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    I monaci di Tibhirine

    Dal "nostro" inviato

    Tibhirine

     

    Sembra di entrare in una suggestiva kasba berbera, con le sue torri all’entrata a disegno geometrico e i suoi muri ocra, ma il bel nome scritto in grande la tradisce: Notre Dame de l’Atlas. Ha ripreso lo stesso nome del monastero di Tiberhine e qui vivono ora i monaci trappisti. Il priore Jean-Pierre viene ad aprirmi, mostrando sempre un fare gioviale e una bella disponibilità: siamo a Midelt, su un altopiano secco e desertico nel cuore del Marocco.
    Entro nella cappella monastica, sobria, raccolta e con un che di mistico. Accovacciato ai piedi dell’altare trovo l’altro Jean-Pierre, ormai più che ottantenne, ha gli occhi azzurri dell’Alsazia, l’unico sopravvissuto del famoso monastero in Algeria. Accomoda un vaso di rose, con una lentezza e una delicatezza tutte sue. Le conto, sono sette. Come i suoi fratelli martiri. Nel frattempo passa rapido un giovane monaco, Geoffroy, e gli scivola un complimento:“Sono belle le tue rose!” Le coltiva lui nel mezzo del chiostro, come una preghiera. E, quasi per una sua piccola mania, le raccoglie sette alla volta, come un inno alla vita.
    Mi rivede dopo tre anni e ricorda ancora il mio nome.Viene a sedersi familiarmente accanto per raccontarmi le ultime novità: la costruzione di una nuova cappella dedicata a Charles de Foucauld, in cui ci si siede tutti attorno alle pareti come nelle case berbere, i recenti pasti presso i vicini per la morte di due persone con lettura del Corano, il fresco arrivo del priore dell’abbazia-madre di Aiguebelle...
    Poi, mi vengono a chiamare per essere presente anch’io ad un momento speciale: il thè alla menta del monastero. Lo si prende fuori, insieme agli operai. Scambio di qualche parola, di un complimento, sguardi di intesa, clima fraterno tra monaci e musulmani. Mi sussurra un monaco: “È la mia seconda eucarestia!” E vedendo come condividono la vita e le ansie di famiglia di questi operai e le stesse sorti con tutto un popolo, non dubito un istante di questa verità.
    A sera ci ritroviamo tutti insieme per la compieta con la chiesa a porte aperte per il calore. Entra a folate l’appello alla preghiera delle moschee vicine, intrecciandosi con i melismi gregoriani dei monaci. Nessuno si turba. Ed è segno del destino delle loro vite ormai così legate alla vita di altri credenti. Rientrando nella mia cella, mi trovo a sopresa ad avere come vicino di cella l’arcivescovo di Rabat, Vincent Landel, che qui ritorna sempre volentieri. L’intrecciarsi dei cammini, in questo luogo, è veramente il segreto di vita di ognuno.
    Così, domenica, celebriamo alle 11, con una piccola assemblea di religiose, di ospiti di passaggio, di studenti universitari subsahariani e di qualche scout dalla Francia: una ventina di presenze. Presiede l’arcivescovo, mentre il canto “La terra germerà la speranza” apre la celebrazione e sembra accompagnare con i suoi i passi di questa Chiesa del Marocco dal volto tanto originale, immersa nell’Islam.
    Il vescovo benedice una bella anfora di acqua davanti all’altare e in nome del proprio battesimo invita ognuno a venire in processione per tracciare un segno di croce: dire, così, la forza del proprio impegno di vita in nome del Cristo. Come non pensare con vera emozione, allora, al battesimo di martirio dei sette monaci, che lavavano le loro vesti nel sangue dell’Agnello? La vita cristiana è l’impegno di farsi dono all’altro. Con coraggio e senza riserva. La loro testimonianza in questo luogo pareva trasportarci come un messaggio vivo, incoraggiante per ognuno.
    La parola di Dio della domenica è quella della semente e del seminatore. Ancora una misteriosa allusione alla semente dei nostri martiri, alla semente di questi discepoli del Cristo nella terra del Profeta. Ma anche alla forza segreta di Dio che lavora il cuore dell’uomo, mentre l’arcivescovo invita a intravedere la sete viva di vangelo in questa primavera araba, che manifesta una voglia di dignità, di giustizia e di responsabilità.
    Recitiamo il Credo, anzi lo cantiamo in unione spirituale con tutti i cristiani in Marocco, piccole comunità sparse come oasi nell’Islam, dove il seme di Cristo produce frutti di gratuità, di spirito di servizio, di fiducia nell’altro. Vengono in mente anche le parole del priore Jean-Pierre: “Credo che la precarietà e la fragilità sono l’avvenire della Chiesa.” Parole grandi, che contraddicono il nostro segreto senso di onnipotenza. Poi, “abana lladifissamawat", il padre notro cantato in arabo ci immerge in quella liturgia mista, che qui suggerisce sempre uno sguardo di amore per il popolo attorno.
    “Viviamo il mistero della visitazione di Maria” spiegava il priore. “Noi portiamo il Cristo senza dirlo, andiamo verso l’altro anche senza farlo conoscere. Comprendiamo che la fragilità è la nostra chance e il domani appartiene solo a Dio. Non saprei vivere - confessa, infine - in un grande monastero in Francia, con possedimenti, con tanti monaci in una grande, imponente costruzione come ce ne sono ancora!”
    Una piccola fraternità, la fiducia in Dio e la vicinanza alla gente: ecco gli ingredienti della loro vita. E il priore mi ricorda come anche i monaci vivono il ramadan con il popolo musulmano e alla sera sono invitati dai vicini per la festa del ftur, della rottura del digiuno. Sì, sono una vera eccezione nel paesaggio monastico europeo, così stretto nella clausura, nel ritmo e nelle relazioni. Si rivela un carisma originale immerso nel mondo musulmano, da cui come uomini di preghiera sono visti con ammirazione e rispetto. E mi racconta tra l’altro quando Christian, il priore martire di Tiberhine, insegnava a un giovane... le preghiere musulmane. Indisponibile per un certo tempo e incontrando di nuovo il giovane si sentiva apostrofare da lui: “È da tanto tempo che non scaviamo più nel nostro pozzo...” Al che il giorno dopo, quasi per scherzo, Christian gli chiese se era per trovare l’acqua musulmana o cristiana. E il giovane, magnificamente:“No, l’acqua di Dio!”
    Si viene, poi, a sapere che il monastero aveva invitato quest’anno per il 15.mo anniversario del martirio dei sette fratelli di Tiberhine tutta la fraternità monastica mediterranea. Per il timore dei primi turbamenti in Maghreb da parte di qualche badessa dei monasteri italiani l’evento veniva poi cancellato. All’occasione, però, l’incontro avvenne lo stesso con Omar e tutti gli altri operai del monastero insieme a tutto il vicinato: una vera festa! Così, viene da pensare alla parabola evangelica degli invitati... in una stupenda versione monastica marocchina.
    “Siamo come uccelli sui rami” diceva un monaco nel film “Uomini di Dio” per suggerire la loro fragilità e la loro provvisorietà. “Sì, ma gli uccelli siamo noi e voi siete i nostri rami!” sembrano ancora ripetere in cuor loro i vicini del monastero.

    Renato Zilio, missionario scalabriniano


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