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    Don Bosco e la

    preventività educativa

    nel e oltre il suo tempo

    Piera Ruffinatto

    Il binomio don Bosco e Preventività è forse uno dei più adatti ad esprimere l’apporto che il santo dei giovani ha dato all’educazione del suo tempo, ma anche dei tempi a venire. Il modo pratico e teorico con cui don Giovanni Bosco (1815-1888) espresse la preventività è sicuramente originale anche se, come afferma Pietro Braido, essa «non è del tutto nuova ad una tradizione che risale ai primordi del cristianesimo, si afferma in classiche trattazioni pedagogiche medievali, si consolida in età umanistica e rinascimentale, si esprime nelle fiorenti congregazioni insegnanti, maschili e femminili dell’epoca moderna, che spesso hanno come modello la Ratio studiorum della Compagnia di Gesù».[1]
    Per meglio comprendere in che misura don Bosco è debitore alla riflessione pedagogica del suo tempo e in quanto da essa si distacchi mediante la sua originale pratica educativa, è necessario accennare al contesto che vede nascere in forma quasi assillante il criterio preventivo, per poi riflettere in modo più puntuale sulla proposta donboschiana. Tale proposta, pur radicandosi nella visione preventiva dei pedagogisti cattolici del suo tempo, si esprime con sempre maggior originalità a partire dall’esperienza educativa pratica che don Bosco svolge nell’oratorio di Valdocco. Egli, cioè, si convince, sia del valore preventivo dell’educazione nella società, e sia di come il preventivo è un criterio che permea la relazione educativa ed invoca la presenza di una comunità strategicamente raccolta attorno ad un progetto. Pertanto, per don Bosco prevenire, è la miglior forma di educare.

    Diverse prospettive di educazione preventiva

    L’Ottocento, periodo in cui vive ed opera don Giovanni Bosco è definito il secolo della “preventività”,[2] tempo che traghetta l’Europa dall’ancien régime all’età contemporanea attraverso eventi di portata storica quali, la rivoluzione industriale, il passaggio dalla società degli ordini a quella borghese, la formazione degli Stati nazionali, i massicci fenomeni dell’emigrazione, la separazione Stato-Chiesa. Questa situazione di grandi e decisivi cambiamenti porta con sé la complessa idea “preventiva” che assorbe le tensioni del periodo: i conservatori optano per una prevenzione che insiste sulla vigilanza repressiva nei confronti di quanto vorrebbe scardinare i principi tradizionali, in primis le idee liberali e rivoluzionarie; i moderati, invece, tendono a ritenere l’antico in quanto ha di valido, insieme al nuovo, cioè l’apertura del sapere alle classi popolari, l’adozione di metodi più umani nell’affrontare i mali sociali, lo sviluppo delle opere caritative.[3]
    In questa cornice, la convinzione del primato della dimensione preventiva dell’educare si va articolando in due grandi concezioni che convivono e si contrappongono.[4] La prima, di tipo difensivo-repressiva si configura come una forma di tutela dell’ordine sociale attraverso il controllo sulle parti più fragili della società – i “devianti” – a favore dei “sani” che vanno salvaguardati. Il “prevenire” in questo caso consiste nel frenare quello che può rappresentare squilibrio e cambiamento attraverso metodi quali la segregazione, la vigilanza, il castigo, la repressione. In questa visione – che consiste nel neutralizzare il male presente e anticipare gli effetti negativi – è praticamente assente ogni finalità di riadattamento e reintegrazione nei confronti di coloro ai quali è applicata l’azione preventiva, mentre invece si difendono gli interessi dei minacciati. In tal modo si esclude la dimensione esplicitamente educativa e promozionale, e dunque più facilmente si può cedere ad un uso ideologico della prevenzione subordinando l’azione agli interessi di parte.[5]
    I principi illuministi e positivisti che sostengono tale visione considerano i sistemi sociali come prodotto razionale dell’uomo, per questo ogni deviazione è considerata irrazionale e patologica e si è legittimati all’uso di misure difensive e repressive per reintegrare il sistema. I comportamenti antisociali sono originati da fattori obiettivi interni ed esterni al soggetto, pertanto la prassi preventiva consiste nell’impedire la propagazione del modello deviante cercando la modalità più opportuna per contenerlo e così salvaguardare la società dal suo influsso negativo.[6]
    Nella seconda prospettiva, che accentua gli aspetti promozionali, la finalità dominante è quella di incidere sulle cause individuali e soggettive della marginalità, pur senza escludere la difesa sociale. L’intervento preventivo, in questo caso, è rivolto a tutte le forme di svantaggio sociale e ai devianti attraverso forme di promozione quali la beneficienza, l’assistenza, l’istruzione, il ricovero, il sussidio economico. Pur nella sua validità, la pratica rischia di scadere nell’assistenzialismo perché il marginale è considerato oggetto di cura e non soggetto della propria emancipazione e l’azione preventiva finisce per essere riduttiva, in quanto persegue il contenimento delle conseguenze della marginalità, senza contemplare il contesto in cui vivono i soggetti disagiati, e rischiando la conseguente privatizzazione del problema. È evidente qui l’influsso dell’ottimismo pedagogico di Rousseau e delle idee religiose antigianseniste.
    Le forme pubbliche o private di prevenzione, quella difensivo-repressiva, attuata dagli oppositori del movimento di rinnovamento sociale, e quella promozionale promossa dalle classi emergenti contrarie all’interpretazione caritativa della beneficienza, sono accomunate da un carattere necessariamente conservatore.[7] Inoltre, sia nella concezione difensivo-repressiva che in quella promozionale, la preventività è vista come una dimensione interna all’azione educativa, mirata in prevalenza sull’individuo e quindi finalizzata a impedire e neutralizzare esperienze negative, lasciando in ombra la comunità e le sue responsabilità nei confronti del problema.
    È una visione riduttiva del preventivo perché pessimista nei confronti della persona e a rischio di deviazioni paternaliste, moraliste e iperprotettive e con scarsa considerazione della libertà dell’individuo che si vuole proteggere.
    Data questa prospettiva, afferma Pietro Braido, probabilmente i termini “preventivo” e “repressivo” utilizzati nel secolo XIX non sono i più adatti per esprimere la realtà educativa, che al contrario, si caratterizza essenzialmente per interventi attivi, promozionali, espansivi della personalità dell’educando.[8] È probabilmente questo il motivo per cui alcuni pedagogisti del tempo, come ad esempio Antonio Rosmini, considerano il preventivo come momento pre-educativo. Per il filosofo roveretano, infatti, il “prevenire” non è che una condizione previa all’educazione. I mezzi “esterni” preventivi e dispositivi mirano a rimuovere le occasioni del male e a disporre indirettamente l’animo al bene. Preparano gli educandi a ricevere il bene, ma non comunicano il bene stesso, cioè la verità e la grazia.[9]
    I numerosi e documentati studi svolti sul metodo di don Bosco confermano invece che il santo educatore non solo si è sempre mantenuto nel solco della preventività, ma ha infuso in essa un’originale impronta che l’ha caratterizzata a livello pedagogico, anche se, in coerenza con il suo modo di essere, non ne ha mai elaborata una teoria. Per lui, infatti, afferma Pietro Braido: «il “preventivo” non fu mai inteso come puro momento propedeutico, protettivo, dispositivo all’educazione propriamente detta né fu limitato semplicemente al settore della “disciplina” o al “governo” […]. Nelle stesse pagine sul Sistema preventivo nella educazione della gioventù del 1877 gli elementi educativi positivi superano nettamente, in quantità e qualità, le misure disciplinari e protettive».[10]

    La dimensione preventiva dell’educazione secondo don Bosco

    Le fonti evidenziano i rapporti significativi di don Bosco con la cultura della prevenzione del suo tempo. Sin dall’inizio della sua permanenza a Torino, infatti, egli frequenta i luoghi dove si fanno attività educativo-assistenziali, il carcere minorile della “Generala”, le opere della Marchesa Giulia di Barolo.[11] Anche in seguito, sono documentabili le sue dirette relazioni con istituzioni e persone che condividono l’inquietudine preventiva: pedagogisti come Ferrante Aporti e gli autori de L’Educatore Primario.[12] Le sue letture, inoltre, si orientano sul Monfat, Alessandro Teppa, Fratel Agathon, il Dupanloup, rappresentanti della pedagogia cattolica di orientamento preventivo. Egli filtra tali Autori e li reinterpreta attraverso la propria ricca personalità ed esperienza.[13]
    La generale passione preventiva di don Bosco si esprime sin dall’inizio nella convinzione del valore sociale del preventivo nell’educazione, senza mai adombrarne la scelta metodologica all’interno della sua prassi educativa. Inizialmente egli è convinto che in un contesto sociale e culturale in veloce trasformazione qual è il suo, l’educazione è il primo e più importante mezzo di prevenzione.[14] A tale persuasione, mai rinnegata, si aggiunge gradualmente la consapevolezza della necessità di una metodologia preventiva all’interno della prassi educativa.[15]

    La valenza preventiva dell’educazione nella società

    Don Bosco è convinto che l’educazione è il mezzo principale per costruire e rigenerare la società. Essa, infatti, coopera nel “conservare i buoni” e a “ridurre a far senno i discoli” e ciò equivale a fare azione sociale in quanto, egli afferma: «dalla buona o cattiva educazione [della gioventù] dipende un buono o tristo avvenire ai costumi della società».[16]
    Con l’educazione, invero, si raggiungono quei giovani immigrati dalle campagne alla ricerca di un lavoro che, sia durante la settimana come nei giorni festivi, sono completamente abbandonati a se stessi. È urgente, quindi, radunarli almeno alla domenica per evitare che spendano nei giochi o nelle ghiottonerie i pochi soldi guadagnati nella settimana. Lo stato di abbandono in cui essi si trovano è il primo fattore di rischio che porta questi ragazzi, talora ancora semplici fanciulli, a divenire ben presto “pericolanti per se e pericolosi per gli altri”.[17] L’esperienza di don Bosco conferma che se non si arriva in tempo, la soluzione carceraria, cui vanno incontro questi sfortunati, non solo non li migliorerà, ma si rivelerà una vera e propria scuola di delinquenza, rendendoli peggiori di prima. Avvallare l’idea della malvagità di queste persone, come alcune teorie del tempo sostengono, non regge all’evidenza dei fatti, che rivelano invece essere la mancanza di educazione la causa principale del fenomeno delinquenziale giovanile.
    La tesi è confermata dalla sperimentazione diretta di don Bosco con i ragazzi della Generala che egli va a trovare in carcere sin dall’inizio della sua permanenza a Torino. Così egli annota: «Mano in mano facevasi loro sentire la dignità dell’uomo, che è ragionevole e deve procacciarsi il pane della vita con oneste fatiche e non col ladroneccio; appena insomma facevasi risuonare il principio morale e religioso alla loro mente, provavano in cuore un piacere di cui non sapevano darsi ragione, ma che loro faceva desiderare di essere più buoni».[18]
    Con questi successi don Bosco si presenta alle autorità cittadine difendendo l’efficacia e la validità del suo operato. Al Vicario della città, il Marchese Cavour, perplesso e reticente nei confronti degli oratori appena fondati, don Bosco replica: «Io non ho altro di mira che migliorare la sorte di quei poveri figli, che se il municipio mi vuole solo assegnare un locale, ho fondata speranza di poter diminuire assai il numero di quelli che vanno in prigione».[19] Così pure, nel dialogo con il Ministro dell’Istruzione Urbano Rattazzi, egli segnala l’utilità dell’applicazione del Sistema preventivo nelle scuole pubbliche e nelle case di educazione.[20] Il Ministro, dal canto suo, loda l’opera di don Bosco perché «coopera efficacemente a scemare gli inquilini delle prigioni, ed a formare dei savii cittadini, nel mentre che ne fa dei buoni cristiani».[21]
    L’efficacia sociale dell’opera educativa di don Bosco è confermata anche nelle fonti coeve. Nel 1849, il giornale cattolico L’Armonia annota: «Nel semplice e modesto Oratorio [don Bosco] distribuisce ai giovanetti quella istruzione che sopra tutte le altre discipline è sola necessaria, l’istruzione religiosa; egli li accostuma a praticare i loro doveri, ad esercitare il vero culto di Dio, a convivere amichevolmente e socievolmente l’uno coll’altro. Accanto all’Oratorio si trovano scuole in cui s’insegnano a quella gioventù i primi elementi delle lettere e del calcolo, vi è pure l’accennato recinto in cui i giovanetti, nei giorni festivi e nelle ore di ricreazione, si sollevano con giuochi innocui e con innocenti trastulli, passando quel tempo nell’onesta allegria che tanto giova alla sanità del corpo e della mente, specialmente in quella tenera età. In mezzo ad essi trovasi ognora D. Bosco, il quale è costantemente ad essi maestro, compagno, esemplare ed amico. […] Il bene che si fa è immenso. Tutti quei ragazzi, i più dei quali sarebbero cresciuti nell’ignavia e nel vizio, s’incamminano alla virtù ed al lavoro. Infatti, il loro zelante precettore ed amico cerca per essi con tutto impegno qualche onesto artiere che consenta ad accettargli presso di sé a tirocinio dell’arte sua, e l’essere un ragazzo proposto da D. Bosco come suo alunno presenta ai padroni di bottega una guarentigia di moralità che gli rende facili ad accoglierlo presso di loro, onde avviarlo nell’esercizio della propria professione. Così, da quel semenzaio di onesti operai escono ogni anno in buon numero adolescenti che sono in caso di provvedere ai proprii bisogni, e che conserveranno, giova sperarlo, nel lungo decorso della loro vita l’abito di quella moralità a cui i loro teneri animi furono informati».[22]
    Man mano che l’opera di don Bosco si consolida e si espande risulta anche sempre più evidente l’originalità del suo approccio preventivo. Nel 1878 vengono tradotte dal francese e pubblicate le Memorie del Conte Carlo Conestabile con il titolo: Opere religiose e sociali in Italia.[23] Secondo l’Autore, le caratteristiche del metodo di don Bosco si raccolgono attorno alla preventività che si esprime nelle “maniere affabili e gioviali” con le quali l’educatore «si guadagna la confidenza e l’affezione di coloro che a lui si presentano». Nella sua istituzione di Torino – Valdocco, «egli ha attuato l’ideale vagheggiato dai legislatori: anziché reprimerla, si previene la colpa; e questo sistema finora di sì difficile applicazione in qualunque altro luogo, in questo stabilimento produce stupendi risultati».[24] Il metodo utilizzato è quello della vigilanza e del richiamo alla coscienza morale e religiosa del giovane, in clima di libertà: «in tutte le officine e intorno ai grandi cortili di ricreazione, sulle muraglie leggonsi massime di saggezza e di pietà […]. Don Bosco mantiensi fedele al principio messo in pratica fino all’esordire della sua opera: ei non fa forza né violenza alle coscienze, ma procura con una santa perseveranza di piegarle dolcemente sotto il giogo di Dio».[25] E concludendo, l’Autore assicura: «Presentemente in Europa è riconosciuto il valore dei metodi di don Bosco, e ben di sovente, nei casi difficili, si ricorre a lui».[26]
    Le idee di don Bosco circa il valore sociale del preventivo nell’educazione, si sviluppano con il tempo e l’esperienza. La fine degli anni Settanta può essere considerato un momento nel quale il santo educatore ha ormai elaborato le sue convinzioni. Ne fanno fede due documenti: l’opuscolo sul Sistema preventivo nella educazione della gioventù del 1877, espressione sintetica ma matura del suo modo di educare nelle sue istituzioni, e il Promemoria per il ministro Francesco Crispi del 1878.[27] Nello scritto, che porta il medesimo titolo dell’opuscolo, don Bosco rivela la dimensione socio-politica del suo metodo. Il fenomeno dei giovani abbandonati è in aumento rispetto agli anni in cui egli aveva iniziato a Valdocco la sua opera, anche in conseguenza dei massicci fenomeni di trasformazione sociale. Per questo, egli vede il discorso preventivo a partire dal funzionamento delle strutture educative e rieducative in accordo tra iniziativa privata e pubblica. Dopo aver definito chi sono i giovani pericolanti, ipotizza gli interventi più opportuni, che coincidono con le opere da lui intraprese e per le quali intravede l’azione dei privati sostenuti dallo stato a livello di sussidi e strutture.[28]

    Il criterio preventivo come principio orientativo della pratica educativa di don Bosco

    Assieme alla consapevolezza della ricaduta positiva dell’educazione preventiva nella società, don Bosco si convince per esperienza del valore pedagogico del principio preventivo all’interno della sua pratica educativa. Tale criterio illumina e orienta gradualmente tutto il metodo: la visione del giovane, i fini e gli obiettivi educativi, i contenuti e i mezzi, le relazioni educative, l’ambiente e le attività proposte. Esiste, cioè, un modo “preventivo” di essere educatori che comporta una particolare maniera di pensare i giovani, di stare in mezzo a loro “amando ciò che loro amano” e facendo proposte che coinvolgono dinamicamente tutto il giovane e tutti i giovani. Una forma di pensare la comunità educativa in azione convergente attorno ad un progetto contestualizzato nella realtà e in interazione con il territorio. È un “pensare” in chiave preventiva nel senso ampio del termine, quindi non solo evitando esperienze negative e riducendo al minimo i rischi attraverso una vigilanza di controllo, ma soprattutto predisponendo azioni intenzionalmente educative che promuovano la crescita integrale dei giovani. Dunque, afferma Pietro Braido, tutta la prassi educativa di don Bosco è “preventiva”. «Essa, infatti, è essenzialmente progettuale, previsionale e propositiva, impegnata nel presente a garantire il futuro, temporale e spirituale, dei giovani, di ciascun giovane, e della società civile e religiosa, in cui sono chiamati ad operare; e correlativamente, a predisporre istituzioni e persone disponibili ad assicurare continuità e dinamicità a tale impegno».[29]
    Per giustificare tale affermazione occorrerebbe a questo punto soffermarsi in una disamina puntuale di tutti gli elementi del metodo educativo di don Bosco per coglierne l’intrinseca caratteristica preventiva. Il lavoro comporterebbe uno spazio molto maggiore di quello a disposizione pertanto ci si limita sintetizzare la riflessione attorno a tre nuclei fondamentali del metodo che possono in certo modo fungere da sua chiave interpretativa.

    a. La relazione: luogo privilegiato di preventività

    «L’anima o la sostanza del sistema preventivo consiste nel mettersi lealmente e totalmente dalla parte del ragazzo […] in tutto quello che egli è e in quello che egli deve essere, in quello che può e deve diventare».[30] Questa affermazione del pedagogista salesiano Gino Corallo rinvia alla visione positiva e realista che don Bosco ha dei giovani. Essa è permeata di “amore preventivo” nel senso che fa credito al giovane in forma gratuita e libera. L’amore dell’educatore, infatti, è segno e mediazione dell’amore che Dio porta all’uomo, da Lui creato a sua immagine e somiglianza. Dio ama tutta l’umanità e ogni uomo personalmente, ma, secondo il Nostro, più di tutti ama i giovani. Essi sono la sua delizia e il suo amore. Egli li ama perché sono ancora in tempo a fare il bene e perché vivono una fase della vita caratterizzata dalla semplicità, dall’umiltà e dall’innocenza.[31] Prima responsabilità di un educatore cristiano è tutelare questa innocenza difendendola dalle cattive influenze e predisponendo quelle positive.
    Nel dialogo con il Maestro Francesco Bodrato don Bosco giustifica tale convinzione a partire dalla sua esperienza di contatto con la gioventù.[32] Egli ha potuto costatare che i giovani hanno una «naturale intelligenza per conoscere il bene che loro viene fatto personalmente, ed insieme sono pure dotati di un cuore sensibile facilmente aperto alla riconoscenza».[33] Intelligenza e cuore vanno educate attraverso la persuasione e l’amore, strategie metodologiche e principi di trasformazione dell’animo giovanile. L’obiettivo di questa azione educativo/preventiva è di raggiungere la coscienza dei giovani attraverso la proposta dell’amore di Dio che racchiude in sé tutto il mistero della fede cristiana ed è principio educativo dinamico di crescita. Quando l’educatore arriva a «far vibrare nel loro cuore la corda della riconoscenza che gli si deve in cambio dei benefizi che ci ha largamente compartiti; quando finalmente con le molle della ragione si abbiano fatti persuasi che la vera riconoscenza al Signore debba esplicarsi coll’eseguirne i voleri, col rispettare i suoi precetti […], gran parte del lavoro educativo è fatto».[34] E ancora, rivolgendosi al Bodrato, conclude: «Religione vera, religione sincera che domina le azioni della gioventù, ragione che rettamente applichi quei santi dettami alla regola di tutte le sue azioni, eccole in due parole compendiato il sistema da me applicato».[35]
    L’amore, o se si vuole “l’amorevolezza” dell’educatore, in questo processo ha l’essenziale funzione di innescare la risposta positiva e la collaborazione cordiale del giovane, conditio sine quae non di autenticità dell’opera formativa. Il bene ricevuto, infatti, si trasforma in bene donato perché la percezione di essere amabili e il ricevere amore è principio conoscitivo della realtà e spinge la volontà a decidersi per il bene. Questo bene gratuito, dall’educatore metodologicamente trasformato in “amore dimostrato”, è il principio cardine di questo sistema dove il prevenire esprime tutte le sue molteplici dimensioni così descritte da Pietro Braido: «prevedere, precorrere, arrivare prima, precedere, anticipare, preoccuparsi, accogliere, preannunziare, preavvertire, agire prima, provvedere. Sul piano effettivo significa: fare il primo passo, cercare, andare incontro, avvicinare, essere accessibili disponibili amabili, accogliere, ispirare fiducia, favorire la confidenza, incoraggiare; ed anche, precedere come guida e, poi, accompagnare, consigliare. L’atteggiamento dell’educatore è, quindi, ispirato all’amore preveniente di Dio, che sempre prende l’iniziativa: crea, redime, perdona; di Cristo che viene tra noi, che provoca e esaudisce l’invocazione; dello Spirito Santo che previene ispirando, continua aiutando, è all’inizio, nel corso e al termine di ogni azione salvifica. È lo stile universale di essere “presente”, di “essere per”, che è poi la sostanza dell’“assistere”». [36]
    Il ruolo dell’educatore è sempre e comunque preponderante ed essenziale. Nel breve decalogo che introduce il Regolamento per le Case, scritto nel 1877, don Bosco parla ancora dell’assistenza con un’interessante precisazione all’art. 3: «Nell’assistenza poche parole, molti fatti».[37] Tale espressione, sul piano del comportamento, - commenta Pietro Braido - «sembrerebbe esigere dall’educatore sobrietà, riservatezza, soprattutto concretezza, che nulla dovrebbe detrarre all’immediatezza, cordialità, amabilità delle relazioni. Quanto al contenuto, invece, il riferimento ai “fatti” potrebbe essere spiegato in anticipo dall’amore “effettivo”, non retorico raccomandato nell’articolo precedente: “colle parole, e più ancora coi fatti, farà conoscere che le sue sollecitudini sono dirette esclusivamente al vantaggio spirituale e temporale de’ suoi allievi”».[38]
    L’amore personalizzato, affettivo ed effettivo, sintesi di amore e timore,[39] che inabita l’educatore è anche il miglior criterio che ispira le forme di assistenza adatte alle diverse indoli dei giovani. Con i buoni, che non hanno bisogno di particolare sostegno essendo abbastanza autonomi e coerenti, gli interventi devono essere estremamente sobrii; con quelli di indole ordinaria, e quindi maggiormente volubili e portati all’indifferenza, bisogna che l’educatore dimostri maggiori sollecitudini attraverso brevi ma frequenti raccomandazioni, avvisi e consigli, incoraggiamenti all’impegno, che verrà gratificato con piccoli premi e con dimostrazioni di fiducia. Con la terza categoria, quella dei ragazzi difficili, l’azione preventiva esprime le sue massime potenzialità: «il superiore si adoperi per conoscerli, s’informi della loro passata maniera di vivere, si mostri loro amico, li lasci parlare molto, ma egli parli poco ed i suoi discorsi siano brevi esempi, massime, episodi e simili. Ma non si perdano mai di vista senza dar a divedere che si ha diffidenza di loro».[40] Sembra, commenta Pietro Braido, che con questa categoria l’esortazione “poche parole e molti fatti”, dispieghi la sua massima efficacia.
    Se si facesse un confronto fra i diversi livelli di prevenzione primaria, secondaria e terziaria e i diversi modi di approccio relazionale auspicato qui da don Bosco si potrebbe vedere come, per il santo educatore, più il grado di problematicità educativa aumenta, e più è necessario un intervento propriamente educativo e non soltanto di contenimento, svelando così le virtualità pedagogiche del concetto preventivo dell’educazione salesiana.

    b. La comunità: condizione essenziale per l’educazione preventiva

    Essendo preventiva quell’educazione che si svolge nell’impegno di una continua presenza tra i giovani e con i giovani, la comunità è il luogo naturale e ideale in cui questa si realizza per mezzo del variegato, ampio e complesso raggio di interazioni che esso comporta.
    La dimensione comunitaria è elemento che garantisce l’autenticità della pedagogia preventiva donboschiana. Essa, che prende il nome di “pedagogia di ambiente”,[41] non è facile da descrivere in quanto più che idea è una realtà comprensibile nel momento in cui la si attualizza vivendola. Sono infatti le relazioni, improntate ad un inconfondibile stile familiare, che costruiscono tale clima. Esso si dà attorno al supremo principio che è l’amorevolezza, fulcro che “polarizza metodologicamente” la ragione e la religione. Il principio di famiglia diventa pertanto la chiave interpretativa della struttura, dello stile di vita e di convivenza di Valdocco e fa un tutt’uno con il metodo educativo. A tale paradigma si ispirano le relazioni interpersonali: fraterne, spontanee, semplici, sincere; come pure l’impostazione della comunità che si presenta ordinata e ben organizzata, ma non irrigidita in schemi fissi perché è a servizio delle esigenze vitali del giovane.
    Una delle immagini più suggestive di questo ambiente si trova nella lettera di don Bosco da Roma del 1884. Qui l’ex allievo Sebastiano Valfrè rammenta il clima festoso dell’antico oratorio nell’ora della ricreazione: «Era una scena tutta vita, tutta moto, tutta allegria. Chi correva, chi saltava, chi faceva saltare. […] In un luogo era radunato un crocchio di giovani che pendeva dal labbro di un prete il quale narrava una storiella. […] Si cantava, si rideva da tutte le parti e dovunque chierici e preti e intorno ad essi i giovani che schiamazzavano allegramente. Si vedeva che fra i Superiori e i giovani regnava la più grande cordialità e confidenza. […] Valfrè mi disse: “Vede: la familiarità porta amore, e l’amore porta confidenza. Ciò è che apre i cuori e i giovani palesano tutto senza timore ai maestri, agi assistenti ed ai Superiori. Diventano schietti in confessione e fuori di confessione e si prestano docili a tutto ciò che vuol comandare colui dal quale sono certi di essere amati”».[42]
    I ragazzi sono ritratti nell’ambiente loro più consono: il cortile pervaso del caratteristico clima di spontaneità e allegria. Questo, oltre che luogo fisico, è paradigma pedagogico attraverso cui rileggere e verificare la qualità educativa di una comunità. Il protagonismo dei giovani che pervade il cortile non è individualista e isolato, chiuso e diffidente, al contrario, può darsi in forza della fiducia che essi percepiscono da parte dei loro educatori, i quali sono “l’anima” di questa ricreazione. All’occhio attento non sfugge come questa sia predisposta, vivificata e condotta dagli adulti, ma discretamente e rispettosamente, in modo da far sembrare che tutto proceda nella più totale spontaneità. È questa presenza attiva e corale a far sprigionare dall’ambiente le sue potenzialità educative come rilevava il terzo successore di don Bosco, don Filippo Rinaldi: «Il metodo salesiano è il metodo della “libertà”: i ragazzi hanno dieci assistenti e non sentono alcuno; non se sentono, cioè l’imposizione; non si trovano in Collegio, ma in famiglia».[43] La costante assistenza/presenza vissuta dalla comunità è la condizione essenziale dell’educazione perché «non è una vigilanza di repressione, ma un aiuto costante, una integrazione della labilità e della mobilità dei giovani […] ed ha la funzione traente analoga a quella del raggio del sole che fa venire su lo stelo della pianta».[44] Essa è una «forza unitaria in cui ogni persona è ambasciatrice di ogni altra e concorre, nei limiti delle sue capacità, solidalmente all’edificazione di tutti».[45]
    Emerge qui un’altra importante caratteristica preventiva della comunità e cioè la coralità dell’intervento educativo, realtà che non si dà a priori e che necessita di impegno per essere costruita. Essa si realizza gradualmente e dinamicamente «nel permanente contatto con tutti i collaboratori compresi i giovanissimi in formazione, in un intenso scambio di idee, punti di vista, consigli e avvisi, nel quale tutti sono insieme educatori ed educandi, soggetti e destinatari di un non fittizio “discorso pedagogico”».[46] Questo scambio continuo e profondo, dal quale non è esclusa una certa dialettica, è necessario per convergere attorno al progetto preventivo ed esprime al meglio la caratteristica sistemica del metodo, ovvero la convinzione che tutto quanto è predisposto nell’ambiente: i contenuti, le attività, gli interventi degli educatori e di tutto il personale – anche di coloro che non sono direttamente responsabili dell’opera –, le relazioni educative a tutti i livelli, contribuisce a realizzare l’azione preventiva in un intreccio dinamico che influisce positivamente sui giovani. È un’idea di “sistema” che pur non teorizzata, è di moda nell’Ottocento, secolo in cui nasce la pedagogia scientifica, perché esalta l’idea di completezza e organicità di una proposta formativa.
    Don Bosco, di fatto, accosta nella pratica l’idea di sistema impegnandosi perché tutti i membri dell’oratorio ne siano attivi costruttori. Ad esempio, in una buona notte del 1864, utilizzando la metafora dell’alveare applica l’idea alla vita oratoriana evidenziando come il microcosmo educativo, che ivi si costruisce, prepari i giovani a vivere nel futuro macrocosmo sociale in forma solidale e partecipativa: «Desidero che impariate a fare il miele come fanno le api. Sapete come fanno le api a produrre il miele? Con due cose principalmente. 1° Non lo fanno ciascuna da sola, ma sono sotto la direzione di una regina che obbediscono in ogni circostanza; e poi sono tutte insieme e si aiutano a vicenda. 2° La seconda cosa si è che vanno raccogliendo qua e là i succhi dei fiori: ma notate; non raccolgono già tutto quello che trovano, ma ora vanno su di un fiore, ora si posano su di un altro e da ciascheduno pigliano solamente ciò che serve a fare il miele. Il miele è il bene compiuto da ognuno ed insieme colla pietà, collo studio, e coll’allegria. […] L’insieme è garantito dall’obbedire alla regina, cioè alla regola ed ai superiori. L’essere molti insieme accresce l’allegria, serve di incoraggiamento a sopportare le fatiche dello studio, serve di stimolo nel vedere il profitto degli altri; uno comunica all’altro, le proprie cognizioni le proprie idee e così uno impara dall’altro. L’essere fra molti che fanno il bene ci anima senza avvedercene».[47]

    c. La progettualità: strategia per l’attuazione della prevenzione educativa

    La dimensione comunitaria e sistemica del metodo preventivo di don Bosco rimanda senza soluzione di continuità alla progettualità. Preventivo, infatti, è sinonimo di preparato, predisposto, progettato appunto.
    Se non è possibile prescindere da questa costatazione, tuttavia non è sempre stato facile comprenderla in modo corretto. Alcune affermazioni di don Bosco sono state stralciate dal contesto in cui egli le pronunciò e in certo modo assolutizzate prestando il fianco a fraintendimenti.[48] Da un lato, alcune riletture hanno dato l’idea che don Bosco assecondasse una certa improvvisazione nel suo agire educativo, dall’altro, una rilettura “soprannaturalistica” del Sistema preventivo, diffusa soprattutto nella prima metà del Novecento, l’ha interpretato come una realtà “mitica” o “mistica” fissata da principio. La storia, che si va pazientemente ricostruendo attraverso la ricerca e lo studio delle fonti, rivela al contrario che la vocazione di don Bosco – che si identifica con il suo progetto educativo – si è andata realizzando in modo dinamico, graduale e progressivo, come è di tutte le vicende umane, in stretta relazione con le esigenze dei soggetti e della storia.
    Tale progetto è tutto orientato alla salvezza integrale della gioventù, realizzato con originalità a partire da un’azione sempre innervata di riflessione. Le espressioni più mature e riflesse della progettualità preventiva, si trovano nel decennio 1876-86, ultimo della vita di don Bosco, nel tempo in cui le sintesi sono comprovate dalla lunga esperienza educativa.
    Nel 1877, dando ragione di un operare a favore della gioventù che spesso incontrava ostacoli e impedimenti, don Bosco affermava: «Siamo in tempi, in cui bisogna operare […]. Il mondo attuale vuole vedere le opere, vuole vedere il clero lavorare a istruire e a educare la gioventù povera e abbandonata, con opere caritatevoli, con ospizi, scuole, arti, mestieri … E questo è l’unico mezzo per salvare la povera gioventù istruendola nella religione e quindi di cristianizzare la società».[49]
    Il verbo “operare” descrive il carattere originale del progetto donboschiano che Braido definisce appunto “operativo” piuttosto che “educativo” o “pastorale”. In forza di questa operatività esso si può delineare come una riuscita sintesi di tradizione e novità. Da un lato, infatti, egli àncora i fini del suo agire educativo all’idea della società cristiana,[50] da realizzare ponendo al centro dei propri sforzi il conseguimento della salvezza religiosa e dunque lo specifico cristiano. Questa, d’altra parte, è collocata in un quadro più ampio e globale di intervento in cui la dimensione umana è «sinceramente, intrinsecamente e non solo strumentalmente apprezzata e utilizzata».[51]
    Definendolo quale «incomparabile esempio di umanesimo pedagogico cristiano», Paolo VI ne ha evidenziato l’intrinseca unità e integralità. L’educazione preventiva, infatti, tende a promuovere la massima espansione umana e religiosa, individuale e sociale dei giovani.[52]
    La stessa intuizione è confermata da Giovanni Paolo II che, nella lettera Iuvenum Patris descrive il Sistema preventivo quale «complesso di procedimenti, fondati su convinzioni di ragione e di fede» al cui centro c’è la carità pastorale.[53] La ragione, «secondo l’autentica visione dell’umanesimo cristiano», sottolinea «il valore della persona, della coscienza, della natura umana, della cultura, del mondo del lavoro, del vivere sociale, ossia di quel vasto quadro di valori che è come il necessario corredo dell’uomo nella sua vita familiare, civile e politica».[54] La religione, lontana dalla speculazione e dall’astrattezza, rappresenta invece una «fede viva, radicata nella realtà, fatta di presenza e di comunione, di ascolto e di docilità alla grazia».[55]
    Questo progetto si realizza in un ambiente dove si respira familiarità e amorevolezza, in cui “la giovanilità” è messa al centro e rispettata nelle sue caratteristiche e manifestazioni, in cui il punto di vista degli ideali è considerato a partire «dall’angolo visivo dei giovani, dei loro interessi e capacità».[56] È, in altre parole, una lettura della domanda educativa operata in chiave preventiva, cioè orientata da profonde intuizioni, precise opzioni e criteri metodologici quali: «l’arte di educare in positivo, proponendo il bene in esperienze adeguate e coinvolgenti, capaci di attrarre per la loro nobiltà e bellezza; l’arte di far crescere i giovani dall’“interno”, facendo leva sulla libertà interiore, contrastando i condizionamenti e i formalismi esteriori; l’arte di conquistare il cuore dei giovani per invogliarli con gioia e con soddisfazione verso il bene, correggendo le deviazioni e preparandoli al domani attraverso una solida formazione del carattere».[57]
    Questa “operatività”, che caratterizza il metodo di don Bosco, impregnata di intenzionalità pedagogica e di attenzione alla realtà personale e ambientale dei destinatari/protagonisti della proposta, è forse l’eredità più preziosa che don Bosco consegna agli educatori che si ispirano al suo Sistema preventivo. Essa, infatti, non tramonta e non invecchia, ma anzi, è sempre attuale perché consegna «uno strumento, il suo spirito, capace di accogliere e di piegare a vantaggio dell’educazione qualunque cosa nuova che i nuovi tempi portano e richiedono».[58]

    Spunti conclusivi

    Con il presente studio si è inteso offrire un quadro sintetico per comprendere il senso dell’azione educativa preventiva di don Bosco. Per questo si è collocata la sua proposta nel contesto pedagogico dell’Ottocento, secolo nel quale convivono molte e diverse concezioni di preventività ed in cui don Bosco elabora e sperimenta la sua. In lui, uomo del suo tempo, permangono, almeno nella formulazione teorica, l’idea preventiva e quella promozionale. La prima è più legata alla sua visione di società ideale, ancorata al passato, ma è anche quella che influisce di meno sulla sua prassi educativa, tutta orientata alla “rigenerazione” del mondo giovanile, il cui significato va ben oltre al semplice preservare la società dai devianti. Don Bosco, infatti, sia a livello di riflessione, come pure nell’esperienza diretta, si distanzia in parte dalla tradizione preventiva precedente, “restaurandola e rinnovandola”.[59] Per don Bosco, dunque, il prevenire è sinonimo di «una capillare e complessa operazione di educazione, rieducazione, recupero, valorizzazione dei giovani marginali».[60]
    Il prevenire, per lui, non si riduce alla dimensione interna all’educazione, ma ha pure una valenza sociale e culturale, mediata dall’opera dell’educatore, il quale anticipa ritmi di sviluppo offrendo al giovane le proposte adatte per farne un buon cristiano e un onesto cittadino, protagonista attivo della Chiesa e della società.
    Pur collocandosi nel solco della pedagogia cattolica, quindi, egli arricchisce il criterio preventivo soprattutto attraverso la sua straordinaria intuizione e abilità educativa. Egli, “artista” dell’educazione, ha saputo “reagire vitalmente” e assimilare tutto il buono che i suoi tempi gli offrivano. Da qui è scaturito il “suo” Sistema preventivo, saldamente radicato nella visione cristiana della persona e della realtà, e aperto ai bisogni dei tempi, agile e flessibile, mai imprigionato in strutture rigide, e facilmente adattabile ad altri contesti e in diversi tempi.
    È un metodo che porta nell’intimo della sua struttura «la mentalità realistica, quasi opportunistica – “prudenziale”! - di un uomo e di un santo proteso a rispondere ai problemi, sempre e dappertutto, “secondo i bisogni dei tempi”».[61] È probabilmente questo “principio preventivo”, che in certo modo racchiude il sistema con le sue sempre vive e vitali ispirazioni e strategie metodologiche, comprovate dalla riflessione e dall’esperienza, l’elemento permanente del metodo. E anche se don Bosco non può offrire nel campo della prevenzione «un sistema compiuto e immediatamente operabile» restano sempre vive e vitali le forti ispirazioni di base, le grandi idee orientative sorte da una visione razionale e di fede della vita e maturate in una esperienza creativa e straordinariamente efficace tra i giovani.[62]
    I tre nuclei individuati come luoghi privilegiati di applicazione del criterio preventivo: la relazione, la comunità e il progetto, potrebbero essere interessanti prospettive per continuare la rilettura e l’attualizzazione della preventività educativa oggi. Inoltre, si potrebbero porre in dialogo le categorie preventive emerse con le sfide provenienti dalla riflessione e dalla pratica educativa contemporanea in cui la preventività continua ad essere una tematica dibattuta ed approfondita, generando punti di vista e metodi di intervento diversi e complementari. La proposta che si ispira a don Bosco e al suo metodo preventivo, infatti, ha un contenuto originale e attuale da offrire, per arginare alcune facili derive in cui si può rischiare di cadere considerandone soprattutto la valenza protettivo/difensiva e lasciando in ombra quella educativo/promozionale.

    (Pubblicato in Rivista di Scienze dell’Educazione 53(2015)1, 82-98)

     
    NOTE

    [1] Cf la ricostruzione storica di Pietro Braido, Breve storia del «sistema preventivo», Roma, LAS 1993.

    [2] Cf Braido Pietro, Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di don Bosco, Roma, LAS 1999, 11-45.

    [3] Cf ivi 23-24.

    [4] Cf Milanesi Giancarlo, Sistema preventivo e prevenzione in don Bosco, in Nanni Carlo (a cura di), Don Bosco e la sua esperienza pedagogica: eredità, contesti, sviluppi, risonanze. Atti del 5° Seminario di «Orientamenti Pedagogici» Venezia-Cini 3-5 ottobre 1988, Roma, LAS 1989, 155. L’idea dell’educazione come prevenzione, venga essa attuata con metodi “repressivi” o “preventivi”, compare in autori come il Morichini, l’Aporti, il Degérando, il Pettiti di Roreto (cf Braido, Prevenire non reprimere 30-38).

    [5] Cf Milanesi, Sistema preventivo e prevenzione 150-151.

    [6] Cf l. cit.; Id., Il nuovo concetto di prevenzione: una riflessione sociologica, in Aa.Vv., Emarginazione giovanile e pedagogia salesiana, Leumann (Torino) Elledici 1986, 219-239.

    [7] Cf Id., Sistema preventivo e prevenzione 153.

    [8] Cf Braido, Prevenire non reprimere 7.

    [9] Cf Rosmini Serbati Antonio, Epistolario completo, vol. V, Casale Monferrato, Tip. Giovanni Pane 618-620. Secondo il Dupanloup, invece, interventi repressivi o preventivi rappresentano due momenti della stessa azione educativa volta a disciplinare la volontà e a forgiare il carattere e che possiede quindi una triplice funzione: repressiva, preventiva, direttiva. La prima è strumento di sanzione delle trasgressioni; la seconda ha la funzione di anticipare la violazione delle norme attraverso la vigilanza; la terza contribuisce al mantenimento delle condizioni di esecuzione delle norme educative (cf Dupanloup Felix, L’educazione per monsignor Felice Dupanloup vescovo d’Orleans membro dell’Accademia francese. Versione italiana di D. Clemente De Angelis, vol I, lib. III, cap. III la Disciplina, Parma, Fiaccadori 1868-1869, 177-178). Don Bosco, afferma Gino Corallo, «esclude esplicitamente il sistema repressivo dall’ambito dell’educazione, definendolo un sistema di governo per adulti, e poi fonde tacitamente insieme gli elementi che Dupanloup aveva assegnati al momento preventivo e a quello direttivo, rifiutandosi così di separare il lavoro con cui si previene il male nell’animo dell’educando dal momento in cui gli si innesta l’elemento buono» (Corallo Gino, Il metodo educativo salesiano. L’eredità di Don Bosco, Catania, Tip. Scuola Salesiana del Libro 1979, 16).

    [10] Braido, Prevenire non reprimere 8-9.

    [11] Cf Bosco Giovanni, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1855. Saggio introduttivo e note storiche a cura di Aldo Giraudo, Roma, LAS 2011, 124-127; 132-134 (d’ora in poi MO).

    [12] Cf MO 163; Braido, L’esperienza pedagogica di Don Bosco, Roma, LAS 1988, 57-61.

    [13] Cf Braido, Prevenire non reprimere 125-137.

    [14] Cf Id., Il Sistema preventivo di don Bosco alle origini (1841-1862). Il cammino del “preventivo” nella realtà e nei documenti, in Ricerche Storiche Salesiane 14 (1995) 2, 255-320.

    [15] Cf Id., L’esperienza pedagogica di don Bosco nel suo “divenire”, in Nanni (a cura di), Don Bosco e la sua esperienza pedagogica 11-39.

    [16] Bosco Giovanni, Costituzioni della Società di S. Francesco di Sales [1858] – 1859. Testi critici a cura di Francesco Motto, Roma, LAS 1982, 58.

    [17] Id., Cenno storico dell’Oratorio di S. Francesco di Sales [1854], in Braido Pietro (a cura di), Don Bosco educatore. Scritti e testimonianze, Roma, LAS 1999, 113. D’ora in poi DBE.

    [18] Bosco Giovanni, Cenni storici intorno all’Oratorio di S. Francesco di Sales [1862-63], in DBE 135.

    [19] Id., Cenno storico, in DBE 119.

    [20] Cf Id., Conversazione con Urbano Rattazzi [1854], in DBE 87.

    [21] Ivi 78.

    [22] Anonimo, L’Oratorio di S. Francesco di Sales, in L’Armonia della religione con la civiltà 2(1849) n. 40, lunedì 2 aprile 158-159. L’articolo è riportato da Pietro Braido, in DBE 48-50.

    [23] Opere religiose e sociali in Italia. Memorie del conte Carlo Conestabile. Traduzione dal testo francese, Padova, Tip. del Seminario 1878.

    [24] Ivi 19-20.

    [25] Ivi 20-22.

    [26] Ivi 29.

    [27] Cf Bosco Giovanni, Il Sistema preventivo nell’educazione della gioventù [1877], in DBE 258-266; Id., Il Sistema preventivo applicato tra i giovani pericolanti [1878]. Promemoria per il ministro Francesco Crispi. Il Sistema preventivo nella educazione della gioventù, in DBE 291-294.

    [28] Sul Sistema preventivo in chiave progettuale, cf Braido Pietro, Il progetto operativo di Don Bosco e l’utopia della società cristiana = Quaderni di Salesianum 6, Roma, LAS 1982, 22-28; Id. (a cura di), Esperienze di pedagogia cristiana nella storia, Roma, LAS 1981, vol. 2, 346-347; 349-350.

    [29] Braido Pietro, La prassi di don Bosco e il Sistema preventivo. L’Orizzonte Storico, in Martinelli Antonio – Cherubin Giuseppe (a cura di), Il Sistema preventivo verso il terzo millennio, Atti della XVIII Settimana di Spiritualità della Famiglia Salesiana, Roma, Salesianum 26-29 gennaio 1995, Roma, SDB 1995, 119.

    [30] Corallo Gino, Il metodo educativo salesiano. L‘eredità di don Bosco, Catania, Tip. Scuola Salesiana del Libro 1979, 20.

    [31] Cf Bosco, Il giovane provveduto per la pratica de’ suoi doveri, degli esercizi di cristiana pietà, per la recita dell’Uffizio della Beata Vergine e de’ principali Vespri dell’anno coll’aggiunta di una scelta di laudi sacre (1847), in Id., Opere Edite II (1846-1847), Roma, LAS 1976, 190-191.

    [32] Cf ad esempio le Vite dei giovani nelle quali è documentata in forma narrativa tale convinzione. Domenico Savio, Michele Magone e Francesco Besucco, pur nella diversità che li caratterizza, sono tre esempi di educazione riuscita in cui l’educatore sapiente ha saputo offrire a ciascuno, nel momento favorevole, le proposte adatte per promuovere e valorizzare le proprie risorse aprendosi al progetto di vita cristiano ed aderendo alle sue proposte di valore in modo totale al punto da raggiungere, nel caso del Savio, la santità riconosciuta (cf Bosco Giovanni, Vite di Giovani. Le biografie di Domenico Savio, Michele Magone e Francesco Besucco, saggio introduttivo e note storiche a cura di Aldo Giraudo, Roma, LAS 2012).

    [33] Bosco Giovanni, Conversazione con il Maestro Bodrato, in DBE 196.

    [34] Ivi 197.

    [35] L. cit.

    [36] Braido Pietro, La prassi di don Bosco e il Sistema preventivo, in MartinelliCherubin (a cura di), Il Sistema preventivo verso il terzo millennio 153-154.

    [37] Bosco Giovanni, Gli «Articoli generali» del «Regolamento per le case» [1877], in DBE 281-282.

    [38] Braido, Introduzione agli “Articoli generali”, in DBE 276.

    [39] Nella citata introduzione Pietro Braido ricostruisce le dipendenze e presenta le fonti cui don Bosco attinse per redigere gli Articoli generali facendo notare come il binomio “amore-timore” sia una formula ricchissima a livello pedagogico e spirituale risalente al governo politico, alla figura del buon principe e all’area monastica e religiosa. Lo stesso don Bosco enunciò tale principio in molti suoi scritti quali, ad esempio, la Storia d’Italia del 1855, i Cenni storici intorno all’Oratorio di S. Francesco di Sales del 1862, i Ricordi confidenziali ai direttori del 1863, le Memorie dell’Oratorio del 1873, la Circolare sui castighi del 1883 ed infine, le Memorie dal 1841 al 1884-5-6.

    [40] Bosco, Gli «Articoli generali» del «Regolamento per le case» [1877], in DBE 282.

    [41] Cf Braido, Prevenire non reprimere 305. Il primo ad utilizzare i termini: pedagogia di ambiente, fu lo storico Alberto Caviglia per descrivere la comunità di Valdocco e la sua valenza pedagogica ai tempi di Domenico Savio (cf Caviglia Alberto, La vita di Savio Domenico e «Savio Domenico e don Bosco». Studio di A. Caviglia, Torino, S.E.I. 1942, 286).

    [42] Bosco Giovanni, Lettera alla comunità salesiana di Torino Valdocco, Roma, 5 maggio 1884, in DBE 378-379.

    [43] Rinaldi Filippo, Conferenze di don Filippo Rinaldi, SDB, sulla pratica del sistema preventivo tenute alle Suore di Nizza Monferrato dal 19 al 21 febbraio 1917, su richiesta della Madre generale Madre Caterina Daghero, in Archivio Generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice (AGFMA) 412.3-121 dattiloscritto.

    [44] Corallo, Il metodo educativo salesiano 21-22.

    [45] Ivi 27.

    [46] Braido Pietro, “Un nuovo prete” e la sua formazione culturale secondo Don Bosco, in Ricerche Storiche Salesiane 8(1989)1, 40-41.

    [47] Lemoyne Giovanni Battista, Memorie Biografiche di don Giovanni Bosco, vol. VII, Torino, SEI 1909, 602. D’ora in poi si abbrevierà MB seguito dal numero del volume e della pagina.

    [48] Non sembra storicamente giustificato perpetuare l’alibi dell’inafferrabilità “creativa” del progetto di don Bosco. Secondo Pietro Braido, non creano particolari problemi interpretativi, ad esempio, le parole pronunciate da don Bosco nel 1886 in occasione di una precisa richiesta del rettore del seminario maggiore di Montpellier: «Il mio metodo si vuole che io esponga. Mah! ... Non lo so neppur io. Sono sempre andato avanti come il Signore m’ispirava e le circostanze esigevano» (MB XVIII 127). In questo caso, infatti, non è detto che don Bosco avesse compreso esattamente i termini della questione, giacché la lettera gli veniva letta e tradotta dal francese. Inoltre, è «del tutto comprensibile che gli si sia sottratto all’ingrato compito di esprimere la sua preferenza tra due distinte teologie della vita spirituale, di S. Vincenzo de’ Paoli e di S. Francesco di Sales». Tali espressioni, quindi, andrebbero alquanto relativizzate tenendo invece presente «l’enorme massa di proclamate e codificate intenzioni e di concrete realizzazioni che si accumulano progressivamente dal 1853 al 1888» (cf Braido Pietro, Il progetto operativo di Don Bosco e l’utopia della società cristiana = Quaderni di «Salesianum» 6, Roma, LAS 1982, 6).

    [49] MB vol. XIII 126-127.

    [50] Tale modello, secondo Braido, è l’aspetto più storicamente condizionato del Sistema preventivo di don Bosco perché in questa visione egli sembra «volgere lo sguardo al passato più che al futuro, rievocando l’ideale dello stato confessionale e una società stratificata e ordinata, dove fiorivano il rispetto delle autorità, l’amore alla fatica, il diritto di proprietà; e dottrine cattoliche e morali e il santo timor di Dio costituivano il principio fondante della fraterna e pacifica convivenza di tutti» (Braido, Il progetto operativo di Don Bosco 10).

    [51] Id., Prevenire non reprimere 235.

    [52] Paolo VI, Il valore del nuovo centro di studi superiori nell’armonia dell’alta cultura ecclesiastica, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. V, Città del Vaticano, Tip. Poliglotta Vaticana 1966, 530.

    [53] Giovanni Paolo II, Lettera Iuvenum Patris nel centenario della morte di san Giovanni Bosco, in https://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/letters/1988/documents/hf_jp-ii_let_19880131_iuvenum-patris_it.html, n° 9 (24-02-2015).

    [54] Ivi n° 10.

    [55] L. cit.

    [56] Braido Pietro, Don Bosco, Brescia, La Scuola 1957, 147-148; Corallo, Il metodo educativo salesiano 25-26.

    [57] Iuvenum Patris 8.

    [58] Corallo, Il metodo educativo salesiano 24.

    [59] Cf Braido, Prevenire non reprimere 391.

    [60] Milanesi, Sistema preventivo e prevenzione 164.

    [61] Braido, Il progetto operativo di Don Bosco 29.

    [62] Id., “Prevenire” ieri e oggi con don Bosco. Il significato storico e le potenzialità permanenti del messaggio, in Cavaglià Piera – Chang Hiang-Chu Ausilia – Farina Marcella – Rosanna Enrica (a cura di), Donna e umanizzazione della cultura alle soglie del terzo millennio. La via dell’educazione. Atti del Convegno Internazionale e Interculturale promosso dalla Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium” Collevalenza, 1°-10 ottobre 1997, Roma, LAS 1998, 276-277.


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