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     Padre Pino Puglisi

    Un maestro

    chiamato don Bosco

    Francesco Deliziosi


    P
    adre Puglisi educatore dei giovani. Lo si sente ripetere spesso e a ragione. Ma quali erano stati i suoi modelli, i suoi esempi? Sicuramente tra questi ci fu San Giovanni Bosco. Le prove sono nel suo stile pedagogico, non coercitivo ma induttivo: 3P tendeva a creare nell'adolescente le condizioni per una crescita autonoma, di certo non imponeva una ricetta precostituita. Di don Bosco, educatore dei giovani per eccellenza, Puglisi infatti fa proprio il famoso metodo preventivo, particolarmente costruttivo ed efficace per la formazione di giovani liberi e responsabili.

    Quanto alle tracce concrete di questa comunanza di obiettivi pedagogici, si può intanto notare che il giovane Pino Puglisi frequentò la chiesa di S. Giovanni Bosco in via Messina Marine a Palermo, dove il parroco Calogero Caracciolo lo seguì sia durante lo sbocciare della vocazione sia nella preparazione degli esami per l'ingresso in seminario. In quella chiesa intitolata a Don Bosco padre Puglisi tenne la prima messa e si svolse la festicciola con i familiari. Non c'è dubbio che in parrocchia il giovane avesse studiato il Santo, il suo modo di approcciarsi ai ragazzi e la sua vita.
    Come accennato, tra le sue carte 3P conservò fino all'ultimo un quaderno di quegli anni giovanili in cui aveva appuntato circa 170 frasi tratte da testi sacri, scritti di santi e autori greci e latini. E non a caso il primo pensiero è proprio di don Bosco: «Sacerdote! Datore di cose sacre, anello di congiunzione tra Dio e l'uomo, fiaccola posta sul moggio, pioniere che apre la strada del Regno dei cieli». Di don Bosco Pino Puglisi riportava in questo quaderno anche uno spunto più operativo, che tenne bene a mente nel suo lavoro con i giovani, anche a Brancaccio: «La ginnastica, la musica, le passeggiate sono efficacissimi mezzi. Essi giovano alla moralità e sanità». Il cortiletto del Centro Padre Nostro divenne infatti subito un "campetto" di calcio. In tema di "attività sportive" ecco un aneddoto raccontato dall'amico Enzo Scalia: «Arrivammo all'ora esatta dell'appuntamento a Brancaccio. Ma, seduti davanti a lui, notammo il suo sguardo preoccupato. Sofferente per qualcosa. Improvvisamente si alzò, ci disse: aspettate, tra poco ritorno. E andò oltre una porta, dietro di lui. Io e mia moglie ci chiedemmo che fosse successo. Anche noi ci recammo verso quella porta, la aprimmo e... vedemmo 3P, coi pantaloni arrotolati sopra le scarpe, che giocava a pallone con due-tre bambini! Ci disse, notandoci, che dovevamo scusarlo, ma c'erano quei bambini in giardino che attendevano la maestrina del catechismo. Ma che questa tardava. E non gli piaceva che restassero abbandonati a sé. Sapemmo, dopo, che aveva tanto insistito con le loro madri, per strapparli dalla strada e fargli frequentare un regolare corso di catechismo, importantissimo per loro, in quel quartiere... Ecco, questa era la sua Carità. Al servizio perenne degli altri».
    Lo scritto più significativo su don Bosco è pure degli anni giovanili e consiste in una sorta di scaletta manoscritta di padre Puglisi, senza data ma ideata probabilmente per un'omelia o una relazione sul Santo. La riportiamo qui sotto ed è facile sentire l'eco di un programma di vita e di educatore che 3P approfondì nei vari incarichi della sua missione presbiterale, fino all'estremo sacrificio, affrontato anche per non rinnegare questi principi e cercare di salvare i bambini di Brancaccio dal pugno di ferro della mafia. L'appunto si conclude con una splendida preghiera a don Bosco che possiamo condividere anche oggi.

    Da mihi animas, coetera tolle: Dammi anime, prenditi il. resto. Tutta la vita di San Giovanni Bosco si può raccogliere qui; qui è il segreto, la forza, la direzione della sua incommensurabile attività e della sua efficacia. Egli concepiva la sua vita come un apostolato senza confini e senza indugi per conquistare le anime. Egli fu un gran conquistatore d'anime: per questo egli viveva.
    La sua carità non conosceva ostacoli, non faceva distinzioni di classi o di età; a tutti egli si dava completamente per portare tutti a Gesù Cristo. Sia che parlasse con i ministri del Regno italico, sia che parlasse con i cocchieri, coi giovani che si affacciavano alla vita o cogli uomini navigati, esperti del mondo, sempre aveva di mira la salvezza delle loro anime. Per tutti egli trovava la parola saggia e amorevole, illuminata e serenatrice che penetrando fino all'intimo convertiva a una nuova vita.
    Soleva dire: «Essere sacerdoti significa aver continuamente di mira l'interesse di Dio, che è la salute delle anime». La sua carità quindi si volgeva verso gli uomini di tutti i ceti e di tutti i luoghi, ma le sue predilezioni erano rivolte verso i fanciulli, i giovani; scriveva nel 1847: «Miei cari, vi amo tutti e mi basta che siate giovani perché vi ami moltissimo». Quando si pensa a don Bosco non si può fare a meno di immaginarlo circondato da numerosi giovani il cui volto è illuminato dal suo sguardo radioso di bontà.
    Egli prodigò tutte le sue cure per la salvezza e la formazione della gioventù, in mezzo alla quale perciò raccolse più abbondante messe. Egli capiva la grande importanza sociale della gioventù: da essa dipendono la famiglia, la Chiesa, lo Stato di domani.
    Vedeva la necessità di dare ai giovani una fede salda, un carattere virile cristiano affinché a contatto della realtà non venissero travolti nel vortice dell'incredulità e dell'immoralità. Così seppe plasmare dei figli ubbidienti, dei cittadini esemplari e dei cristiani a tutta prova. Per i fanciulli e per i giovani egli istituì gli oratori, i collegi, gli istituti nei quali accolse un'infinità di figli della strada, di orfani, di abbandonati che seppe temprare alle future lotte della vita, che trasformò da lupi in agnelli. A otto anni circa aveva fatto un sogno preannunciatore della sua missione... Ecco il lievito che operava la trasformazione delle anime giovanili: l'amore. Amare per farsi amare, per farsi seguire. Il cuore giovanile si chiude e si ribella dinanzi alla fredda disciplina, ma si arrende e si apre, non pone resistenza alla benevolenza, alla bontà, all'amore.
    Egli con la sua bontà e con l'amore si faceva amare e ubbidire; persuadeva facendo appello al cuore, correggeva con benevolenza senza reprimere con gravi castighi; era pronto a sacrificarsi interamente per il bene dei suoi ragazzi; li seguiva costantemente per metterli nella morale impossibilità di fare il male.
    È questo il cosiddetto metodo preventivo che consiste in una vigilanza continua ma non pesante, dolce ma oculata, nel partecipare a tutta la vita del fanciullo o del giovane, nel prevedere le difficoltà e di conseguenza saper dare le norme utili per sormontarle. Questo il metodo col quale salvò numerose anime giovanili, col quale rese santi molti giovani.
    O glorioso Santo, fa' sentire anche adesso la tua opera salvifica, benedici gli educatori, suscita tra essi dei cuori che infiammati dallo stesso amore di cui ardevi tu, rinnovino i tuoi prodigi verso la gioventù di oggi; benedici i giovani, fa che tutti seguendo i tuoi insegnamenti giungano all'esperienza del divino e quindi pongano i valori religiosi al di sopra di tutto, benedici le nostre famiglie, benedici tutti affinché possiamo raggiungerti nella patria beata.

    Su questo parallelo tra i due sacerdoti, negli ultimi tempi sono stati avviati studi di approfondimento. Ne ha parlato anche l'arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice a dicembre 2015 durante una visita all'istituto Don Bosco di Palermo: «Dio ha un occhio per tutti e soprattutto per i più piccoli e deboli... Spesso si parla male dei giovani e invece i ragazzi hanno soltanto bisogno di qualcuno che li accompagni, di un educatore che li aiuti a tirare fuori la bellezza che nemmeno loro sanno di avere. Come i pastori del gregge di Dio, ci sono uomini che scelgono di essere un segno di questa missione, come San Giovanni Bosco o padre Pino Puglisi che erano completamente innamorati di Gesù».
    E nello stesso istituto, a novembre 2015, si è tenuto un incontro al quale sono stato invitato dal preside Nicola Filippone per far emergere queste consonanze tra i due grandi educatori. Il professor Filippone ha messo in evidenza le affinità tra quanto faceva don Bosco per il recupero dei ragazzini e le esperienze di sostegno ai giovani disagiati intraprese da padre Puglisi soprattutto a Godrano e a Brancaccio. Ma in realtà sono diversi i punti di contatto, come il preside ha scritto in un articolo per il blog beatopadrepuglisi. it (di cui sono il curatore insieme con la pagina Facebook collegata che si chiama «Don Pino Puglisi»):
    «Innanzitutto – spiega Filippone –, la povertà. Per entrambi non è la mera osservanza di un voto, ma una radicale scelta di vita ritenuta indispensabile per potere servire in toto Cristo e i fratelli. Giovanni Bosco diviene sacerdote il 5 giugno 1841 e subito scolpisce nel suo cuore il forte richiamo della madre, Margherita Occhiena: "Se per sventura diventerai ricco non metterò mai più piede a casa tua". Questo impegno, quale programma del suo ministero, sottende pure il motto dello stemma salesiano Da mihi animas, coetera tolle. Il parallelo di attualità è con Papa Francesco. Per il Pontefice "la povertà non è una categoria sociologica o filosofica o culturale: no, è una categoria teologale. Direi, forse, la prima categoria, perché quel Dio, il Figlio di Dio, si è abbassato, si è fatto povero per camminare con noi sulla strada. E questa è la nostra povertà: la povertà della carne di Cristo, la povertà che ci ha portato il Figlio di Dio con la sua incarnazione"».
    Aggiunge Filippone: «Queste parole di Bergoglio insegnano che essere poveri non è una strategia, un modo pratico col quale liberarsi dalle distrazioni del mondo per dedicarsi totalmente alla propria missione, ma è la configurazione a Cristo, che è ontologicamente povero, che non vuol dire misero, ma spogliato di se stesso per amore. In una Brancaccio afflitta dalla miseria e dal degrado, l'esempio di 3P stride con i facili guadagni con cui la malavita adesca i giovani del quartiere. Salvatore Grigoli ha ammesso di essere diventato un assassino perché ciò gli garantiva denaro, donne, autovetture, motociclette e soprattutto uno status».
    C'è poi il rifiuto dei titoli ecclesiali: «Don Bosco e don Puglisi – osserva Filippone – rinunciarono anche alle lusinghe della vanità e del prestigio personale, che talora irretiscono gliuomini di Chiesa spacciandosi per dignità o decoro. Quando don Bosco incontrò per la prima volta Pio IX nel 1858 ricevette da questi la proposta di nominarlo monsignore. Dopo averlo ringraziato don Giovanni rispose: "Santità, che bella figura farei io quando comparissi in mezzo ai miei ragazzi vestito da monsignore! I miei figli non mi riconoscerebbero più; non oserebbero avvicinarmi e tirarmi da una parte e dall'altra come fanno adesso [...] Oh, quant'è meglio che resti sempre il povero don Bosco!"».
    Pure 3P disdegnava le onorificenze. Come abbiamo ricordato, se qualcuno provava a chiamarlo monsignore egli rispondeva con una battura: «Dillo a to' patri!». Anche il metodo educativo, sebbene a distanza di molti decenni e in situazioni geograficamente diverse, ha affinità evidenti, soprattutto nel tentativo di recuperare i ragazzini più disagiati e già irretiti dal crimine.
    «Don Bosco e 3P – continua Filippone – agiscono diversamente e sfidano anche le convinzioni più inveterate di confratelli e superiori, di autorità e gente comune. La loro opera educativa si è basata sul lievito che operava la trasformazione delle anime giovanili: l'amore. In quest'ottica non esistono soggetti irrecuperabili, ma anche nel più disgraziato c'è un punto accessibile al bene, bisogna cercare quella corda sensibile del cuore e farla vibrare».
    Tutti i salesiani ricordano l'importanza data dal Santo all'episodio di Bartolomeo Garelli (8 dicembre 1841), un giovane manovale sorpreso a rubare in chiesa e recuperato da don Bosco. E tra gli episodi che ho ricostruito relativi al periodo di Godrano c'è un caso molto simile; riguarda il piccolo Giovanni, figlio di una vittima della locale faida di mafia: il giovane, la cui madre lavorava a Palermo come cameriera, fu sorpreso dai carabinieri con la cassetta delle offerte rubata in chiesa. Padre Pino provò invano a convincere i militari a consegnarglielo, spiegando loro che condurlo in carcere sarebbe equivalso «a iscriverlo all'università del crimine». Successivamente, ottenuta la libertà provvisoria, il parroco avvicinò il ragazzo e lo aiutò economicamente. Per mesi e mesi non gli levò più lo sguardo di dosso. Parlarono a lungo, Giovanni diventò il suo allievo preferito e lasciò perdere i furti. Quando gli altri adolescenti, non gradendo tutte queste attenzioni, iniziarono a mormorare: «Ma come? Lui ruba in chiesa e viene trattato meglio di noi?», padre Pino consigliò a tutti di andarsi a rileggere la parabola della pecorella smarrita.
    E c'è ancora un punto che accomuna don Bosco e don Puglisi, ed è la gioia che promana dai loro sguardi, dal sorriso, dalle parole. Fin da ragazzo Giovannino Bosco fondò la «Società dell'allegria» con un regolamento che al punto 3 affermava laconicamente: essere allegri. Nella famiglia salesiana questa dimensione è divenuta parte integrante del carisma. Osserva Filippone: «Fino ad allora, infatti, era impensabile che un educatore potesse trascorrere la ricreazione con i ragazzi, giocare con loro, raccontare barzellette, esibirsi con giochi di prestigio o altri intrattenimenti esilaranti. Nei seminari o nei noviziati gli incaricati della disciplina erano tenuti a essere rigidi, severi, sostenuti e minacciosi. Non era soltanto una questione metodologica, per tenere i giovani sempre sulla corda, ma dottrinale: la strada della salvezza è impervia e stretta, irta di rinunce e sacrifici che richiedono una vita seria e austera. La novità di don Bosco parte proprio da qui, dal ritenere che la santità consiste invece nello stare sempre molto allegri perché la gioia vera scaturisce dalla comunione col Risorto». Identica analisi per padre Puglisi: «Questa stessa propensione a stare allegramente con i giovani, si trova nella vita di padre Pino, il quale amava raccontare barzellette, ironizzava sulla sua statura, sulle orecchie a sventola, sulle mani enormi, sulla calvizie e finanche sulle sue destinazioni pastorali. All'origine dellagiovialità di 3P c'è ancora una motivazione teologica. Commentando il Discorso della montagna, egli rifletteva sul fatto che le otto beatitudini riguardano il presente, anche quando il ristabilimento dell'equilibrio avverrà in futuro. Gli afflitti saranno consolati, ma sono già beati, gli affamati saranno saziati ma sono beati sin da ora. La gioia è allora connaturata al cristiano che deve essere annunciatore di un Dio che viene a portare la gioia a tutti quanti erano nel pianto, nella sofferenza. Si rallegra per la gioia dei bambini che lo circondano. Ma si farà anche messaggero della gioia del Regno. L'espressione più nota della gioia è per don Pino il sorriso, che lo accompagna in vita e in morte, stando ai racconti dei suoi uccisori e di chi ha assistito alla sua autopsia».
    Sono state infatti raccolte dalla Postulazione della Causa numerose testimonianze secondo cui l'ultimo sorriso che padre Puglisi rivolse ai suoi assassini sotto casa rimase impresso sul suo volto anche dopo l'uccisione; e persino dopo l'intervento del medico legale e la cruenta rimozione del proiettile dalla nuca per l'autopsia. Migliaia di persone videro infatti quel sorriso in cattedrale durante l'esposizione del corpo nella bara aperta, il giorno dopo l'omicidio. Ad alcuni è tornato in mente il racconto della morte dei primi cristiani che morivano cantando prima di essere sbranati. E quando i soldati dell'Imperatore di Roma si avvicinavano a quei poveri resti, trovavano un ineffabile sorriso sui loro volti di martiri.

    (Da: Don Pino Puglisi. Se ognuno fa qualcosa si può fare molto, Bur Rizzoli 2018, pp. 191-199)


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