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    La passione per il regno di Dio (cap. 7 di: Una spiritualità per la vita quotidiana)



    7. La passione per il regno di Dio

    Il Dio di Gesù è presente nella storia come colui che chiama.
    Il nostro è un Dio nascosto e inaccessibile, perché abita nel cielo, ma è un Dio che parla, che ascolta, che fa strada con ogni uomo. La sua parola - leggera e impercettibile come la brezza di una calda sera d'estate o vento impetuoso che tutto travolge - è sempre una «vocazione»: una presenza, contemplata per trasparenza nella vita quotidiana, offerta alla risposta libera e responsabile dell'uomo.
    L'antico popolo di Dio l'ha proclamato con gioia, come espressione concreta della propria fede:

    «Come la cerva assetata cerca un corso d'acqua,
    anch'io vado in cerca di te, di te, mio Dio.
    Di te ho sete, o Dio,
    Dio vivente:
    quando potrò venire
    e stare alla tua presenza?» (Sal 42,1-3).
    «Il Signore è il mio pastore e nulla mi manca.
    Su prati d'erba fresca
    mi fa riposare;
    mi conduce ad acque tranquille, mi ridona vigore;
    mi guida sul giusto sentiero:
    il Signore è fedele!» (Sal 23,1-3).
    Qualche volta ha pregato questa consapevolezza persino con una vena di fiera polemica:
    «Il nostro Dio è nel cielo:
    tutto quello che vuole, lo fa.
    I loro idoli sono d'argento e d'oro, fabbricati da mano d'uomo.
    Hanno la bocca, e non parlano, gli occhi e non vedono.
    Hanno orecchi, e non ascoltano, naso e non sentono odori.
    Le loro mani non toccano,
    i loro piedi non camminano, la loro gola è senza voce.
    Tu, invece, Israele, confida nel Signore:
    è lui che ti aiuta e ti protegge» (Sal 115,3-9).
    I cristiani continuano a ripetere lo stesso canto, con la medesima gioia e con accresciuta fierezza, perché in Gesù hanno riscoperto la sua profonda verità.

    Meditando sulla sacramentalità della vita quotidiana, abbiamo scoperto come e dove Dio ci parla. Ora ci domandiamo, con la stessa preoccupata passione: come e dove rispondiamo alla sua chiamata?
    Non è facile dirlo in termini troppo sicuri. Ma non possiamo certamente eludere il problema.
    Questo capitolo, molto sofferto, dice il punto a cui siamo giunti nella nostra elaborazione di un progetto di spiritualità a partire dall'Incarnazione.

    1. UNA RISPOSTA ATTRAVERSO «MEDIAZIONI»

    Una pagina dell'evangelo ha orientato la nostra ricerca. L'abbiamo sentita viva e vicina in Gesù e nell'esperienza dei santi, quelli grandi, che ci lasciano con il fiato mozzo, e quelli che incontriamo tutti i giorni e a cui diamo del tu.
    «Venite, voi che siete i benedetti dal Padre mio; entrate nel regno che è stato preparato per voi fin dalla creazione del mondo. Perché io ho avuto fame e voi mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato nella vostra casa; ero nudo e mi avete dato i vestiti; ero malato e siete venuti a curarmi; ero in prigione e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,31-46).
    Meditandola, abbiamo riscoperto la stessa conclusione a cui siamo giunti quando ci siamo chiesto dove e come Dio ci parla.
    Non incontriamo mai Dio direttamente. Il desiderio di vedere Dio a faccia a faccia non può essere realizzato se non quando saremo finalmente arrivati alla sua casa. Ora lo contempliamo solo attraverso immagini un po' disturbate, come sono tutte le mediazioni umane. Paolo lo dice con una figura espressiva: vediamo Dio «come in uno specchio» (1 Cor 13,12). E non pensava certamente agli specchi quasi perfetti delle nostre case moderne.
    Il Vangelo non scende nei particolari. Gioca di profezia: suggerisce una bella notizia, senza impegnarsi nel sottile movimento delle distinzioni e delle indicazioni operative. Chi ci medita con calma e profondità le coglie però immediatamente. Scopre i punti fermi e costata i problemi che restano aperti.
    Dare da mangiare a chi ha fame è un gesto concreto e quotidiano. Ha una sua logica e risponde ad una precisa visione antropologica. Può essere compiuto come espressione d'amore o può risultare contaminato da secondi fini. Qualcuno lo contesta, come insufficiente e persino alienante, perché preferisce scatenare la protesta degli affamati verso trasformazioni strutturali della società.
    Per altri, è gesto prezioso e benedetto, capace di risolvere problemi.
    Quello che conta non è perciò il gesto, bruto e materiale, il dato nella sua fisicità. Gesù benedice con la promessa della felicità il gesto «fatto per amore»: quello che promuove il fratello, che lo restituisce alla vita. Pane e acqua sono solo un esempio. La sostanza è la costruzione e il consolidamento della vita e della speranza.
    La vita e la speranza sono già dalla parte di Dio. Lo sono di fatto, prima e oltre ogni buona intenzione. A questo proposito la pagina di Mt è esplicita: la promozione della vita è «per Dio», anche se chi pone il gesto non ci pensa affatto.
    Dar da mangiare a chi ha fame è nutrire la fame di Dio, se è promuovere la vita e la speranza del fratello che muore alla vita e alla speranza a causa della sua fame.
    Ancora una volta la nostra vita quotidiana è riportata al centro. La condizione per farla risposta filiale a Dio è solo questa: il coraggio di impegnarla per promuovere la vita e consolidare la speranza, consapevoli che in tutto questo Dio è immediatamente coinvolto.

    2. A CONFRONTO CON PROBLEMI DI FONDO

    Con affermazioni così perentorie, sembrerebbe tutto risolto.
    Se analizziamo con calma le conclusioni a cui siamo giunti, ci accorgiamo però che non mancano affatto i problemi.
    E importante accettarne disponibilmente la provocazione. La posta in gioco è troppo alta per procedere con la folle presunzione di chi si appropria della verità e rifiuta ogni confronto.
    Non vogliamo più contrapporre incontro diretto e immediato a incontro mediato, realizzato attraverso processi e gesti umani. A questo livello non c'è scelta. Una matura teologia dell'Incarnazione ci assicura che non ci sono scorciatoie speciali per arrivare al Dio di Gesù Cristo. L'unica strada praticabile è quella che passa per la vita quotidiana.
    La questione è un'altra.
    Non possiamo accontentarci di un incontro con Dio solo implicito. E importante riconoscere che tutti gli uomini possono incontrare il Dio di Gesù anche se non lo conoscono personalmente, quando si impegnano a promuovere la vita dei fratelli. Un progetto di spiritualità non può concludere la sua ricerca su questo livello atematico e irriflesso. Vogliamo incontrarlo nella gioia di una consapevolezza motivata e posseduta, anche se non possiamo eludere il limite invalicabile delle mediazioni umane. Non ci basta perciò una risposta globale. Cerchiamo spazi dove realizzare un incontro profondamente personale.
    L'impegno di promozione della vita e della speranza è solo un modo implicito e non ancora tematizzato di incontrare Dio o invece questo è il grande sacramento della nostra risposta a lui?
    Sappiamo poi che ogni incontro interpersonale è sempre un poco una avventura e un rischio.
    Lo sperimentiamo tutti i giorni quando incontriamo i nostri amici. La convinzione di essere «capiti» dall'amico o quella di averlo «capito» salta spesso, alla prova dei fatti. Quello che ci portiamo dentro è frenato dalla disarmonia dei gesti e dalla inespressività delle parole. Il mistero di ogni persona si oppone ad ogni tentativo di cattura: capire è sempre catturare.
    Nei confronti di Dio, il mistero è profondo e insondabile. Come possiamo pretendere di capirlo?
    Viene voglia di ridurre tutto al solo gioco della soggettività. «Per me Dio è...»: si dice. Oppure «Dio mi dice che...».
    Siamo prigionieri del nostro stesso desiderio di incontrare Dio: o silenzio o incomprensione? C'è una via corretta, che ci riporti in un terreno più sicuro, anche senza sottrarci dalla costitutiva ambiguità?

    2.1. La provocazione dei modelli tradizionali di spiritualità

    I modelli tradizionali di spiritualità (quelli, per intenderci, che sollecitano a «fuggire dal mondo» per approdare più velocemente nell'abbraccio di Dio e, in parte almeno, anche quelli legati ad una visione dialettica) suggeriscono una proposta molto precisa, che taglia netto sulle difficoltà. Distinguono tra tempi e momenti tutti dedicati all'incontro con Dio e tempi e momenti che invece restano neutrali, dove impegno e responsabilità hanno una risonanza solo umana.
    I primi sono i gesti formalmente religiosi: la preghiera, la contemplazione, le pratiche di pietà. Qualche volta persino liturgia e sacramenti sono pensati come «risposta» dell'uomo a Dio, con il rischio di dimenticare la loro prioritaria funzione di «proposta» salvifica.
    I secondi sono costituiti da tutte le attività dell'uomo: il suo lavoro quotidiano per la costruzione di un mondo più giusto e umano, l'amicizia e l'amore, il gioco, la festa e lo sport.
    Alcuni modelli di spiritualità svalutano un poco questi impegni, perché li denunciano come facilmente distraenti rispetto al compito religioso.
    Altri invece li rispettano e li apprezzano. Ma li considerano «solo» gesti umani: ancora lontani da una risposta piena e tematica alla vocazione di Dio.
    Non contrappongono preghiera a lavoro ma chiedono di «santificare» il lavoro con la preghiera. Sollecitano cioè a collocare l'impegno per la promozione della vita nella sua giusta dimensione di risposta a Dio in modo tematico e consapevole attraverso il ricorso frequente alla preghiera.
    I gesti religiosi sono considerati spesso liberi da quel rischio di ambiguità che segna ogni incontro umano. La prassi sociale, culturale e politica ne è invece tutta profondamente intrisa. Anche per questo si ricorre frequentemente alla preghiera: come correttivo rispetto all'ambivalenza e come principio di validazione.

    2.2. Ritorna il rischio grave del dualismo

    Come si nota, le difficoltà sono davvero risolte alla radice. Il prezzo è però alto: il dualismo, cacciato dalla porta, rientra attraverso la finestra.
    Accettando come pacifica e insuperabile la distinzione tra tempi privilegiati e tempi neutrali, va in crisi tutto il nostro impegno di riconciliazione tra vita quotidiana e vita nello Spirito.
    Non ha senso, infatti, affermare la sacramentalità della vita quotidiana, se poi siamo costretti a riconoscere che sul piano della risposta a Dio alcuni spazi vitali vanno considerati come privilegiati mentre altri sono valutati indifferenti o, peggio, distraenti. E questo non per l'intenzione di chi li pone ma per la natura intima del gesto compiuto.
    D'altra parte, se riconosciamo che l'impegno di promozione della vita e della speranza rappresenta il luogo, unico e definitivo, della risposta personale a Dio a prescindere da ogni ricerca di consapevolezza e da ogni ritualizzazione simbolica, riduciamo la decisione personale per la salvezza ad un puro gioco di gesti e di interventi quasi «fisici». In questo caso i limiti sono evidenti. Salta la qualità «umana» dell'esistenza cristiana. Viene infatti annullata quella fatica di consapevolezza riflessa e critica che qualifica la nostra prassi operosa; e si riduce a nulla quel prezioso gioco di realtà e simboli che libera l'uomo dalla tentazione del magismo religioso.
    Se ripensiamo alla meditazione con cui ho cercato di descrivere il rapporto tra la sacramentalità diffusa nella vita quotidiana e i sacramenti in senso stretto, ci si accorge facilmente che in questo contesto sta ritornando lo stesso problema. Là era legato al fatto oggettivo della presenza salvifica di Dio. Qui c'è di mezzo la decisione soggettiva e personale di «incontrare» questa presenza e di accoglierla nella verità.
    L'interdipendenza di prospettive ci mette alle strette: possiamo trovare indicazioni soddisfacenti per tutti e due i casi, lavorando attraverso modelli analogici o dobbiamo con coraggio sconfessare quello che abbiamo affermato sopra.
    Non intendo assolutamente mettere in questione l'opportunità e l'urgenza di porre nella propria vita gesti religiosi: tempi di preghiera, di silenzio, di contemplazione. Gli uomini religiosi li hanno riconosciuti sempre come irrinunciabili per una vita cristiana matura.
    Devo però interrogarmi sul significato di questi gesti speciali e sul loro rapporto con la promozione della vita.
    Il sorriso e la parola gentile che accompagna il dono di un bicchiere d'acqua non incidono sulla sete dell'assetato. Essa si spegne solo con un sorso d'acqua fresca. Ma il sorriso che accompagna il dono è importante: inutile rispetto alla sete; prezioso per assicurare un vero incontro interpersonale, manifestando pienamente le proprie intenzioni.
    L'impegno per la vita e la speranza è come il bicchiere d'acqua; la preghiera è il sorriso che accompagna il dono? Oppure la preghiera è lo spazio privilegiato e più sicuro per l'incontro con Dio, mentre l'impegno promozionale è solo un gesto implicito e non ancora tematizzato di accoglienza della sua chiamata?

    3. LA «PASSIONE PER IL REGNO DI DIO» COME RISPOSTA GLOBALE AL DIO DI GESU' CRISTO

    L'incalzare di problemi così seri dà da pensare a chi cerca un progetto di spiritualità, fedele alle esigenze radicali dell'esperienza cristiana e capace di riconciliare veramente vita quotidiana e vita nello Spirito.
    Anche nella nostra ricerca l'abbiamo sentito un compito urgente. Abbiamo riconsiderato disponibilmente le conclusioni a cui eravamo approdati, con la passione di chi sta trattando temi di importanza vitale.
    Ancora una volta le prospettive ricavate dalla meditazione sull'evento dell'Incarnazione hanno orientato e sostenuto la nostra fatica. Ci sentivamo in cammino in un sentiero praticabile, aperto su mete affascinanti, anche se, per il momento, non tutto era chiaro e le difficoltà avevano addensato grosse nubi sulla nostra ricerca.
    Collocando la parola e la prassi di Gesù al centro, ci è progressivamente maturata dentro una esperienza nuova: chi vive la sua vita come impegno e responsabilità nei confronti dei fratelli e visita i carcerati, assiste gli ammalati, sfama gli affamati (si impegna cioè per la vita e la speranza) esprime una condivisione concreta e fattiva per il Regno di Dio.
    L'unica passione per il Regno di Dio si realizza attraverso gesti differenti: alcuni mettono maggiormente in evidenza che il Regno è il grande dono di Dio all'uomo; altri ricordano che questo dono è affidato alle nostre mani operose.
    Attorno alla passione per il Regno di Dio abbiamo ritrovato così la fondamentale unità nella risposta dell'uomo e la possibilità di ricomprendere in modo armonico le sue differenti espressioni.
    Il Regno di Dio offre anche un prezioso criterio di verifica contro ogni pericolo di ambiguità. La passione per la vita e la speranza si misura infatti sulla «croce».
    Questa è, in sintesi, la nostra esperienza.
    La riprendo, un passo dopo l'altro, per approfondire e motivare le affermazioni.

    3.1. Promuovere la vita è condividere il Regno di Dio

    La prima bordata di problemi pone la questione di fondo: l'impegno per la promozione della vita e il consolidamento della speranza è una risposta solo implicita alla chiamata di Dio o, al contrario, questo è lo spazio centrale (anche se, come sempre, di natura sacramentale) della risposta dell'uomo a Dio?
    La meditazione dell'evento dell'Incarnazione ha introdotto nella fede della Chiesa una consapevolezza fondamentale. L'ho già richiamata in quel contesto. La riprendo qui, trascinandola fino alle sue ultime conclusioni.
    Questa è l'importante affermazione teologica: l'uomo incontra autenticamente Dio solo in Gesù di Nazaret; incontra autenticamente Gesù solo chi assume intensamente la sua passione per il Regno di Dio.
    L'incontro con Dio non è prima di tutto un rapporto affettivo; e neppure è solo la consegna totale di sé a lui. E soprattutto la condivisione di una causa.
    Della sua causa Gesù ha parlato spesso con toni diversi. Quando voleva esprimerla in modo concreto e lapidario, utilizzava la formula originale di «Regno di Dio» (Lc 4,43).
    L'incontro con Dio è misurato quindi sulla condivisione appassionata del Regno di Dio.
    Promozione della vita e Regno di Dio sono la stessa cosa? Dar da mangiare agli affamati, visitare i carcerati e gli infermi, spegnere la sete dell'assetato... è fare il Regno di Dio?
    Non voglio rispondere subito di sì, come verrebbe spontaneo. La questione è troppo importante: non la posso chiudere con frasi ad effetto.
    Per comprendere bene qual è il contenuto della causa di Gesù, mi faccio aiutare da una bella pagina dell'evangelo e dalla testimonianza di Sant'Ire- neo, quel grande credente la cui esperienza del Regno di Dio risuona da molti secoli nella Chiesa.
    Quando i discepoli di Giovanni hanno chiesto a Gesù le sue credenziali, per rassicurare la fede del loro maestro, condannato a morte dalla tracotante malvagità di Erode, Gesù risponde senza mezzi termini: «Andate a raccontare quel che udite e vedete: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono risanati, i sordi odono, i morti risorgono e la salvezza viene annunciata ai poveri. Beato chi non perderà la fede in me» (Mt 11,2-6).
    Per parlare di sé Gesù parla della sua causa e dei fatti che sta compiendo per realizzarla. Ed è un impegno tutto sbilanciato dalla parte della promozione della vita. Qui dentro nasce una autentica esperienza di fede: «beato chi non perderà la fede in me», ricorda Gesù.
    A queste parole fa eco un distico famoso di Ireneo: «gloria Dei homo vivens; vita autem hominis visio Dei». Lo si cita spesso nelle comunità ecclesiali per descrivere il Regno di Dio.
    Non è facile tradurlo in buon italiano. I due termini centrali («gloria» e «visio») sono di gergo; per questo evocano una espressività molto densa.
    «Gloria» significa la potenza stessa di Dio, la sua presenza. Se gli potessimo attribuire le nostre esperienze, «gloria» è quanto egli progetta di sé, l'insieme dei suoi desideri, la sua autorealizzazione.
    «Visio» è il termine che esprime il rapporto dell'uomo, colto e pensoso, con la verità. Non è solo «conoscenza» intellettuale; ma è possesso pieno, fino a penetrare nel mistero della cosa ricercata, per farla diventare ormai dimensione della propria esistenza.
    Il resto si traduce facilmente: la «gloria» di Dio è la vita dell'uomo; la vita dell'uomo è però la «visio» di Dio.
    Interpretando il contributo del Vangelo e quello di Ireneo alla luce della fede vissuta da tanti cristiani di tutti i tempi, posso dare un contenuto più descritto all'espressione misteriosa di «Regno di Dio».
    Regno di Dio è riconoscimento della sovranità di Dio su ogni uomo e su tutta la storia, fino a confessare che solo in Dio è possibile possedere vita e felicità. Questo Dio, però, di cui proclamiamo la signoria assoluta, è tutto per l'uomo. Egli vuole un futuro significativo per l'uomo. Fa della vita e della felicità dell'uomo la sua «gloria».
    L'uomo lo riconosce Signore quando si impegna a promuovere la vita e la speranza: in questo egli assicura la «gloria» del suo Dio.
    Consapevole che i suoi problemi sono il «problema» di Dio stesso, il credente consegna a lui la sua fame di vita e di speranza.
    Il Dio di Gesù è un Dio di cui ci si può fidare. Lo attestano le cose meravigliose compiute per il suo popolo e soprattutto quelle operate in Gesù.
    Dove appare lui, l'Uomo del Regno, scompare l'angoscia, la paura di vivere e di morire; ritorna la libertà e la gioia di vivere, nel nome di Dio.
    L'ultima convincente parola sul Regno di Dio Gesù l'ha pronunciata sulla croce, quando ha affidato a Dio la sua esistenza.
    Consegnato alla morte, perché tutti abbiano la vita, Gesù ha ritrovato la vita e la speranza per noi. Il Risorto è il segno definitivo che il nostro Dio è tutto per la vita e la felicità dell'uomo.
    Questo è il Regno di Dio.
    La conclusione è immediata e concretissima: condividere la sua passione, per rispondere alla chiamata di Dio, connota la promozione della vita e il consolidamento della speranza per ogni uomo, nel nome e per la «gloria» di Dio. Non solo non ci può essere condivisione del Regno di Dio senza una prassi operosa e liberatrice a favore della vita; ma questa prassi è sempre per il Regno di Dio, quando è veramente per la vita e la speranza.
    Il credente non aggiunge altre cose a questa fondamentale risposta al suo Dio. Si preoccupa invece di possederla pienamente e di esprimerla autenticamente, riconquistando a livello motivato e consapevole la ragione fondamentale del suo operare.
    Sa (e lo manifesta) che Dio c'entra tanto con la promozione della vita, che è possibile possedere vita e speranza solo se l'uomo si immerge totalmente nel suo Dio.

    3.2. Una risposta attraverso le mediazioni celebrative e le mediazioni prassiche

    Ho messo la passione per il Regno al centro della risposta che ogni uomo è chiamato a dare a Dio.
    Questo è il dato fondamentale.
    Da questa prospettiva mi sembra possibile comprendere il significato delle pratiche religiose e il loro rapporto con l'impegno promozionale, proprio in ordine alla risposta personale a Dio.
    Di un dato teologico non possiamo dimenticarci: la costruzione del Regno è dono di Dio e responsabilità dell'uomo, nello stesso tempo.
    Nel paragrafo precedente non l'ho mai ricordato in modo esplicito. Lo si coglie però facilmente, soprattutto meditando la testimonianza di Ireneo.
    Regno di Dio è vita e felicità assicurata all'uomo che consegna la sua fame di vita al suo Dio; ed è riconoscimento della signoria di Dio proprio nell'impegno di promozione della vita e della felicità.
    Un progetto così impegnativo ha come protagonista Dio stesso. Lui vuole la vita dell'uomo ed è impegnato a realizzare questa sua volontà. Per questo il Regno è dono, che l'uomo è invitato ad accogliere in una disponibilità totale.
    La realizzazione della vita e della felicità Dio l'ha affidata però alla nostra fatica operosa. Il suo dono è l'«ambiente» in cui si svolge l'impegno quotidiano di costruire il Regno della vita.
    Facendo eco alle sue dichiarazioni esplicite, la Chiesa riconosce in Gesù il grande operatore del Regno: egli è il dono di Dio che si fa vicino ad ogni uomo e l'impegno dell'uomo per la sua realizzazione, trascinato fino alla imprevedibile radicalità della croce.
    Se le cose stanno così, per coerenza con l'evento che intende esprimere, la stessa risposta dell'uomo richiede perciò modalità e movimenti differenti.
    L'unica passione per il Regno è, nello stesso tempo, accoglienza del dono e offerta del proprio impegno. Celebrando il dono, riconosce che tutto è da Dio: anche la sua decisione di accoglierlo.
    Giocandosi nella fatica quotidiana, riconosce la necessità di impegnare la sua esistenza per la realizzazione del Regno di Dio nella storia.
    Un'altra cosa è importante non dimenticare, per comprendere bene la natura della risposta dell'uomo al suo Dio. Questa l'ho già ricordata molte volte e in termini espliciti. Mi basta richiamarla anche in questo contesto.
    I diversi gesti, che punteggiano l'esistenza di un cristiano, esprimono l'unica passione per la causa di Gesù non in modo diretto e immediato. Non sono la realtà del Regno. Ma un suo segno: qualcosa che ha una sua originale consistenza (un pezzo di pane offerto all'affamato o il raccoglimento religioso di una preghiera), che si porta dentro una decisione più grande, con cui ci collochiamo di fronte al mistero di Dio.
    Le differenti risposte sono quindi nell'ordine delle «mediazioni» sacramentali.
    Tento di dare un nome ad esse, per ordinarle in una specie di tipologia di comodo.
    La stessa passione per il Regno può essere espressa mediante «mediazioni celebrative» e mediante «mediazioni prassiche».
    So che la formula non è molto felice. Ma non ho altre parole a disposizione.
    Le mediazioni celebrative sono rappresentate dai momenti in cui il cristiano si sottrae al ritmo normale della sua vita operosa e si concentra nell'ascolto del suo Dio. Sono i tempi in cui ci si immerge nella grande festa della preghiera e delle celebrazioni liturgiche, che fanno pregustare nella speranza il Regno promesso.
    Attraverso questi gesti il cristiano esprime la sua risposta a Dio mettendo l'accento più direttamente sulla radicalità e totale gratuità del dono. La sua realizzazione nel tempo è confessata tutta dalla parte di Dio; per questo la passione di chi vuole il Regno di Dio si manifesta in una contemplazione gratuita e festosa.
    Le mediazioni prassiche esprimono invece direttamente la responsabilità dell'uomo nella costruzione del Regno di Dio. Sono costituite dalle diverse prassi, operose e liberatrici, dell'uomo. Sono il tempo della lotta e della fatica, quando costruiamo vita e speranza con il sudore della nostra fronte.
    Nelle mediazioni celebrative e in quelle prassiche il cristiano dice tutta la sua passione per la costruzione del Regno di Dio. Lo dice in espressioni differenti, perché confessa un evento che ha contenuti diversi e perché vuole giocare la sua molteplice ricchezza esistenziale nell'unica esperienza.

    3.3. Diversità e pari «dignità»

    Ho distinto nell'esistenza cristiana i momenti celebrativi e quelli della prassi operosa.
    La distinzione è importante. Ci aiuta a cogliere come la stessa passione per il Regno di Dio non può esaurirsi solo in alcuni orientamenti. Ci aiuta anche a costatare che i diversi gesti vanno considerati in rapporto all'unica fondamentale passione. Esprimono la ricchezza dell'evento e un modo concreto e specifico di accoglierlo.
    La distinzione tra mediazioni celebrative e prassiche non propone due modi di vivere a scelta, quasi ci potessero essere dei cristiani che celebrano e non fanno nulla, e quelli che operano incessantemente e non trovano mai il tempo né la voglia di celebrare.
    Mediazioni celebrative e prassiche sono egualmente importanti per l'esistenza cristiana. Tagliando i ponti con una di queste due modalità, si rinuncia a qualcosa di costitutivo e di qualificante.
    E quindi si rinuncia a vivere da cristiani.
    Le esperienze celebrative non sono quelle prassiche: non vanno né confuse né ridotte le une alle altre, come se fossero la stessa realtà.
    I modelli tradizionali di spiritualità tentavano questa strana assimilazione: «il lavoro è preghiera», diceva il cristiano impegnato nella fatica quotidiana, che non aveva molto tempo per pregare; «la preghiera è già un grosso ed efficace impegno politico», assicurava il monaco che aveva scelto di fuggire dalla mischia delle responsabilità dirette.
    Nel nostro modello, il lavoro è e resta lavoro; la preghiera è e resta preghiera. Ogni tipo di mediazione ha le sue logiche, le sue strutture, il suo linguaggio. Esprime la stessa passione per il Regno secondo modalità specifiche. Per questo ha una sua dignità fondamentale. Non le deriva dalla imitazione forzata del gesto opposto; ma dalla autenticità con cui viene vissuta.
    Le modalità di risposta sono differenti, perché non possiamo immaginare una esistenza umana fatta di gesti tutti eguali, tutti della medesima intensità.
    Pensiamo, per esempio, all'amore che investe l'esistenza di due persone. C'è l'amore «detto», nella gratuità festosa dell'incontro; e c'è quello «vissuto» nella fatica dell'impegno e nell'esercizio della propria responsabilità professionale, lontano dalla persona amata.
    Di fatto, qualcuno privilegia il polo delle celebrazioni e qualche altro quello della prassi.
    Questo dato di fatto ha una grossa risonanza concreta, a cui i cristiani non sono sempre stati attenti.
    Non solo, come ho già ricordato, una scelta ha la stessa dignità dell'altra e dovremmo smetterla, una buona volta, di fare classifiche tra cristiani, in base agli interessi prevalenti: ogni scelta esprime la stessa passione per la causa di Gesù, quando riconosce che solo Dio è il Signore e quando lo confessa impegnandosi in una prassi operosa per l'uomo.
    Il cristiano ha anche il diritto di essere aiutato a pregare da uomo impegnato nella storia, come, di fatto, la gente della contemplazione e della preghiera ha impostato un modo di lavorare adeguato alla propria scelta di vita.
    Questo è un tema importante. Nella nostra ricerca sulla spiritualità giovanile l'abbiamo sentito come uno di quelli pregiudiziali. Troppo spesso, infatti, le mediazioni celebrative sono pensate e progettate da monaci (da gente cioè che privilegia queste mediazioni su quelle prassiche) e sono imposte di peso sui cristiani che sentono invece la responsabilità di esprimere la loro decisione per il Dio di Gesù Cristo nella prassi liberatrice per l'uomo.
    Chi sceglie, per ragioni personali o collettive, di privilegiare le mediazioni prassiche, perché vive la sua esistenza in compagnia con tutti gli uomini, deve ripensare quelle celebrative da questa prospettiva.
    Non è questione prima di tutto di dosaggio o di quantità. In gioco c'è invece una più corretta «circolarità ermeneutica», come si dice con una formula un po' complicata.
    Tutti i cristiani devono pregare e lavorare, perché così si costruisce il Regno di Dio. Non si tratta di suddividere l'arco delle ore a disposizione in modo diverso. Il cristiano che gioca la sua giornata nel lavoro, ha diritto di pregare come persona impegnata nel lavoro e non come un «monaco di formato ridotto». Questo comporta un tipo speciale di preghiera, più vibrante della sua quotidianità, più vicino alla sua responsabilità, contemporaneo alla sua ricerca.
    Gli antichi Ordini religiosi avevano il proprio breviario e la propria liturgia, per celebrare l'unico Signore nella verità della loro esperienza di vita. Poi, purtroppo, i modelli culturali dominanti hanno appiattito tutto, in espressioni raffinate ma tanto impersonali e stemperate.
    Grossi impegni e molta ricerca sono aperti sulla responsabilità dei cristiani di oggi, per «costruire» modelli di mediazioni celebrative, espressive della lunga esperienza ecclesiale, delle nuove sensibilità culturali e dell'orientamento fondamentale della propria esistenza.

    3.4. Un principio di verificazione

    Chi ragiona in una prospettiva sacramentale, riconosce facilmente il rischio dell'ambiguità.
    Lo sperimentiamo tutti i giorni, prigionieri dei nostri dubbi e delle nostre incertezze. Abbiamo paura di bruciare la gioia dell'incontro con Dio, facendo scadere le mediazioni in cui esso si realizza in un puro gioco di fantasia.
    Come è evidente, questo vale per tutte le mediazioni: per quelle celebrative e per quelle prassiche.
    Le mediazioni celebrative possono scadere nel ritualismo e nel formalismo; e così degenerare tanto che il segno nasconde il mistero. Quelle prassiche possono pretendere di autovalidarsi, misconoscendo il dono che le costituisce, e così naufragare nel secolarismo.
    Abbiamo bisogno di un principio di verificazione, capace di rassicurare la nostra fede.
    Esistono parametri sui quali misurare le mediazioni celebrative e quelle prassiche, per verificare se sono veramente secondo il progetto di Dio, se rappresentano il suo appello autorevole e se esprimono la nostra decisione autentica?
    Il principio di verificazione e di validazione sta nel portare alla sua più radicale conseguenza la passione per il Regno di Dio.
    Il criterio sommo di verifica è perciò la croce. Nella croce Gesù rivela pienamente cosa comporti riconoscere che Dio è il solo Signore e cosa significhi una passione liberatrice per la vita, giocata nel suo nome.
    Tutte le mediazioni, quelle celebrative e quelle prassiche, si misurano e si autovalidano sulla croce.
    Purtroppo la croce è stata trattata spesso male nel corso dell'esperienza spirituale dei cristiani.
    Dobbiamo riscoprirla, per misurare su di essa l'autenticità della nostra decisione per il Dio di Gesù Cristo.
    Il tema è di estrema importanza per un progetto di spiritualità. Lo riprendo con una riflessione a parte in un prossimo capitolo.


    T e r z a
    p a g i n A


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