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    Un nuovo modo di definire la spiritualità (cap. 1 di: Una spiritualità per la vita quotidiana)



    PRIMA PARTE: PROSPETTIVE

    Chi vuole definire in modo corretto l'ambito di una ricerca sulla spiritualità cristiana, si trova oggi come in uno di quegli incroci caotici, tipici delle grandi città, dove convergono grosse correnti di traffico.
    Non basta restringere il campo con l'aggettivo «cristiana». L'enigma sta proprio nel sostantivo «spiritualità».
    Prima di tutto gli esperti si domandano se spiritualità significa semplicemente «vita cristiana» oppure se connota un insieme di qualità ulteriori e più radicali. Se prevale la prima ipotesi, tutti i cristiani sono uomini spirituali; e allora la ricerca sulla spiritualità copre ogni riflessione sull'esistenza del cristiano. Se invece prevale la seconda ipotesi, la spiritualità è un capitolo speciale del grande libro della vita cristiana: l'ultimo, quello che solo pochi privilegiati hanno la fortuna di leggere.
    Come capita spesso, però, quelli che sono arrivati fino alla fine del libro pretendono di saperne di più degli altri e suggeriscono a chi è solo alle prime pagine come orientarsi nella trama complessiva della vita.
    La seconda difficoltà riguarda la natura dell'oggetto studiato. Ci si chiede se spiritualità sia soprattutto un'esperienza e un vissuto o se invece non sia la consapevolezza riflessa e formalizzata di questa eventuale esperienza.
    Se al centro poniamo l'esperienza concreta di un soggetto, i discorsi restano sbilanciati dalla parte della soggettività e di quella provvisorietà che segna ogni vissuto. Chi vuol parlare di spiritualità è costretto a fare soprattutto racconti di storie di vita.
    Se invece al centro collochiamo la riflessione critica sul vissuto, un po' alla volta prevale la normazione oggettiva, la rassegna dei criteri, l'indicazione astratta delle scuole e delle correnti di pensiero.
    Il terzo problema è di metodo. Ci si chiede: partiamo da modelli precisi e sicuri da cui dedurre orientamenti o risaliamo faticosamente la china dell'induzione?
    Anche a questo livello le conseguenze dell'alternativa risultano pesanti. Sappiamo già tutto sull'uomo spirituale, dopo l'evento definitivo di Gesù e venti secoli di vita nella Chiesa? Oppure la cultura di oggi, anche se povera e frammentata, può dirci qualcosa di nuovo sulla spiritualità cristiana? La giudichiamo a punire dal passato o valutiamo impietosamente il passato sul- k novità dell'oggi?
    Ho ricordato, a battute veloci, tre dei grossi problemi che agitano il campo della teologia spirituale.
    Non ho nessuna pretesa di risolvere difficoltà tanto serie.
    Nella nostra ricerca sulla spiritualità giovanile ce le siamo poste solo ad un certo punto e sempre con la preoccupazione di non lasciarci condizionare troppo dalla loro pressione.
    A fine percorso, mentre stendevo le pagine di questo libro e ripensavo per forza di cose ai problemi teorici, di natura procedurale, ho fatto una gioiosa costatazione: la nostra storia contiene già una risposta.
    Tematizzata, come mi riprometto di fare in questa prima parte, suggerisce l'orizzonte della nostra proposta e dà un modesto contributo alla preziosa fatica degli addetti ai lavori.


    1. Un nuovo modo di definire la spiritualità

    Dopo il lungo inverno della crisi e del silenzio, sta emergendo una intensa domanda di spiritualità.
    Lo indicano molti segnali. Li citano in tanti. Qualcuno ne parla con un po' di disappunto, perché i fatti hanno sconfessato le frettolose analisi sulla crisi in atto. Altri lo gridano ai quattro venti, per consolarsi e darsi ragione, come se ormai il peggio fosse passato e si stesse tornando tranquillamente ai vecchi modelli d'un tempo.
    Il fatto è vero e innegabile: esiste un notevole, insperato risveglio di esperienza religiosa. La domanda di spiritualità è uno degli esiti di questo processo più generale.
    Non rappresenta però la riedizione dei temi tradizionali dell'esistenza cristiana, ma li coinvolge sull'onda di problemi relativamente nuovi. Per questo si porta dentro sfide e provocazioni quasi inedite.
    La novità non è di quelle che saltano subito agli occhi né assume i toni violenti dei primi entusiasmi. Spesso si tratta di intuizioni sepolte nelle vecchie formule linguistiche. Qualche volta recupera persino i modelli del passato, in un ritorno che dice soprattutto ricerca appassionata e frettolosa di qualcosa capace di saturare una attesa mai risolta: come chi è arso dalla sete e trangugia quello che gli capita a tiro, senza la calma necessaria per fare verifiche.
    Utilizzando come categorie interpretative i modelli teologici e antropologici oggi diffusi nell'ambito dell'animazione pastorale, abbiamo tentato di dar voce a queste esigenze sommesse.
    Subito la ricerca si è accesa di intensità insperata.
    In molti casi si è consolidata l'impressione di una profonda sofferenza interiore. È difficile da esprimere, perché mancano le parole corrette. Quelle del vocabolario corrente dicono poco e male. Riconquistate le espressioni adeguate, il coinvolgimento si fa subito ampio e motivato.
    All'inizio sembra che la terra manchi sotto i piedi. Le vecchie sicurezze scricchiolano spaventosamente sotto l'urto della novità. Chi misura su queste frontiere la sua domanda di spiritualità non riesce più a pronunciare parole astratte e vuote di vita.
    Ma poi scoperte affascinanti rassicurano la ricerca. Affiora, con trepidazione crescente, il bisogno di fondare su basi solide la propria esperienza credente, convinti che amare il Signore non dispensa né dalla capacità critica né dalla responsabilità progettuale.
    Diventa possibile parlare di problemi e di sfide con il coraggio lucido di chi ha trovato compagni di viaggio che hanno già tentato l'avventura e ne intravedono lontana la soluzione.
    Tutto questo l'abbiamo vissuto d'esperienza diretta.
    Non lo ricordo per costringere tutti ad entrare in crisi, ponendo problemi che non hanno. Lo faccio solo per raccontare in termini più pertinenti la storia della nostra esperienza e per dire le sfide su cui ci siamo misurati.

    1. LA RICERCA SULLA SPIRITUALITÀ COME RICERCA SULL'IDENTITÀ

    Il primo elemento di novità è dato dal modo in cui viene compresa e definita la spiritualità.
    Nel significato tradizionale e nell'uso spontaneo di molti cristiani, la spiritualità riguarda particolari pratiche religiose e suggerisce precisi atteggiamenti da assumere. Interessa di conseguenza alcuni fortunati, più sensibili di altri nei confronti delle esigenze radicali della vita cristiana.
    Questa distorsione di significato ha progressivamente relegato i temi della spiritualità al circolo ristretto degli addetti 'ai lavori.
    Abbiamo riflettuto a lungo sul rischio che potevamo correre utilizzando un termine desueto e disturbato. Alla fine, però, abbiamo deciso di scommettere anche noi sulla universale vocazione alla santità e, di conseguenza, sulla reale possibilità di vivere una piena spiritualità anche in situazione giovanile.
    Abbiamo quindi parlato di spiritualità e di santità, in polemica verso coloro che ci accusavano di insabbiare i problemi attuali per ritornare a vecchi modelli spiritualistici e verso coloro che scatenavano questa reazione con il loro modo di dire e di fare.
    Un giovane è «uomo spirituale» quando ricomprende e riorganizza la sua vita a partire dalla decisione totale per Gesù Cristo e per la sua causa.
    La spiritualità non è quindi un aspetto marginale dell'esistenza cristiana: è stile di vita e autoconsapevolezza riflessa di questo stile.
    Dire «spiritualità» è perciò come dire stabilizzazione di una identità personale, risignificata e organizzata attorno a Gesù Cristo e al suo messaggio, come sono testimoniati nell'attuale comunità ecclesiale.

    1.1. Spiritualità come identità

    Le difficoltà incominciano nel preciso momento in cui sembrano risolte quelle pregiudiziali. Per evitare le frasi ad effetto e i giochi linguistici non verificabili, dobbiamo capire quali cambi di mentalità e quali esigenze trascini con sé questo modo un po' originale di comprendere la spiritualità cristiana.

    1.1.1. Cosa significa «identità»
    L'elemento di riferimento è l'identità. Su questo va concentrata la riflessione.
    Tutti sanno che «identità» non è una parola del vocabolario ecclesiale. Se ne parla spesso; ma ci si aggiunge l'aggettivo «cristiana» per darle una qualifica pertinente. Identità è un termine preso a prestito dalle scienze dell'educazione. Per comprenderne il significato e la risonanza in una ricerca sulla spiritualità, ci mettiamo perciò come buoni discepoli alla loro scuola.
    La letteratura sull'argomento è abbondante. Non è però sempre univoca, perché il tema è legato a precomprensioni antropologiche più generali.
    Facendo un po' di ordine e semplificando qualche posizione, possiamo immaginare l'identità come un elaboratore molto complesso di informazioni. L'ambiente esterno, gli altri, la società, le norme, le differenti culture (orientamenti, stili di vita, valori) provocano e stimolano le persone. Ciascuno codifica e organizza questi diversi stimoli in un sistema operazionale interno. Gli serve per cogliere in modo caldo la realtà, per valutarla meglio e decidere dove e come intervenire.
    Attraverso l'identità ogni persona si lega così al suo mondo, in modo responsabile e critico. Tutta dalla parte del soggetto, lo delimita rispetto agli altri e lo qualifica, permettendogli di autoriconoscersi e di essere riconosciuto.
    Il processo non è né meccanico né automatico. Avviene attraverso la personale capacità di confrontare gli stimoli provenienti dall'esterno con i valori che la persona ha già fatto propri. Questi valori sono come il «filtro» verso l'esterno: funzionano come normativi delle percezioni, valutazioni e operazioni.
    I valori non li recuperiamo da un deposito, terso e protetto, e neppure li ereditiamo con la nascita, come il colore dei capelli e i geni del nostro carattere. Essi sono diffusi nel nostro mondo quotidiano, con tutte le tensioni e le difficoltà di cui esso è segnato. Li assumiamo per confronto e per educazione.
    L'identità è quindi il frutto, in continua faticosa maturazione, dello scambio tra la storia personale di ogni individuo e i contributi culturali forniti dall'esterno, attraverso cui questa storia viene scritta e vissuta.
    Questo è il dato comune ad ogni crescita in umanità. Qui si innesta la dimensione spirituale dell'esistenza.
    Una persona è «uomo spirituale» quando la sua identità è «risignificata» attorno a Gesù Cristo.
    Non gli basta perciò una identità stabile e ben costruita. In essa deve trovar posto il riferimento con la radice fondante l'esistenza cristiana.

    1.1.2. Cosa significa «risignificazione»
    «Risignificazione» è l'altra parola-chiave. Serve da corrispettivo all'identità, per collocarla dalla parte della spiritualità.
    Risignificare vuole dire comprendere e definire una realtà da una prospettiva diversa da quella in cui di solito viene interpretata. La lettura nuova non elimina le precedenti; e neppure si mette in conflitto con esse. Invece pretende di poter dire qualcosa di più intenso: una percezione inedita, possibile solo a chi si colloca su questa frontiera.
    L'amore è la figura che dice in modo più espressivo l'esperienza della risignificazione. Ognuno dei due innamorati ha una sua storia, intessuta di avvenimenti che altri conoscono e giudicano. Molti possono ricordare particolari positivi o negativi della loro vita. Essi sanno tutto questo reciprocamente e non lo dimenticano. L'amore però trasfigura tutto. Suggerisce uno sguardo sulla persona amata, inedito e specialissimo. Risignifica la conoscenza comune.
    Nel caso dell'uomo spirituale, la prospettiva è l'incontro con Gesù e la decisione di affidarsi totalmente a lui.
    Questa esperienza si esprime al livello dell'identità personale; ma la riscrive in un modo originalissimo: la «risignifica».
    A questo proposito, vanno sottolineate alcune esigenze irrinunciabili.
    Le ricordo in modo sintetico. So di rischiare un po' sulla chiarezza; ma sono temi che, per forza di cose, riprenderò con maggiore profondità in seguito.
    In un cristiano, i valori su cui si costruisce la funzione elaboratrice dell'identità non possono essere soltanto soggettivi, quasi che ogni persona se li potesse definire a piacimento. Essi devono rispecchiare in qualche modo i valori oggettivi dell'esistenza cristiana (il messaggio di Gesù Cristo, testimoniato nella comunità ecclesiale attuale). Solo così Gesù Cristo è il «determinante» del personale sistema di significati: non è un valore vissuto come alternativo rispetto agli altri, ma una esperienza centrale, dotata di una sua struttura veritativa, che riorganizza i processi cognitivi, interpretativi e operativi.
    Il riferimento alla fede inoltre esige un indice alto di stabilità. Non è più sufficiente quel minimo di stabilità soggettiva che assicura la continuità fondamentale del soggetto nelle progressive variazioni; si richiede anche una stabilità decisionale nel rispetto dei codici oggettivi e normativi della fede.
    Gesù Cristo dà infatti riferimenti stabili, omogenei, sicuri. Il suo contributo non si sostituisce al sistema valutativo della persona, ma lo organizza in modo decisivo e lo consolida. Nel processo dell'identità personale funziona come un principio di elaborazione che controlla e supera l'eventuale frammentarietà e complessità delle informazioni che provengono dall'ambiente esterno.
    La comunità ecclesiale, in quanto testimonianza autorevole e istituzionale del messaggio di Gesù Cristo, assicura il luogo di identificazione, capace di sostenere tutto il processo.

    1.2. I problemi attorno all'identità

    In un contesto armonicamente integrato, poco mutevole e dotato di riferimenti univoci, il rapporto io-mondo risultava facilmente stabilizzato e chiaramente orientato. In un tempo di larga complessità e di profondi e rapidi mutamenti come è il nostro, l'organizzazione dell'identità personale si trova al centro di tensioni e conflitti. Collocata dalla parte dell'identità, la spiritualità condivide la gravità, l'attualità, la concretezza, l'appassionato autocoinvolgimento che caratterizzano tutti i problemi esistenziali. Risente però degli scompensi che la sovrabbondanza degli stimoli e la loro disomogeneità riversano sulla definizione dell'identità personale. Prevale inoltre il bisogno di fare esperienze come modello più adeguato di apprendimento. E tutti sanno che le logiche esperienziali hanno tempi, contenuti, modalità molto diverse da quelle strettamente intellettuali.
    Ma c'è di più.
    L'incontro tra i valori personali e Gesù Cristo è servito e sostenuto attraverso quel processo complesso che i cristiani chiamano «evangelizzazione». Testimoniando e annunciando l'evangelo di Gesù, la comunità ecclesiale propone la sua fede e la sua esperienza.
    La buona notizia dell'evangelo è l'offerta di un senso, nuovo e globale, che si inserisce nel profondo di quella personale ricerca e produzione di senso, che sta alla radice di ogni stabilizzazione dell'identità. Spesso questa offerta di senso gioca come una folata improvvisa di vento, che sconvolge i modelli in cui abbiamo organizzato la nostra vita. Altre volte, rassicura e sostiene la debole speranza, che nasce nell'impegno e nella responsabilità dell'uomo. Sempre rilancia la vita verso orizzonti inediti. In ogni caso, la confessione che solo Gesù è il Signore opera come una riorganizzazione della personale identità in cui la funzione di principio determinante è affidata all'evento confessato.
    Noi viviamo in una cultura speciale e originale. Per sottolinearne meglio la novità, qualcuno la chiama «la cultura della modernità». Essa ha fatto sentire i suoi effetti innovatori soprattutto nell'orizzonte del senso. Non ha solo messo in circolazione nuovi «valori»; ha soprattutto preteso di riconsegnare ad ogni persona la decisione definitiva sul senso della sua esistenza.
    Difficilmente l'uomo «moderno» è disposto a delegare ad altri questa decisione. La sente un problema tutto suo, da risolvere nel grembo governabile della sua soggettività. Il senso non si propone come un dato da scoprire e da accogliere, perché residente nella struttura della realtà. Esso invece viene prodotto, nel frammento di vita che esprimiamo.
    In questi modelli, la fede è stretta alle corde: o viene rifiutata la sua proposta come un intruso inutile e scomodo, o viene ridotta ad un accondiscendente compagno di giochi e di avventure adolescenziali.
    Se propone la sua profezia attraverso i tradizionali schemi deduttivi, quelli che facevano concludere che solo chi accoglie il progetto di Dio possiede il senso vero delle cose e della sua vita, essa si condanna inesorabilmente all'insignificanza. Chi la sente risuonare così ha l'impressione di trovarsi come in un paese straniero, dove si parla una lingua sconosciuta.
    Se invece, per dialogare meglio con la sapienza dell'uomo, la spiritualità è ridotta a semplice orizzonte ultimo di senso, in cui collocare il senso autonomamente prodotto dall'uomo, viene vanificata la profezia e la funzione interpellante e progettuale della fede. Che posto c'è per un progetto organico e strutturato, come è quello che Gesù Cristo pretende per sé, all'interno di una produzione di senso, spesso frammentata, disarticolata, soggettivizzata in modo esasperato?

    2. RICONCILIARE LA DUALITÀ

    Questo modo di comprendere la spiritualità, la inserisce violentemente nel fuoco dei problemi della vita quotidiana.
    A questo livello si colloca il secondo elemento di novità.
    Il cristiano si rende conto di condividere di fatto l'esistenza di tutti. Non possiede nulla che lo autorizzi a considerarsi un estraneo o un arrivato nella mischia della vita quotidiana. Sa che le difficoltà possono essere superate solo nell'impegno e nella solidarietà. Conosce il nome concreto degli eventi, lieti o tristi, che gli attraversano l'esistenza.
    È davvero, fino in fondo, uomo con tutti gli altri uomini.
    Eppure sa di vivere nella fede in Gesù Cristo come in un altro mondo. Coerente con questa coscienza credente, compie gesti che lo sottraggono alle logiche del mondo comune.
    Conosce per esempio i meccanismi dello sfruttamento che allargano l'area della fame e della violenza, eppure invoca il suo Signore come il principe della pace, lo confessa come il Padre buono che manda la pioggia sui buoni e sui cattivi e si preoccupa persino dei gigli del campo.
    C'è in lui la percezione sofferta come di una doppia appartenenza. Si sente cittadino di una città che deve rendere sempre più abitabile, per dimorarci con gioia e con trepidazione. E sa di essere a casa solo nella città futura.
    Le due città sono così diverse, così reciprocamente lontane, così intensamente affascinanti. Non ne può abbandonare una a favore dell'altra, perché operando in questo stile tradirebbe prima di tutto se stesso.
    Certo, il problema non è nuovo: ha attraversato sempre l'esperienza dei credenti.
    La novità è dettata dal modo con cui è vissuta questa tensione.
    Il cristiano tradizionale esprimeva così il suo problema: perché interessarsi della vita quotidiana dal momento che è la vita eterna quella che conta? E cercava motivazioni che lo ancorassero di più alla sua terra.
    Il cristiano che ha appreso nella maturazione antropologica e teologica le esigenze della autonomia e della responsabilità, è spesso spinto a capovolgere i termini della sua domanda: perché la vita eterna, se è quella quotidiana che più conta?
    Se consideriamo bene le cose, è facile accorgersi che non c'è solo un cambio di prospettiva. La vita quotidiana, posta al centro, trascina con sé tematiche che sono molto lontane da quelle su cui è stata scritta per tanto tempo la spiritualità cristiana.
    Ne ricordo alcune, selezionandole tra quelle a cui siamo oggi più sensibili: la riscoperta della vita e della soggettività, l'attenzione ai valori della amicizia, della corporeità, della ferialità, della felicità, del «mondo vitale», il bisogno di significatività, la vivibilità delle proposte, la partecipazione, la radicale centralità della propria persona anche sulle norme, sui valori, sulle leggi; la provvisorietà, la relatività, la problematicità, la coscienza (rassegnata o esaltante) della propria finitudine come verità di se stessi.
    Lo sappiamo tutti, d'esperienza diretta, di quanta ambiguità sono segnate queste dimensioni della nostra cultura. Le vogliamo controllare e superare. Ma non ci sentiamo di ignorarle o di rifiutarle ad occhi chiusi. Ci sembra di tornare indietro nel tempo, diventando all'improvviso vecchi e superati.
    Qui è il nodo del problema.
    Se non riesce a dialogare con queste provocazioni, la spiritualità resta cosa d'altri tempi, adatta solo per uomini nostalgici o rassegnati. La sfida assume così il tono drammatico di un interrogativo di fondo: l'esperienza cristiana può dire ancora qualcosa a chi non è più disposto a fuggire da casa sua per cercare lontano una dimora strana e oscura?
    Si può essere uomini spirituali restando uomini di questo tempo? Si può amare questa vita e sognare felicità in compagnia di tutti gli uomini, confessando contemporaneamente che Gesù è il Signore, nella comunità dei credenti?

    3. NELLO SPIRITO, PER ESSERE UOMINI SPIRITUALI OGGI

    Gli ultimi interrogativi pongono bene in risalto quale sia il problema che investe l'attuale domanda di spiritualità. Dicono soprattutto la sua novità e urgenza.
    Ripensiamo al cammino percorso.
    Per definire in modo corretto la natura della spiritualità cristiana l'ho collegata ai processi di definizione e di stabilizzazione dell'identità personale. L'uomo spirituale è colui che sta costruendosi una sua struttura di personalità e accetta con gioia di risignificare questa sua esperienza soggettiva nella novità prodotta dall'incontro con Gesù Cristo nella Chiesa.
    A questo livello, le difficoltà sono oggi soprattutto di modelli antropologici. Sembra quasi che quelli incentrati su Gesù Cristo siano incompatibili rispetto alle esigenze della modernità.
    Il confronto sui modelli non è solo di procedure, quasi dovessimo trovare un'ipotesi di equilibrio tra la soggettivizzazione sfrenata e il determinismo oggettivo. Lo scontro si fa violento sul piano dei «contenuti».
    L'uomo moderno ha una sua visione della vita e della storia; ha recuperato valori che prima erano molto sottaciuti e ne ha messo tra parentesi altri, sottolineati abbondantemente dalla tradizione.
    La ricerca di una spiritualità, costruita attorno all'identità personale, sembra trascinata così ad una alternativa radicale.
    Il cristiano che respira l'aria della cultura attuale scopre che non gli si chiede prima di tutto se vuole ancora essere un uomo religioso. La sfida per lui è tra vivere una esperienza religiosa che permetta di restare pienamente di questo tempo o rinunciare ad una delle due esigenze: rinunciare alla contemporaneità all'oggi per vivere religiosamente o rinunciare alla dimensione religiosa dell'esistenza per restare nel nostro tempo.
    Con la cultura della modernità, in una società complessa e pluralista, non si scherza. Se la assumiamo a cuor leggero, in un abbraccio rassegnato, vengono bruciate le radici più profonde dell'esperienza cristiana. Ci sono infatti dei «valori» che il cristiano sente come decisivi e irrinunciabili, che l'uomo moderno è costretto a rifiutare per affermare la sua fame di dominio, di potenza, di sicurezza, di presuntuosa autosufficienza.
    Se ci estraniamo troppo velocemente dall'oggi in cui esistiamo, per paura del confronto e per affermare la nostra costitutiva irriducibilità, ci scopriamo presto orfani e smarriti. Fuori del tempo e della storia, non ritroviamo più il linguaggio e la cultura adeguati per dire e vivere l'evangelo di Gesù. E corriamo il grave rischio di fare un passo tanto impegnativo nel nome del passato. Spegniamo la compagnia sul presente e verso il futuro per una strana nostalgia di quello che tutti ormai hanno lasciato alle spalle.
    Abbiamo restituito alla spiritualità quel respiro globale spesso sacrificato; e ce la siamo ritrovata lanciata nel vortice della attuale crisi del fondamento religioso dell'esistenza.
    Abbiamo strappato il diritto di parlare di spiritualità ai vecchi monaci, isolati nella loro cella dal frastuono della vita quotidiana. E ci siamo trovati alle prese con sfide nuove e drammatiche. Questa è la sofferenza di chi vuole diventare «uomo spirituale» in questo nostro tempo.
    Sappiamo di non essere soli a cercare.
    Lo Spirito di Gesù è fantasia e futuro: per questo fa nuova ogni cosa (Ap 21,5). Noi lo cerchiamo perché da lui siamo già posseduti. Ci affatichiamo per dire la nostra fede e sappiamo di essere guidati da lui: non abbiamo infatti «ricevuto in dono uno spirito che ci rende schiavi o che ci fa vivere nella paura, ma lo Spirito di Dio che ci fa diventare figli di Dio e ci permette di gridare "Abbà", che vuol dire "Padre", quando ci rivolgiamo a Dio» (Rm 8,14-16).
    Possiamo cercare con coraggio e speranza. Nello Spirito di Gesù sappiamo di poter attingere prospettive nuove e vecchi tesori dal ricco bagaglio della tradizione spirituale e della disponibile compagnia con l'uomo d'oggi.


    T e r z a
    p a g i n A


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