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    Il Cardinale Martini

    e l'audacia della verità

    Bruno Forte

    martini

    Un anno fa nell'agosto assolato delle nostre estati, Carlo Maria Martini stava vivendo gli ultimi giorni della sua vita fra noi. Fino all'ultimo aveva combattuto col male che gli aveva tolto progressivamente le forze fisiche e persino la parola. Solo lo spirito restava indomito, sostenuto dalla sua fede profonda, abbandonata al volere di Dio, e dalla volontà tenace di non arrendersi all'avanzare dell'infermità. Uno splendido libro testimonianza, che uscirà a fine mese, solleverà il velo sugli ultimi, intensissimi anni del grande Arcivescovo di Milano, biblista di fama mondiale e testimone innamorato di Gesù in continuo dialogo con le donne e gli uomini del nostro tempo.
    Lo ha scritto, con discrezione e affetto filiale, don Damiano Modena, il giovane sacerdote di cui anni fa avevo diretto la tesi proprio sul pensiero del Cardinale ("Carlo Maria Martini, custode del Mistero nel cuore della storia", Paoline, 2005) e che aveva poi accettato di "accompagnarlo fino alla morte", vivendo questo impegno con dedizione totale.
    Altre voci autorevoli si faranno certamente sentire per il prossimo 31 agosto, primo anniversario della sua morte. Da parte mia, avendo potuto godere del dono dell'amicizia del Cardinale per oltre trent'anni, il ricordo risponde a un'esigenza dell'anima, a quel bisogno profondo di far memoria, che accende pensieri di luce e dona semi di speranza. Se mi decido a far parte ad altri di qualcuno di questi pensieri, è perché sono certo che da Martini tutti possano ancora imparare, uomini e donne di Chiesa, come laici dalle posizioni più o meno distanti da essa. Raccolgo qualche spunto di riflessione partendo dal ricordo del mio ultimo incontro con lui, quel 30 agosto 2012, vigilia della sua morte.
     

    Era stato don Damiano ad avvisarmi con una telefonata: «Se vuoi salutare il Cardinale per l'ultima volta, vieni al più presto». Arrivai a fine mattinata.

    Da poco avevano celebrato l'eucaristia, e Martini - tirando il respiro con uno sforzo notevole - era ancora riuscito a dire le parole conclusive della liturgia, celebrata dalla sua poltrona di infermo: «La Messa è finita, andate in pace». Furono le ultime uscite dalla sua bocca, quasi a sigillare una vita che era stata tutta "eucaristia", azione di grazie al Dio vivo, amato al di sopra di tutto. Lo avevano poi sedato, per dare un po' di riposo alla tosse incessante che lo squassava. Quando arrivai, pareva assopito. Decisi di leggergli lo stesso la lettera che gli avevo scritto. Le frasi scorrevano come mi erano uscite dal cuore, in quella che voleva essere una memoria di rendimento di grazie a Dio e a Lui e di speranza condivisa. Terminata la lettura, gli presi la mano ed iniziai a pregare il "Padre nostro", la preghiera insegnataci da Cristo, quella su cui lui aveva scritto riflessioni profonde e bellissime, la nostra preghiera di cristiani. Guardavo il suo volto con commozione: appena iniziai a pregare, le sue labbra si mossero in sintonia con le mie. Mi stava seguendo, pregava con me. Don Damiano mi avrebbe poi detto che quello fu l'ultimo "Padre nostro" della sua vita: dono di impareggiabile grandezza per me il fatto di averlo pregato con lui. In quella semplice condivisione, vedevo la sintesi della sua esistenza intera.

    Anzitutto, la sua incessante preghiera: prima di proporla agli altri, Martini aveva vissuto e sperimentato a lungo la dimensione contemplativa della vita, aprendo incessantemente il suo cuore a Dio e proprio così sperimentando di non essere mai solo. La preghiera non è tanto un nostro modo di amare Dio, quanto un lasciarci amare da lui. Pregare è stare sulla soglia dell'infinito e lasciarsi toccare dal miracolo che la tenerezza divina sa compiere verso chiunque l'invochi con desiderio, spirito e cuore.. Martini viveva continuamente su questa soglia, totalmente affidato alla misteriosa Presenza.

    Prima di quest'ultima preghiera, il suo volto mi era apparso come un'icona del silenzio e dell'ascolto. Ciò che forse più impressionava in lui era la capacità di ascoltare: mai si imponeva all'altro, preferendo piuttosto lasciare interrotta una sua frase se appena si accorgeva che l'interlocutore intendeva dire qualcosa. Raramente ho incontrato altri che sapessero ascoltare come lui, che sapessero farsi esser uditori dell'altro in così profonda attenzione e umiltà. Né questo atteggiamento di ascolto - a lungo esercitato in rapporto alla Parola di Dio, vera "causa" della sua vita - significava rinuncia a dare il suo apporto, a servire con fedeltà e sincerità assolute la Verità che tutti trascende.

    Martini ascoltava le ragioni dell'altro, le prendeva sul serio, per capire meglio con lui la luce che abitava il suo cuore, per dire Dio con tutto l'amore possibile al cuore dell'altro, per condividere generosamente il dono, nulla mai imponendo con atti di forza, che pur sarebbero stati facili all'evidente superiorità di intelligenza e di cultura che si avvertiva in lui. Il Cardinale amava la verità infinitamente più di se stesso.

    Questo è l'ultimo motivo che vorrei richiamare: il suo rapporto con la Verità. Non era per lui qualcosa da possedere. Era Qualcuno da cui lasciarsi possedere. Era il Gesù dei Vangeli, il Cristo annunciato dalla Chiesa attraverso i secoli, il Signore cui aveva offerto tutto di sé. Come motto episcopale aveva scelto una frase tratta dalla Regula pastoralis di San Gregorio Magno, che è un chiaro programma di vita: "Pro veritate adversa diligere et prospera formidando declinare" - "Per la Verità amare le avversità e guardarsi dal successo con timore" (I, III). Sono parole che illuminano il suo stile, fatto di audacia e di timidezza, di forza e di umiltà, inseparabilmente. Pronto a pagare di persona per amore del vero, era capace di coniugare il sacrificio di sé al più grande rispetto per le posizioni altrui. Sapeva che la verità non sta nell'apparire, ma nell'essere. Perciò Martini non si preoccupava delle apparenze, ma sempre e solo del giudizio di Dio. In una società che spesso rincorre la maschera e l'imbonimento, la forza della verità appare tanto spesso scomoda. Su di essa, sulla sua carica liberatrice, Carlo Maria Martini ha giocato la sua vita. E l'ultima immagine di lui sul letto di morte, totalmente abbandonato in Dio, nella nuda verità del suo essere umano mortale, resta in me come la riprova che ciò che appare agli occhi del mondo inesorabilmente passa, ma ciò che conta agli occhi dell'Eterno resta e continua ad alimentare la vita.

    Perciò di Martini continueremo ad aver bisogno e ancora a lungo potremo nutrirci della sua testimonianza di contemplativo di Dio, di uomo dell'ascolto della Parola e degli altri, di servo umile e fedele della Verità, anche al prezzo più alto. Ed è per questo che ho voluto parlare di lui, con la discrezione e il pudore opportuni dinanzi all'abisso, desiderando in tal modo anche invitare chi vorrà leggermi a far tesoro di questo tempo di ferie per prendere o riprendere in mano qualcuno degli scritti del Cardinale, quasi a riascoltarne la voce per assaporarne la testimonianza di luce, riflesso della bellezza che salverà il mondo. 

    “Il Sole 24 Ore” - 11 agosto 2013

     


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