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    La vita quotidiana come grande sacramento (cap. 5 di: Una spiritualità per la vita quotidiana)



    SECONDA PARTE: PROGETTI


    Di fronte alle cose meravigliose che Dio ha compiuto per noi in Gesù Cristo, ci chiediamo con crescente, spontanea passione: quale risposta può esprimere il nostro profondo desiderio del Dio di Gesù e la nostra gratitudine nel vederci tanto incredibilmente amati?
    Con Gesù di Nazaret e con Maria abbiamo scoperto che la risposta dell'uomo a Dio non può percorrere il sentiero presuntuoso di un patto bilaterale, come se all'amore di Dio, davvero incredibile, potessimo dar riscontro aumentando la qualità del nostro impegno.
    La risposta dell'uomo è la fede, accogliente e obbediente: l'accoglienza dell'amore di Dio come fondazione della propria esistenza e l'obbedienza nella propria vita alla «ragione» di questo amore.
    Siamo cristiani perché riempiamo la vita quotidiana di fede, accogliente e obbediente. La vita ci lancia la sfida, spingendoci alla ricerca di una ragione per vivere e per sperare, capace di sostenere e giudicare quelle che ogni giorno di diamo. La vita è lo spazio dove diciamo con i fatti la scoperta gioiosa del Dio di Gesù, fondamento sicuro dell'avventura di vivere e di morire.
    Cosa significa tutto questo, oggi, nella nostra cultura e alle prese con i problemi e le provocazioni che l'attraversano?
    Il racconto della nostra esperienza si snoda come progressiva proposta di un modello di spiritualità, alla luce dell'Incarnazione.
    Il primo capitolo affronta il tema di fondo per una spiritualità del riconoscimento e della responsabilità. Nei successivi riprendo le dimensioni più qualificanti dell'esistenza cristiana.


    5. La vita quotidiana come grande sacramento

    L'esistenza di ogni uomo è tutta segnata dalla presenza interpellante di Dio. Noi viviamo in Dio, per Gesù Cristo.
    Il cristiano respira questa profonda, gioiosa consapevolezza. È uomo spirituale perché sa cogliere, nel fragore delle cose di tutti i giorni, questa presenza intimissima e misteriosa.
    Lo confessiamo nella nostra fede e lo riconosciamo nel nostro quotidiano operare.
    Abbiamo però bisogno di esprimere questa esperienza in modo da evitare discorsi generici e inconcludenti. Per questo dobbiamo rischiare un poco, assumendo le parole che usiamo abitualmente per raccontarci le nostre esperienze. Sappiamo che sono sempre povere rispetto a quello che ci portiamo dentro. Ci costringono a balbettare, quando vorremmo invece parlare in termini lucidi e precisi. Ma non possiamo fare altrimenti: le nostre povere parole sono l'unico strumento espressivo di cui disponiamo per toccare il mistero.
    L'uomo sapiente lo soffre come un limite invalicabile. Ricompreso alla luce dell'Incarnazione, l'abbiamo scoperto come l'unico modo serio di dare volto e parola al nostro Dio.
    Ci chiediamo dunque: dove Dio si comunica nell'esistenza dell'uomo? Lo confessiamo misteriosamente presente, come la ragione decisiva della nostra vita e della nostra salvezza. E ci domandiamo dove lo possiamo incontrare, nella verità.
    L'interrogativo coinvolge la ragione della nostra esistenza credente e connota immediatamente una concezione di salvezza e, di conseguenza, di vita liturgica e sacramentale. E la domanda di fondo di ogni spiritualità.

    1. LA «MEDIAZIONE»: UN MODO NUOVO DI COMPRENDERE LA PRESENZA DI DIO

    Un certo modo di pensare, di fare raccomandazioni e di cogliere problemi e prospettive è abituato a contrapporre le realtà trascendenti a quelle immanenti. Il mondo della trascendenza è quello che riguarda direttamente il mistero di Dio e quei gesti, parole e interventi che cercano di raggiungerlo. Il mondo dell'immanenza è invece quello della nostra esistenza quotidiana, dove l'uomo si arrabatta, solitario, nel labirinto delle opere delle sue mani.
    In questo mondo Dio è assente; risulta lontano, estraneo. Se vogliamo incontrarlo, dobbiamo avere il coraggio di abbandonare progressivamente tutto quello che ci lega a questa esperienza troppo condizionante per accedere alla libertà del mistero.
    Ci sono dei cristiani coraggiosi che fanno il grande balzo in avanti e «abbandonano tutto» per incontrare Dio. Cambiano dimora; diventano così la gente della trascendenza.
    Gli altri purtroppo devono continuare a fare i conti con le cose di tutti i giorni. Si ritagliano però qualche spazio privilegiato dove, ad intervalli regolari, cercano di incontrare il loro Dio.
    La teologia dell'Incarnazione ci ha spinto a vedere le cose in un modo molto diverso.
    Al conflitto tra trascendenza e immanenza l'evento di Gesù Cristo sostituisce la categoria teologica della «mediazione sacramentale».
    È vero che il mondo di Dio e quello dell'uomo sembrano lontani e incomunicabili. Dio è il totalmente altro, l'ineffabile e l'imprevedibile. L'uomo è lontano da Dio perché è creatura e perché ha deciso un uso suicida della sua libertà e responsabilità nel peccato. Dio e l'uomo sono i «lontani» per definizione e per scelta.
    Questa però non è l'ultima parola. La parola decisiva è invece Gesù di Nazaret. In lui, Dio si è fatto vicino all'uomo: è diventato «volto» e «parola». E l'uomo è stato ricostruito in una novità così insperata da diventare il volto e la parola di Dio.
    In Gesù di Nazaret i lontani sono ormai diventati i «vicini», in una realtà nuova, che ha trasformato radicalmente i due interlocutori.
    Senza Gesù nella storia dell'uomo il conflitto resta e la distanza è incolmabile. In Gesù la distanza è ormai coperta definitivamente: l'immanente è il luogo in cui il trascendente si fa «volto» e «parola».
    La contrapposizione tra immanenza e trascendenza, tra orizzontalismo e verticalismo (un altro gioco linguistico per esprimere la distinzione tra il mondo di Dio e quello dell'uomo), ci riporta ad una logica precedente l'Incarnazione. Ci priva così dell'esperienza fondamentale dell'esistenza nuova del cristiano. Per fare più spazio a Dio, lo si caccia follemente di casa. Al Dio di Gesù Cristo viene sostituito il dio dei filosofi, tanto «trascendente» da essere muto e impassibile: senza parola per l'uomo e senza passione per la sua vita.

    2. LA VITA QUOTIDIANA È LA GRANDE MEDIAZIONE

    A chi comprende la realtà in questo modo, viene spontanea una nuova domanda: qual è in concreto questa mediazione, che rende Dio vicino e presente?
    La mediazione fondamentale è Gesù di Nazaret. In lui, nella verità più piena e definitiva, Dio e l'uomo sono diventati ormai radicalmente «vicini». Sono così intimamente vicini da essere in Gesù una realtà personale, unica e irripetibile.
    Gesù è il caso supremo di presenza di Dio nell'uomo. La Chiesa, per questa consapevolezza teologica, lo chiama il «mediatore»: la mediazione fatta persona.
    Quello che riconosciamo in modo unico in Gesù può essere esteso a tutti gli uomini. La ragione appare immediata a chi medita l'evento dell'Incarnazione. Gesù è la mediazione che rende Dio vicino e presente all'uomo nella grazia della sua umanità. È infatti Gesù di Nazaret, quell'uomo che ha un tempo e una storia, una casa, degli amici e dei nemici, l'evento dove Dio si è fatto volto e parola e dove l'umanità è stata trascinata alle sue capacità espressive più impensabili, fino a risultare parola e volto del Dio ineffabile.
    La mediazione è quindi l'umanità dell'uomo. In modo sovrano e inimitabile lo diciamo per Gesù di Nazaret. In lui e nella distanza di reali77azione che ci separa da lui, lo diciamo, con gioia trepidante, di ogni uomo, di ciascuno di noi.
    Questa è la grande rivelazione che l'Incarnazione propone a chi sa leggere la storia in uno sguardo di fede.
    In Gesù, per la solidarietà che tutti ci lega a lui, Dio è presente nell'umanità dell'uomo. La sua presenza è il dono che costituisce l'umanità stessa e la rende per questo luogo della sua presenza.
    Possiamo fare un piccolo passo avanti. Non cambia la sostanza delle cose; ma ci permette di esprimerle in parole più concrete.
    L'umanità dell'uomo non è un insieme di eventi fisici, aggregati più o meno casualmente, né è solo una catena di reazioni chimiche. Non è neppure un intreccio confuso di azioni, distese nel tempo senza reciproco collegamento. Se così fosse, la «mediazione» non potrebbe essere considerata come dono da riconoscere e da accogliere nella responsabilità. Si tratterebbe di qualcosa da considerare come estraneo rispetto alla libertà e responsabilità personale dell'uomo. Risulterebbe solo un dato fisiologico, prezioso finché si vuole, ma che sfugge alla responsabilità creativa dell'uomo, come il nascere e il morire.
    Questa mediazione è invece una trama di esperienze, profondamente e reciprocamente collegate, di cui possiamo affermare la irrinunciabile paternità personale. Con una parola, carica di forti risonanze evocative, nella nostra storia abbiamo incominciato a chiamare tutto questo con la formula: «vita quotidiana». La vita, nella sua quotidianità, è la piccola nostra mediazione, che ci immerge nella grande mediazione di Gesù.
    La vita quotidiana è l'esistenza di ogni uomo: l'insieme delle esperienze che l'uomo produce, entrando in relazione con gli altri, nella storia di tutti.
    Distesa a frammenti nel tempo, la vita quotidiana è un evento unico e articolato: una trama, tessuta giorno dopo giorno, in cui diciamo chi siamo e come ci sogniamo.
    Questa vita è il luogo dove Dio si fa presente ad ogni uomo, di una presenza tanto intima e profonda da essere più presente a me di me stesso.
    La salvezza non è l'esito di alcuni gesti speciali. E ormai l'ambiente in cui esprimiamo tutta la nostra esistenza. Camminiamo a fatica verso la pienezza di salvezza, già segnati dalla sua novità.
    Questa diffusa presenza è il principio costitutivo di ogni esistenza, intimo ad ogni uomo più di se stesso. Si tratta evidentemente di una presenza che è offerta alla libertà, che costituisce la libertà stessa: accettata o rifiutata nel cammino progressivo dell'esistenza personale, colloca nella salvezza o riduce alla pretesa suicida di una folle autonomia.
    Nella nostra vita quotidiana viviamo nello Spirito. Siamo uomini spirituali se sappiamo riconoscere questa presenza e l'accogliamo nella responsabilità.

    3. PRESENZA COME ESPERIENZA DI SACRAMENTALITÀ

    L'affermazione esige una ulteriore riflessione per precisare meglio in che senso vada compresa questa diffusa e involvente presenza.
    Esistono molti e diversificati modelli di presenza. E presente l'amico con cui stiamo conversando. Ed è egualmente presente il ricordo di una persona cara, quando ci sentiamo travolti dalle difficoltà. La prima presenza è sul piano fisico; la seconda è legata solo alla intenzionalità.
    Ci può essere presenza fisica senza condivisione intenzionale; e ci può essere percezione totalmente soggettiva di presenzialità, senza alcun riferimento ad una oggettività fisica e constatabile.
    La presenza di Dio nella vita dell'uomo non è una presenza diretta e immediata, da costatare e possedere fisicamente. Non è però neppure una semplice convenzione logica, un ricordo nostalgico senza alcun riferimento reale.
    Si tratta di una presenza vera e consistente, anche se tutta speciale. Continuando ad utilizzare lo schema logico della mediazione, la chiamo una presenza di «sacramentalità».
    Mi spiego, richiamando cose certamente note.
    L'umanità dell'uomo ha una sua precisa concretezza, che può essere descritta e manipolata. Ha un suo spessore verificabile; lo si vede e lo si tocca, a diversi livelli.
    Essa si porta dentro un evento più grande, la sua ragion d'essere più intima: Dio che si è comunicato all'uomo in un gesto di impensabile gratuità. Capitava così anche per Gesù di Nazaret.
    Quello che di Gesù i suoi contemporanei potevano osservare non è tutta la sua persona. Egli è Dio con noi, «fisicamente», anche se di una fisicità non documentabile attraverso le nostre risorse.
    Un mistero più grande è presente nel visibile. Lo si costata con altre categorie. Esso è, in ultima analisi, la sua verità più intima e autentica.
    A questo livello misterioso, di verità più vera, si colloca la presenza di Dio nell'umanità dell'uomo.
    Dio è presente oggettivamente. Lo è in modo unico e originalissimo nell'umanità di Gesù. Per questo lo confessiamo, nella fede ecclesiale, pienamente Dio con poi. Diciamo che Gesù è tanto pieno della presenza di Dio da essere lui stesso Dio. Per noi la situazione è molto diversa. Noi siamo solo immersi nella presenza di Dio. Ci viviamo dentro, per dono suo. Ma restiamo nella nostra povertà e fmitudine.
    Dio, presente nella nostra vita, non la travolge. Al contrario, proprio per questa presenza essa esiste come realtà dotata di autonomia e di consistenza. Siamo tanto signori della nostra piccola casa, da poter estromettere Dio da essa.
    Nella vita quotidiana quello che si vede e si manipola non è tutta la sua verità. Quello che costatiamo, siamo e produciamo della nostra vita, è veramente «nostro», frutto della fatica del nostro esistere. In esso però è presente un evento più grande, che ci permette di essere quello che siamo.
    Questo misterioso gioco viene abitualmente descritto, nel linguaggio ecclesiale, in termini di rapporto tra un visibile (l'umanità concreta e quotidiana di ogni uomo), che costatiamo e descriviamo nella nostra sapienza e accogliamo come evento di libertà e di responsabilità, e un mistero che ogni visibile si porta dentro, costituito dalla presenza salvifica di Dio, che confessiamo nella fede. In gergo, questo rapporto è detto «sacramentale»: un visibile che si porta dentro il mistero.
    Riconosciamo che il mistero di Dio prende l'umana carne del visibile concreto e storico di ogni uomo, continuando, in qualche modo, l'evento dell'Incarnazione. Riconosciamo di conseguenza che la verità più profonda dell'umano è data dalla sua costitutiva capacità di far trasparire il mistero di Dio.
    È affascinante e impegnativo costatare che la trasparenza di Dio è legata, come in Gesù, alla pienezza di umanità. Dio si fa vicino, presente, incontrabile non quando gli uomini abbandonano la loro umanità, ma quando la vivono intensamente nella loro vita quotidiana.
    L'umanità, la vita quotidiana dell'uomo, è il grande sacramento di Dio nella nostra storia.

    4. CONTEMPLATIVI DEL QUOTIDIANO

    Come credenti, riconosciamo il mistero che la nostra vita quotidiana si porta dentro. Sappiamo che l'avventura della nostra esistenza ha una sua precisa ragion d'essere, di cui ci sentiamo fieramente responsabili. E confessiamo che questa stessa esistenza è segnata, come in filigrana, dalla presenza intimissima dello Spirito di Gesù, che inonda i nostri frammenti di vita della grazia di una vita nuova.
    La dimensione umana non è il velo che ricopre la statua, da strappare velocemente per restituire agli occhi degli spettatori quello che altrimenti resterebbe nascosto. Chi toglie il velo, si ritrova anche senza statua, perché visibile e mistero sono un'unica realtà: quella «mediazione» sacramentale in cui i lontani sono diventati ormai un evento nuovo, che li ha resi vicini.
    La logica della mediazione ci impedisce anche di leggere il rapporto in termini solo strumentali. Lo ridico con un altro esempio. Io porto gli occhiali. Non sono un vezzo estetico; ma una necessità fisiologica. Senza occhiali le cose mi appaiono confuse e indistinte. Correggendo invece l'angolo visuale con una lente, la realtà mi riappare com'è.
    Per me, gli occhiali sono uno strumento indispensabile per arrivare alle cose. Sono diversi da me e dalla realtà che voglio incontrare. Me la rendono vicina, sperimentabile, grazie alla loro funzione strumentale.
    La vita quotidiana non funziona come un paio di occhiali che il credente assume per accedere al suo Dio. Essa è l'espressione concreta dell'uomo vivente e lo spazio dove il nostro Dio si è fatto vicino.
    La categoria che esprime in modo adeguato il difficile rapporto tra visibile e mistero nella vita quotidiana è quella della «trasparenza». L'impegno interpretativo può essere descritto come un'operazione di «traforazione».
    Traforare la vita quotidiana significa attivare un'operazione complessa, che penetra tra le pieghe più profonde del visibile per raggiungere le falde lontane e sconosciute del mistero. E una vera «traforazione» a grande profondità.
    Non sappiamo in partenza il suo esito. La parola «fine» può essere posta solo quando sorgenti d'acqua limpida sgorgano in superficie, capaci di spegnere una sete sempre più bruciante.
    Ogni conquista in profondità è preziosa: porta i segni di quello che è stato raggiufito e di quello verso cui sollecita. Lo diciamo con la passione ardente dell'archeologo che avanza scavando verso un'era sempre più lontana.
    Quello che costatiamo è tutto segnato da quello che cerchiamo. All'inizio, i segni sono deboli. Solo una grande passione e una speranza insolita ci assicura del mistero sepolto. Strato dopo strato, il cammino si fa più suasivo. Il mistero traluce in quello che riusciamo a manipolare.
    Per questo il rapporto è di trasparenza: nella fede l'immanente diventa trasparente di trascendenza.
    Traforando il visibile, diamo voce alla silenziosa presenza di Dio nella nostra esistenza e approdiamo alla verità di noi stessi. Ci riappropriamo soggettivamente del dato oggettivo in cui siamo costituiti.
    L'operazione non è però facile. Molti stimoli spingono a restare sulla superfice delle cose.
    Si richiede una «mistagogia della vita quotidiana»: l'iniziazione ad una vera e nuova capacità ascetica, che spinga progressivamente in avanti la ricerca. Le cose hanno un fascino sinistro, nella loro dimensione visibile. Ci entusiasmano o ci ripugnano. Per questo distinguiamo tra cose buone e cose cattive, tra momenti felici e tristi della nostra vita. Invece, il mistero di Dio le riempie tutte. Lo possiamo raggiungere solo se non ci lasciamo abbagliare dal fascino di quelle che ci sembrano positive e se non ci lasciamo frenare dall'opacità di quelle che valutiamo negative.
    Questa «mistagogia» afferra tutta la nostra vita quotidiana, in un unico sguardo.
    Traforandola tutta, la «contempliamo»: la leggiamo nel mistero di cui è trasparente.
    Contemplare è traforare le cose per arrivare a possederle pienamente, nella loro figura visibile e nel mistero che si portano dentro.
    La contemplazione riguarda perciò tutta la vita dell'uomo. Non è un gesto riservato ai tempi speciali, né riguarda momenti particolari. Se tutta la vita quotidiana è la mediazione dove il Dio di Gesù Cristo si fa presente, tutta va accolta e compresa dal suo profondo.
    Chi contempla «nel» quotidiano cerca uno spazio separato dove accedere a Dio.
    Chi invece diventa contemplativo «del» quotidiano, riconosce la sacra- mentalità di tutta la sua vita.
    Contemplata, la vita è il nostro libro, il luogo in cui vediamo Dio, lo spazio della nostra sequela.
    Contemplandola, ritroviamo una ragione in più per assumere una intensa passione per questa nostra vita.


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