogni umana sapienza.
    Egli vive perciò la compagnia nella solitudine della sua esperienza di fede.
    Sostiene una speranza che non si rassegna di fronte alle lotte e che non rinuncia alla certezza della vittoria anche quando la morte soffoca ogni sussulto. Grida forte le esigenze della vita, quando nel suo nome viene contrabbandata la morte. E ricorda a tutti che solo riconsegnando la propria vita al Dio della vita, nel riconoscimento della sua signoria definitiva su tutti gli sforzi dell'uomo, è possibile possedere la vita anche oltre la morte.
    Nella intensa compagnia con tutti gli uomini, chi vive di fede resta perciò sempre un solitario, perché la sua fede lo costringe al coraggio «della decisione solitaria contro la pubblica opinione; un coraggio solitario analogo a quello dei martiri della prima era cristiana; il coraggio della decisione di fede che trova la propria forza in se stessa e non ha bisogno di essere sostenuta dal pubblico consenso» (K. Rahner).
    Vivere di fede è quindi evento di libertà, un gesto che irrompe nel centro più intimo dell'esistenza. Spesso non siamo in grado di oggettivare in modo adeguato questa esperienza. Ma essa resta, come una decisione ultima di coscienza non più applaudita da alcuno, in una speranza illimitata che supera le delusioni della vita e l'impotenza di fronte alla morte.

    3. NEL GREMBO RASSICURANTE DELLA COMUNITÀ ECCLESIALE

    Un modello di esistenza cristiana come è quello che stiamo elaborando sbilancia innegabilmente l'esperienza credente dalla parte della soggettività: le singole persone diventano i protagonisti della loro decisione di fede, riconsegnati dalla fede stessa ad una responsabilità piena e creativa.
    In un tempo di largo pluralismo e con gente tentata di fare della propria soggettività la misura definitiva del reale, questa scelta potrebbe risuonare troppo pericolosa. Se risulta indebitamente allargata, la persona viene abbandonata ad un isolamento mortale e l'esperienza cristiana è svuotata della sua risonanza normativa e progettuale.
    Me ne rendo conto chiaramente.
    Non posso però rassegnarmi ad accettare il correttivo del compenso, come se ci dovessimo spartire un bottino di guerra, tra difensori dell'oggettività e sostenitori della vita.
    Il sostegno alla soggettività, per restituire alla fede la sua risonanza oggettiva e veritativa è dato dalla funzione della comunità ecclesiale e, in essa, dal ruolo del «presbitero», come testimone autorevole di un progetto più grande di ogni nostra conquista, capace di giudicarla nel confronto con esigenze fondamentali.

    3.1. La comunità: dove la solitudine personale è custodita dalla fede comune

    Ho messo l'accento sulla responsabilità personale nella decisione di fede per restituire alla persona quello che modelli di spiritualità troppo oggettivistici le avevano tolto.
    Non posso però contrapporre questa riappropriazione alla necessità irrinunciabile di vivere e credere nella comunità.
    L'esperienza di fede, come ogni decisione importante e la stessa esistenza nella salvezza, è un fatto strettamente personale. Accogliamo l'invito di Dio o decidiamo un uso suicida della nostra libertà in quello spazio intimissimo e misterioso, in cui ogni uomo è solo davanti a se stesso.
    Questa esperienza si realizza però sempre nel sostegno vitale della comunità ecclesiale. Essa garantisce la possibilità di una vita nella fede e rassicura la verità e l'autenticità della personale decisione
    Lo dico con un'immagine che abbiamo vissuto come molto espressiva, se ben compresa. La comunità ecclesiale è come il «grembo materno»: custodisce una esistenza personalissima e irripetibile, che «esiste» però solo perché accetta di essere custodita. Come il bimbo che nasce è legato a sua mamma, così ogni decisione nella fede non può mai essere separata dal nostro essere nella comunità ecclesiale.
    Ci ritroveremo soli e allo sbando. La comunità è il soggetto credente che ci permette di credere come figli di Dio, nella verità e nell'unità.
    Meditando questo rapporto tra persona e comunità, abbiamo scoperto un fatto che ci ha riempito il cuore di gioia.
    Spesso la nostra vita non è proprio come dovrebbe essere. Cerchiamo impegno e coerenza e ci ritroviamo a fare i conti con i nostri tradimenti.
    Nessuno però ci può strappare dall'amore alla nostra comunità. Sentiamo che ci protegge e ci sostiene. Esiste una identificazione affettiva intensa, che si svolge prima dei gesti che compiamo e l'investe più nel profondo.
    In questo modo si instaura un rapporto tra credenti e comunità ecclesiale che garantisce il corretto sviluppo del processo di iniziazione cristiana, anche se per il momento non tutto è ancora perfetto. Ci sentiamo dentro la comunità, accolti e protetti dal suo grembo materno. Forse non conosciamo ancora tutti i contenuti dell'esistenza cristiana che la comunità propone. Forse siamo attraversati da dubbi e incertezze. Anche la traduzione dell'esperienza di fede in esperienza etica soffre di troppi tradimenti.
    Resta però il dato fondamentale: viviamo dentro la comunità. All'interno della comunità la nostra debole fede si consolida: la vita cristiana cresce progressivamente e gradualmente, in conoscenza e in coerenza. La comunità ecclesiale custodisce la fede dei figli che ha generato alla vita nuova, la vivifica, la rigenera.

    3.2. Il «presbitero»: l'autorità al servizio della vita nella comunità

    Per gente come noi, che vuole tutto toccare con mano, queste riflessioni sono ancora troppo generiche.
    Spesso, purtroppo, quando parliamo di comunità ecclesiale, lo facciamo con un pizzico di nostalgia. Ci chiediamo: dove esistono queste comunità, di cui si parla così bene? Le comunità che conosciamo - lo confessiamo a malincuore - sono spesso molto diverse dal «grembo materno» che custodisce e rigenera la nostra debole fede.
    Ad essere sinceri e con un po' di realismo in più, si potrebbero esprimere valutazioni meno rassegnate...
    C'è però una cosa da non dimenticare: la comunità prende il volto preciso e quotidiano di una persona, il «presbitero».
    Lo chiamo così, con un nome che ci riporta ai primi passi della vita della Chiesa, perché è «l'uomo saggio», che sa ricavare dal suo tesoro prospettive nuove e indicazioni antiche (Mt 13,52).
    «Presbitero» è il vescovo nella sua diocesi, il sacerdote nella sua comunità, l'animatore nel suo gruppo. I titoli e le responsabilità sono diverse, ma lo stile e la ragione è la stessa.
    Questi fratelli portano sulla loro persona il peso di testimoni autorevoli e qualificati dell'evangelo. Ci aiutano a leggerlo, comprenderlo, viverlo nella verità.
    In questo servizio il «presbitero» esercita un ministero che richiede molta autorevolezza. Deve «giustificare» alla nostra presuntuosa e saccente autonomia che è sensato, importante e urgente «vivere nella fede» e viverci nelle strutture normative della comunità ecclesiale.
    La forza dimostrativa che fonda l'esperienza di fede non sta nella fredda congruenza tra soggetto e predicato, come quando si dimostra un teorema matematico o una formula chimica. La forza dimostrativa sta nella esperienza di questo testimone. Egli è la prova di quello che dice. Non convince su ragionamenti; convince sulla sua vita.
    Egli è impegnato a produrre vita attorno a sé, per dare voce autorevole al Signore della vita. Sa che la vita è come un piccolo seme, capace di crescere progressivamente per la forza che si porta dentro, quando sono rispettate e protette le condizioni che gli permettono di esprimersi. Per questo, lui che sta dalla parte della vita, non si sente mai «padrone» del processo. Egli è invece «servitore inutile»: inutile, perché la vita si apre di forza propria, nell'esplosione di vita che è la croce del Signore Gesù; ma servitore indispensabile, perché responsabile e garante delle condizioni che permettono alla vita di esplodere in pienezza e nella verità.
    Non ha nulla da insegnare agli altri. Ha però una grande esperienza da comunicare, di cui tutti hanno il diritto di chiedergli ragione.
    È il testimone ecclesiale, autorevole e indispensabile, di una grande storia di vita, che continua a raccontare per aiutare tutti a vivere.
    Spesso è costretto a restare «solo» nella difesa della vita e della pretesa inquietante che essa si porta dentro.
    Lo fa con il gioioso entusiasmo di chi ha già sperimentato in prima persona quello che narra.
    E lo fa con speranza operosa, perché sa che la forza della vita, che è la forza del suo Signore, è più grande di ogni debolezza.


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