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    Educare con la prevenzione

    Pietro Stella

    L'oratorio di don Bosco, aperto alla libera spontanea adesione di gruppi giovanili, postulava per forza di cose un rapporto educativo che facesse leva sulla capacità di reciproca attrattiva tra adulti e giovani. Sarebbe stato suggestivo per noi rivisitare il sistema educativo posto in atto negli oratori torinesi sulla base di scritti teoretici lasciatici da don Bosco stesso e scaturiti da tale esperienza. Ma don Bosco non era uscito dalla scuola di metodo inaugurata all'università di Torino da Ferrante Aporti e poi proseguita dall'abate Giovanni Antonio Rayneri. Non divenne mai un pedagogista sistematico anche se ebbe sempre buoni rapporti con i pedagogisti ufficiali dell'ambiente piemontese legati alla scuola del Rayneri. E tuttavia a mano a mano che crebbe il drappello di chierici e laici che riuscì a legare alla Società di San Francesco di Sales, sentì il bisogno di dare direttive concrete nella corrispondenza epistolare o in conferenze ed elaborare una propria precettistica. Non arrivò mai al punto di scrivere un'ampia e articolata trattazione, anche se ne avvertì l'esigenza. Punto culminante della sua organizzazione dottrinale in materia pedagogica fu un discorsetto che tenne a Nizza Mare allorché fu inaugurato ufficialmente il P atronage affidato ai salesiani.
    Esordì accattivandosi la curiosità degli uditori, quasi rivelando un progetto segreto: «Più volte fui richiesto di esprimere verbalmente o per iscritto alcuni pensieri intorno al così detto Sistema preventivo, che si suole usare nelle nostre case. Per mancanza di tempo non ho potuto finora appagare questo desiderio, e presentemente [...] credo opportuno darne qui un cenno che però sarà come l'indice di un'operetta che vo preparando». Entrando in argomento presentò schematicamente i due «massimi sistemi» che a suo modo di vedere si sarebbero contrapposti in tutta la storia umana: «Due sono i sistemi in ogni tempo usati nella educazione della gioventù: Preventivo e Repressivo. Il sistema Preventivo consiste nel far conoscere la legge ai sudditi, poscia sorvegliare per conoscerne i trasgressori ed infliggere, ove sia d'uopo, il meritato castigo [...1. Diverso, e direi, opposto è il sistema Preventivo. Esso consiste nel far conoscere le prescrizioni e i regolamenti di un Istituto e poi sorvegliare in guisa che gli allievi abbiano sempre sopra di loro l'occhio vigile del Direttore o degli assistenti, che come padri amorosi parlino, servano di guida ad ogni evento, diano consigli ed amorevolmente correggano, che è quanto dire: mettere gli allievi nella impossibilità di commettere mancanze. Questo sistema si appoggia tutto sopra la ragione, la religione e sopra l'amorevolezza [...]. Il sistema Repressivo può impedire un disordine, ma difficilmente farà migliori i delinquenti [...]. Il sistema Preventivo rende avvisato l'allievo in modo che l'educatore potrà parlare col linguaggio del cuore sia in tempo della educazione, sia dopo di essa. L'educatore, guadagnato il cuore del suo protetto, potrà esercitare sopra di lui un grande impero, avvisarlo, consigliarlo ed anche correggerlo allora eziandio che si troverà negli impieghi, negli uffizi civili e nel commercio».
    Ripercorrendo gli scritti di don Bosco e quanto altro si conosce dei suoi discorsi è facile constatare che prima di allora non si trova l'uso contrapposto dei due lemmi e anzi non è possibile stabilire da quando abbia cominciato a denominare «preventivo» il sistema di educazione praticato da lui e dai suoi collaboratori. A Torino, la scuola di Aporti e Rayneri aveva abituato a parlare di «metodo»piuttosto che di «sistema»; e il termine «prevenire» era usato non tanto per definire un metodo nel suo insieme quanto piuttosto a proposito delle mancanze da prevenire per non dovere ricorrere alle punizioni. È la Francia (la patria dell' esprit de système) che in quegli anni porta in voga il termine in rapporto ai temi della criminalità, delle classi pericolose e dell'ordine pubblico da tutelare (per cui anche in Italia si cominciò a discutere sul «sistema penitenziario» da preferire). Adolphe Thiers in contesto di stato liberale e di libera privata iniziativa utilizzò i due lemmi discorrendo dell'educazione e dell'impegno di prevenzione e sorveglianza che toccava allo Stato onde evitare che sorgessero disordini e si dovesse giungere alla punizione di chi trasgrediva le leggi. «Il est élémentaire –scriveva – qu'en sortant du système préventíf, on entre sur le champ dans le système répressif». E nell'ambito di mere riflessioni pedagogiche in un'opera ben nota anche in Italia Félix Dupanloup, vescovo di Orléans, asseriva: «Val meglio senza confronto il prevenire che il reprimere». Con il discorso di Nizza nasceva di fatto la «magna charta» della pedagogia di cui si fregiavano i salesiani di don Bosco. Lo stesso anno 1877 venne inserito con pochissimi ritocchi entro il Regolamento per le case della Società di S. Francesco di Sales e adottato come testo base di pedagogia salesiana quello che ormai era denominato l'opuscolo di don Bosco sul sistema preventivo.
    Testo privo di originalità pedagogica, avrebbe scritto polemicamente Giovanni Gentile in pieno clima fascista. Piccolo gioiello di sapienza pedagogica, avrebbero replicato i salesiani. A parte la polemica, per lo storico d'oggi si pone anzitutto il problema dell'autenticità boschiana di tale scritto. Di esso infatti, per caso singolare o forse per altre ragioni, non si conserva nessun manoscritto autografo completo. Si hanno soltanto, con postille e correzioni di don Bosco, scritture di altra mano in italiano e in francese preparate per la stampa dell'opuscolo bilingue: Inaugurazione del Patronato S. Pietro in Nizza a Mare. Scopo del medesimo esposto dal sacerdote Giovanni Bosco con appendice sul sistema preventivo nella educazione della gioventù e Inauguration du Patronage de S. Pierre à Nice Maritime. But de l' oeuvre exposé par Mr l' abbé Jean Bosco avec appendice sur le système préventif pour l' éducation de la jeunesse. Un esame filologico attento porta a concludere che a monte delle redazioni allografe stava con quasi assoluta probabilità un archetipo tutto autografo di don Bosco. La distinzione, ad esempio, dei giovani in tre o quattro categorie – d'indole buona, ordinaria, difficile o cattiva – era nei suoi schemi mentali già negli anni trascorsi in seminario e si legge in una pagina autografa di testimonianze da lui raccolte sul chierico Luigi Comollo (1839), poi utilizzata nei Cenni biografici editi nel 1844. Assodato questo, importa capire per quali motivi questo scritto sul Sistema preventivo poté assumere tanta importanza agli occhi di don Bosco e dei suoi salesiani.
    Con buon fondamento anche nel caso del Sistema preventivo (indicato in genere con l'appellativo di opuscolo) sia in don Bosco che in altri sono da supporre quei processi di conoscenza e di comprensione che la scienza ermeneutica oggi (vedi ad esempio Paul Ricoeur) tende a mettere in evidenza e a teorizzare. Non tutto colpisce allo stesso modo in uno scritto e in qualsiasi altra cosa entri nell'esperienza umana; la memoria porta a fissare l'attenzione su certi elementi e a lasciarne altri, sui quali magari non si è nemmeno fermato lo sguardo; il ritorno delle conoscenze nella memoria può ulteriormente modificare il senso che si era assegnato originariamente a certe esperienze. Orbene, nella serie di generalizzazioni, di osservazioni e di direttive prospettate da don Bosco nel discorsetto di Nizza è il concetto che «occorre guadagnare il cuore dei giovani» quello che più di ogni altro portava a evocare come in un lampo l'esemplarità di don
    Bosco e l'originalità del suo magistero. Proprio attorno agli anni del discorso di Nizza tornando da uno dei suoi viaggi a Roma don Bosco fu accolto dalla massa osannante dei giovani di Valdocco con la scritta: «Roma ti ammira, Torino ti ama». Don Bosco in circostanze come quella usava dire: «Siete tutti ladri, avete rubato il cuore di don Bosco». Era questo per i salesiani un esemplo pratico del «guadagnare il cuore». Nelle Memorie dell'Oratorio, che andava scrivendo e rivedendo in quegli anni (1873-78), egli rievocava momenti dei primi tempi dell'Oratorio di Valdocco simili a quelli degli anni Settanta:
    Usciti di chiesa, ciascuno dava le mille volte la buona sera senza punto staccarsi dall'assemblea dei compagni. Io aveva un bel dire: – Andate a casa; si fa notte; i parenti vi attendono. –Inutilmente. Bisognava che li lasciassi radunare; sei dei più robusti facevano colle loro braccia una specie di sedia, sopra cui, come sopra di un trono, era giuocoforza che io mi ponessi a sedere. Messisi quindi in ordine a più file, portando D. Bosco sopra quel palco di braccia, che superava i più alti di statura, procedevano cantando, ridendo e schiamazzando fino al circolo detto comunemente il Rondò [...]. Fattosi di poi un profondo silenzio, io poteva allora a tutti augurare buona sera e buona settimana. Tutti con quanto avevano di voce rispondevano: –Buona sera! In quel momento io veniva deposto dal mio trono; ognuno andava in seno della propria famiglia, mentre alcuni dei più grandicelli mi accompagnavano fino a casa mezzo morto per la stanchezza.
    Anche le Memorie dell'Oratorio ci danno la misura fattuale di quel che significava «guadagnare il cuore» e ci portano d'altra parte alle soglie dell'opuscolo sul Sistema preventivo, fondato sul trinomio ragione-religione-amorevolezza e sull'assistenza preventiva.
    Ma conviene ancora soffermarsi sul termine «cuore» e sui diversi significati che assumeva nei contesti più vari. Quando rivolgeva ai giovani collaboratori appelli come questo: «Ti parlo colla voce di un tenero padre che apre il cuore ad uno de' più cari suoi figliuoli. Ricevili adunque scritti di mia mano come pegno dell'affetto che io ti porto», è palese che per cuore egli intende la sfera affettiva e le facoltà appetitive. In altri contesti con queste espressioni e con altre simili don Bosco ci porta nel mondo lessicale di un'antropologia diversa da quella filosofica medievale imperniata sulla antropologia ilemorfica: in quella del «cuore» distinto dalla «ragione», che in scrittori spirituali del Seicento francese aveva avuto la sua massima espressione. Quando scrive che fin da giovani occorre «dare il cuore a Dio», quando parla di «corruzione» o di «purificazione del cuore» designa con il termine «cuore» ciò che nell'uomo è capacità di intuizione intellettuale e di amore intenso e istintivo, capacità d'intendere e d'amare che scaturisce dal più intimo dell'unità psicologica dell'uomo. Trasferito nel discorso pedagogico e inserito nell'espressione «guadagnare il cuore» il termine serve a indicare il processo che porta a stabilire la massima simbiosi e la massima intesa interiore e operativa tra chi sta svolgendo il ruolo di educatore e chi è (o è stato) un allievo. Il «guadagnare» o «rubare» reciprocamente il «cuore»; il creare, in altre parole, la massima compenetrazione interpersonale tra educatore e allievo è in sostanza il presupposto per realizzare l'impresa educativa nel suo complesso; vale a dire la condivisione sia dei fini sia dei mezzi prescelti.
    I fini elencati nel discorso sul Sistema preventivo sono quelli ribaditi in mille modi da don Bosco con alcune formule stereotipe: «conseguire [...] la civile, morale e scientifica educazione» degli allievi; fare «utili cittadini e buoni cristiani»; formule che nella loro genericità miravano a fare presa sulla mentalità comune dominante; si prestavano forse ad ambivalenze, ma comunque di fatto raggiungevano lo scopo di consolidare consensi, moltiplicare sostegni e far confluire giovani allievi negli istituti gestiti da don Bosco.
    Altrettanto aperta, allettante ed efficace era la trilogia enunziata come fondamento del sistema: «ragione, religione e amorevolezza». L'appello alla «ragione» trovava la sua forza nella rivendicazione che di essa aveva fatto il secolo dei lumi e che comunque era un'istanza che ormai compenetrava la cultura moderna. In don Bosco tuttavia il tema «ragione» appare radicato più negli schemi mentali preilluministi di un Charles Rollin o di un Ludovico Antonio Muratori, che non in quelli della mentalità scientista ottocentesca, propugnata in particolare dai maestri e fautori del positivismo. L'appello alla ragione giovava sicuramente a incanalare consensi anche sul postulato della «religione» indicata anch'essa quale fondamento di una buona e compiuta educazione. Nella sua genericità infatti il termine «religione» poteva essere avallato anche da chi – come Rattazzi o altri liberali simpatizzanti per l'opera degli oratori – non dava rilevanza al poco di contenuto dogmatico e confessionale accennato nell'opuscolo. La religione alla quale don Bosco alludeva è chiarissimamente quella da lui professata come cattolico e come sacerdote. Indicativi del resto erano i riferimenti dell'opuscolo a testi del Nuovo Testamento («la carità è benigna...»: citazione dalla prima lettera di san Paolo ai Corinzi) e ai sacramenti della confessione e comunione. Ancora più esplicitamente don Bosco dichiarava nel suo discorso: «Soltanto il cristiano può con successo applicare il sistema preventivo».
    «Amorevolezza», termine oggi in disuso (e che i salesiani hanno sempre trovato difficile da tradurre in altre lingue), non era raro tra Settecento e prima metà dell'Ottocento. Nel linguaggio di don Bosco assumeva diverse accezioni, a seconda che servisse a indicare affettività ovvero che mirasse a esprimere i contenuti attribuiti all'antropologia del cuore. In quest'ultima prospettiva, entro questa trama di linguaggio, il termine amorevolezza indicava in sostanza l'interrelazione personale, nutrita interiormente e percepita appunto dal cuore, manifestata e perciò dimostrata con il proprio comportamento. Don Bosco usava dire ai suoi figli spirituali: «I giovani sí accorgano di essere amati»; «studia di farti amare, se vuoi farti temere». E suor Maria Domenica Mazzarello ammoniva le consorelle alludendo implicitamente alla intima religiosa consonanza di cuore: «Viviamo alla presenza dí Dio e di don Bosco». Come in altri scritti, anche in questo sul sistema educativo egli usa alternativamente le parole «vigilanza» e «assistenza»; ma le sue preferenze andavano verso quest'ultimo termine in quanto rispetto all'altro meno si prestava ad assumere connotazioni negative. L'assistenza infatti per lui è un atto di amore, postulato da quella che egli chiama «mobilità giovanile», caratteristica che per sé non denota qualità negative. I nuclei più forti ed essenziali sopra ricordati del Sistema preventivo sono chiaramente quelli che permettono di capire il fascino che il libretto suscitava nei salesiani. Questi poi per istinto nelle situazioni più varie ne facevano le applicazioni che ritenevano più coerenti ai principi enunziati da don Bosco.
    Tolto dal suo contesto vitale salesiano, l'opuscolo non tarda a rivelare la sua natura di discorso un po' frammentario, costruito per mobilitare consensi a favore di un istituto educativo incipiente, quale era il Patronato San Pietro a Nizza Mare. È, evidente anzitutto in esso il riferimento all'educazione esplicata entro il recinto di un convitto. Don Bosco si sofferma sull'assistenza oculata svolta dal direttore e dal personale assistente: «Gli allievi – scrive – abbiano sempre sopra di loro l'occhio vigile del direttore o degli assistenti, che come padri amorosi parlino, servano di guida ad ogni evenienza»; raccomanda in particolare «la massima sorveglianza per impedire che nell'Istituto siano introdotti compagni, libri o persone che facciano cattivi discorsi». Assente è nel discorso di Nizza il riferimento agli anni in cui l'Oratorio di Valdoccoa Torino si caratterizzava come un luogo aperto a tutti: con la «Casa annessa» dallo stile familiare reso presente dalle premure di mamma Margherita e di altre donne; e con i giovani convittori che sciamavano in città tutti i giorni per frequentare scuole o fare i garzoni in qualche bottega. In situazioni come quelle non era pertanto ipotizzabile l'assistenza visiva continua. Eppure quelli furono gli anni di esperienze suggestive, evocate in quei medesimi anni Settanta nelle Memorie dell'Oratorio e precedentemente delineate nelle Vite di allievi come Domenico Savio (1859) e Michele Magone (1861). In secondo luogo nel discorso di Nizza non si trova tratteggiato compiutamente l'organigramma degli educatori e degli addetti ad altri uffici. Vi si discorre del direttore e degli assistenti; si dà rilievo al «buon portinaio», vero «tesoro di una casa di educazione»; e si accenna appena ai maestri e ai capi d'arte. In materia di educazione religiosa è sottolineata l'importanza della confessione sacramentale, della messa quotidiana e della comunione eucaristica, tutt'e tre indicate come «le colonne che devono reggere un edifizio educativo»; ma si tratta di cenni che avrebbero postulato qualcosa di più e che comunque rimandavano a un discorso più articolato su un programma di formazione religiosa volta a interiorizzare il senso di Dio e il mistero di Cristo redentore.
    Don Bosco vi asseriva tra l'altro: «Si dia ampia facoltà di saltare, correre, schiamazzare a piacimento...». Gli oratori, in effetti, e gli altri istituti salesiani si distinguevano in quegli anni per gli allegri clamori che promanavano dai cortili nelle ore di ricreazione. In tempi a noi vicini un pedagogista belga fu colpito dal chiasso che proveniva dal cortile interno dell'oratorio salesiano a Tournai. È lo stile italiano – pensava. Ma poi, riflettendo, comprese che si trattava di qualcosa di più: di una pedagogia che assegnava particolare importanza a quelle forme di svago. A metà Ottocento, in clima liberale, don Bosco mostrava di condividere le istanze di libertà che animavano quella che era appunto ormai individuata come la «classe» giovanile; e per lo meno egli a suo modo percepiva l'insito senso di benessere e di socialità che nell'età giovanile si esplicavano ampiamente nel gioco. Non tutti però ne condividevano le idee e lo stile. Nel 1868 mons. Gaetano Tortone, incaricato d'affari della Santa Sede a Torino, scrivendo a Roma rilevava in termini di disapprovazione quanto osservava nell'Oratorio di Valdocco: «Mi accadde più volte di visitare quell'istituto nelle ore di ricreazione e le confesso che provai sempre un'impressione ben penosa al vedere quei chierici frammisti agli altri giovani che imparavano la professione di sarto, falegname, calzolaio, etc. correre, giuocare, saltare ed anche regalarsi qualche scappellotto con poco decoro per parte degli uni, con poco o niun rispetto per parte degli altri. Il buon don Bosco, pago che i chierici stiano con raccoglimento in chiesa, poco si cura di formare il loro cuore al vero spirito ecclesiastico e di infondere per tempo in essi quei sentimenti di dignità per lo stato che vogliono abbracciare». Come abbiamo sottolineato più sopra, in tempi in cui i vescovi s'impegnavano a chiudere í chierici entro il recinto dei seminari e ritenevano di tutelarne la dignità, il prestigio e la formazione con il regime di separatezza dalla società, don Bosco andava di fatto in controtendenza, facendo perno in particolare sulla coesione sociale alimentata dal gioco e da altre attività ludiche.
    Fin dai loro primordi gli oratori per i giovani avevano come periodo di massima frequenza i mesi che andavano da novembre a luglio entro l'arco dell'anno scolastico e in coincidenza con il flusso d'immigrazione stagionale dei garzoni. La vita oratoriana iniziava e si concludeva con due feste tipiche: quella della Concezione (l'Immacolata Concezione dopo il dogma del 1854)1'8 dicembre; e l'altra di San Luigi Gonzaga il 21 giugno. Entrambe, erano preparate appositamente: 1'8 dicembre con unanovena sacra; il 21 giugno con le «sei domeniche in onore di San Luigi» (Luigi Gonzaga nella Compagnia di Gesù visse i suoi ultimi sei anni). Erano celebrazioni cariche di una loro particolare simbologia. La messa solenne al mattino del giorno festivo comportava la preparazione accurata di canti liturgici o polifonici nelle settimane precedenti; la parte profana della festa era concentrata nel pomeriggio dopo il canto liturgico dei vespri e aveva le caratteristiche di una sagra di quartiere popolare o di parrocchia rurale: con teatrini, scenette buffe, giochi, fuochi d'artificio a tarda sera. Fra le due feste nel corso dell'anno si scaglionavano le altre: natale, carnevale, pasqua, il mese di maggio con celebrazioni mariane, il Corpus Domini, l'onomastico di don Bosco, festeggiato il 24 giugno.
    Il clima festivo, esigito dalla natura stessa dell'oratorio, permeava per forza di cose anche l'internato, contraddistinguendolo per ciò stesso dai collegi tradizionali dei gesuiti, dei barnabiti e di altri ordini religiosi. A Valdocco gli studenti si specializzarono, dal 1860 all'incirca in poi, nella preparazione di teatrini, magari anche in latino per un pubblico ristretto di benefattori e amici secondo la tradizione umanistica dei gesuiti. Gli apprendisti artigiani e i loro capi d'arte preparavano per lo più commedie o drammi dalle tinte forti, inframmezzati da romanze e conclusi con qualche piccola farsa. Di loro spettanza era anche la banda musicale per esecuzioni all'interno dell'Oratorio o anche qua e là in parrocchie del territorio in occasione di feste locali.
    L'atmosfera festiva si riverberava sui metodi d'insegnamento e di scrittura. L'Archivio Centrale Salesiano conserva i dialoghi buffi composti da don Bosco e utilizzati attorno al 1848 per fare apprendere il sistema metrico decimale. Lui stesso scrisse qualche piccolo pezzo da teatro, come La casa della fortuna (1865), e utilizzava volentieri nei suoi opuscoli la forma dialogica.
    Già prima del 1848 era alla ricerca di uno stile semplice e di un linguaggio accessibile anche a lettori e uditori analfabeti, stile che si confaceva tra l'altro con il clima di serenità e di attrattiva che tendeva ad alimentare in tutti i modi e che consapevolmente egli connetteva con l'intento di «guadagnare il cuore», chiave del suo sistema educativo.
    Il rapporto che s'instaurava tra i giovani e l'oratorio per esterni non era certo di amore-odio; e tuttavia per un numero imprecisato di loro era piuttosto di amore con riserva. La documentazione in questo senso è quasi del tutto scomparsa; e ormai è possibile proiettare sul passato le testimonianze dei giovani oratorianí di oggi. È indicativo tuttavia quanto trapela da testimonianze isolate e per lo più indipendenti dalla memoria dei salesiani, intenti com'erano a rilevare quanto poteva apparire luminosamente positivo. La marchesa Maria Fassati nata de Maistre, affezionatissima a don Bosco e fervida sostenitrice delle sue opere, riferiva alla figlia Azelia Ricci des Ferres un episodio di vita oratoriana narratole da don Bosco. Una sera dei primi tempi oratoriani, sí arrivò al momento delle preghiere in comune; l'incaricato chiuse il portoncino esterno, i giovani furono raccolti entro la cappella e la porta di questa fu chiusa. Ma un gruppo di giovincelli era riuscito a portarsi fuori prima che fosse chiuso il portoncino esterno e di là nell'attesa alcuni lanciavano sassi al di sopra del muricciolo contro la porta della chiesa. Evidentemente l'accolta dei giovani veniva disturbata e distratta. Don Bosco uscì di chiesa, aprì il portoncino e si mise a parlamentare con quei ragazzi ottenendo che desistessero dal loro gioco e magari ripensassero il loro comportamento di oratoriani. I giovani insomma conoscevano le «astuzie» che usava don Bosco per intrappolarli al momento dell'istruzione religiosa e delle pratiche devote; tra loro c'era chi non gradiva e sapeva mettere in campo la propria furbizia per sgattaiolare e poi ritornare quando si riattivavano i giochi. Tutto sommato anche questa era una variante del dialogare di don Bosco con i ragazzi e perciò di guadagnare, se possibile, reciprocamente la fiducia e il cuore.
    Non potevano però mancare le misure estreme e non gradite, cioè il castigo a fini educativi e persino l'allontanamento dall'assembramento oratoriano. Alla fine degli anni Sessanta si rese necessario prendere misure nei confronti di giovani violenti che arrivavano all'oratorio armati di coltello. Ma bisognava tenere gli occhi aperti sui ladruncoli, sui giochi d'azzardo e sui casi di giovani portati alla pedofilia. Casistica analoga portava a stare sul chi va là anche nell'internato degli studenti e degli apprendisti artigiani. I registri di «anagrafe» che si conservano all'Archivio Centrale Salesiano mettono in evidenza aspetti interessanti della vita collegiale, offrono elementi dí primaria importanza in ordine a una storia sociale dell'istruzione umanistica e professionale dell'Otto e Novecento. Non mancano qua e là note sulle cause di licenziamento, soprattutto nelle registrazioni riservate degli anni Cinquanta e Sessanta; in prevalenza: «furto», «moralità»; o in genere un asciutto «tornò ai parenti». Tra gli allontanati ci fu anche un nipote di Urbano Rattazzi (Urbano junior, divenuto poi ministro di Casa Reale), affidato a don Bosco sicuramente per interessamento dello zio ministro data l'irrequietezza del ragazzo. Una delle sue marachelle è attestata tra le testimonianze sull'eroicità virtuosa del suo coetaneo Domenico Savio: in pieno inverno entrò in casa improvvisamente dal cortile e gettò una manciata di neve nella stufa che stava dando agli ambienti un po' di calore; richiamato dal ragazzo suo coetaneo gli gettò in faccia la sua replica: «Va' la', tisicone!». Domenico non reagì in nessun modo.
    Il contesto del vissuto quotidiano dava un senso più pieno agli orientamenti pedagogici che don Bosco dava nell'opuscolo sul Sistema preventivo:
    Che regola tenere nell'infliggere castighi? Dove è possibile, non si faccia mai uso dei castighi; dove poi la necessità chiede repressione, si ritenga quanto segue:
    I. L'educatore tra gli allievi cerchi di farsi amare, se vuole farsi temere. In questo caso la sottrazione di benevolenza è un castigo, ma un castigo che eccita l'emulazione, dà coraggio e non avvilisce mai.
    II. Presso ai giovanetti è castigo quello che si fa servire per castigo. Si è osservato che uno sguardo non amorevole sopra taluni produce maggior effetto che non farebbe uno schiaffo. La lode quando una cosa è ben fatta, il biasimo, quando vi è trascuratezza, è già un premio od un castigo.
    III. Eccettuati rarissimi casi, le correzioni, i castighi non si diano mai in pubblico, ma privatamente, lungi dai compagni, e si usi massima prudenza e pazienza per fare che l'allievo comprenda il suo torto colla ragione e colla religione.
    IV. Il percuotere in qualunque modo, il mettere in ginocchio con posizione dolorosa, il tirar le orecchie ed altri castighi simili debbonsi assolutamente evitare, perché sono proibiti dalle leggi civili, irritano grandemente i giovani ed avviliscono l'educatore.
    La concentrazione di masse giovanili nella quotidianità di un internato non mancava di rivelare i difficili equilibri tra l'ideale di spontaneità massima possibile ipotizzata da don Bosco e le difficoltà quotidiane. A soffrirne furono soprattutto i quadri educativi intermedi, cioè coloro che avevano la responsabilità diretta della disciplina in collegio posti tra la direzione alta di don Bosco e le comunità di giovani. Nell'Oratorio di Valdocco in certe solennità, come la festa di Maria Ausiliatrice il 24 maggio, le divisioni in sezione studenti e artigiani e le suddivisioni in classi e laboratori saltavano; gli insegnanti e gli assistenti perdevano di fatto il controllo di individui e di intere frotte di ragazzi. Anche durante le ricreazioni ordinarie di ogni giorno in cortile i ragazzi avevano l'abitudine di scorrazzare per le scale, i corridoi, i ballatoi dei vari piani; qualcuno raggiungeva i dormitori e si buttava sul letto o si aggirava in ripostigli bui con tutti i rischi diordine disciplinare e morale. L'ideale rischiava di essere compromesso dal reale quotidiano e l'immagine che don Bosco curava di darne con la stampa rischiava di essere irrimediabilmente appannata; c'era anche il rischio di interventi della stampa avversa e dei tutori dell'ordine pubblico. Per ottenere piena disciplina si sarebbe voluto introdurre nel sistema educativo salesiano il ricorso metodico ai castighi. A Valdocco si giunse a chiedere a don Bosco l'installazione di due «camere di riflessione» così come si sapeva praticato in altri convitti educativi. «Basta una» acconsentì don Bosco facendo capire chiaramente il proprio scarso entusiasmo per soluzioni del genere. Da parte sua piuttosto invitava a una presenza più assidua, a una maggiore dedizione, a una più autentica sintonia di vita e di affetti tra gli educatori e gli educandi. Nel 1884 da Roma inviò in tal senso un suo «sogno» da fare leggere in pubblico; in esso narrava dell'apparizione di due giovani oratoriani, allievi in anni ormai remoti, che parlando con lui contrapponevano quei tempi felici con quanto avveniva di recente, con i ragazzi per proprio conto e i superiori appartati altrove. Tornando da Roma don Bosco trovò che in cortile al termine della ricreazione i giovani venivano allineati in fila e in silenzio, per poi essere condotti nella sala di studio o nei laboratori. Le biografie ufficiali sorvolano su questi particolari, ma testimonianze orali non ancora irrimediabilmente spente illuminano sugli umori di don Bosco. Accostatosi a un chierico (don Alessandro Luchelli) che con lo sguardo severo fissava la propria fila di ragazzi gli sussurrò ín piemontese: «Ma lascia perdere!». Aumentava intanto il numero di internati educativi gestiti dai salesiani. In molti di essi s'instaurava la mentalità di chi costruiva il proprio mondo entro il recinto del collegio perdendo il contatto reale con il mondo circostante. Era la «collegializzazione» della vita oratoriana, incombente anche sugli educatori e capace di indebolire la forza originaria del processo educativo. A percepirlo tra gli anni Settanta e Ottanta fu senza dubbio in qualche modo anche don Bosco che in quel torno di tempo fissò i propri ideali in scritti come le Memorie dell'Oratorio, la lettera-sogno da Roma del 10 maggio 1884 e altre lettere confidenziali ai suoi figli spirituali.

    (Fonte: DON BOSCO, il Mulino 2001, cap. IV, pp. 55-70)


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