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    Il Diario

    del «Dio personale»:

    Etty Hillesum

    Ulrick Beck


    Nel proprio diario, Etty Hillesum, ebrea olandese, ha presentato un verbale di quel «Dio personale» che ella ha cercato e trovato. Gli appunti manoscritti cominciano nel marzo del 1941 e terminano nell'ottobre del 1943. All'inizio del diario la giovane conduce la vita di una normale cittadina, ma il delirio razziale del nazionalsocialismo minaccia la sua esistenza. Quanto più si riduce la sua vita esteriore, tanto più Etty Hillesum si rivolge alla propria interiorità. Legge Rilke, Dostoevskij, Puškin, sant'Agostino e in continuazione la Bibbia. Lentamente e quasi impercettibilmente il dialogo con se stessa si trasforma in un dialogo con Dio. Quando parla con Dio, Etty Hillesum sviluppa infatti un particolare stile. Parla a Dio come se parlasse a se stessa. Gli si rivolge direttamente, senza alcuna traccia di imbarazzo. In questo modo, scoperta di sé e scoperta di Dio, ritrovamento di sé e ritrovamento di Dio, invenzione di sé e invenzione di Dio finiscono ovviamente per coincidere. Il suo Dio «personale» non è il Dio delle sinagoghe o delle chiese, o quello dei «credenti» che si distinguono dai «non credenti». Il «suo» Dio non sa nulla di eresie, di crociate, degli indicibili orrori dell'Inquisizione, di Riforma e Controriforma, o del terrorismo di massa motivato in termini religiosi. Il suo Dio personale è privo di teologia e di dogmi, è distaccato dalla storia e, forse anche per questo, misericordioso e impotente. La Hillesum dice: «Quando prego, non prego mai per me stessa, prego sempre per gli altri, oppure dialogo in modo pazzo, infantile o serissimo con la parte più profonda di me, che per comodità io chiamo 'Dio'» [1].
    Alla sociologia della religione serve qui uno sguardo che possa cogliere questa dimensione soggettiva dell'elemento religioso, perfino se tale criterio evocasse la certezza del fallimento. Gli storici hanno scoperto l'importanza delle biografie e autobiografie religiose, nonché di altri documenti memorialistici, in quanto fonti dotate di straordinaria forza esplicativa; a tal fine può essere utile far parlare direttamente la testimonianza del Dio personale e poi cercare di interpretarla.

    11 luglio 1942, sabato mattina, le undici. Si dovrebbe parlare delle questioni più gravi e importanti di questa vita solo quando le parole ci vengono semplici e naturali come l'acqua che sgorga da una sorgente.
    E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio. Su tutta la superficie terrestre sí sta estendendo pian piano un unico, grande campo di prigionia e non ci sarà quasi più nessuno che potrà rimanerne fuori. È una fase che dobbiamo attraversare. Qui gli ebrei si raccontano delle belle storie: dicono che in Germania li murano vivi o li sterminano coi gas velenosi. Non è granché saggio raccontarsi storie simili, e poi, se anche questo capitasse in una forma o nell'altra, è per responsabilità nostra? [...]
    Probabilmente è di li che mi viene questa serenità, questa pace interiore: dalla coscienza di sapermela cavare da sola ogni volta, dalla constatazione che il mio cuore non s'inaridisce per l'amarezza, che i momenti di più profonda tristezza e persino di disperazione mi lasciano tracce positive, mi rendono più forte. Non mi faccio molte illusioni su come le cose stiano veramente e rinuncio persino alla pretesa di aiutare gli altri, partirò sempre dal principio di aiutare Dio il più possibile e se questo mi riuscirà, bene, allora vuol dire che saprò esserci anche per gli altri. Ma su questo punto non dobbiamo farci delle illusioni eroiche.
    Mi chiedo che cosa farei effettivamente, se mi portassi in tasca il foglio con l'ordine di partenza per la Germania, e se dovessi partire tra una settimana. Supponiamo che quel foglio mi arrivi domani: cosa farei? Comincerei col non dir niente a nessuno, mi ritirerei nel cantuccio più silenzioso della casa e mi raccoglierei in me stessa, cercando di radunare tutte le mie forze da ogni angolo di anima e corpo. Mi farei tagliare i capelli molto corti e butterei via il mio rossetto. Cercherei di finire di leggere le lettere di Rilke. Mi farei fare dei pantaloni e una giacchetta con quella stoffa che ho ancora per un mantello d'inverno. [...] Mi porterò una Bibbia e quei libretti sottili, i Briefe an einen jungen Dichter, e in qualche angolino dello zaino riuscirò a farci stare lo Stundenbuch? Non mi porto ritratti di persone care, ma alle ampie pareti del mio io interiore voglio appendere le immagini dei molti visi e gesti che ho raccolto, e quelle rimarranno sempre con me [2]. [...] E se non potrò sopravvivere, allora si vedrà chi sono da come morirò. Non si tratta più di tenersi fuori da una determinata situazione, costi quel che costi, ma di come ci si comporta e si continua a vivere in qualunque situazione [3].
    Preghiera della domenica mattina. Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dío, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l'oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani–ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L'unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l'unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch'esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili-noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all'ultimo la tua casa in noi. Esistono persone che all'ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d'argento – invece di salvare te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia. Comincio a sentirmi un po' più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione conte. Discorrerò con te molto spesso, d'ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi. Con me vivrai anche tempi magri, mio Dio, tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò via dal mio territorio [4].
    Per il dolore grande ed eroico ho abbastanza forza, mio Dio, ma sono piuttosto le mille piccole preoccupazioni quotidiane a saltarmi addosso e a mordermi come altrettanti parassiti. Be', allora mi gratto disperatamente per un po' e ripeto ogni giorno: per oggi sei a posto, le pareti protettive di una casa ospitale ti scivolano sulle spalle come un abito che hai portato spesso, e che ti è diventato familiare, anche di cibo ce n'è a sufficienza per oggi, e il tuo letto con le tue bianche lenzuola e con le sue calde coperte è ancora lì, pronto per la notte – e dunque, oggi non hai il diritto di perdere neanche un atomo della tua energia in piccole preoccupazioni materiali. Usa e impiega bene ogni minuto di questa giornata, e rendila fruttuosa; fanne un'altra salda pietra su cui possa ancora reggersi il nostro povero e angoscioso futuro. Il gelsomino dietro casa è completamente sciupato dalla pioggia e dalle tempeste di questi ultimi giorni, i suoi fiori bianchi galleggiano qua e là sulle pozzanghere scure e melmose che si sono formate sul tetto basso del garage. Ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre, e spande il suo profumo tutt'intorno alla tua casa, mio Dio. Vedi come ti tratto bene. Non ti porto soltanto le mie lacrime e le mie paure, ma ti porto persino, in questa domenica mattina grigia e tempestosa, un gelsomino profumato. Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino, e sono veramente tanti. Voglio che tu stia bene con me. E tanto per fare un esempio: se io mi trovassi rinchiusa in una cella stretta e vedessi passare una nuvola davanti alla piccola inferriata, allora ti porterei quella nuvola, mio Dio, sempre che ne abbia ancora la forza. Non posso garantirti niente a priori, ma le mie intenzioni sono ottime, lo vedi bene. E ora mi dedico a questa giornata. Mi troverò fra molta gente, le tristi voci e le minacce mi assedieranno di nuovo, come altrettanti soldati nemici assediano una fortezza imprendibile. [...]
    Più tardi sarò il cronista delle nostre vicissitudini. Le comporrò in una lingua nuova e le conserverò in me stessa, se non avrò la possibilità di scriverle. Diventerò apatica e rivivrò, cadrò a terra e mi rialzerò, e forse, molto più tardi, mi capiterà di avere intorno uno spazio tranquillo che sarà tutto mio, e allora ci rimarrò anche un anno se sarà necessario – fintanto che la vita tornerà a zampillare, e mi verranno le parole giuste per testimoniare ciò che dovrà essere testimoniato [5].
    La miseria che c'è qui è veramente terribile; eppure, alla sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore s'innalza sempre una voce – non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare –, e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravviveremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita. Forse io sono una donna ambiziosa: vorrei dire anch'io una piccola parolina [6]. [...] Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite [7].

    Forse questa voce individuale, intima, ingenua eppur serissima, dialogica, scuote perché Etty Hillesum esprime e incarna ciò che sembra del tutto inconciliabile: anziché odio per i colpevoli, fiducia nel proprio Dio personale. Lo sterminio è imminente, anche ai suoi occhi, Etty lo presagisce, noi lo sappiamo, e tuttavia scrive: «E se sopravviveremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita» [8].
    Nella più totale impotenza di fronte alla catastrofe, ella annota, con l'innocenza della vittima sacrificale, ma uscendo dal ruolo di vittima: «Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite». Ella, reclusa nella più totale assenza di vie d'uscita, nega proprio la mancanza di vie d'uscita delle vittime e restituisce loro la dignità dell'azione. «A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere» [9]. Etty Hillesum è ebrea, ma cresce in una famiglia nella quale ciò non ha alcuna importanza. Viene internata e sterminata in un campo di concentramento in quanto ebrea, ma non farà mai propria l'identità ebraica. Non si è però convertita nemmeno al cristianesimo. Etty Hillesum sperimenta e pratica una forma radicale di Dio personale: né sinagoga né chiesa né comunità di fede. Etty Hillesum ha per caso rifiutato l'ebraismo in vita per essere ebrea in punto di morte?
    Perfino nella prigione del Lager, Etty Hillesum è presente, ma senza appartenere a quel luogo. A tal riguardo utilizza la metafora del «naufragio»: i naufraghi si accalcano nel mezzo dell'oceano infinito per aggrapparsi all'unico pezzo di legno galleggiante. «Spingersi a forza di gomiti, provocare l'annegamento altrui, tutto così indegno; e poi, questo spingere non mi piace. Io appartengo piuttosto al genere di persone che preferiscono galleggiare ancora un po' sull'oceano, stese sul dorso e con gli occhi rivolti al cielo, finché – con un gesto rassegnato e devoto – vanno a fondo per sempre» [10]. Questa «non appartenenza», come scrive Natan Sznaider, fece degli ebrei i cosmopoliti d'Europa, ma anche le vittime inermi dei nazisti. «Gli ebrei europei erano al contempo assimilati, ortodossi, ebrei e non ebrei» [11]. Ma è proprio questa non appartenenza di Etty Hillesum che si scontra con la malvagità ontologica della coscienza antisemita e con uno Stato antisemita deciso a estirpare queste culture e società ebraiche transnazionali dal cuore della Germania e dell'Europa.
    Che cosa significa per noi oggi il diario di Etty Hillesum? L'ebrea buona è forse rappresentata dalla non ebrea che perdona i suoi assassini tedeschi con un amore verso i nemici in qualche modo aprioristico, sebbene quei crimini non fossero perdonabili? «Vorrei trovarmi in tutti i campi che sono sparsi per tutta l'Europa, vorrei essere su tutti i fronti; io non voglio per così dire 'stare al sicuro', voglio esserci, voglio che ci sia un po' di fratellanza tra tutti questi cosiddetti 'nemici' dovunque io mi trovi» [12]. È forse questo vocabolo assai discutibile della «fratellanza tra tutti questi cosiddetti nemici», che Etty Hillesum non solo pronuncia, ma incarna fino alle estreme conseguenze – senza peraltro sapere «che cosa» avveniva e «che cosa» stava perdonando –, a rendere la voce diaristica di Etty Hillesum per molti toccante e per altri invece problematica?
    «In me non c'è un poeta, in me c'è un pezzetto di Dio che potrebbe farsi poesia» [13]. Le pacate frasi del suo diario, che «in un mondo gettato in un disordine selvaggio» intendono risalire alle fonti della propria vita, trovano i loro lettori, infiammano esistenze, spaventano, sconvolgono, rendono felici. Talvolta, quasi senza volerlo, mettendo per iscritto le sue introspezioni e le sue intime riflessioni, Etty Hillesum riesce a rendere visibile qualcosa di universale: «Dio è stile». Questa massima di Gottfried Benn assume qui un significato letterale. Lo stile adottato da Etty Hillesum nei suoi diari non sostituisce Dio (come invece pensava Benn). Nel suo diario, piuttosto, Etty Hillesum parla a Dio come a se stessa. Lo stile crea un'aura d'immediata partecipazione del lettore alla preghiera che viene pronunciata, come un dialogo, nella muta presenza del Dio impotente. «Quando prego, non prego mai per me stessa, prego sempre per gli altri». Questi «altri» includono anche i suoi aguzzini, quel «giovane e triste ufficiale della gendarmeria» [14] che, in un trasporto notturno, le disse: «In una notte simile io perdo due chili e mezzo» [15]; oppure quella madre che disse al suo bambino: «E se adesso non finisci da bravo il tuo budino, partirai senza la mamma». «Mi sembra che la mia intensa partecipazione», scrive Etty Hillesum, «porti alla luce la loro parte migliore e più profonda, le persone si aprono davanti a me, ognuna è come una storia, raccontatami dalla vita stessa» [16].
    Ma proprio questo è il segreto dello stile con cui la Hillesum ha scritto i suoi diari: il lettore scopre di non essere solo ascoltatore, perché leggendo diventa anch'esso narratore, coinvolto nel dialogo che Etty Hillesum intrattiene con se stessa. Il lettore o la lettrice narrano se stessi, ossia Etty Hillesum, ossia Dio, la propria vita. In tal modo, nell'intimità del diario si riproduce un segmento della sfera pubblica e in esso tutte le tracce dello sforzo «letterario» sono cancellate. Etty Hillesum riesce meravigliosamente a esprimere l'autenticità del reale e del suo superamento. La sua lingua è questo superamento, questa immediatezza della trascendenza. Queste frasi poco pretenziose, la fluidità del dialogo con se stessa e con Dio, consentono di immergersi nell'orizzonte della vita privata altrui... attimi di stile nei quali interiorità e realtà esterna sono tutt'uno.
    Il Dio personale non è il Dio onnipotente, ma colui che nella catastrofe escatologica è impotente e senza patria: il Dio che, per non affondare, ha bisogno degli uomini che lo hanno rifiutato. Perché Dio ha creato l'uomo? Perché, afferma il Corano (ma non solo il Corano), voleva essere riconosciuto. Forse bisognerebbe aggiungere: perché l'uomo impotente deve serbare e salvare dentro di sé il Dio impotente.
    Beati i rassegnati, che hanno scordato la possibilità di vivere diversamente. «La felicità balena dove non c'è più alcuna speranza» [17]. «Non può non esserci qualcos'altro: infatti la coscienza non potrebbe disperare per le orrende tenebre, se non serbasse il concetto di un diverso colore, la cui traccia dispersa non manca nella totalità negativa, come dice Adorno» [18]. Gli uomini non soffrono perché hanno perso la speranza, bensì perché non possono perderla. È appunto chi spera che viene tormentato.
    Malgrado la sua semplicità, il diario di Etty Hillesum è un documento che attesta un grido disperato e un gigantesco atto d'accusa, non da ultimo perché la sua vita, stando comunque ai dati di fatto, termina nel più assoluto sconforto. Secondo una relazione della Croce Rossa, Etty Hillesum venne uccisa ad Auschwitz il 30 novembre 1943. Si spense la fede nel buon Dio. «Se un Dio ha creato questo mondo», scrive Schopenhauer, «non vorrei essere quel Dio: il Suo strazio mí spezzerebbe il cuore» [19]. Il diario di Etty Hillesum è il luogo immaginario nel quale si dispiega l'orrore della storia umana. Chi accoglie dentro di sé il terrore escatologico, rigetta una dialettica positiva della storia in tutte le sue svariate declinazioni e difende invece il rifiuto di conferire un senso alla vita. Etty Hillesum però non si lamenta né accusa. Nemmeno i suoi carnefici. Trova consolazione e dignità (non però sicurezza!) nell'intimità del Dio personale e impotente, una dimensione nella quale Dio stesso diventa interrogante e incapace di risposte. Una teologia del Dio personale (che non sarei in grado di scrivere né intendo farlo) dovrebbe porre al centro questo legame tra il sapere riguardante il Sé umano e il sapere riguardante la presenza di Dio nella propria vita, nonché il legame tra l'amore per l'altro – inteso in senso sia «religioso» sia «nazionale», sia in quanto «prossimo» sia in quanto «nemico» – e l'amore verso Dio, e infine il legame del Sé impotente con l'impotente Dio personale. Ne deriva che la religiosità poggia sul fatto che entrambi (il Dio personale e la propria vita) costituiscono un mistero incomprensibile: di durevole c'è solamente l'elemento tragico. «Camminando per le strade ho da riflettere molto sul tuo mondo; `riflettere' non è la parola giusta, è piuttosto un cercare di approfondire le cose con un nuovo organo o senso. Spesso ho la sensazione di vedere questo tempo in prospettiva, come una fase della storia di cui conosco già l'inizio e la fine e che posso inquadrare nel tutto. Sono riconoscente dí non provare nessun odio o amarezza, ma di avere una così gran calma che non è rassegnazione – e anche una sorta di comprensione per questo tempo, per quanto strano ciò possa sembrare! [...] La cosa più deprimente è sapere che quasi mai, nelle persone con cui lavoro, l'orizzonte interiore si amplia per queste esperienze. Non soffrono neppure in profondità. Odiano, e sono ciecamente ottimisti se si tratta della loro piccola persona, e sono ancora ambiziosi per il loro piccolo impiego; è una gran porcheria e ci sono dei momenti in cui mi perdo completamente di coraggio e vorrei abbandonare la testa sulla mia macchina da scrivere e dire: non posso più andare avanti così. Ma poi vado avanti, e imparo sempre qualcosa sugli uomini» [20].
    Com'è possibile non rispondere a quell'odio con odio, a quella violenza con violenza, a quell'aggressione con un'altra aggressione? Quello che Etty Hillesum mette in luce nei suoi appunti di diario, nella sua ricerca della «grande semplicità» e della «più profonda umanità», dipende certamente dai suoi tratti individuali di carattere, dalle sue specificità. Ma in realtà Etty Hillesum trae la sua dignità da una fonte superiore, che ella ha in comune con il resto degli esseri umani. In quello che dice e fa si mostra un frammento di umanità. Ciò che i suoi diari esprimono è il legame tra la sua esistenza particolare e quella dell'individuo universale, dell'universale Dio personale. È l'umanità espressa dalla sua voce e dalla sua esperienza a essere degna di venerazione e santa. Questo esemplare individualismo religioso confuta ogni sospetto di un culto dell'ego, poiché oltrepassa se stesso.
    Cara Etty, Lei non può immaginare che cosa ha combinato, Lei e tutti coloro che rimettono la propria vita nelle mani del loro Dio personale. Il «Dio personale» è qualcosa che si può mettere in pratica, vivere, in cui si può sperare, che si può richiamare alla mente, solamente quando Dio diventa «proprio», vale a dire quando Dio, mondo e uomo non vengono più pensati soltanto come unità, e dunque quando l'«elemento religioso» viene sottratto alla sfera pubblica e rivolto verso l'interno. Lei ha radicalizzato questa separazione, che marca la differenza tra religione e religiosità, Lei ha preso Dio nelle sue stesse mani. Prima infatti si era cattolici, protestanti o ebrei (oppure atei o eretici). Si nasceva all'interno di una «Chiesa ufficiale», si votava secondo i dettami della religione, si mettevano al mondo figli e li si educava nello spirito della religione nella quale si era cresciuti. Si entrava in guerra con armamenti benedetti, perfino se tra le file nemiche combattevano altri cattolici, ebrei o protestanti. Proprio in un mondo moralmente devastato dalla follia del terrore, Lei è giunta all'idea di volere qualcosa in più rispetto a questa religiosità collettiva che predica arrendevolezza: come se si potesse prendere in mano da soli la propria vita, compresa la sua dimensione religiosa. Un'idea estremamente rischiosa e ricca di conseguenze! L'Io (nel senso di Fichte e Sartre) nella sua completa, spietata libertà e responsabilità, e il Dio personale. Da questa unione dovrebbe derivare una piccola infinità, capace di garantire, anche quando l'umanità si disgrega, speranza, amore e vita. Ciò rovescia gli ordinamenti religiosi, rimasti in vigore per millenni attraverso tutti gli sconvolgimenti della storia. L'individuo che decide e dubita diventa Chiesa, diventa custode di Dio e della fede, mentre la Chiesa si trasforma in eresia.
    In tutte le religioni è esistito il dialogo del devoto con il «proprio» Dio personale [21]. E anche il tema del viaggio spirituale alla ricerca di Dio si ritrova in tutta la letteratura universale. Si pensi alla Divina commedia di Dante, al Libro delle avversità di Attar, al Paradiso perduto di Milton, al Faust di Goethe, alla descrizione del viaggio spirituale di Giuseppe offertaci da Thomas Mann oppure al Grande sogno di Gerhart Hauptmann. In questi casi si mostra, allo sguardo dello storico della letteratura o delle religioni, una totalità fatta di interconnessioni, fatta persino di contrapposte immagini collegate una all'altra, per così dire una meta-commedia dei viaggi spirituali alla bramosa ricerca di Dio, compiuti dagli uomini attraverso il tempo, i linguaggi, gli immaginari e le religioni. Certo è che il racconto del Dio personale ha infranto il potere ecclesiastico che lo teneva in balia di dogmi, liturgie ed esegesi, trovando nell'intimo dialogo quotidiano con il proprio Dio una forma espressiva individuale e nel contempo standardizzata, poggiante in un certo senso sulla reciprocità, democratica forse e tuttavia imperscrutabile. Quello che in precedenza veniva (e viene tuttora) predicato e consacrato come insanabile antitesi, è ora messo al servizio di un vel vel inclusivo. Non esiste più un codice della sfera religiosa, con il quale si poteva guardare dietro tutti gli specchi del Dio personale. Naturalmente viene sollevata inesorabilmente la domanda: qual è il proprium specifico del «proprio» Dio personale? E il Dio personale è davvero «Dio», oppure è solamente idolo del proprio Sé? Anzitutto il Dio personale è definito da molte «negazioni»: non è un'etichetta né un passaporto per derelitti né una convenzione basata su una doppia morale, ma soprattutto non è un qualcosa di permanente, un assoluto. Il Dio personale è divisibile e componibile come l'individuo stesso, garante dell'indipendenza dell'individuo e dell'indipendenza di Dio.
    Cara Etty, spesso il Suo rapporto spontaneo con il Dio personale assume realmente i contorni di una relazione amorosa. Da lettore, infatti, talvolta non mi è chiaro se Lei si rivolga a un innamorato terreno o al Suo innamorato divino. Finisce cioè per impigliarsi nella paradossale libertà dell'amore [22]: così come vogliamo impadronirci della libertà della persona amata, allo stesso modo ci comportiamo nei confronti della libertà del nostro Dio personale. Naturalmente questo non avviene per mezzo della forza: questa hybris va al di là del pensabile. Nel caso del Dio «personale», colei che vuole essere amata non desidera la sottomissione di Dio, non intende plasmarlo secondo l'umano anelito di essere amata. Non vuole che Dio sia un distributore automatico di amore... questo equivarrebbe, in definitiva, a un rapporto mortificante per entrambe le parti, anche quando sarebbe utile e opportuno pensare il proprio Dio personale, e servirsene, come un aiuto per vivere, sempre a disposizione, buono per tutti gli usi. L'innamorata, dunque, non desidera possedere il proprio amato Dio personale così come si possiede un oggetto, ma ricerca un particolare tipo di appropriazione: intende possedere la libertà di Dio in quanto libertà personale.
    Tuttavia, quando non si pensa la libertà di Dio come un distributore automatico di amore che soddisfa tutti i desideri, ma si prende sul serio questa libertà, sorge la possibilità che Dio sia indifferente, che rifiuti e ignori le vicende umane. Perché Dio dovrebbe amare gli esseri umani, se è e deve essere tanto libero quanto l'uomo che lo ama? Ma si può forse offrire dimora a un Dio «personale», proteggerlo da un mondo in procinto di distruggere se stesso, se gli si attribuisce la libertà di non amare oppure, in termini ancor più radicali, di odiare? Forse l'uomo è soltanto troppo umano nel rapporto con il proprio Dio personale: vuole essere amato da Dio con un atto di libertà, ma pretende che questa libertà come tale non esista più. Vuole che la libertà di Dio decida autonomamente di diventare amore, e questo non soltanto all'inizio dell'avventura, ma in ogni istante. Vogliamo legare il Dio personale alle catene dei nostri personali desideri, traumi, delle nostre isterie, paure e speranze, e al contempo vogliamo tenere in mano queste stesse catene. Ma come si può sfuggire alla tentazione di degradare il Dio personale a una «compagnia rassicurante»?
    Potrei continuare questa illustrazione per pagine e pagine. Di certo però, Etty, è avvenuto quello che Lei non riteneva concepibile: la Sua storia del Dio personale è diventata una faccenda quotidiana, piatta, banale, scaduta in milioni di riproduzioni. Tra Dio e idoli non si fa più differenza: ci si muove in un mondo di citazioni multireligiose, dí cui non si conosce né origine né significato. Soltanto in rari casi si percepisce l'aroma del passato ignoto, ma di solito quel passato serve a tappezzare di religione le pareti interne del «Dio personale». Basta sfogliare uno dei tanti cataloghi destinati al mercato della New Age, per constatare come il Dio personale si possa ormai acquistare: vi si trovano offerte che magnificano le proprietà dei cristalli, accanto alla possibilità di apprendere come abbracciare una betulla al fine di liberare energie spirituali, oppure offerte che suggeriscono dove andare e che moduli compilare per rinascere. Ovviamente, tutti questi viaggi nel fondo più ignoto dell'anima hanno il loro prezzo. Non stupisce più quindi che, accanto alle fiere dell'erotismo, compaiano anche quelle dell'esoterismo, le quali non lasciano inappagato nessun bisogno di senso... basta prendere tali proposte per oro colato e pagarle a peso d'oro. La società globale e parareligiosa del culto, in rapida espansione, promette infatti di portare il cielo in terra.

    NOTE

    1 Hillesum 1981 (trad. it. Diario 1941-1943, Adelphi 1985, p. 176).
    2 Ivi, pp. 163-165.
    3 p. 168.
    4 Ivi, pp. 169-171.
    5 Ivi, p. 190.
    6 Ivi, p. 245.
    7 Ivi, p. 239.
    8 Ivi, p. 245.
    9 Ibid.
    10 Ivi, p. 171.
    11 Sznaider 2008 (Gedächtisraum  Europa, Bielefeld, p. 96).
    12 Hillesum 1981 (trad. it., p. 228).
    13 Ivi, p. 230.
    14 Ivi, p. 245.
    15 Ibid.
    16 Ivi, p. 232.
    17 Kermani 2005 (Der Schrecken Gottes, Beck, München, p. 76).
    18 Ivi, p. 74.
    19 Arthur Schopenhauer, Handschriftlicher Nachlass, vol. 3, p. 57, citato in Kermani 2005, p. 190.
    20 Hillesum 1981, p. 170 (trad. it., pp. 181483).
    21 Kermani 2005.
    22 Un paradosso che Jean-Paul Sartre ha riproposto per la religione terrena dell'amore (Sartre 1979 [L'essere e il nulla, Il Saggiatore 1943]); Beck e Beck-Gernsheim 1990 [Il normale caso dell'amore, Bollati Boringhieri 1996]).

    (Da: Il Dio personale, Laterza 2009, pp. 4-18)


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