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    Prefazione a: Una spiritualità per la vita quotidiana



    Quasi una prefazione
    Una spiritualità per aiutare a vivere

    A mia mamma
    che mi ha insegnato ad amare
    la vita e il suo Signore
    con la teologia di mille piccoli gesti.
    E ai tanti giovani
    che ho incontrato:
    ho raccontato loro questa passione
    e me l'hanno fatta riscoprire.

    Alcuni anni fa, in un gruppo di amici, responsabili di strutture di animazione pastorale, ci siamo messi a studiare il problema della spiritualità giovanile. Cercavamo un progetto di esistenza cristiana, da proporre ai tanti giovani decisi a vivere nella sequela di Gesù Cristo e intensamente appassionati della loro vita. A questa ricerca ci spingeva l'esperienza di un grave e diffuso scollamento tra vita quotidiana e spiritualità.
    Come non ci era mai capitato prima, ci siamo trovati sostenuti da un largo consenso e da un interesse crescente. Giovani ed educatori avvertivano il problema come un compito decisivo e entusiasmante.
    Il mio libro racconta la storia di questa esperienza.
    È una storia nata «assieme», tra giovani e educatori, mettendo nella comune ricerca esperienze personali, voglia di confronto, tempi di preghiera e di studio.
    Cercavamo una spiritualità «giovanile»; e abbiamo scoperto una spiritualità per gente che ama la giovinezza senza età dello Spirito di Gesù.
    Nella nostra ricerca abbiamo continuato a parlare di spiritualità giovanile per fedeltà al progetto iniziale. L'esito però l'abbiamo presto sperimentato come un modello rinnovato di spiritualità cristiana.
    Per questo ha come destinatari giovani e adulti «assieme».

    1. UNA PICCOLA STORIA «ISPIRATA» DA TRE GRANDI STORIE

    Raccontare una storia è come partire per un lungo viaggio. Per compierlo da amici, capaci di verificare le proposte anche quando sono seducenti e di restare in atteggiamento di ascolto anche quando la condivisione risulta faticosa, devo chiarire in anticipo quali preoccupazioni e prospettive l'hanno orientata.
    Lo faccio come piace a me, evocando, a bassa voce, tre grandi storie di salvezza. Narrate in modo affascinante da Gesù di Nazaret e riscritte nella vita quotidiana di tanti cristiani, hanno ispirato anche la nostra piccola storia.

    1.1. Dalla parte del pubblicano

    Ripenso alla parabola del fariseo e del pubblicano e al commento che Gesù ne ha fatto dopo averla raccontata. Mi sembra molto significativa per determinare, alla luce dell'evangelo, l'immagine ideale di cristiano, quel modello di riferimento globale su cui si scrivono e si misurano tutti i progetti di spiritualità.
    «Una volta c'erano due uomini: uno era fariseo e l'altro era esattore delle tasse ( = "pubblicano"). Un giorno salirono al tempio per pregare.
    Il fariseo se ne stava in piedi e pregava così tra sé: "O Dio, ti ringrazio perché io non sono come gli altri uomini: ladri, imbroglioni, adulteri. Io sono diverso anche da quell'esattore delle tasse. Io digiuno due volte alla settimana e offro al tempio la decima parte di quello che guadagno".
    L'agente delle tasse invece si fermò indietro e non voleva neppure alzare lo sguardo al cielo. Anzi si batteva il petto dicendo: "O Dio, abbi pietà di me: sono un povero peccatore!".
    Vi assicuro che l'esattore delle tasse tornò a casa perdonato; l'altro invece no. Perché chi si esalta sarà abbassato; chi invece si abbassa sarà innalzato» (Lc 1 8 ,9- 14) .
    I due protagonisti hanno lo stesso grande desiderio che attraversa il cuore di ogni uomo: collocarsi davanti a Dio nella verità. Sappiamo di essere immersi nei segni del suo amore. Lo confessiamo con calore quando ci risulta facile attraversare l'opacità delle cose per giungere alla sua presenza. Lo diciamo, nella parola incerta del dubbio e della scommessa, quando la sofferenza annebbia il nostro sguardo verso Dio.
    Riconosciamo tutti il bisogno di rispondere con la vita a questo amore che si dona e ci interpella. La risposta che pronunciamo è però segnata dal limite della nostra debolezza.
    Come uscirne?
    Sul modo di elaborare la costitutiva finitudine il fariseo e il pubblicano dividono le loro strade e si presentano come due modelli, radicalmente diversi, di esistenza credente.

    1.1.1. «Dal profondo grido a te, Signore»
    Il fariseo batte la strada dell'impegno, duro e presuntuoso. Vuole poter guardare Dio negli occhi, quasi alla pari. E gioca la sua esistenza in questo sforzo disperato. È convinto finalmente di esserci riuscito. La sua preghiera è un inno alla potenza della sua buona volontà.
    Qualche volta i cristiani, impegnati ad imitare il fariseo, hanno preso le distanze da lui contestandogli il diritto di dire quello che il testo di Luca gli mette sulla bocca. L'atteggiamento di condanna che Gesù riserva alla categoria lo si è legato alla falsità delle dichiarazioni; non alla pretesa che le ha ispirate.
    Veniva da concludere: la strada del fariseo è quella buona, perché davvero l'impegno autosufficiente guida alla possibilità di guardare Dio negli occhi. Il fariseo è nel torto, solo perché si è fermato troppo presto ad assaporare il frutto delle sue fatiche.
    Il pubblicano, invece, si trova a fare i conti ancora con il limite che segna la sua vita. Egli fa della finitudine l'esperienza che definisce la sua verità. Sogna anche lui di guardare Dio negli occhi, generosità per generosità. Ma costata il suo quotidiano tradimento, il suo procedere incerto, il suo peccato e la sua grande voglia di rinascere.
    Dal profondo della sua esperienza quotidiana alza al Signore il grido della sua vita. Riconosce di poterlo pregare nella verità non perché ha raggiunto la perfezione, ma perché ne ha un desiderio sconfinato.
    Il suo sogno è tanto coraggioso che lo inchioda impietosamente alla sua debolezza e al suo tradimento. Si consegna così a Dio, certo di poter vivere in lui, se diventa capace di confessarlo come Padre accogliente e misericordioso.
    Non per questo smette di impegnarsi. Al contrario, gioca tutte le sue risorse, con un entusiasmo rinnovato, perché sa di non potersi mai considerare uno che è arrivato. Se non può ancora guardare Dio negli occhi, la causa non è il poco impegno: non lo può fare perché è un uomo, fortunatamente solo un uomo.
    Verso il suo Dio non gli resta che alzare le braccia, per lasciarsi afferrare da lui.
    Il pubblicano entra nella salvezza, perché la cerca, come il cervo anela alla sorgente d'acqua. Il fariseo rinuncia alla salvezza di Dio, perché si è ormai convinto di bastare a se stesso; e per questo muore nel suo peccato.
    La parabola offre la radiografia di una situazione di vita. Suggerisce però anche la prospettiva con cui possiamo vivere la nostra esistenza credente.
    Troppo spesso il modello religioso ufficiale è inconsapevolmente sbilanciato dalla parte del fariseo. Il volontarismo etico è tracimato anche nell'esperienza cristiana. Ha tristemente ridotto il Signore Gesù alla misura del vecchio saggio, pronto a dare buoni consigli per assicurare il pieno possesso di sé.
    Non nego che tutto questo sia importante. Ma non è l'evangelo di Gesù, come testimonia il grido di Paolo: «Io scopro testa contraddizione: ogni volta che voglio fare il bene, trovo in me soltanto la capacità di fare il male. Nel mio intimo io sono d'accordo con la legge di Dio, ma vedo in me un'altra legge che contrasta fortemente la legge che la mia mente approva e mi rende schiavo della legge del peccato che abita in me. Eccomi dunque, con la mente, pronto a servire la legge di Dio, mentre, di fatto, servo la legge del peccato. Me infelice! La mia condizione di uomo peccatore mi trascina verso la morte: chi mi libererà? Rendo grazie a Dio che mi libera per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore» (Rm 7,21-25; cf anche tutto il cap. 8).

    1.1.2. Una spiritualità come «invocazione»
    Il pubblicano della parabola ci è apparso così un tipo simpatico. Ci piace e ci convince il suo volto pensoso, segnato dal velo di tristezza di chi si scopre tanto lontano da quello che sogna per sé e illuminato dalla gioiosa speranza di chi sta imparando a convivere con la finitudine.
    L'abbiamo messo a simbolo della nostra ricerca: una spiritualità dalla parte del pubblicano.
    Dalla parte del pubblicano, possiamo riscrivere l'invocazione alla salvezza e l'esperienza gioiosa di viverne già immersi, anche se dobbiamo attraversare ancora un lungo tempo di lotta e di fatica prima di poter godere pienamente della vita nuova in cui esistiamo.

    1.2. Al centro la vita: perché tutti abbiano la vita e l'abbiano con abbondanza

    Ci piace valutare con lucida consapevolezza la funzione dei doni, prima di esplodere nel canto della riconoscenza. Un dono è sempre un impegno reciproco. Non possiamo giocarlo ad occhi bendati.
    Qual è l'oggetto verso cui alziamo le mani, come il pubblicano, dal profondo della nostra finitudine?
    Per parlar bene di Dio e dell'uomo, costruendo una proposta capace di risuonare come buona notizia anche oggi, abbiamo deciso di prendere veramente sul serio la dichiarazione di intenti offerta da Gesù: «Io sono venuto perché abbiano la vita, una vita vera e completa» (Gv 10,10).
    Al centro sta la «vita», quella vera e completa. Gesù la pone come sua causa decisiva, perché nell'uomo restituito pienamente alla vita Dio viene sommamente glorificato.
    L'ha proclamato a parole, suscitando il disappunto di molti suoi ascoltatori. E l'ha gridato nei fatti, facendosi condannare come bestemmiatore.
    Stare dalla parte della vita è infatti una scelta rischiosa, distesa sul tempo lungo, sbilanciata dalla parte della soggettività. La può esprimere solo chi ne ha la passione.
    Non è facile avere la «passione per la vita».
    L'abbiamo provato in prima persona, mentre cercavamo un progetto di spiritualità giovanile.
    Quando noi adulti abbiamo scoperto alla scuola dei giovani l'intenso desiderio di vita e di felicità che ci portiamo dentro, ci siamo un po' preoccupati. Una lunga abitudine ci aveva educato a controllare questi desideri, per reprimerli o per sublimarli.
    Ma i giovani ci hanno spiazzato. Hanno rieducato la nostra speranza. E così ci siamo ritrovati assieme a sognare vita.
    Assieme abbiamo riletto l'evangelo dalla parte della vita. E abbiamo trovato il Signore della vita, liberato dai veli opachi che gli nascondevano il volto.
    In lui abbiamo costatato con gioia che la nostra sofferta fame di vita e di felicità non è un tradimento alle scelte costitutive della nostra esistenza credente. E neppure è una illusione, per fuggire dal presente, rilanciando sogni e desideri verso un domani sempre lontano e irraggiungibile.
    Abbiamo fame di vita, perché siamo stati costituiti così dal Dio della vita, che fa della felicità dell'uomo la sua gloria.
    Possiamo sognare vita e felicità perché viviamo questo sogno dentro il grande progetto di vita del Dio di Gesù Cristo. Il nostro sogno di vita è il piccolo segno di un progetto più grande che tutti ci avvolge.
    Solo chi ha questa passione, chi cerca con trepida speranza vita e felicità, è capace di raccogliere la provocante bella notizia che è Gesù.
    Abbiamo così incominciato a sospettare di molti modelli di spiritualità. Troppo arrabbiati contro la vita, risuonano per forza di cose muti per chi ama la vita e cerca felicità.

    1.3. Parlare di vita e di speranza, facendo camminare gli zoppi

    Lo so che vita e felicità sono parole molto pregiudicate. Un uso sconsiderato le ha spesso disturbate e svuotate. Possono diventare frasi ad effetto, senza nessun contenuto preciso. O possono essere catturate dai nostri tradimenti. Non le possiamo però buttar via, con la saccente presunzione di chi vuole tutto ordinato e sicuro e non sa rischiare.
    Parliamo di vita e di felicità come frammenti della nostra quotidiana avventura. E cerchiamo di ricostruire il progetto dal frammento, pronunciandole in compagnia di colui che pretende di offrirsi come la ragione decisiva di una vita vera e completa.

    1.3.1. Beato te che ti lasci salvare
    La grande parola di Gesù sulla vita sono le beatitudini.

    «Beati quelli che sono poveri di fronte a Dio,
    perché Dio offre a loro il suo regno.
    Beati quelli che sono nella tristezza,
    perché Dio li consolerà.
    Beati quelli che non sono violenti, perché Dio darà loro la terra promessa.
    Beati quelli che desiderano ardentemente ciò che Dio vuole
    perché Dio esaudirà i loro desideri.
    Beati quelli che hanno compassione degli altri,
    perché Dio avrà compassione di loro.
    Beati quelli che sono puri di cuore, perché vedranno Dio.
    Beati quelli che diffondono la pace, perché Dio li accoglierà come suoi figli.
    Beati quelli che sono perseguitati
    per aver fatto la volontà di Dio,
    perché Dio darà loro il suo regno» (Mt 5,3-12).

    Le beatitudini sono una strana parola sulla vita e sulla felicità. Seducono con il fascino delle promesse e poi inchiodano in pretese dure e insolite.
    Noi le abbiamo riscoperte quando le abbiamo riscritte con le parole, più quotidiane, di una parabola. La racconto.
    In un braccio di mare insidioso un uomo sta affogando. Grida disperato in cerca di aiuto.
    Qualcuno lo scorge. Un buontempone gli sussurra: «Beato te che affoghi! Finalmente te ne vai da questo brutto mondo».
    Immagino che quel poveretto, sentendosi deriso nella disgrazia, si lasci morire più disperato che mai.
    Passa però da quelle parti un esperto nuotatore. Gli dice con tono rassicurante: «Beato te! Stai affogando, ma ti è andata bene, perché hai incontrato me: io ti salvo».
    L'accento non è più sul «beato te!», ma sulla certezza: «Io ti salvo».
    Chi sta affogando ritrova subito la speranza: scommette su questa nuova proposta. Riacquista la voglia di vivere e si lascia salvare. Il complimento «beato te!» ha prodotto qualcosa di potente: la vita può vincere la morte. Il complimento non ha costatato solo la situazione, accontentandosi di commentarla con un po' di gusto sadico. La situazione è stata radicalmente trasformata: egli è beato, fortunato, perché, accettando di scommettere sulla potenza del suo salvatore, è passato da morte a vita.
    Nella parabola ho utilizzato nei due casi una espressione un po' forzata, strana: «beato te». L'ho fatto apposta per creare immediata assonanza con le beatitudini evangeliche.
    Ho raccontato di uno che sta affogando, di uno che sta assaporando ormai il triste segno della morte. Essere poveri nella società dei consumi, piangere quando ci si deve solo divertire a tutti i costi, essere puri e puliti dove regna l'intrigo, la corruzione, il mercato del sesso, aver fame di giustizia oggi... non è come stare affogando?
    Gesù è l'unico che può dire al povero naufrago: «Beato te!», senza prenderlo in giro. In lui la vita vince sempre sulla morte.
    In lui i poveri diventano i più importanti, quelli che ricevono per primi le belle notizie; lui ha sfamato gli affamati; in lui i puri e i semplici sono i vincitori. In Gesù i disperati sono salvati. E sono salvati per un dono insperato e imprevisto.
    Gesù è la grande beatitudine che riempie il cuore di gioia: l'annuncio insperato e imprevedibile di vita e di felicità.
    Le beatitudini sono la vita di Gesù per la felicità e la libertà di ogni uomo che soffre, l'eco della sua potenza che fa nascere vita dove c'è morte per annunciare chi è Dio.

    1.3.2. I segni anticipatori della vita nuova
    Noi siamo tutti come quel poveretto che sta affogando in un braccio di mare pericoloso. Anche noi confessiamo, sulla testimonianza di Pietro, che non c'è altro nome in cui ottenere vita e salvezza, se non Gesù il Cristo, perché egli è morto e risorto per noi. Nella Pasqua Gesù è stato costituito Signore e Salvatore (At 4).
    Gesù ha portato alla salvezza di Dio facendo prima di tutto toccare con mano la sua bontà, accogliente e perdonante. Ha restituito vitalità alle gambe rattrappite dello zoppo di Cafarnao, per potergli dire in verità: «Dio perdona i tuoi peccati» (Lc 5,17-26).
    L'ha imitato Pietro, alla Porta Bella del Tempio, perché tutti sappiano che solo in Gesù c'è salvezza (At 3).
    Siamo peccatori; abbiamo bisogno di uscire dal nostro peccato e non lo possiamo fare che consegnando tutta la nostra vita a Dio: risuona così la voce di Gesù, oggi come nella casa di Pietro sulla riva del lago. Per vivere dobbiamo morire: come il chicco di frumento. Riconoscere il peccato e affidare la propria morte al Dio della vita è un rischio, un salto nel buio. Ci distrugge, nella nostra presunzione saccente. Ci chiede un modo nuovo di vivere, riconoscendo che solo Dio è il Signore.
    Questo invito, tanto sconvolgente, è accompagnato da un gesto che ce lo rende familiare e suasivo. Continua la voce di Gesù, oggi come a Cafarnao: «Càricati sulle spalle lettuccio e stampelle e torna a casa con le tue gambe». Nell'esperienza di una accoglienza che anticipa nel piccolo la novità promessa, scopriamo chi è Dio per noi: il Dio che salva solo chi consegna a lui la sua fame di vita, come nella croce. Ma è un Dio di cui possiamo fidarci incondizionatamente. Lo attestano le cose meravigliose che sta compiendo oggi per il suo popolo, come segno manifestatore di interventi dalla risonanza molto più sconvolgente.
    La vita nuova che nasce dalla croce viene così sperimentata attraverso i suoi segni anticipatori.

    2. PER AIUTARE A VIVERE

    Pensandoci bene, le tre riflessioni hanno ripetuto da punti di vista diversi la stessa preoccupazione: è indispensabile stare dalla parte della vita.
    L'ha segnalato Gesù di Nazaret, dando le credenziali della sua missione; l'hanno realizzato gli apostoli per proclamare nella verità il suo nome. Lo sperimentano tutti coloro che, imitando il pubblicano, sanno rinunciare alla presunzione dell'autosufficienza e affidano all'invocazione la propria fame di vita e di felicità.
    La ricerca sulla spiritualità rappresenta un momento importante e significativo nell'esistenza di un cristiano, solo se lo «aiuta a vivere». Con questa passione ci siamo messi a lavorare attorno ad un progetto di spiritualità giovanile.
    Con la vita al centro, invece di chiuderci nella spirale involvente della nostra soggettività, abbiamo avvertito urgente il bisogno di consegnarci al Signore Gesù. Abbiamo imparato a confessarlo il Signore della nostra vita, quando ce la siamo riconquistata con coraggio e responsabilità.
    Provocata da domande di vita, abbiamo riscoperto l'esperienza cristiana, abbiamo ritrovato le ragioni più profonde del nostro desiderio di vita e ce lo siamo sentiti restituire nella sua verità.
    Se non l'avessimo vissuta in molti momenti, potrebbe sembrare una conclusione strana, da non raccontare.
    Ci siamo accorti che, lontani dal Signore Gesù, la nostra fame di vita restava insaziata e per spegnere la nostra sete di felicità dovevamo ricorrere alle cisterne screpolate.
    Scrivendo la nostra storia, so di tradirla un poco. Sempre tradisce qualcosa chi passa dal vissuto alle pagine di un libro. La cosa però non mi preoccupa troppo: chi condivide le cose scritte, se le deve riscrivere personalmente nel tessuto della sua vita quotidiana. Solo quando questo racconto diventa vita vissuta, esso ha raggiunto il suo scopo. Non l'ho scritto per dire qualcosa che altri non sapevano. L'ho scritto per aiutare a vivere.
    Solo a questo titolo, ho raccolto gli appunti accumulati in anni di ricerca, mi sono rimesso a studiare temi e problemi, ho steso queste pagine.
    Rileggendo il manoscritto, mi sono accorto di essere scivolato spesso dal noi all'io. Non è stato un gioco linguistico. È solo un indicatore che segnala il cambio di tono: passo dall'esperienza vissuta al necessario tentativo di elaborarla, per dare ad essa la capacità di parlare in termini più universali.
    La storia che ne esce risuona, per forza di cose, irta di riflessioni teologiche, tormentata di rimandi e di indicazioni complesse. Della narrazione conserva però le finalità e il movimento. C'è una storia vera alla radice. Ci sono volti di amici, gioie e preoccupazioni: un movimento, spuntato quasi all'improvviso, a cui cerco di dare voce, come dono per gli altri.
    In tanti abbiamo trovato ragioni di vita e di speranza nella storia che voglio raccontare; ci piacerebbe che l'esperienza continuasse.


    T e r z a
    p a g i n A


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