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    Vivere da uomini riconciliati (cap. 12 di: Una spiritualità per la vita quotidiana)



    12. Vivere da uomini riconciliati

    Siamo gente chiamata all'azione. La nostra giornata è fatta di tante cose che la riempiono e la preoccupano. Non possiamo uscirne per diventare uomini spirituali. E non possiamo vivere questa fatica quotidiana come uno spazio da sfondare progressivamente per sentirci più cristiani.
    Sappiamo però quanto sia difficile vivere da uomini spirituali nel ritmo monotono della vita di tutti i giorni.
    Le cose che facciamo, i gesti che punteggiano la nostra esistenza spesso ci sfuggono; sembrano quasi parti di noi che non riusciamo mai a controllare bene. Pieni di preoccupazioni e di desideri, facciamo una gran fatica a traforare il nostro quotidiano e abbiamo paura di dover immigrare in un paese straniero, quando penetriamo nel mondo della preghiera e delle celebrazioni liturgiche.
    La riconciliazione tra esperienza cristiana e fedeltà alla nostra storia, chiara e convincente sui modelli teorici, va in crisi nella mischia dell'esistenza quotidiana.
    La spiritualità dell'Incarnazione può dire qualcosa anche a questo livello?
    L'interrogativo è rimbalzato sulla nostra ricerca, provocante come tutti quelli che sembrano rimettere in discussione le conclusioni faticosamente raggiunte.
    Solo uomini spirituali, che la vivano intensamente e così la dicano in modo affascinante, possono rispondere a questa domanda.
    La storia che ho raccontato ha aiutato molti di noi a ricostruire riconciliazione interiore nel nome di Gesù Cristo e ci ha sollecitato verso un modo rinnovato e più intenso di celebrare la presenza operosa di Dio nella storia.
    Propongo anche questa esperienza come dono tra amici. Lo faccio a grandi colpi di pennello, senza preoccuparmi troppo dei particolari. La riconciliazione «dentro» non è l'esito di ricette sapienti; è una nuova esperienza, evocata e sostenuta dal vissuto di chi l'ha già tentata.

    1. AL CENTRO UNA PRASSI IMPEGNATA PER LA VITA

    Abbiamo messo la vita al centro del nostro incontro con Dio e abbiamo fatto della condivisione appassionata della causa di Gesù il contenuto e lo stile della nostra risposta.
    Questo significa un'importante decisione di vita: la prassi quotidiana è il cuore della nostra spiritualità.
    La nostra prassi è, per forza di cose, frammentata in mille differenti movimenti. Possiede già una sua logica e risponde, come può, a problemi concreti. Per vivere da uomini spirituali, riconciliati «dentro», abbiamo bisogno di qualcosa capace di ricondurla ad unità e di ricollocarla nel mistero di Dio.
    Questo «qualcosa» esiste: è la passione, operosa e liberatrice, per la vita. L'abbiamo scoperto e sperimentato nella meditazione dell'evento dell'Incarnazione.
    La nostra povera prassi, quando è giocata dalla parte della vita, ci avvicina alla prassi messianica di Gesù, su cui tutti devono misurare l'autenticità dell'esperienza cristiana.
    Per questo, noi che abbiamo scelto di mettere la prassi quotidiana al centro della nostra spiritualità, non ci sentiamo né migliori né peggiori di quei fratelli che preferiscono percorrere altre strade per incontrare l'unico Signore.

    1.1. Un impegno per la vita a tre differenti livelli

    L'impegno per la vita è sempre prasii operosa e diversificata. E prassi: chi vuole allargare i confini della vita e restringere quelli della morte sa che deve lottare, con coraggio e tenacia, fino alla croce. Ed è prassi diversificata: le differenti situazioni di morte richiedono interventi specifici e distinti. L'impegno per la vita si diversifica in rapporto alle ragioni che sorreggono e producono le situazioni di male.
    Quando si parla di male e di morte non è facile fare delle distinzioni. Ci accorgiamo che risultano tutte sempre un poco forzate. La vita e la morte non sopportano gli schematismi freddi e rigidi.
    D'altra parte, però, ci si accorge subito, sulla propria esperienza e per il dono che altri ci fanno della loro, che le situazioni non sono mai tutte eguali. La nostra esistenza è attraversata violentemente da venature di morte. Qualche volta sappiamo con precisione a chi imputarne le responsabilità. Altre volte, invece, ci accorgiamo che soffriamo e moriamo proprio perché siamo nella vita. Ci sono casi in cui impegno e responsabilità sono capaci di eliminare o alleviare la sofferenza. E ce ne sono altri in cui siamo costretti a costatare che la radice della morte è più grande di noi, sfugge ad ogni nostro controllo. Ci sovrasta come un nemico invisibile e pervasivo.
    Il cristiano ha imparato ad amare la vita nel nome del suo Signore. Vive la passione per la vita come impegno perché la vita vinca la dura lotta contro la morte. Gioiosamente costretto a condividere con tutti gli uomini la serietà delle analisi e delle progettazioni, sa che non può fare proclami generici. Il suo impegno per la vita contro la morte si differenzia. La stessa identica passione si concretizza in modalità diversificate sulla misura del tipo di male e di morte contro cui è chiamato a lottare.
    Per dire cose concrete, immagino tre situazioni diverse. Sulla loro risonanza è possibile prevedere differenti modelli di intervento. Nei primi due, il cristiano esprime il suo impegno in piena compagnia con tutti gli uomini che credono alla vita. Nel terzo, si ritrova inesorabilmente un solitario, nella solitudine della croce del suo Signore.
    Esistono situazioni di male e di morte che dipendono chiaramente dalla malvagità degli uomini e dalla violenza esercitata dalle strutture che essi hanno costruito. Non riusciamo però ad essere giudici imparziali, perché sappiamo di essere immersi in una solidarietà così profonda che quando chiamiamo per nome i responsabili di questi tradimenti, siamo sempre costretti a pronunciare, almeno sottovoce, anche il nostro nome.
    In questi casi, stare dalla parte della vita significa conversione e lotta. Per affermare la vita contro la morte, dobbiamo coraggiosamente lottare contro tutti quelli che fanno della morte la loro bandiera. Dobbiamo però assicurare una continua «conversione», personale e collettiva. Solo uomini fatti nuovi, in una trasformazione radicale, possono nella verità impegnarsi per la vittoria della vita. La vecchia, impietosa parabola che riconosce nel tiranno di oggi il liberatore di ieri, ricorda una bruciante realtà.
    Lotta e conversione si esprimono in una vicinanza amorevole e appassionata con chi soffre ed è oppresso. In questo gesto di inesauribile libertà, il cristiano testimonia che ogni uomo è capace di giocare tutto di sé per la sua vita, se è restituito alla gioia di vivere e al coraggio di sperare.
    Ci sono poi delle situazioni di male e di morte in cui riesce difficile identificare le responsabilità o appare complicato programmare gli interventi necessari. Mille segnali inducano a cogliere innegabili responsabilità. Gesti e voci coraggiose fanno intravedere vie di uscita. Resta però l'impressione di ritrovarsi come in un labirinto intricato. Le responsabilità sfumono come nebbie al sole e gli interventi sono sempre rimandati, per ragioni superiori. In questi casi stare dalla parte della vita richiede al cristiano il coraggio delle previsioni a lungo termine e la tenacia che sollecita alle inversioni di rotta. La prassi di liberazione diventa impegno politico e culturale, come indispensabile condizione per permettere al bene di esprimersi pienamente e alla vita di vincere progressivamente sulla morte.
    A questo livello, l'impegno per la vita risulta come una scommessa impegnata: affonda sulla serietà e competenza dell'impegno, ma procede sul rischio che le cose possono cambiare, se tutti ci mettiamo a cercare alternative.
    Esistono situazioni di male e di morte le cui responsabilità non dipendono da nessuna cattiva volontà. Sono il limite invalicabile della nostra esistenza: siamo consegnati inesorabilmente a questa morte proprio perché siamo immersi nella vita.
    In questo caso, di fronte al male che appare ineliminabile dalla esistenza delle singole persone, il cristiano testimonia nella sua speranza un progetto di salvezza che è vita, perché è libertà di portare questo male, senza esserne schiacciati, in piena solidarietà con la croce di Gesù. Come Gesù, abbandonato dagli amici nella solitudine dell'orto degli ulivi, oppresso dalle feroci prospettive che si addensano sul suo capo, soffre la disperazione del limite invalicabile in cui è prigioniera la sua esistenza. Ma guarda avanti, verso la luce senza tramonto.
    Nel piccolo, l'ha già superato tante volte questo confine. Gode della compagnia di amici che hanno già vinto la morte: il Crocifisso risorto, Maria, i grandi martiri della fede, dell'amore all'uomo, della libertà.
    Con loro, nella speranza, il cristiano «convive» con la morte e con la sofferenza, nell'attesa dell'appuntamento con il Regno, nei cieli nuovi e nella nuova terra, in cui ogni lacrima sarà finalmente e definitivamente asciugata.

    1.2. Trasformazione e contemplazione nella stessa prassi

    Abbiamo costatato che è possibile sentirci impegnati dalla parte della vita, in un'unica intensa passione, anche quando poniamo gesti differenti. Siamo in vera condivisione di intenti anche se serviamo la stessa causa su frontiere diverse.
    La diversità corrisponde infatti alla natura complessa del problema che vogliamo affrontare ed esprime l'inesauribile ricchezza di sensibilità e di doni di ogni persona.
    Questa consapevolezza dice già una ragione di riconciliazione interiore. Non è però l'unica.
    Ne esiste un'altra, più profonda e impegnativa. Si collega alla prima quasi come il mistero sta al suo visibile.
    Nel profondo delle nostre piccole o grandi imprese, ritroviamo la causa di Gesù perché ritroviamo la sua presenza, inquietante e rassicurante.
    La riscopriamo quando riusciamo a leggerci dentro, nello sguardo penetrante della nostra fede.
    La stessa prassi, compresa alla luce del mistero che si porta dentro, assume tonalità diverse. È prassi operosa per far nuove le cose, dalla parte della vita; ed è momento di gratuita contemplazione di una presenza che già sta trasformando da morte a vita tutte le cose. Diamo alla nostra prassi le sue buone ragioni, nella fatica della nostra scienza e sapienza; e celebriamo una ragione fondante e donata, che sostiene la nostra debole speranza verso una speranza senza confini.
    Colta così, la nostra prassi non è più riconducibile ai soli gesti quotidiani, di natura tecnica e profana. Non richiede più il loro recupero, forzoso ed esterno, nella direzione del sacro, attraverso quella «retta intenzione» tanto cara ai modelli dualistici di spiritualità.
    Essa è, nello stesso tempo e con la stessa intensità, il piccolo gesto del servo inutile e il contributo decisivo per la vita di tutti gli uomini, la cui potenza riconosciamo nella nostra debolezza.
    La stessa prassi ci porta alla sua contemplazione, per la sua verità; la prassi contemplata ci sollecita verso la sua celebrazione.
    In ogni nostro gesto riconosciamo così, a differenti livelli di profondità, un momento trasformativo, un momento riflessivo, un momento contemplativo ed uno celebrativo.
    Nel momento trasformativo, operiamo di scienza e sapienza, per produrre e assicurare la vittoria concreta della vita contro la morte. Giochiamo questo nostro progetto nel ritmo della quotidianità, attraverso i piccoli grandi gesti che la percorrono: il lavoro, lo studio, i rapporti fraterni, la ricerca e la produzione di valori nuovi, l'impegno politico e l'animazione culturale, la fedeltà e la speranza.
    Sono molte e diversificate le operazioni che riempiono questa nostra quotidianità. Attraverso un momento riflessivo recuperiamo il senso unificante e qualificante del nostro differenziato operare, perché lo riconosciamo espressione molteplice di un'unica causa.
    In un momento contemplativo traforiamo il nostro quotidiano, per approdare alla sua verità più intima e profonda: il mistero di Dio che tutto ci pervade. Nella nostra prassi, colta nelle sue pieghe più intime, ci troviamo il volto del Dio di Gesù Cristo. Ci scopriamo immersi nella sua vita e impegnati con lui e nel suo nome a produrre salvezza, in noi e per gli altri.
    La prassi contemplata ci spinge verso una sua immediata celebrazione per rilanciare nella potenza di Dio la nostra debolezza. La nostra prassi si esprime così in un vortice da morte a vita, nei segni liturgici, nella preghiera, nei sacramenti, nell'intimità personale con Dio.
    Si opera, per dono gratuito e insperato, una intensa circolazione tra la nostra prassi e le grandi dimensioni della celebrazione cristiana. Parola, comunione e sacramenti celebrano una presenza riconosciuta e confessata nella fede e, celebrandola, la interpretano, la sostengono, la producono efficacemente.

    2. LO SPINOSO PROBLEMA DELL'IDENTITÀ

    Un principio di riconciliazione sulle cose che facciamo è prezioso; ma non ci basta. Quello che rende difficile una esperienza spirituale nel ritmo del quotidiano attraversa la nostra esistenza in quello spazio in cui siamo soli, alle prese con la nostra identità.
    La domanda «chi sono io?» ci martella dentro.
    Siamo capaci di molte risposte. Le abbiamo pronte per ogni circostanza e le sappiamo produrre, nuove e sempre originali, sul palcoscenico della vita di tutti i giorni.
    Eppure l'interrogativo resta, bruciante come tutti i problemi di fondo a cui non è facile trovare soluzioni soddisfacenti.

    2.1. Definire la propria identità in atteggiamento di compagnia e di responsabilità

    Ci sono dei cristiani che hanno paura della confusione e si sentono in crisi quando si ritrovano dispersi in mezzo alle grandi folle. Hanno bisogno di riconoscersi, distinguendosi e separandosi dagli altri. Cercano una loro identità attraverso una chiara e definita preoccupazione di «differenza»: per stile di vita, per scelte di fondo, per orientamenti concreti.
    L'esperienza dell'incontro con il Dio di Gesù li separa un po' dalla compagnia degli altri uomini. Lo si vede anche a prima vista, da mille segnali coltivati con cura puntigliosa.
    Non me la sento di dire, con quattro battute, che il modello della differenza sia poco corretto. Non voglio fare il giudice saccente, anche perché quello dell'identità è un ambito dove le sensibilità personali giocano un peso determinante.
    Una cosa è certa, però: la spiritualità dell'Incarnazione ha spinto la nostra ricerca verso altre prospettive.
    Ci siamo sentiti vicini allo stile assunto dalla Chiesa del Concilio.
    Come tutti sanno, durante l'affascinante avventura conciliare la comunità ecclesiale ha vissuto un momento solenne della sua autoconsapevolezza. Si è interrogata a fondo sulla sua identità. E ha costruito la sua risposta da una prospettiva originale.
    In molti documenti ha ripetuto la sua coscienza di essere «universale sacramento di salvezza» (LG 1, 48; GS 45; AG 1). La Chiesa «è» nella misura in cui tutti gli uomini sono in grado di sperimentarla come la salvezza di Dio, fatta presente in modo sacramentale.
    Per dire a sé e al mondo chi essa è, ha determinato qual è il compito che intende assumere. Ha definito così la propria identità a partire dalla sua missione.
    La stessa prospettiva vale per il cristiano: l'identità personale è definita a partire dalla missione evangelizzatrice.

    2.2. Siamo gente che ha una storia da raccontare

    L'ho già anticipato nel titolo del paragrafo. Noi cristiani siamo gente che ha una bella storia da raccontare. E vogliamo raccontarla a tutti, perché l'abbiamo già sperimentata come una storia che produce vita.
    Ci sentiamo all'interno di una catena di «narratori» di questa storia di vita, tanto lunga che si perde lontano.
    Il primo a raccontarla è stato Gesù di Nazaret. Ci ha parlato di Dio, suo Padre, della sua passione per la vita e la felicità degli uomini. Si è preoccupato di far capire a tutti che solo la sua storia su Dio è quella vera, perché solo lui ha visto il Padre e ne può parlare con cognizione di causa.
    A causa della storia che ha raccontato l'hanno condannato e ucciso «come bestemmiatore». I suoi accusatori credevano di conoscere già tutto di Dio, senza ascoltare la storia di Gesù. Su questa conoscenza l'hanno giudicato e l'hanno proclamato colpevole di sacrilegio.
    La sua morte violenta non ha spento il ricordo della bella storia. Era tanto carica di vita e di speranza che ha suscitato un «movimento» di narratori, testimoni della vittoria di Gesù sulla morte e del suo invito a continuare la sua missione.
    Per questo gli apostoli hanno continuato a raccontare la storia di Gesù, con una passione che li ha portati fino alla morte. Giovanni lo dice a nome di tutti: «La Parola che dà la vita esisteva fin dal principio: noi l'abbiamo udita, l'abbiamo vista con i nostri occhi, l'abbiamo contemplata, l'abbiamo toccata con le nostre mani. La vita si è manifestata e noi l'abbiamo veduta. Siamo i suoi testimoni e perciò ve ne parliamo» (1 Gv 1,1-2).
    Hanno continuato a raccontarla i cristiani di tutti i tempi, collegandosi all'esperienza fatta quando altri gliel'hanno raccontata.
    Ho già ricordato Ireneo. Questo grande credente ha parlato con entusiasmo di Gesù e della sua salvezza. Dichiara di poterlo fare con competenza, perché ha appreso quello che racconta dalle labbra di Policarpo, un grande cristiano dei primissimi tempi. Policarpo è stato discepolo di Pietro: le cose che diceva a Ireneo le aveva imparate direttamente da Pietro.
    Si allacciano gli anelli della catena ininterrotta di narratori: Gesù, Pietro, Policarpo, Ireneo, noi.
    Noi abbiamo ritrovato vita e salvezza nella storia che i nostri maestri nella fede ci hanno raccontato.
    È stata una delle più belle esperienze vissute nella nostra ricerca sulla spiritualità giovanile. Ci siamo veramente sentiti tutti in un cammino di popolo, come il ritorno a casa degli esuli da Babilonia, sorretti da coloro che prima di noi avevano fatto la gioiosa esperienza del Signore Gesù.
    Fin dai primi passi della vita della Chiesa, la storia dell'amore di Dio per l'uomo si è intrecciata con la storia di Gesù il Signore: le due storie sono ormai un'unica grande esperienza di salvezza.
    Il cristiano continua a raccontare questa storia di vita. Si sente «dentro» la Chiesa, il «movimento» dei narratori. E vuole costruire Chiesa, allargando ad altri la sua esperienza.
    Racconta quello che ha vissuto, scoperto e compreso. Cerca di farlo con i fatti; e si fa aiutare con le parole, per sostenere i fatti e per interpretarli nella direzione giusta.
    S'accorge che raccontare una storia del genere è fatica e responsabilità. Non spiega ad altri cose che solo lui conosce. E neppure cerca di fare dei proseliti, smerciando di sottobanco prodotti raffinati.
    Racconta perché gli è nata dentro una gioia grande. Non la può soffocare. Ha incontrato un amico e tanti amici; e ha scoperto prospettive meravigliose per promuovere la vita e consolidare la speranza.
    Racconta con timore e tremore, perché sa di parlare prima di tutto di sé e per sé. Non riesce più a dire le cose in modo freddo, sicuro della competenza che gli viene da quello che ha imparato prima. Ma non tace: le sue parole hanno la potenza della sua debolezza (2 Cor 12,9) e hanno la forza dei tanti testimoni che hanno già giocato tutta la loro esistenza, affascinati dalla storia incontrata.
    Racconta con una sola grande passione: vuole che tutti riscoprano vita e felicità, quella vera e autentica che Gesù ha regalato al mondo, raccontando la storia di Dio, il Padre buono e accogliente.

    3. IL CRISTIANO SPERA IN DIO E AMA LA TERRA

    Non siamo cristiani solo perché ci impegniamo in una prassi promozionale e liberatrice e neppure perché raccontiamo la storia di Gesù per la vita degli uomini.
    Siamo cristiani davvero «solo se ci decidiamo ad adorare Dio nella sua assolutezza; solo se cerchiamo di amarlo con un ardire in apparenza del tutto sproporzionato alle nostre forze; se, ammutoliti, capitoliamo di fronte alla sua incomprensibilità e accettiamo tale capitolazione della conoscenza e della vita come l'evento della massima libertà e della salvezza eterna» (K. Rahner).
    Riconosciamo Dio radicalmente diverso da tutte le altre realtà che fanno la nostra terra. Non è uno dei tanti nostri interlocutori. E neppure è quel- l'ultima risorsa che serve a pareggiare i bilanci in situazione di crisi. Solo lui è la realtà vera. Di fronte a lui diventa irreale tutto quello che consideriamo come realtà salda e consistente.
    Egli è il grande «sogno di futuro», mistero incomprensibile e sempre presente, che tutto sorregge e orienta, proprio mentre tutto relativizza.
    Ci dà la parola. E ci sprofonda nel silenzio, dove le parole non bastano più.
    Veniamo da una radice che non abbiamo seminato; pellegriniamo lungo una strada che sfocia nell'incomprensibile libertà di Dio; siamo protesi tra cielo e terra e non abbiamo né il diritto né la possibilità di rinunciare a nessuno dei due dati. Non sappiamo neppure, in modo assolutamente certo, come la nostra libertà stia concretamente orientandosi nel gioco della nostra esistenza.
    L'esistenza del cristiano è perciò un salto nell'abisso sconfinato di Dio. La sua speranza risulta praticabile e sensata solo mediante quel fondamento che non possiamo comprendere né manipolare.
    Per questo, il cristiano vive il suo smarrimento quotidiano come un passo obbligato per avvicinarsi al santo mistero di Dio.
    Cammina verso la solitudine inesorabile della morte, confessando, con speranza trepidante, la certezza di poter affrontare questo mistero di solitudine nell'abbraccio di Dio.
    Quando si abbandona al suo Dio, il cristiano non si getta mai alle spalle la vita di tutti i giorni. Supera la sua vita per consegnarsi al mistero che la sovrasta; e la prende continuamente con sé nel movimento della sua speranza.
    Spera in Dio e ama la sua terra.
    Appassionato della vita, la vuole piena e abbondante per tutti.
    È impegnato in prima linea nel compito, duro ed esaltante, di dare un senso alle vicende della storia quotidiana, per renderla dimora, accogliente e abitabile, per tutti gli uomini.
    Ha però una grande, insaziabile nostalgia di casa. Gli cresce dentro, tutte le volte che riesce ad anticipare «come in uno specchio» quell'incontro «a faccia a faccia» con Dio, la ragione decisiva della sua esistenza.
    La nostalgia dell'incontro con Dio spinge a ricercare momenti di contemplazione gratuita. Costringe a dare un posto rilevante nella vita ai segni che esprimono, in modo più evocativo, questa sconvolgente «presenza».
    Il cristiano vive nell'oggi, tutto proteso verso l'oltre della casa del Padre, in nome di quell'appuntamento con il Regno, unico approdo di perfezione piena e definitiva, quando l'incontro con Dio in Gesù Cristo per lo Spirito, superati i veli della sacramentalità, esploderà in tutta la sua luminosità.


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