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    Oscar Romero

    a 30 anni dalla morte

    (24 marzo 1980)

     romero


    E sorse l’alba del 24 marzo. Come ogni giorno, Romero si recò anzitutto a pregare nella chiesetta dell’hospitalito, poi andò a fare colazione con le suore. Queste gli chiesero scherzosamente di portarle con lui, perché dalla talare bianca che indossava avevano capito che era diretto al mare30. Altrettanto scherzosamente, lui rispose con una citazione evangelica che al solo ricordo avrebbe emozionato le suore: «Dove vado io, voi non potete venire». Era la frase con cui, nel Vangelo di Giovanni, Gesù si rivolge ai giudei alludendo alla propria morte.
    Passò quindi in curia, per consultare l’agenda e salutare i più stretti collaboratori... poi andò al mare, in compagnia di alcuni sacerdoti dell’Opus Dei (fra cui il suo futuro secondo successore, come arcivescovo di San Salvador, l’allora padre Fernando Sáenz Lacalle), per una mattinata di studio e riposo. Nel pomeriggio tornò a San Salvador, passò da casa per una doccia e andò dal medico per farsi curare un piccolo dolore all’udito. Uscito di là, verso le 16,30 si diresse a Santa Tecla, alla casa dei gesuiti, dove risiedeva il suo confessore, padre Azcue, che salutò con una battuta altrettanto inconsapevolmente profetica di quella del mattino: «Vengo, padre, perché voglio essere pulito davanti a Dio».
    Rientrò infine all’hospitalito, dove aveva promesso di celebrare una messa di suffragio, nel primo anniversario della mamma di un amico giornalista, Jorge Pinto, il cui settimanale El Indipendiente – al pari di Radio YSAX – aveva subito un attentato poche settimane prima.
    Arrivando trovò le suore agitate, perché dal mattino era stato un susseguirsi di telefonate intimidatorie a causa dell’omelia del giorno prima, intercalate da altre che lo consigliavano di non celebrare quella messa, pubblicizzata con troppo risalto su tutti i giornali del mattino: il solito macabro rito dell’annunzio previa esecuzione. Lo pregarono quindi di non celebrare.
    Romero rimase perplesso, ma in cuor suo sapeva bene che, per quanto rischioso, per niente al mondo avrebbe mai rinunziato a celebrare una messa. Si limitò quindi a rassicurare le suore, promettendo moro che avrebbe fatto presto e la messa iniziò puntualmente alle 18.
    Per una consuetudine un po’ enfatica, in El Salvador, quanti possono permetterselo, commissionano servizi fotografici non soltanto in occasione di matrimoni o prime comunioni, ma anche dei funerali. Così, pur trattandosi di una semplice messa di suffragio, essendo del mestiere, i parenti della defunta fecero venire un fotografo, che registrò anche l’omelia: lasciandoci così una testimonianza acustica delle sue ultime parole, seguite dallo sparo e le foto del martirio.
    Per il resto, la celebrazione fu molto semplice, quasi familiare: oltre ai parenti erano presenti le suore e alcuni ammalati. Dopo il Vangelo, Romero parlò dell’esempio lasciato dalla defunta, Doña Sarita e della speranza nella vita eterna. In quel mentre, un veicolo di colore rosso, con a bordo alcuni individui, varcò l’ingresso dell’ospedale, risalì il vialetto oltrepassando la sua abitazione, arrivò nel cortile sovrastante, fece una piccola inversione e si posizionò di fronte al portone della chiesa, dove l’arcivescovo stava terminando la breve omelia con queste parole: «Questa eucaristia è precisamente un atto di fede. Con fede cristiana sappiamo che in questo momento l’ostia di frumento si trasforma nel corpo del Signore che si offrì per la salvezza del mondo e che in questo calice il vino si trasforma nel sangue che fu il prezzo della salvezza. Che questo corpo immolato e questo sangue sacrificato per gli uomini ci sostengano per dare anche noi il nostro corpo e il nostro sangue alla sofferenza e al dolore, come Cristo, non per sé, ma per offrire concetti di giustizia e di pace al nostro popolo. Uniamoci quindi intimamente con fede e speranza a questo momento di preghiera per la signora Sarita e per noi stessi».
    Passarono pochissimi secondi, nei quali l’arcivescovo, già al centro dell’altare, si chinò. Fu una reazione istintiva, avendo visto all’esterno della piccola chiesa il sicario o lo fece per stendere il corporale nell’atto dell’offertorio? Di fatto, quello divenne il «suo» offertorio, perché uno sparo risuonò immediatamente.
    Mancavano pochi minuti alle 18,30. Romero cadde tra l’altare e il tabernacolo, in una pozza di sangue, ai piedi del grande crocifisso. Una sola pallottola calibro 22 ma a frammentazione, entrata all’altezza del cuore gli si conficcò in una costola, provocandogli un’emorragia interna. A nulla valse la corsa all’ospedale, in cui si prodigarono i presenti: sarebbe morto poco dopo l’arrivo alla Policlinica salvadoregna. Come qualcuno avrebbe giustamente osservato, nella bimillenaria storia della Chiesa era il secondo arcivescovo a essere ucciso sull’altare. Il primo fu Tommaso Becket, assassinato dai sicari di Enrico II nella Cattedrale di Canterbury, per aver difeso i diritti della Chiesa; l’altro era appunto lui, Romero, ucciso nella cappella di un ospedale, per aver difeso i diritti dei poveri. La Chiesa più vera.

    (dal libro che segue)

    OSCAR A. ROMERO
    Pastore di agnelli e lupi
    di ALBERTO VITALI
    Prefazione di LUIGI BETTAZZI – Postfazione di ANGELO CASATI
    Paoline 2010 – pp. 312 – E 19,00

    Questa biografia raccoglie ricordi e testimonianze, non solo a partire dai documenti ufficiali ma ascoltando molte persone che a diverso titolo hanno lavorato con Romero o l’hanno incontrato. Un ritratto pieno di luci e di ombre, dove emerge l’onestà e la trasparenza di un pastore che ha accettato di lasciarsi fare dal suo popolo. Un approccio all’uomo e al pastore che fa di queste pagine un contributo originale che non mancherà di sorprendere e di affascinare il lettore che voglia conoscere questo profeta nel modo più sicuro: attraverso la storia di dolore e di riscatto del suo popolo.


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