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    GIOVANI EDUCAZIONE SCUOLA (Pascual Chávez V.)


    GIOVANI EDUCAZIONE

    SCUOLA

    Tre interventi su Rassegna CNOS 2021


    Pascual Chávez V. [1]

    1.
    L’emergenza educativa

    «Oggi, in realtà, ogni opera di educazione sembra diventare sempre più ardua e precaria. Si parla perciò di una grande “emergenza educativa”, della crescente difficoltà che s’incontra nel trasmettere alle nuove generazioni i valori-base dell’esistenza e di un retto comportamento, difficoltà che coinvolge sia la scuola sia la famiglia e si può dire ogni altro organismo che si prefigga scopi educativi. Possiamo aggiungere che si tratta di un’emergenza inevitabile». Le parole di papa Benedetto XVI, pronunciate in occasione del discorso alla diocesi di Roma giugno 2007, costituiscono una forte provocazione ad affrontare un tema che spesso si rimanda volentieri per le difficoltà che comporta.

    Tuttavia, si deve dire che è da millenni che - anche se con parole diverse - si parla della difficoltà di educare e delle sfide che essa comporta. Basta ricordare 4 citazioni sull’educazione lungo la storia:

    1. “La nostra gioventù ama il lusso è maleducata, si burla dell’autorità e non ha alcun rispetto degli anziani. I bambini di oggi sono dei tiranni, non si alzano quando un vecchio entra in una stanza e rispondono male ai genitori. In una parola sono cattivi” (Socrate 450 a.C.).
    2. “Non c’è più alcuna speranza per l’avvenire del nostro paese se la gioventù di oggi prenderà il potere domani, poiché questa gioventù è insopportabile, senza ritegno, terribile” (Esiodo 720 a.C).
    3. “Il nostro mondo ha raggiunto uno stadio critico, i ragazzi non ascoltano più i loro genitori. La fine del mondo non può essere lontana” (Un sacerdote dell’antico Egitto 2000 a.C.).
    4. “Questa gioventù è marcia nel profondo del cuore. I giovani di oggi sono maligni e pigri. Non saranno mai come la gioventù di una volta. Quelli di oggi non saranno capaci di mantenere la nostra cultura” (Incisione su un vaso di argilla nell’antica Babilonia 3000 a.C.).
    Tutto questo per dire che ogni epoca ha le sue emergenze educative. Sappiamo che anche don Bosco si è significativamente misurato con le sfide educative del suo tempo, inventando soluzioni creative e innovative, come hanno fatto tutti i grandi educatori nel corso dei secoli, convinti che si può trasformare il mondo e la storia attraverso l’educazione.

    Oggi è dunque normale che si parli in molte sedi di emergenza educativa, in riferimento alla crisi morale e sociale, alle esigenze della globalizzazione, ad un rincorrersi di dinamismi sempre più veloci a causa del gigantesco sviluppo scientifico e tecnologico, in cui si modifica il rapporto con lo spazio e con il tempo. Gli stessi documenti degli organismi internazionali (UNESCO, OCSE, UE) che si occupano di educazione individuano alcuni punti di attenzione ritenuti ineludibili. Il lavoro degli educatori ed insegnanti non può collocarsi fuori da tale panorama, anche se non è pensabile che ciascuno - da solo - possa portare il peso di tali emergenze. Il problema è che spesso le chiavi di lettura (i paradigmi pedagogici) per inserirsi in quella che viene definita società della conoscenza sono a loro volta di tipo “funzionalistico” ... e corrono il rischio di rendere ancora più profonda l’emergenza educativa. Cogliere la sfida educativa ad occhi aperti non significa abbandonarsi alla sterile lamentazione, ma lasciarsi “sfidare” dalle difficoltà per rilanciare con speranza, visto che la speranza è l’anima dell’educazione. Educare è sempre un atto di speranza, perché genera cultura.
    A questo punto, non è difficile vedere le grandi sfide che la situazione odierna, sociale, economica, culturale, politica, religiosa, presenta all’educazione, e come questa abbia un ruolo importante per venire incontro alle esigenze della umanità e del futuro.
    Tutto questo fa sì che l’educazione debba partire dalla realtà che, a modo di palcoscenico, abitano i giovani di oggi, e che i progetti educativi debbano essere più rispondenti a tutte le dimensioni della persona e non solo all’adempimento di un curriculum scolare o delle grandi tendenze all’invenzione, l’innovazione, la connettività, l’intelligenza artificiale e la realtà virtuale. E quando parlo di educazione non parlo solo di scuola, ma di tutto quanto in famiglia, nella società e nello stato dovrebbe aiutare a porre i giovani nella posizione giusta per la loro crescita personale in tutte le loro dimensioni, per lo sviluppo dei loro talenti e il raggiungimento della loro vocazione o sogno. Insomma, in educazione o tutto educa o tutto diseduca. Da qui il bisogno di un patto educativo!

    Al recupero di una formazione umana integrale

    Nel suo libro Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica Martha C. Nusbbaum[2] dice che assistiamo oggi a una crisi strisciante, di enormi proporzioni e di portata globale, tanto più inosservata quanto più dannosa per il futuro della democrazia: la crisi dell’istruzione. Sedotti dall’imperativo della crescita economica e dalle logiche contabili a breve termine, molti paesi infliggono pesanti tagli agli studi umanistici ed artistici a favore di abilità tecniche e conoscenze pratico-scientifiche. E così, consapevoli che il mondo è cambiato profondamente dovuto al grandissimo sviluppo scientifico e tecnico, ritengono decisamente che ciò che il mondo necessita non sono persone che interpretino la realtà ma persone che la facciano funzionare. Ma ciò che capita - e coloro che hanno a che vedere con l’educazione delle nuove generazioni lo sanno per esperienza propria - è che mentre il mondo si fa più grande e complesso, gli strumenti per capirlo si fanno più poveri e rudimentali; mentre l’innovazione chiede intelligenze flessibili, aperte e creative, l’istruzione si ripiega su poche nozioni stereotipate. Non si tratta di difendere una presunta superiorità della cultura classica su quella scientifica, bensì di mantenere l’accesso a quella conoscenza che nutre la libertà di pensiero e di parola, l’autonomia del giudizio, la forza dell’immaginazione come altrettante precondizioni per una umanità matura e responsabile, in altre parole la formazione della persona, del cittadino, del professionale.

    “Ci troviamo – scrive la Nussbaum – nel bel mezzo di una crisi di proporzioni inedite e di portata globale. Non mi riferisco alla crisi economica che è iniziata nel 2008… Mi riferisco invece a una crisi che passa inosservata, che lavora in silenzio, come un cancro; una crisi destinata ad essere, in prospettiva, ben più dannosa per il futuro della democrazia: la crisi mondiale dell’istruzione. Sono in corso radicali cambiamenti riguardo a ciò che le società democratiche insegnano ai loro giovani e su tali cambiamenti non si riflette abbastanza. Le nazioni sono sempre più attratte dall’idea del profitto; esse e i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé, criticare la tradizione e comprendere il significato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone. Il futuro delle democrazie di tutto il mondo è appeso a un filo”.

    Parole come queste dovrebbero mettere in guardia contro alcuni dei recenti provvedimenti su scuola, Centri di Formazione Professionale e università: i tagli finanziari al nostro sistema educativo, spesso al centro della polemica, non sono che lo strumento di una politica organica e premeditata di riduzione della democrazia così come la concepisce la Costituzione, insieme alle Costituzioni dell’Occidente e del resto del mondo, tradizionalmente sollecite verso la formazione dei cittadini, e della loro formazione integrale, ma ora messe in discussione. Per Nussbaum “le capacità intellettuali di riflessione e pensiero critico sono fondamentali per mantenere vive e ben salde le democrazie”, eppure “gli studi umanistici e artistici vengono ridimensionati, nell’istruzione primaria e secondaria come in quella universitaria, praticamente in ogni paese del mondo. Visti dai politici come fronzoli superflui, in un’epoca in cui le nazioni devono tagliare tutto ciò che pare non serva a restare competitivi sul mercato globale, essi stanno rapidamente sparendo dai programmi di studio, così come dalle teste e dai cuori di genitori e allievi”.
    E continua “in realtà, anche quelli che potremmo definire come gli aspetti umanistici della scienza e della scienza sociale – l’aspetto creativo, innovativo, e quello di pensiero critico, rigoroso – stanno perdendo terreno, dal momento che i governi preferiscono inseguire il profitto a breve termine garantito dai saperi tecnico-scientifici più idonei a tale scopo. La crisi ci sta di fronte, ma non l’abbiamo ancora guardata in faccia. Andiamo avanti come se niente fosse, quando invece i segni del cambiamento sono evidenti ovunque. Non li abbiamo discussi questi cambiamenti, non li abbiamo scelti, eppure stanno già limitando il nostro futuro”.
    Visto che la crescita economica è tanto agognata da tutte le nazioni, specialmente in questi tempi di crisi, non ci si pongono troppe domande su dove va l’istruzione e, di conseguenza, dove vanno le società democratiche. Con la corsa al profitto sul mercato mondiale, i valori più preziosi per il futuro della società, specialmente in un’epoca di inquietudine religiosa ed economica, corrono il rischio di andare perduti. La spinta al profitto induce molti leader a pensare che la scienza o la tecnologia siano di cruciale importanza per il futuro dei loro paesi. Non c’è nulla da obiettare sull’importanza ed esigenza di una eccellente istruzione tecnico-scientifica, e non sarò certo io a suggerire di fermare la ricerca a questo riguardo. La mia preoccupazione è che altre capacità, altrettanto importanti, stiano correndo il rischio di sparire nel vortice della concorrenza: capacità essenziali per la salute di qualsiasi democrazia al suo interno e per la creazione di una cultura mondiale in grado di affrontare con competenza i più urgenti problemi del pianeta. Tali capacità sono associate agli studi umanistici e artistici: la capacità di pensare criticamente, la capacità di trascendere i localismi e di affrontare i problemi mondiali come «cittadini del mondo»; e, infine, la capacità di raffigurarsi simpaticamente la categoria dell’altro. Ci vuole un nuovo modello culturale che dia una svolta al modello di sviluppo.
    Gli studi umanistici ed artistici sono fondamentali tanto nella fase dell’istruzione primaria e secondaria quanto in quella universitaria. Non si deve negare che la scienza e le scienze sociali, soprattutto l’economia, siano altrettanto essenziali per la formazione dei cittadini. Ma queste materie non hanno mai corso alcun rischio, come capita con le altre. Inoltre, se praticate nel modo corretto, queste altre discipline non possono che essere permeate di quello che possiamo definire come spirito umanistico: la ricerca del pensiero critico, la sfida dell’immaginazione, la vicinanza empatica alle esperienze umane più varie, nonché la complessità del mondo nel quale viviamo. La scienza, studiata correttamente, è amica degli studi umanistici e non certo loro nemica.
    La formazione non ha luogo soltanto a scuola. Gran parte degli aspetti che ci stanno a cuore devono essere modellati anche in famiglia, dai primi giorni di vita e per tutto il corso dell’infanzia. Anche la cultura dei pari e quella più ampia delle norme sociali e delle istituzioni politiche assolvono una funzione importante, completando o compromettendo il lavoro svolto da scuole e famiglie. L’attenzione rivolta a scuole e università è giustificata soprattutto perché è proprio in tali istituzioni che si stanno verificando i cambiamenti più perniciosi: è l’ossessione della crescita economica che sta portando a cambiamenti nei programmi di studio, nella pedagogia e anche nel sistema dei finanziamenti.
    La formazione non riguarda soltanto la cittadinanza. Essa prepara le persone al lavoro e, cosa molto importante, a una vita dignitosa di essere vissuta. Tutte le democrazie moderne però sono società nelle quali il significato e lo scopo della vita umana sono argomenti di ragionevole disaccordo fra cittadini che hanno vedute religiose e secolari molto diverse: tali cittadini, naturalmente, hanno convinzioni differenti sull’utilità e la funzione della preparazione umanistica riguardo ai loro obiettivi personali. Ciò su cui possiamo essere d’accordo è che in tutto il mondo, cioè in ogni nazione abbastanza fortunata da essere democratica, i giovani devono essere abituati a partecipare a una forma di governo in cui le persone si informano delle problematiche fondamentali che saranno oggetto del loro voto e, talvolta, della loro azione come funzionari eletti o nominati. Ogni democrazia moderna è anche una società nella quale le persone differiscono molto, per molteplici aspetti, come religione, etnicità, ricchezza e classe sociale, condizione fisica, genere e orientamento sessuale, e in cui tutti gli aventi diritto al voto compiono scelte che hanno una ricaduta notevole anche sulla vita di persone assai diverse da loro. Un modo di valutare un progetto educativo è di chiederci in che modo esso prepari i giovani a vivere in un’organizzazione sociale e politica che abbia queste caratteristiche. Senza il concorso di cittadini educati in maniera appropriata, nessuna democrazia può rimanere stabile.
    La facoltà di ragionare correttamente su culture, gruppi e nazioni, nel contesto dell’economia mondiale e della storia dell’interazione di tanti paesi e gruppi è cruciale per consentire alle democrazie di far fronte, in modo responsabile, ai problemi che le attendono come parti di un mondo interdipendente. E la capacità di cogliere i problemi dell’altro - una dote che quasi tutti gli esseri umani posseggono, in una qualche forma - deve essere molto potenziata, e rifinita, per poter sperare di mantenere istituzioni decenti in mezzo alle tante divisioni che ogni società moderna racchiude.
    L’interesse nazionale di una democrazia moderna prevede un’economia forte e una cultura di mercato fiorente. Ebbene, tale interesse economico richiede proprio l’apporto degli studi umanistici ed artistici, allo scopo di promuovere un clima di attenta e responsabile disponibilità, nonché una cultura di innovazione creativa. Quindi, non siamo costretti a scegliere fra una forma di educazione che promuove il profitto e una forma di educazione che alimenta la buona cittadinanza, a tutti i livelli. Un’economia fiorente richiede le stesse qualità formative che rafforzano la buona cittadinanza, e in realtà i partigiani di quella cosiddetta «formazione per il profitto» o per la crescita economica, come scopo fondamentale, sposano di fatto una visione impoverita di ciò che è richiesto per raggiungere il loro scopo, dal momento in cui un’economia robusta è al servizio dell’uomo e non è fine a se stessa.
    Nessun sistema educativo funziona bene se reca vantaggi soltanto alle élite benestanti.[3]
    La filosofia morale di Martha Nussbaum è una ‘denuncia’ e un ‘invito ad agire’, che riprende e articola in più punti, non abbandonando mai la presa: la svalutazione dei saperi umanistici è parte di una politica premeditata e totalizzante, alla stessa stregua e nello stesso sistema delle pratiche del capitalismo speculativo, del liberismo antiliberale, del monopolismo informativo, delle cricche corruttive, e di slogan tipo “con la cultura non si mangia” … nient’altro che l’eco casereccio di un sempre più incalzante coro globale. La conseguenza (non detta, ma facilmente estrapolabile): da questa situazione non si esce se non sforzandosi di trovare collegamenti con il resto del mondo, e scambiando esperienze e iniziative con che nutre le stesse idee e le stesse esigenze, per proporre una generale revisione delle politiche oggi in atto. Ecco perché è assolutamente necessario che l’educazione recuperi la matrice da cui è nata. Nel suo videomessaggio al Convegno Mondiale su un nuovo Patto Globale Educativo orientato verso un umanesimo solidale, Papa Francesco delineò in sette punti quello che lui ritiene essere il percorso da fare per cambiare il mondo attraverso l’educazione: mettere al centro di ogni processo educativo e formale la persona; ascoltare la voce dei bambini; favorire la piena partecipazione delle bambine e delle ragazze all’istruzione; vedere nella famiglia il primo e indispensabile soggetto educatore; educare ed educarci nell’accoglienza, aprendoci ai più vulnerabili ed emarginati; impegnarci a studiare per trovare altri modi di intendere l’economia, di intendere la politica, di intendere la crescita e il progresso; custodire e coltivare la nostra casa comune.[4] Insomma, è un richiamo a costruire un mondo diverso attraverso l’educazione.

    L’eclissi dell’educazione

    Relazione educativa, problema della verità e scienze della natura
    Di modo simile, anche se non direttamente a riguardo della democrazia come la Nussbaum ma al bene totale della società, si era già espresso su questo tema il Comitato per il Progetto Culturale della CEI presentando La sfida educativa[5] che dice che non si tratta, ovviamente, di sminuire la valenza sociale ed economica dell’educazione, rinunciando alle competenze professionali, alla tecnica, all’utile, e neppure di misconoscere la centralità del rapporto scuola-lavoro e della formazione professionale. Ma concepire la prima esclusivamente in funzione del secondo rischia di far perdere di vista la ricchezza della relazione educativa, che è molto di più che un semplice sforzo di addestramento. Come dice l’etimologia del termine educare, dal latino e-ducere, «condurre fuori da», siamo davanti a una metafora dell’opera svolta dall’ostetrica - secondo il modello della maieutica socratica - quando aiuta il bambino a nascere. E nascere comporta un’apertura alla realtà che va molto al di là della categoria dell’utile, se è vero che utile è ciò che vale solo in rapporto ad altro, come mezzo per raggiungerlo, e che ci serviamo di esso solo in vista di ciò che è importante in sé, primo fra tutti il senso delle cose che non può certo essere definito utile, poiché non è un mez­zo ma un fine, e che pure, come notava Heidegger, è «quanto di più necessario ci sia». In tale senso prende valore la proposta di formare la coscienza della persona, per renderla capace di compiere delle scelte alla luce di ciò che vale.
    Uno dei compiti fondamentali della scuola è proprio di insegnare a discernere tra ciò che è utile e ciò che è necessario, o comunque importante in sé. Si tratta di liberare i ragazzi dalle suggestioni di una pubblicità subdolamente invasiva, che ne condiziona la mentalità e i comportamenti non censurando le risposte, ma uccidendo dentro di loro le stesse domande. In questa prospettiva è decisivo il recupero del vituperato concetto di «verità», troppo spesso identificata con una entità metafisica astratta e irraggiungibile. Rinunziare a far comprendere ai giovani che cosa si debba intendere per verità, non educarli al senso della verità significa, in realtà, consegnarli senza difesa alla pressione delle illusioni, dei miti, delle falsificazioni con cui da ogni parte il circo mediatico della società consumista li assedia.
    A questo fine è paradigmatica l’educazione alle scienze della natura. Le ricadute tecnologiche del sapere scientifico rendono evidente a tutti l’utilità delle scienze, inserendo d’ufficio il loro apprendimento tra le attività scolastiche che richiedono, come si è detto, una grande quantità di informazioni e costituiscono una risorsa dell’economia spendibile sul mercato del lavoro. D’altra parte, già la semplice presentazione delle principali teorie scientifiche pone la questione della loro «verità», della corrispondenza delle loro affermazioni con una «realtà» che non dipende da noi. È quindi relativamente facile pervenire a discorsi generali sulla verità e sulla realtà passando attraverso l’apprendimento critico del sapere scientifico, nel quale si abbia cura di distinguere le affermazioni scientifiche da quelle che scientifiche non sono. Si potrà così avviare i giovani a distinguere le diverse forme di accertamento della verità.
    Ovviamente si tratta di un compito difficile che richiede maestri all’altezza, specialmente negli anni cruciali delle scuole medie superiori. In ogni caso solo se c’è differenza tra vero e falso, tra reale e illusorio, tra superficie e profondità, è possibile quell’educazione al senso critico che è un compito universalmente riconosciuto alla scuola e che è la migliore preparazione ai futuri studi universitari.
    Lo stesso insegnamento delle discipline si fonda sulla premessa che ci sia una realtà che va riconosciuta, non «inventata», sia pure precisando che un processo di riconoscimento non è un passivo rispecchiamento dei dati, ma una loro creativa elaborazione e interpretazione, nello sforzo incessante di adeguare sempre più la nostra lettura del mondo alla sua sconfinata profondità e ricchezza. Non basta che l’alunno accumuli informazioni: è indispensabile che la scuola lo educhi all’arte della sintesi tra i diversi saperi e modi di conoscere, per conferire a queste informazioni un significato.

    L’intelligenza

    Da questa prospettiva diventa illuminante, anche perché allarga l’orizzonte del nostro tema, il capitolo sull’intelligenza di Umberto Galimberti nel suo libro I miti del nostro tempo[6]. Scrive: “Così come non è da privilegiare, come fa la nostra scuola, l’intelligenza convergente, che è quella forma di pensiero che non si lascia influenzare dagli spunti dell’immaginazione, ma tende all’univocità della risposta a cui tutte le problematiche vengono ricondotte. Più interessante, anche se meno apprezzata a scuola, è l’intelligenza divergente tipica dei creativi, capaci di soluzioni molteplici e originali, perché, invece di accontentarsi della soluzione dei problemi, tendono a riorganizzare gli elementi, fino a ribaltare i termini del problema per dar vita a nuove ideazioni.
    Nei suoi molteplici studi sull’argomento, Howard Gardner[7] mostra che non c’è un’intelligenza generica, quella su cui di solito si applica la misurazione della scuola, ma forme così diverse fra loro che non è possibile unificarle e misurarle in modo uniforme. Ogni forma di intelligenza, infatti, è percorsa dal genio, che non è una prerogativa solo di Leonardo da Vinci, ma di tutte le menti che sempre sono inclinate in una certa direzione, a partire dalla quale scaturisce per ognuno la sua particolare ed esclusiva visione del mondo.
    Già a livello biologico si constatano differenze abissali per cui, ad esempio, a due anni c’è chi recepisce una sequenza di musica classica come ‘armonia’ e chi come ‘dissonanza’. Chi valuta questa intelligenza musicale, che forse ha poco a che fare con l’intelligenza convergente richiesta dalla scuola? L’intelligenza musicale, infatti, materializza la geometria nel suono. Questa materializzazione instaura l’uomo come colui che ascolta il ritmo di una creazione che lo trascende. La musica, infatti, non si dice, si ascolta, e l’orecchio diventa quel padiglione aperto al mondo per cogliere quella “armonia invisibile” che, al dire di Eraclito, “val più della visibile”.[8] Ascoltate da un’intelligenza musicale le parole cessano di avere un senso per guadagnare un suono. Dominante non è più il significato, ma la voce, il suo tono, da cui si desume un senso nascosto del mondo che non sì può dire, ma solo u-dire.
    Allo stesso modo c’è un’intelligenza linguistica per la quale le parole non hanno profondità, ma superficialità. Un’intelligenza linguistica non scopre una parola nella sua radice e nel suo spessore di significato, ma è molto abile nel trasporre un termine o una costruzione da una lingua all’altra. Ciò lascia supporre che chi è padrone di molte lingue ha un’intelligenza che non è minimamente turbata dalle differenze antropologiche e dalle differenze di mondo che in Italia hanno generato un linguaggio e in Germania un altro, per cui, senza questo carico antropologico e senza questa sensibilità per la differenza dei mondi, può trasporre con maggiore agilità un termine da una lingua all’altra. Infatti, si può trasporre un termine da una lingua all’altra in quanto non ci si è inabissati nel suo senso e la parola non ci ha fatto prigionieri della sua profondità.
    C’è un’intelligenza logico-matematica che sulla terra non vede cose, ma analogie e rapporti. A questo proposito, scrive Whitehead: “Il primo uomo che colse l’analogia esistente tra un gruppo di sette pesci e un gruppo di sette giorni compì un notevole passo avanti nella storia del pensiero. Fu il primo ad avere un concetto pertinente della matematica pura”.[9] Per questo tipo di intelligenza le cose perdono il loro spessore materiale, il pesce non rimanda al mare e ai naviganti, così come i giorni non rimandano alle opere quotidiane che Esiodo descrive.[10] Per l’intelligenza logico-matematica le cose diventano rapporti e i numeri che li esprimono diventano la ‘spiegazione’ del mondo, nel senso in cui diciamo che qualcosa si ‘di-spiega’, si apre alla leggibilità. Platone ne aveva ben coscienza, per questo sul frontespizio dell’Accademia da lui fondata - dice la tradizione - aveva fatto scrivere: “Non si entra qui se non si è geometri”.
    C’è anche un’intelligenza spaziale che dispiega un mondo che sfugge alle coordinate geometriche, per offrirsi alle azioni che disegnano quella spazialità visiva, sonora, emotiva che è anteriore alla distinzione dei sensi, perché il valore sensoriale di ogni elemento è determinato dalla sua funzione nell’insieme e varia con questa funzione. Per il navigante, ad esempio, il mare non è uno spazio oggettivo, ma un campo di forze percorso da linee di forza (le correnti) e articolato in settori (le rotte) che lo sollecitano a certi movimenti e lo sostengono quasi a sua insaputa. La terra che intravede, le correnti che avverte, le onde che solca non gli sono presenti come un dato oggettivo, ma come il termine delle sue intenzioni e delle sue azioni. Nella burrasca non percepisce cose, ma fisionomie: familiari come la terra che in lontananza si profila e ostili come le onde nella cui altezza scorge non tanto una dimensione quanto una minaccia. Se nello sguardo il navigante è magicamente congiunto alla meta, è nella forza e nell’azione dei suoi gesti la possibilità di pervenirvi. Qui la sua intelligenza è tutta raccolta nella dialettica corporea tra l’ambiente e l’azione.
    C’è poi un’intelligenza corporea che guarda il mondo non per scoprirlo, ma per abitarlo. Abitare non è conoscere, è sentirsi a casa, ospitati da uno spazio che non ci ignora, tra cose che dicono il nostro vissuto, tra volti che non c’è bisogno di riconoscere perché nel loro sguardo ci sono le tracce dell’ultimo congedo. Abitare è sapere dove deporre l’abito, dove sedere alla mensa, dove incontrare l’altro. Abitare è trasfigurare le cose, è caricarle di sensi che trascendono la loro pura oggettività, è sottrarle all’anonimato che le trattiene nella loro inseità, per restituirle ai nostri gesti abituali, che consentono al nostro corpo di sentirsi tra le “sue cose”, presso di sé. Proprio perché abita il mondo, l’intelligenza corporea cattura quella verità che non è mai al di là di ciò che percepisce. Il dubbio che attende dalla ragione il criterio di distinzione tra illusione e realtà è un dubbio da cui può essere percorsa solo un’intelligenza che non abita il mondo.
    C’è infine un’intelligenza psicologica, per la quale il mondo è uno specchio di sé. Proiettando i propri vissuti, gli uomini hanno cominciato a catalogare la natura secondo i miti dell’anima. Ne è nato un mondo immaginario di cui i poeti e i mistici sono i gelosi custodi. A loro si deve la nobiltà delle nostre passioni. In forma mitologica hanno saputo affidare al cielo quanto noi oggi in forma patologica affidiamo alla psichiatria. Perché gli uomini non vivono più all’altezza delle loro pas­sioni? Perché nei loro desideri non scorgono più un’intelligenza? Perché, dopo averle private della loro intrinseca intenzionalità, si è assegnato alle nostre passioni solo lo spazio opaco e buio dei nostri corpi? Che ha fatto la ragione di noi? Dove ci porta l’itinerario dell’intelligenza scientifico-tecnica divenuta egemone? Non perdiamo così e per sempre le tracce del cammino percorso?
    Agli uomini della scuola l’invito a non demolire quelle diverse forme di intelligenza in cui è custodito un potenziale di umanità diversa da quella oggi compiutamente dispiegata sotto il segno della tecnica, che ci ha abituato a pensare in quel modo esclusivamente calcolante e funzionale a cui oggi, sembra, abbiamo ridotto l’uso dell’intelligenza. Contro la tecnica non abbiamo nulla da obiettare se non la sua funzione egemone e totalizzante, che lascia perire ai suoi margini tutto quel volume di senso che, non essendo tecnicamente fruibile, è lasciato essere come parola inincidente, puro rumore che non fa storia.
    Ma per questo è necessario che la scuola, se non vuole mortificare le diverse forme di intelligenza, si declini al plurale e insegua, attraverso un’articolazione molto più aperta, tutte le forme di intelligenza in cui sono custodite quelle possibilità che, in un mondo sempre più strutturato in modo funzionale, diventano gli unici ricettacoli del senso. Un senso trovato in sé, nella forma della propria intelligenza.

    La mimetizzazione dell’intelligenza
    Se siamo tutti intelligenti, ognuno a suo modo, sarà tendenza di ciascuno mostrare, ogni volta che se ne presenta l’occasione, la specificità della propria intelligenza. Il risultato di solito è: o la mortificazione di quanti sono costretti ad assistere all’esibizione dell’altrui abilità mentale, o l’invidia che, opportunamente mascherata, trova sfogo nella maldicenza intorno ad altri aspetti della personalità di chi fa sfoggio della propria intelligenza, o infine il disinteresse per ciò che la persona intelligente va dicendo, creando un vuoto intorno al suo discorso che ricade su se stesso senza i riscontri attesi. A parità di capacità intellettuali è allora più intelligente non tanto chi eccelle in una determinata abilità mentale, ma chi è in grado di percepire in anticipo l’effetto che un’eventuale esibizione di intelligenza può produrre in chi ascolta. E siccome l’effetto è quasi sempre deprimente, più intelligente sarà chi è capace di mimetizzare la propria intelligenza.
    ‘Mimetizzazione’ è una parola solitamente impiegata a proposito di quegli animali che sanno confondersi con l’ambiente in modo da non essere individuati da possibili aggressori, così come ‘mimetico’ si chiama l’abbigliamento che in battaglia indossano i militari, sempre allo scopo di non essere individuati e quindi di poter sorprendere il nemico a sua insaputa.
    Mimetizzare la propria intelligenza significa allora saperne modulare l’espressione a seconda del contesto in cui ci si trova, percependo in anticipo il livello di comprensione di coloro che ci ascoltano e le possibili reazioni che l’intervento può produrre. Questa capacità anticipatoria, che evita le reazioni negative, è tipica di quelle intelligenze non narcisistiche, capaci di “mettersi nei panni degli altri” e calibrare perfettamente come un certo discorso, per intelligente che sia, può essere percepito dall’altro e davvero compreso. Gli antichi filosofi, a differenza dei sapienti che ritenevano di possedere la verità, sapevano che un conto è la verità, un conto è la comprensione della verità. E alla comprensione della verità hanno dedicato la loro massima cura, istituendo, a partire da Socrate, le scuole, persuasi com’erano che una verità non compresa non serve a niente.
    A condizionare la comprensione non sono solo fattori culturali, ma soprattutto ed eminentemente fattori emotivi, per cui, ad esempio, se una classe di studenti si sente amata dal suo professore l’apprendimento sarà facilitato, se un messaggio viene veicolato da un testimonial apprezzato dal pubblico, sarà più facilmente recepito.
    Ciò significa che un’intelligenza che si accompagna a una competenza emotiva sa che cosa, di quanto esprime, può essere recepito o rifiutato. E, se le interessa che il messaggio passi, questa intelligenza sa anche rinunciare a dire tutto quello di cui è competente, per limitarsi a enunciare solo ciò che può essere compreso. Riduce quindi le sue possibilità enunciative a favore della trasmissibilità dei messaggi. In una parola, mimetizza la sua intelligenza a misura della recettività di chi ascolta, per favorire l’acquisizione delle informazioni.
    La mimetizzazione dell’intelligenza è quindi una grande virtù: la virtù degli insegnanti che non sfoggiano tutto il loro sapere, ma solo quello che può essere recepito e nelle forme in cui può essere recepito; la virtù degli psicoanalisti che, pur individuando dopo due sedute di che cosa soffre il paziente, attendono molte sedute affinché il paziente pervenga da sé alla sua verità; la virtù dei genitori che, pur avendo presenti le capacità che i figli potrebbero tradurre in professioni, attendono che i figli le riconoscano da soli, sorreggendo i loro percorsi con piccoli accenni quando i figli sono nella condizione di recepirli; la virtù dei politici che hanno il polso del paese reale e non solo degli obiettivi che vogliono perseguire, indipendentemente dal consenso o dal dissenso opportunamente valutato; ma direi anche la virtù delle veline, alcune delle quali hanno senz’altro significative capacità intellettuali, che però, dato il contesto, non è il caso di esibire in un concorso di bellezza, dove l’attenzione è tutta concentrata sulle misure e le forme del corpo.
    La mimetizzazione dell’intelligenza è la virtù delle persone veramente intelligenti, che sanno coniugare la verità con la comprensione della verità, per la quale sono disposti a rinunciare al­l’esibizione di sé per la cura dell’altro e la comprensione delle modalità con cui l’altro può capire quanto si va dicendo.
    All’intelligenza che sa mimetizzarsi compete quella virtù che possiamo chiamare altruismo, qui inteso non come ‘buonismo’, ma come percezione di ciò che è altro da me, perché consapevole che gli altri, con le loro obiezioni anche grossolane, possono costituire uno stimolo a un ulteriore ricercare e intendere e trovare.

    L’intelligenza informatica
    La mimetizzazione dell’intelligenza non va confusa con quella mimesi o imitazione dell’intelligenza oggi rappresentata dall’intelligenza informatica, che i nonni invidiano ai loro nipotini i quali, con la velocità della luce, aprono sul video mondi insospettati.
    Diciamo subito che non è il caso che i nonni si deprimano. L’intelligenza informatica è, tra le forme di intelligenza, la più elementare, perché lavora con il più semplice dei codici: quello binario, capace di dire solo sì o no, uno o zero, e, nel caso si evolva, buono o cattivo, giusto o ingiusto, vero o falso, senza, per il momento, ulteriori capacità di problematizzazione.
    Il guaio è che l’enorme influenza che la mentalità informatica esercita nei posti di lavoro e oggi disgraziatamente anche nelle scuole e, per chi non va a scuola, nelle trasmissioni di traino dei telegiornali in orari di massimo ascolto, nonché nelle prove degli esami di maturità e in quelle di ammissione all’università a numero chiuso, attiva quell’intelligenza binaria che rischia di diventare la più diffusa, quando non l’unica forma di intelligenza, abilissima nel calcolo, ma sempre più in difficoltà a formulare un pensiero.
    E già se ne vedono gli effetti a dir poco disastrosi perché, in questa reazione abbreviata al massimo, il ciclo di senso non circola più nella problematicità del mondo reale che si fa sempre più complesso, ma in quell’universo virtuale dove, per effetto del codice binario che lo presiede, la domanda è indotta dall’offerta e la risposta dalla domanda. Come ci ricorda Jean Baudrillard,[11] test, campionature, statistiche, indagini di mercato, elezioni, referendum non sono interrogazioni che fanno circolare un discorso e tanto meno mettono in comunicazione, ma sono piuttosto un ultimatum, dove non si chiede nulla, ma si impone immediatamente un senso che non può essere se non nell’ordine binario del sì o del no.
    Che cosa sia vero e che cosa sia falso è indecidibile, perché, quando la problematicità del reale è filtrata dal virtuale, le interrogazioni si dispongono come la domanda li prevede e li sollecita a essere. Torna qui opportuno il monito di Heidegger: “Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca.”[12]

    L’intelligenza del futuro [13]
    “Quali forme di intelligenza sono necessarie per il futuro che, a differenza del passato, mette a disposizione un’infinità di informazioni, di culture, di modi di pensare e di valutare insospettati fino a trent’anni fa?” È questa una domanda che si pone Howard Gardner,[14] persuaso che l’intelligenza convergente, tipica delle nostre scuole e a cui si uniformano gli insegnamenti previsti dai programmi ministeriali, non sia più sufficiente per affrontare le sfide del futuro.
    A parere di Gardner il futuro richiederà la versatilità di cinque figure di intelligenza, a partire dall’intelligenza disciplinare che, con chiari messaggi che consentono di acquisire la differenza tra il vero e il falso, il reale e il fantastico, l’astratto e il concreto, si consegue nei primi dieci anni di vita, con una buona scuola elementare in grado di consegnare al bambino i codici di lettura del mondo in cui vive.
    Su questa base deve impiantarsi l’intelligenza sintetica, capace di assemblare informazioni che provengono da più fonti in modo da pervenire a una sintesi unitaria. A questo scopo molto più utile dei ‘pensierini’ alle elementari e dei ‘temi in classe’ nelle superiori, dove i ragazzi mettono per iscritto tutto quello che viene loro in mente, è il “riassunto scritto” di una pagina in cinque righe o di dieci pagine in una pagina, da ripetere ad alta voce, in modo da verificare la coerenza dei collegamenti e l’enucleazione di un senso unitario. Senza sintesi, infatti, non si dà intelligenza.
    Acquisita la disciplina e la capacità di sintesi, resta da addestrare l’intelligenza creativa, che può essere allenata non ripetendo quello che il professore ha spiegato come avviene nelle nostre interrogazioni, ma ponendo domande inusuali e non previste dal contesto culturale da cui si prendono le mosse, allo scopo di sollecitare risposte inesplorate, magari con il ribaltamento dei ter­mini con cui il problema era stato originariamente formulato.
    Abituando alle soluzioni inaspettate, l’intelligenza creativa predispone all’intelligenza rispettosa, che è tale perché non teme e non si arrocca di fronte alla differenza e all’alterità. Senza questa di­sposizione mentale nessun dialogo è possibile, per quanti incontri si facciano e per quanta buona volontà ci si metta.
    Infine, occorre promuovere l’intelligenza etica, che non fa riferimento esclusivamente ai ‘princìpi’ della propria coscienza, o, peggio ancora, all’ambito limitato dei propri interessi, ma si fa carico delle esigenze della società.
    Attivando tutte queste forme di intelligenza, forse i nostri ragazzi potranno andare a scuola con più interesse. Ma prima bisogna verificare se queste forme di intelligenza sono presenti e attive nei professori. E qui il problema si complica, ma forse, con una migliore selezione del corpo insegnante, si può anche risolvere. Del resto a questo ci chiama la configurazione che va assu­mendo il futuro del mondo, e non essere preparati decide, se non la nostra esclusione, certo il declino del nostro modo di starci e di prendervi parte.”
    A ragione Papa Francesco chiede “una rinnovata stagione di impegno educativo”, perché “il nostro futuro non può essere la divisione, l’impoverimento delle facoltà di pensiero e di immaginazione, di ascolto, di dialogo e di mutua comprensione”.[15]

    NOTE

    [1] Rettore Maggiore emerito della Congregazione Salesiana.
    [2] Nussbaum M.C., Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Società editrice il Mulino, 2010.
    [3] Nussbaum, o.c. “la crisi silenziosa”, pp. 21-30
    [4] Francesco, Videomessaggio del Santo Padre ai partecipanti al “Global Compact on Education”, Roma, 15.10.2020
    [5] Comitato per il progetto culturale della CEI, La sfida educativa, Bari, Laterza, 2009.
    [6] Galimberti U., I miti del nostro tempo, Milano, Feltrinelli, 2009, pp. 78-87.
    [7] Gardner H., Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Milano, Feltrinelli, 1987, pp. 93-257.
    [8] Citato da Galimberti, p. 80.
    [9] Whitehead A.N., La scienza e il mondo moderno, Torino, Bollati Boringhieri, 1979, p. 38.
    [10] Esiodo, Le opere e i giorni, in Opere, Torino, Utet, 1977.
    [11] Baudrillard J., Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli, 1979: “Il tattile e il digitale”, pp. 73-84.
    [12] Heidegger M., L’abbandono, Genova, il Melangolo, 1983, p. 36.
    [13] Galimberti U., I miti …, o.c., pp. 92-94
    [14] Gardner H., Five Minds for the Future (ed. 2006); tr. it. Cinque chiavi per il futuro, Milano, Feltrinelli, 2007.
    [15] Francesco, ib.

    2.
    La scuola di fronte alle sfide attuali
    Verso una scuola educatrice e creatrice di cultura

    Il dramma dell’umanità odierna è la frattura tra educazione e cultura, in genere, e fra scuola ed educazione in particolare. Ho voluto iniziare questo tema parafrasando una celebre frase di Paolo VI (EN 20), perché mi permette di impostare adeguatamente il problema della scuola e la sua necessaria soluzione attraverso l’integrazione dell’educazione nella cultura - sia quella propria come quella universale - e della scuola nell’educazione. Solo così l’educazione sarà pienamente umanizzante - com’è la cultura - e solo così la scuola potrà convertirsi in promotrice e creatrice di cultura, che è uno dei suoi scopi. È questo ciò che intendiamo quando parliamo della conversione ad una scuola educatrice e creatrice di cultura.
    La pressante insistenza degli ultimi tre papi, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco, di non ridurre l’Unione Europea a un grande mercato di beni, ma a uno scambio di beni culturali e spirituali, sembra echeggiare quello che giustamente riconosceva più di trenta anni fa il Direttore dell’UNESCO inaugurando il “Decennio Mondiale dello Sviluppo Culturale”:
    «Lungo i decenni scorsi ci siamo resi conto che, quando si presenta come obbiettivo una crescita economica in divorzio con l’ambiente culturale, si producono gravi squilibri tanto economici come culturali e si indebolisce notevolmente il potenziale creativo di un popolo. Se lo sviluppo tende all’essere di più e allo star meglio di ciascuno e di tutti, deve basarsi sullo sviluppo più intenso delle risorse sia umane come materiali di ogni comunità, attraverso la libera espressione dei talenti e degli interessi di tutti i suoi membri. Ciò significa che, in ultima analisi, devono ricercare le loro priorità, le loro motivazioni e le loro finalità nella cultura» (Parigi, 21 gennaio 1988).
    Se questo era il quadro sociale d’allora, adesso è diventato ancora più drammatico appunto perché l’economia è stata eretta a valore supremo al quale restano sottomesse la politica e la società, e al quale si sacrifica l’uomo dando come risultato una cultura del profitto, del successo personale, dell’egoismo, incurante degli altri specialmente dei più poveri, e quindi dello scarto sociale, perché in un tale contesto la scuola viene obbligata a impostarsi come centro di comunicazione di saperi, di tecnologia e scienza, al servizio della crescita economica. Tutto questo rende più urgente che mai la riflessione sul tema della scuola.

    La scuola

    A parte le complesse problematiche del contesto socio-culturale e quelle derivanti da un quadro socio-politico piuttosto deteriorato, per suo conto la scuola (di qualsiasi tipo) si trova oggi a far fronte a problemi strutturali e culturali specifici, che si vanno sommando senza soluzione da qualche tempo: ad esempio la scolarizzazione di massa, l’adeguazione della cultura e delle procedure ai tempi e ai bisogni della popolazione scolastica, il rapporto con la produzione sociale; l’incidenza delle nuove tecnologie informatiche; il regime di concorrenza cui è sottoposta dal potere economico-sociale, dall’opinione pubblica e dalle altre agenzie sociali di formazione, ecc.
    A fronte di tale orizzonte problematico si è presa coscienza della fine dello ‘scuolacentrismo’ formativo, ma allo stesso tempo si è riaperto il dibattito sul necessario o meno ‘ridimensionamento’ dei fini e delle funzioni della scuola (sono essi di pura istruzione o formazione delle intelligenze, o anche di educazione e di socializzazione?) e sullo ‘specifico scolastico’ in una società complessa e differenziata qual è quella in cui abbiamo a vivere e ad operare in questo inizio del terzo millennio.

    Tornare alle origini dell’educazione
    La scuola è, o almeno dovrebbe essere, il luogo in cui l’educazione si realizza attraverso la trasmissione di un patrimonio culturale elaborato dalla tradizione, mediante lo studio e la for­mazione di una coscienza critica. Nella nostra società, però, è l’idea stessa di educazione a essere messa in discussione, supponendo un orizzonte condiviso di valori che oggi non esiste più. Si esalta la libertà dell’individuo di determinare in piena autonomia il proprio cammino, di rielaborare la propria identità fino al caso limite della scelta del proprio genere senza doversi confrontare con uno standard prestabilito di “normalità”. In un clima culturale in cui il confronto con la realtà si sfrangia in una miriade di prospettive diverse e contraddittorie, assumendo la forma di un grande gioco a sfondo estetico, come potrebbe una qualsiasi istituzione - la famiglia e, a maggior ragione, la scuola - pretendere di imporre un modello univoco di verità e di dedurne dei fini valoriali da proporre a tutti?
    Un secondo punto è rappresentato da quella che uno studioso francese, Christian Lavai, ha definito “l’ideologia della professionalizzazione”, coltivata da alcune grandi istituzioni sovranazionali che svolgono un ruolo strategico in vari campi. Nei documenti di questi centri di elaborazione e irradiazione anche di cultura pedagogica, la nozione di educazione viene riduttivamente assorbita entro il triangolo scuola-formazione-professione. L’educazione che la scuola impartisce, in particolare, avrebbe senso solo in quanto utile ai processi economici e produttivi. Non è un caso che nei documenti internazionali si parli dell’uomo in termini di risorse umane o di capitale umano e che a proposito della scuola si ricorra alla nozione di school effectiveness [efficacia della scuola]. Con questa espressione si intende un modello scolastico legittimato dalla capacità di restare al passo con i cambiamenti economici, tecnologici e produttivi e, di conseguenza, rispetto alla spendibilità pratica degli apprendimenti.
    Essi, a loro volta, vengono definiti soprattutto dal livello di padronanza delle competenze e dunque finalizzati alla capacità di risolvere problemi, più che alla promozione di una crescita personale. Alla concezione tradizionale di un sapere disinteressato, volto alla scoperta della realtà e del suo significato, viene contrapposto un apprendimento capace di confrontarsi con l’immediatezza di bisogni pratici. Di qui una quasi ossessiva attenzione per individuare metodi di valutazione sempre più sofisticati, fino a identificare la valutazione stessa con una misurazione.
    Si determina in tal modo una convergenza oggettiva tra una ragione che rinuncia a misurarsi con la ricerca di un fondamento e una tecnologia sempre più potente e sempre più autogiustificatrice. Sia per l’una che per l’altra è inutile e fuorviante spendere tempo nell’educazione di una interiorità capace di interrogarsi sul senso della vita e della morte. La prima responsabilità dell’educazione sembra essere ormai diventata quella di dare istruzioni su “come fare a”, anziché quella di far comprendere i modi che le culture e le tradizioni hanno costruito per dare ordine e senso ai diversi saperi, aiutando così il giovane a costruire la sua risposta alla domanda di significato.
    La finalità del processo educativo, a questo punto, rischia di ridursi ad “apprendere ad apprendere”. La convinzione diffusa è che educare non significhi più trasmettere un sapere, proporre contenuti, valori, visioni del mondo, esperienze significative, ma addestrare gli alunni a muoversi agilmente nella complessità, utilizzando tutto senza mai impegnarsi veramente con nulla. Di conseguenza l’insegnante non è più un “maestro” capace di far comprendere le tante sfaccettature di una problematica generale, ma soltanto un allenatore, un trainer, la cui funzione è di far acquisire ai giovani delle competenze ben localizzabili, intese come abilità ristrutturabili e plasmabili in vista dell’acquisizione di altre informazioni. Ma gli educatori non possono essere considerati semplici facilitatori; hanno un ruolo e un compito ben più ampio e importante: presentare, attraverso le diverse discipline, riferimenti simbolici e modelli di comportamento che possano essere significativi per la vita reale dei giovani. Serio è dunque il problema quando gli insegnanti non sanno più perché dovrebbero insegnare quello che insegnano e molti studenti non sanno più perché dovrebbero studiare quello che studiano, in modo particolare quelle materie che non sono considerate immediatamente utili. Come osservava Weber in La scienza come professione: «[…] per l’uomo non ha nessun valore ciò che egli non è capace di fare con passione».
    Viviamo in una società opulenta, le cui difficoltà dipendono, non dalla penuria, ma dall’eccesso delle opportunità, degli stimoli, dei messaggi. La complessità delle esperienze è per la persona una ricchezza, ma anche una sfida. La costringe a una continua opera di rielaborazione dei dati, dei messaggi, delle suggestioni, che la pressano da tutte le parti, allo scopo di farli rientrare in una visione complessiva e il più possibile unitaria del suo mondo. Ma ciò è possibile finché la pressione si mantiene entro certi limiti. L’aumento esponenziale delle sollecitazioni, a cui il mondo esterno sottopone l’individuo, alla fine lo travolge. Ed egli rinunzia a discernere e selezionare i diversi stimoli, integrandoli in un quadro coerente. Finisce per affastellare alla rinfusa esperienze, pensieri, stati d’animo, senza essere in grado di darne una valutazione critica e di farne una gerarchia. Piuttosto che raccoglierli dentro di sé, ordinandoli, non riesce a far altro che abbandonarsi indiscriminatamente al loro flusso caotico. In questo modo, però, non soltanto la sua visione della realtà, ma anche la sua identità interiore si frantuma, ed egli diventa, pirandellianamente, “uno, nessuno, centomila”. Da qui nasce un profondo senso di insicurezza, una profonda crisi d’identità degli uomini e delle donne del nostro tempo. Lo rivelano la crescente difficoltà delle persone a fare delle scelte coerenti, la loro incapacità di aderire senza riserve a un ideale, il loro rifiuto delle posizioni dai contorni troppo netti. Lo rivelano la tendenza del singolo a vivere senza drammi nella contraddizione, la sua ripugnanza a rinunziare a una qualsiasi delle possibilità che gli si presentano, la vertigine di essere tutto e l’angoscia di non essere niente. Lo rivela, in ultima istanza, la perdita, da parte del soggetto, di un centro interiore, che gli consenta di ricomporre e articolare in modo coerente la molteplicità frammentaria delle proprie esperienze e di progettare sensatamente la propria storia. L’educazione, infatti, è un’opera che si compie innanzitutto nell’intimo della persona e tramite la quale essa, stimolata e accompagnata dall’esterno, assume una forma dinamica e coerente con i valori riconosciuti e accolti.
    È con tutto questo che oggi il compito educativo della scuola deve misurarsi. E proprio nella vocazione culturale che costituisce la sua specificità essa può trovare gli strumenti per rispondere a questa crisi della persona. Perché essa - a partire dalla scuola dell’infanzia fino alla secondaria superiore e (sia pure con diverse modalità) all’università - ha un approccio che privilegia il logos, dove questo termine indica non solo la parola, non solo la ragione, ma anche l’unità che deriva dal mettere in relazione i diversi. Ed è proprio in forza di questo ultimo significato che gli altri due acquistano il loro pieno significato, quello, cioè, di una parola che raccoglie e unifica i diversi aspetti della vita interiore della persona, e di una razionalità che collega i molteplici aspetti del mondo e le diverse esperienze della vita facendone scaturire il significato.[1] Ecco perché diventa necessario tornare alle origini dell’educazione per capirla meglio, anche nel suo sviluppo.

    Il rapporto educazione - cultura

    Intimamente vincolate al progresso umano, l’educazione e la cultura non si colgono se non nel loro vicendevole rapporto. Qui consideriamo l’educazione nel suo rapporto con la cultura, intesa nella sua duplice dimensione, individuale e sociale; si tratta cioè della crescita delle persone, così come del modo tipico di essere delle società umane.
    Nessuna società può sussistere senza una forma, almeno rudimentale, di educazione, grazie alla quale si trasmettono alle giovani generazioni i valori, le conoscenze e la percezione di un destino comune. Un passo di uno dei grandi antropologi della cultura illustrava già questo plasticamente:
    «Si prenda un uovo di formica di ciascun sesso: uova non covate, fresche. Si distruggano tutti gli altri individui e tutte le altre uova della specie. Si presti qualche cura a questo paio per quanto si riferisce al caldo, l’umidità, la protezione e l’alimento. Tutta la ‘società’ delle formiche, con tutte le sue abilità, poteri, realizzazioni e attività della specie, sarà riprodotta, e riprodotta senza diminuzione, in una generazione. Invece collocate su un’isola deserta o in un terreno recintato duecento bimbi nella migliore condizione fisica, della classe più alta e della nazione più civilizzata, date loro la necessaria incubazione e nutrizione; isolateli totalmente dalla loro specie e che cosa otterremo? La civiltà da cui furono strappati? Una decima parte della medesima? No! Nemmeno una frazione dei risultati ottenuti dalla più arretrata tribù selvaggia. Solo un paio o una legione di muti, senza arte né conoscenze, senza fuoco, senza ordine, senza religione. La civiltà rimarrebbe cancellata all’interno di quei confini; non disintegrata, e nemmeno ferita nel vivo, ma cancellata con un colpo di spugna. L’ereditarietà salva per la formica tutto ciò che essa possiede, di generazione in generazione. Ma l’ereditarietà non mantiene, e non ha mantenuto perché non può mantenerla, una sola particella della civiltà, che è l’unica cosa specificamente umana».[2]
    L’educazione informale si realizza in primo luogo nella famiglia e poi nell’iniziazione progressiva alle attività comunitarie: rapporti di parentela e di vicinato, apprendistati diversi, partecipazione al lavoro, alle feste, alle celebrazioni, al culto religioso. Il bambino acquisisce qui la sua lingua e le sue conoscenze, gli usi, credenze, tradizioni, comportamenti e regole sociali indispensabili alla sua integrazione nel gruppo.
    Col progresso delle società, l’educazione andò sviluppandosi come una funzione specifica, affidata a gruppi o istituzioni particolari: la scuola elementare, media e superiore, l’università, che avevano il compito di continuare questo processo di inculturazione o integrazione degli individui nella loro rispettiva società, nello stesso tempo in cui assimilavano il progresso dell’umanità. L’educazione formale, quella vincolata ai sistemi educativi delle diverse nazioni, ha infatti il compito di preservare il patrimonio prezioso del passato per rispondere alle sfide del presente e preparare il futuro.

    Cultura greco-latina ed educazione
    Fondamentalmente il modello educativo delle società moderne ha le sue origini nella cultura greco-latina e giudeo-cristiana. Bene o male, questo modello scolastico ha contrassegnato l’Occidente, così come tutti i Paesi che hanno accolto la modernizzazione economica, politica, sociale ed educativa. Nel bene perché ha favorito l’unità della famiglia umana, nel male perché, sacrificando le culture proprie dei popoli, ha portato alla confusione dell’unità con l’uniformità. In onore della ‘civilizzazione’ si sacrificò l’inculturazione e si impose la ‘transculturazione’ o trasferimento egemonico di una cultura ad un’altra, talvolta cancellando questa! Quante fra le guerre, i conflitti e i disturbi politici in corso hanno la loro origine in questo tentativo di privare popoli e nazioni della loro identità culturale!
    È vero che le tradizioni culturali della Cina, dell’India, dell’Egitto, hanno anche prodotto forme pedagogiche ammirevoli a cui può ancora ispirarsi il nostro mondo, ma i loro metodi educativi non hanno conosciuto né la sistematizzazione né l’irradiazione universale del modello greco-romano diffuso dall’Occidente.
    L’ideale greco di educazione proponeva un umanesimo, vale a dire, una ragione di vivere degna dell’uomo. Questa pedagogia originale, chiamata ‘paideia’, aveva come cardine la formazione dell’uomo integrale: corpo, anima, immaginazione, ragione, carattere, spirito. Il giovane si sviluppava mediante la ginnastica, la musica, la danza, le matematiche, la grammatica, la lettura, le lettere, le scienze, la retorica, l’arte, la filosofia. La familiarità coi grandi autori offriva modelli di coraggio, di nobiltà, e i giovani si iniziavano in questo modo all’imitazione degli eroi. Occorre notare soprattutto che il genio ellenistico creò tutte le discipline intellettuali, pratiche ed artistiche, di cui vivono tuttora i nostri sistemi educativi: grammatica, matematica, geometria, storia, teatro, scultura, musica, diritto, retorica, filosofia, scienze politiche, medicina, fisica.
    Seguendo i greci, i romani si convertirono in propagatori di una pedagogia umanistica legata alla cultura classica: Cicerone traduceva ‘paideia’ con ‘humanitas’, il fatto di diventare pienamente uomo.

    La pedagogia cristiana delle origini
    La diffusione del cristianesimo in tutto l’Impero Romano provocò una nuova sintesi culturale, in cui i valori classici si integrarono e si arricchirono con una visione cristiana del mondo e del destino umano. Questi valori si incentrano su una certa filosofia della persona umana e del suo destino trascendente, su un ideale di famiglia e del bene comune, su una concezione del lavoro e del rapporto con la natura, su una visione dell’economia e della politica, su un’idea della propria nazione e dei suoi rapporti col resto del mondo. È in questo contesto che nacquero i diritti dell’uomo, la democrazia, la scienza moderna, lo Stato rappresentativo, l’esplorazione e lo sfruttamento della terra, il diritto universale.
    Se volessimo descrivere brevemente i valori tipici apportati da questo modello di educazione alla cultura dell’uomo moderno, dovremmo riconoscere i seguenti elementi: la visione propria della felicità dell’uomo visto nell’economia divina, il rispetto per lo spirito e per la libertà, il gusto della creazione e del superamento, la razionalità di fronte ad un universo da conoscere e da sfruttare, il bisogno di intraprendere e di distinguersi, la ricerca dell’eccellere, il senso della competizione e dell’emulazione, la preoccupazione per la città e per i diritti umani, l’attitudine a servire il bene comune mediante un lavoro competente, una concezione della persona creata ad immagine di Dio e chiamata ad un destino eterno. L’educazione classica raggiungeva il suo obiettivo quando i giovani si convincevano, come dice Pascal, che “l’uomo supera infinitamente l’uomo”.

    Verso un nuovo modello culturale ed educativo
    Per una specie di paradosso, è stato proprio il successo dell’educazione classica che ha portato al suo disorientamento, giacché questa pedagogia favorì quel prodigioso sviluppo delle conoscenze che condusse alla rivoluzione tecnologica e alla nascita dello spirito moderno. Oggi all’educazione costa fatica definirsi, in una cultura contrassegnata, da allora, dal pluralismo delle convinzioni e dei comportamenti, dalla caducità e dalla sostituzione rapida delle conoscenze, dalla socializzazione dei beni culturali, dalla scolarizzazione generalizzata e dall’università di massa, dal ruolo dominante dei mezzi di comunicazione sociale nella cultura moderna, dallo sviluppo del settore quaternario che privilegia l’innovazione costante e la ricerca. Nulla di strano quindi che la scuola e l’università tradizionali siano realmente in crisi di fronte ad un mondo in cambio profondissimo e accelerato che difficilmente accetta le élites e le gerarchie prestabilite.
    La sociologia dell’educazione si è dimostrata attenta a questi problemi per misurarne la gravità e la complessità. Ma da sola è incapace a dare loro soluzioni soddisfacenti. E allo stato attuale delle riflessioni pedagogiche e filosofiche vale la pena sottolineare alcuni orientamenti fondamentali:
    Oggi più che mai importa ridefinire gli obiettivi dell’educazione. La tradizione bimillenaria dell’educazione classica e cristiana offre una risposta sempre valida affermando che obiettivo dell’educazione è la formazione di uno spirito capace di giudicare con libertà. È una contraddizione pedagogica ridurre la scuola ad un semplice mezzo di riproduzione ideologica o semplicemente alla formazione tecnica richiesta dal sistema economico. Pur senza negare gli obiettivi pratici dell’educazione, la sua finalità più elevata, che è di ordine umanistico, cioè collaborare col giovane nella difficile arte di imparare ad essere persona, esige una ferma rivendicazione.
    Occorre perseguire un delicato equilibrio tra la formazione personale dello studente e la sua informazione enciclopedica. Il prodigioso sviluppo delle conoscenze in tutti i campi rende ora impossibile un’assimilazione sintetica di tutto il sapere. Nella cultura moderna d’ora in poi occorre imparare a vivere con un immenso margine di non-sapere: quei vasti settori delle scienze riservati agli esperti di discipline sempre più specializzate. Si impone, di conseguenza, uno sforzo comune affinché si percepisca e si affermi la finalità umanistica ed etica del sapere che si comunica. La scuola si sforzerà, da parte sua, di far comprendere che la conoscenza è ancora più importante del sapere, poiché è l’unica che porta alla responsabilità morale e alla sapienza.
    La famiglia, come primo ambiente educativo, e gli insegnanti di professione conservano tutto il loro posto nella società moderna. Col pretesto di una razionalizzazione politica, economica, non si può, senza cadere in contraddizione, mobilitare la scuola per farne uno strumento di potere, di manipolazione economica, di riproduzione sociale, ideologica. L’esperienza dimostra che nessun progetto educativo può ottenere successo senza la partecipazione delle famiglie, degli insegnanti competenti e delle forze vive di una cultura. In una nazione, la politica dell’educazione è chiamata anzitutto a favorire l’uguaglianza di opportunità nei riguardi dell’istruzione a tutti i livelli, mettendo le risorse dello Stato al servizio del sistema educativo. Il ruolo di stimolare, di animare e di coordinare i compiti educativi spetta allo Stato, ma la missione di educare e di istruire appartiene alla comunità umana, alle famiglie, alla scuola, alle università, a tutte le istituzioni culturali che formano l’ambiente educativo propriamente detto.
    Anche se occorre difendere la prospettiva umanistica dell’educazione, bisogna riconoscere che la scuola del passato ha potuto favorire, più o meno consapevolmente, un individualismo che poco si preoccupava delle responsabilità degli insegnanti e degli studenti di fronte al cambio sociale. Si impone una revisione nelle culture, che ora valorizzano – almeno nell’intenzione – la solidarietà e l’aspirazione di tutti allo sviluppo e alla giustizia. Se la formazione umanistica delle persone conserva tutta la sua validità, occorre pure accentuare, molto di più che nel passato, la funzione sociale dell’educazione. Le società tradizionali si rappresentavano il mondo come qualcosa di relativamente statico, in cui i rapporti tra le classi sociali e tra i popoli si coglievano come un dato praticamente immutabile. Uno dei cambi più profondi della nostra epoca è la convinzione crescente che le società si possono effettivamente cambiare mediante uno sforzo umano accomunato. È questo il senso dell’interdipendenza che oggi viviamo e che si traduce nell’attuale processo di globalizzazione. Ciò richiede un’educazione alla responsabilità sociale, in senso civico e politico, inteso nel senso più ampio della parola, di costruttori della città. Questo aspetto dell’educazione si carica di un’urgenza particolare in un mondo in cerca di giustizia e di partecipazione universale alla cultura. L’educazione, d’ora in avanti, si concepisce come un servizio all’individuo, certo; ma anche come un fattore di sviluppo e di promozione per l’insieme della società.
    La capacità di analisi sociale e culturale, quindi, è parte integrante di ogni formazione umana. La formazione al discernimento culturale è una necessità, se si vuole evitare l’indeterminazione etica e la perdita di identità. Così si assicura, come contropartita del punto precedente, la crescente valorizzazione dell’identità culturale di ogni popolo. In altri tempi l’ambiente e le istituzioni stabili aiutavano gli individui a situarsi nel cuore di una cultura. Adesso la responsabilità è diventata in gran parte personale. L’educazione classica insegnava ad analizzare le grandi opere letterarie del passato; l’educazione moderna, senza trascurare questa attitudine, deve preparare gli studenti ad analizzare le culture vive, i loro valori dominanti, le loro evoluzioni, il loro impatto sulle mentalità e sui comportamenti. Oggi educare significa insegnare alla persona ad auto-educarsi senza sosta in un ambiente culturale fluido ed in costante evoluzione. Di qui la necessità dell’educazione permanente, che è diventata un’esigenza ineludibile per le culture in cambio.
    Nella società moderna il pluralismo culturale pone problemi nuovi e difficili ai responsabili dell’educazione. Una soluzione di falsa razionalità induce certi governi ad una politica educativa che semplicemente prescinde dalle convinzioni religiose e morali delle famiglie, relegando questi valori alla sfera del privato. Questo significa dimenticare il diritto primario che hanno le famiglie di trasmettere ai loro figli le proprie credenze ed eredità spirituali. In nome dello stesso pluralismo si rivendica attualmente un’altra soluzione: quella di diversificare i servizi offerti alla popolazione, tenendo conto delle convinzioni della famiglia e delle risorse disponibili da parte dello Stato. Una politica educativa rispettosa del pluralismo culturale, pertanto, riserverà un luogo legittimo all’insegnamento religioso e alla formazione morale. È questa una delle concretizzazioni più perfette della ‘libertà di educazione’.
    Come si vede, la gestione di un sistema educativo moderno pone alla società problemi amministrativi molto complessi; ma la sfida maggiore è quella di ordine culturale.

    Il rapporto scuola - educazione

    Nel corso della sua lunga storia, la scuola come istituzione rare volte ha dovuto vedersela con un insieme così impressionante di convulsioni politiche, sociali, scientifiche e culturali. Partiamo da ciò che è più vicino: i nuovi modi di produzione della cultura. Per secoli la scuola si è identificata con una certa idea della civilizzazione riconoscendo che svolgeva un ruolo civilizzatore proprio. Orbene, questo postulato pare esser crollato nell’attualità, giacché è una nuova cultura quella che ora si produce e si trasmette per mezzo di poderosi rivali extra-universitari che hanno invaso il campo dell’insegnamento, dell’investigazione, della documentazione e dell’informazione. Le scuole devono ancora terminare di scoprire come passare dalla competitività alla cooperazione con questi nuovi agenti di produzione culturale. Pensiamo, per esempio, ai potentissimi mezzi di comunicazione sociale, alle industrie culturali, alle banche-dati, alle comunicazioni via satellite, agli insegnamenti e studi legati all’industria privata e allo Stato.
    La principale sfida per la scuola sarà quella di definire il proprio ruolo nello sforzo di modernizzazione delle società. Come riconciliare la crescita economica col progresso in umanesimo? Bisogna essere consapevoli che il duro linguaggio della produttività moderna non si compagina facilmente col discorso umanista. Basterebbe pensare a un teorico del neoliberalismo, come Francis Fukujama e la sua tesi del fine della storia.[3] Gli agenti economici sentono infatti una specie di pudore e di malessere quando sentono dissertare sui valori che reggono la cultura dello spirito. La fredda razionalità del pragmatismo, della redditività, della competitività, non si armonizzano facilmente con la logica del sapere e della ricerca, ma soprattutto con l’educazione umanista. Come si vede, la questione di fondo è quella del ruolo culturale che corrisponde propriamente alla scuola.
    Il discorso sulla cultura non è mai stato facile e rare volte è stato affrontato senza vacillamenti e senza riserve, poiché tocca il terreno dello spirito, dell’ideale, dei valori più alti che la scuola rappresenta. Gli avvenimenti stessi si incaricano di rivelare alle società e agli studenti che ciò che è maggiormente in gioco nell’avvenire è il problema della cultura. In effetti, le questioni più urgenti sono anzitutto di ordine etico e culturale, perché riguardano il senso della vita umana, i nuovi modi di procreare, la sperimentazione biologica, la biotecnologia, l’intelligenza artificiale. In questa situazione, avvertiamo appena che i nuovi ritrovati della scienza e della tecnologia non solo stanno cambiando l’interpretazione dell’uomo e della vita, ma che hanno raggiunto addirittura la capacità tecnologica di riprodurre la vita, come è stato dimostrato chiaramente dal successo ottenuto nella determinazione della mappa genetica e nella clonazione. A questi problemi aggiungiamo quelli che si riferiscono alla protezione dell’ambiente, alle nuove povertà, al giusto sviluppo di tutti i gruppi e di tutti i popoli, alla responsabilizzazione dei grandi settori culturali, come i mezzi di comunicazione sociale, e alle nuove sfide che suppongono le migrazioni interetniche in costante aumento. Qui in Italia non è l’eccezione, anzi!
    In tale società, in cui entrano in crisi tutte le ideologie e in cui il pragmatismo puro rivela la sua drammatica insufficienza e i suoi effetti destabilizzatori, la scuola deve affermarsi come luogo generatore di cultura, dedita alla ricerca di senso, come centro di libera riflessione ed educazione, indispensabili per la salute culturale di una nazione.
    La missione della scuola non è meno necessaria e urgente oggi di ieri. Al contrario! Le società libere non potrebbero sopravvivere e progredire per molto tempo senza la libera ricerca del sapere, senza la creatività che nasce dalla ricerca, senza un approfondimento - fatto da ogni generazione - dei valori permanenti del mondo civilizzato. Questi valori hanno il loro fondamento in una antropologia umanista e spirituale: si chiamano verità, giustizia, diritto, libertà, primato della persona e del suo destino spirituale, senso di solidarietà e del bene comune. Questi valori fondamentali delle società civilizzate non si acquisiscono una volta per tutte. E non possono svilupparsi se non mediante la riflessione, l’educazione e lo studio, che li fanno penetrare nelle coscienze e nelle istituzioni. È questa una delle funzioni più alte della scuola.
    Di fronte a questo panorama di sfide è naturale, quindi, che la scuola, almeno in gran parte del mondo occidentale, si sforzi per adattare/accordare piani e programmi, come dimostrano le riforme educative che si stanno realizzando già da anni in molti Paesi. Il contributo di Hannah Arendt è stato proprio quello di far vedere che l’educazione si colloca “fra il passato e il futuro”, fra la stabilità e il cambio, fra la tradizione e l’innovazione.[4] Nonostante ciò, mi pare che più importante di ciò è il cambio globale della scuola, determinato specialmente dalla modifica di due rapporti: il rapporto tra scuola ed educazione, e il rapporto tra scuola e società.

    Scuola ed Educazione
    Negli anni passati, la famiglia e la scuola coprivano l’arco di tutta l’educazione di un giovane. Non vi era margine per altri influssi educativi o diseducativi. Oggi - come detto sopra - si possono contare altre agenzie educative, a volte con più peso che la stessa famiglia o la scuola.
    I mezzi di comunicazione sociale, che sono passati da catene di informazione a vere e proprie reti educative, creatrici di nuova cultura, con tutto ciò che questo implica: fucina di modelli, diffusione di valori, modo di organizzare la vita, di interpretare la realtà, ecc. Data la loro efficienza e continuità, anche se non si presentano con propositi formalmente educativi, hanno, su una personalità in formazione, una percentuale elevata di influenza.
    Gli ambienti del tempo libero e le attività di libera scelta, che si sono venuti moltiplicando, e che non sono determinati da un programma scolastico, ma che esercitano anche un influsso sulla costruzione della persona e contribuiscono a plasmarla.
    Gli ambienti di socializzazione propri della gioventù, in cui si discute e avviene l’incontro con gli adulti e i compagni, luoghi che si convertono in una specie di “università della vita”, in cui si va elaborando un modo di vedere l’esistenza e delle norme di comportamento.
    È questo il primo cambiamento: la nuova distribuzione delle istanze educative. La scuola e la famiglia continuano a svolgere un ruolo importante, ma non sono più le uniche che intervengono nel processo educativo. Esse devono riconoscere che oggi viviamo in un clima di pluralismo di proposte e che, pertanto, devono assumere più di prima il compito di convertire in influssi convergenti proposte e stimoli magari paralleli o divergenti. Di qui la nuova necessità che sperimenta la scuola di non essere semplicemente supermercato dell’informazione, di trasmissione di dati, ma che deve dare forza alla testimonianza e all’elaborazione di quei valori che agglutinano o servono da filtro critico ai molteplici influssi che oggi assediano tutte le persone, specialmente i giovani.

    Scuola e Società
    Il secondo cambiamento notevole si riferisce al rapporto tra la scuola e la comunità umana in cui essa opera. La scuola non è più proprietà di un gruppo di educatori - religiosi e Stato -, e le famiglie non sono semplici clienti di una impresa educativa a cui affidano i propri figli, esigendo un servizio specifico retribuito direttamente (scuola privata) o indirettamente (scuola statale).
    Oggi la scuola si integra sempre più nella dinamica della comunità sociale, e questa partecipa - deve partecipare - con responsabilità alla programmazione e alla gestione. In alcuni posti si è arrivati alla gestione comunitaria della scuola sanzionata dalla legge. Il rapporto tra Scuola e Comunità oggi è marcato da una realtà chiamata partecipazione. Tanto la società come le famiglie non si collocano più fuori dalla scuola. Oggigiorno non si accontentano di provvedere agli allievi. Ora rivendicano il loro diritto a partecipare nell’elaborazione del progetto educativo e delle norme che servono da guida all’educazione.

    Futuro della scuola

    Non sorprende dunque, anzi, che in simile contesto si deva parlare del futuro della scuola e la scuola del futuro, un tema che è, allo stesso tempo, complesso e difficile, ma anche appassionante e sfidante, perché siamo consapevoli che da qui passa la crescita del nostro Paese – diceva l’On. Valentina Aprea in un suo intervento [5] – «[…] oggi toccato da crisi e pericolo di declino sugli scenari mondiali. Una crisi che rischia di consolidarsi se istruzione e formazione non creeranno una classe dirigente adeguata e capace di confrontarsi con quella degli altri Paesi; se il sistema riproporrà ancora dinamiche socialmente parassitarie, che non hanno ragione di esistere in un mondo ormai globalizzato. Per questo motivo formare professionisti all’altezza delle sfide in una società post industriale competitiva, multiculturale e della conoscenza diventa un must imprescindibile per qualsiasi Paese che voglia crescere; un obiettivo che non può essere conseguito senza innalzare per tutti la qualità dell’istruzione e della formazione posseduta.
    Abbiamo bisogno - diceva - di un numero sempre maggiore di studenti che siano all’altezza nei settori culturali e professionali scelti, individuando all’interno di questa platea generazionale: persone che non prosperino in settori professionali protetti e a mandato quasi ereditario (i figli dei medici che fanno i medici, dei giornalisti che fanno i giornalisti, degli avvocati che fanno gli avvocati ecc.), ma che emergano da un confronto leale nel mare aperto della competizione; che superino meglio l’handicap storico della nostra classe dirigente: quello per il quale i suoi appartenenti “non si sporcano le mani” con attività più tecniche e pratiche, isolandosi in una teoria slegata dal concreto. Sarà, dunque, opportuno valorizzare al meglio la lezione della cultura occidentale, secondo la quale sarebbe impossibile praticare téchne (tecnica, tecnologia) senza fare i conti con theoría ed episteme (la scienza) e, ancor di più oggi, con phrónesis (la saggezza). Anche a non volerlo, infatti, queste tre dimensioni starebbero insieme in una professionalità matura, autentica e non semplificata da logiche scompositive ed alienanti. Questo vale il superamento del pregiudizio per cui chi sa non fa e chi fa non sa; chi studia non deve lavorare, fare, operare con le mani e chi lavora, simmetricamente, non deve studiare. Dimostrare, infine, che le due consapevolezze precedenti nascono e trovano la loro stessa condizione di praticabilità all’interno di un’esperienza storica che si è alimentata al patrimonio ideale, pratico e morale della civiltà classica (greco-latina) ed ebraico-cristiana, ci incoraggia, anche e soprattutto oggi, a sperimentare una prospettiva personalista secondo cui c’è davvero istruzione e formazione e vero sviluppo quando si esalta il compimento di ogni persona, nella unicità della sua intelligenza, libertà e responsabilità. In sintesi, e questo dovrebbe valere in particolar modo per le classi dirigenti, la matematica, le scienze e l’informatica dovrebbero essere riconosciute da chi ha studiato non solo come mezzi per perfezionarsi, per rendere sapiente chi le impara o le possiede o per autenticare la propria immagine di sé, ma per rendere sempre più persona ogni persona in vista di un’utilità sociale rivolta al bene comune. Le classi dirigenti, perciò, saranno tali non solo se saranno funzionali al mercato, ma se concorrono ad un bene di tutti che è anche (Platone insegna) un “Bene per noi”.
    Di questo stretto rapporto tra theoría, téchne e phrónesis si dovrà tenere conto, in particolare, nell’attuare il riordino del secondo ciclo della scuola italiana. Una scuola che rimane disorientata di fronte alle sfide di oggi, dimostrando, se mai ce ne fosse bisogno, quanto essa sia ancora autoreferenziale e quanto sia lontana dai bisogni delle famiglie e del tessuto produttivo… Pertanto, in un orizzonte di sussidiarietà educativa, la costruzione del percorso formativo non va interamente dettata a livello centrale ma una sua parte dovrebbe essere lasciata alla scelta di studenti e genitori. Parallelamente sarebbe utile che orientatori e docenti specializzati potessero essere impegnati per accompagnare l’alunno nella sua ricerca.
    L’educazione scolastica, infatti, tende sempre più a ridursi a trasmissione di determinate conoscenze e abilità che non cambiano il sistema dei valori e dei comportamenti personali e che incidono sempre meno anche sul sistema dei valori e dei comportamenti sociali. Un’inversione di tendenza è richiesta dalla società, dalle aziende e dalle stesse famiglie, considerando la crescente domanda di una scuola educativa… Nell’introduzione al White Paper, Higher Standards, Better Schools For All, Tony Blair aveva scritto: “Siamo ad una svolta epocale, saremo fra i primi al mondo se avremo il coraggio di riformare e investire ancora nella scuola e mettere genitori e studenti al centro del sistema”. E aveva concluso: “Le nostre proposte non costituiscono solo il nuovo fondamentale passo della più radicale e riuscita riforma della scuola, esse assicurano anche il cambiamento irreversibile del miglioramento dell’istruzione”. … Ci si riferisce ai fini della scuola in rapporto allo sviluppo spirituale, morale, culturale e sociale degli allievi e al modo in cui essi si rapportano tra di loro. In sostanza, la scuola dovrebbe mirare a dare senso all’insieme degli apprendimenti, organizzati attorno ad un progetto culturale, professionale, spirituale, ideale che, dal basso (ossia più vicino all’utenza), sia espressione del territorio in un’applicazione intelligente della sussidiarietà; che sia una leva per motivare il ragazzo a costruire le basi del suo rapporto con se stesso e con gli altri. Su questo piano riteniamo anche noi di doverci muovere, proprio quando il progetto educativo della scuola, stretta da più seducenti maestri (la strada, internet, i videogiochi, ecc.) sembrerebbe perdere forza.
    Volendo giungere ad una conclusione, riteniamo di doverci impegnare:
    a) perché vi sia una revisione dei piani di studio secondari e universitari nella prospettiva di assicurare in tutti i percorsi che pur devono restare specifici (e valorizzare questa loro specificità) la presenza di una circolarità tra dimensione tecnica, scientifica e umanistico-etica;
    b) perché vi sia pari dignità educativa e culturale tra percorsi formativi liceali e di istruzione e formazione tecnico-professionale;
    c) perché si possa rendere sistematica la metodologia dell’alternanza scuola lavoro a livello secondario e superiore per legare sempre più formazione e territorio, teoria e pratica, perché abbiano cittadinanza anche nel nostro Paese il pensiero manuale e la cultura del lavoro, colpevolmente sviliti fino ad oggi nei percorsi formativi;
    d) perché si modernizzino i percorsi di studio rendendoli più flessibili e più attraenti rispetto alle attitudini e ai talenti di ogni studente, con un’attenzione particolare allo studio delle lingue, delle nuove tecnologie e delle scienze, come auspicato anche dal Processo di Lisbona.

    Per concludere

    Ecco perché sia tanto significativo, ed è molto importante notarlo, che Mario Draghi, nel suo Discorso al Senato, parlando delle priorità, subito dopo quella del piano di vaccinazione, abbia scelto quella della scuola. Ha evidenziato in primo luogo l’urgenza di venire incontro alle sfide che la pandemia ha fatto subire al funzionamento normale della scuola, in particolare con la didattica a distanza cercando di recuperare le ore di didattica in presenza perse, soprattutto dove la DAD ha incontrato maggiori difficoltà.
    Ma in sintonia con il tema “la scuola di fronte alle sfide attuali” e con quanto è stato detto, ha ribadito - e cito letteralmente - che: «È necessario investire in una transizione culturale a partire dal patrimonio identitario umanistico riconosciuto a livello internazionale. Siamo chiamati a disegnare un percorso educativo che combini la necessaria adesione agli standard qualitativi richiesti, anche nel panorama europeo, con innesti di nuove materie e metodologie, e coniugare le competenze scientifiche con quelle delle aree umanistiche e del multilinguismo.
    Infine è necessario investire nella formazione del personale docente per allineare l’offerta educativa alla domanda delle nuove generazioni.
    In questa prospettiva particolare attenzione va riservata agli ITIS (istituti tecnici). In Francia e in Germania, ad esempio, questi istituti sono un pilastro importante del sistema educativo. È stato stimato in circa 3 milioni, nel quinquennio 2019-23, il fabbisogno di diplomati di istituti tecnici nell’area digitale e ambientale. Il Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza assegna 1,5 md agli ITIS, 20 volte il finanziamento di un anno normale pre-pandemia. Senza innovare l’attuale organizzazione di queste scuole, rischiamo che quelle risorse vengano sprecate.
    La globalizzazione, la trasformazione digitale e la transizione ecologica stanno da anni cambiando il mercato del lavoro e richiedono continui adeguamenti nella formazione universitaria. Allo stesso tempo occorre investire adeguatamente nella ricerca, senza escludere la ricerca di base, puntando all’eccellenza, ovvero a una ricerca riconosciuta a livello internazionale per l’impatto che produce sulla nuova conoscenza e sui nuovi modelli in tutti i campi scientifici. Occorre infine costruire sull’esperienza di didattica a distanza maturata nello scorso anno sviluppandone le potenzialità con l’impiego di strumenti digitali che potranno essere utilizzati nella didattica in presenza».[6]
    Questa è la risposta alle sfide attuali della scuola!

    NOTE

    [1] Cfr. Comitato per il progetto culturale della CEI, La sfida educativa, Laterza, Bari 2009.
    [2] Kroeber A.L., 1917, pp. 177-178 [sic!], citato da Murdoch G.P., Cultura y Sociedad, México, 1987, p. 72.
    [3] Cfr. Fukuyama F., La fine della storia e l’ultimo uomo. UTET, Milano, 2020. Per Fukuyama la forma di stato ispirata al liberalismo democratico è l’ultima possibile per l’uomo, e anche la più perfetta: essa non può infatti degenerare in niente di peggio, ed essa stessa non è degenerazione di nessun’altra forma politica. La storia si muove verso il progresso e il progresso tecnologico e industriale è stato assicurato, guidato ed indirizzato dal capitalismo in ambito economico. Il capitalismo ha il suo corrispettivo politico nella democrazia liberale, sia perché questa è meglio compatibile con il governo di una società tecnologicamente avanzata, sia in quanto l’industrializzazione produce ceti medi che esigono la partecipazione politica e l’uguaglianza dei diritti.
    [4] Arendt H., Tra passato e futuro (Milano, Garzanti 1991).
    [5] Intervento dell’On. Valentina Aprea al Convegno: Cultura per l’educazione della persona, il futuro della scuola italiana Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 9 marzo 2009
    [6] Draghi M., Discorso al Senato della Repubblica: “L’unità non è un’opzione, è un dovere guidato dall’amore per l’Italia”. Senato della Repubblica, 17 febbraio 2021.

    3.
    Un’educazione per un nuovo umanesimo

    In un intervento di Ferruccio Capelli dal titolo “Per un nuovo umanesimo” in occasione del quinto incontro pubblico organizzato nell'ambito del percorso comune della Casa della Cultura e della Casa della Carità per recuperare uno "sguardo umano", Capelli offre le ragioni che stanno portando a questa situazione di attenzione, di curiosità, di interesse diffuso per la proposta di un "nuovo umanesimo".[1]
    “Si parla spesso, in questi tempi, di nuovo umanesimo. Ne parlano anche voci molto autorevoli. Il tema è stato evocato da papa Francesco. "Serve un patto educativo globale che educhi a un nuovo umanesimo", ha detto il pontefice. Espressione forte, ma, nel caso del pontefice, del tutto coerente con il suo insegnamento: il tema del nuovo umanesimo era già implicito in tanti atti del papa e attraversava tutta la sua Enciclica, Laudato si'.
    Quando, come in quest'incontro, poniamo il problema di un "nuovo umanesimo" andiamo oltre questa emergenza, allarghiamo l'orizzonte del ragionamento. Stiamo invitando a riflettere su un problema più di fondo che attraversa tutto l'Occidente e non solo, ci proponiamo di mettere a fuoco problemi strutturali che stanno modificando la condizione umana, che stanno alterando le relazioni fra gli esseri umani e degli esseri umani con la natura e l'ambiente circostante.
    Si tratta di una riflessione che vorremmo impostare con serietà ed impegno anche perché avvertiamo il rischio che la proposta di un nuovo umanesimo, così pervasiva ma anche un po' vaga, possa, se non impostata e declinata con attenzione, di dissolversi in una retorica un po' banale e poco concludente, del tipo: vogliamoci tutti un po' più di bene.
    Cerchiamo perciò di collocare il problema nella sua giusta dimensione. Secondo noi - proviamo ad impostare bene il problema - siamo immersi in una trasformazione epocale, una vera e propria "grande trasformazione" (l'espressione venne usata da un grande studioso, Karl Polanyi, per spiegare il passaggio dal mondo agricolo tradizionale a quello industriale), una nuova grande trasformazione quindi, che sta cambiando profondamente il modo di lavorare, di comunicare e di vivere degli esseri umani. Essa nasce dall'azione congiunta di due potentissimi fattori di cambiamento, la globalizzazione e gli sviluppi impetuosi della scienza e della tecnica: la loro azione congiunta, sovrapposta, sta letteralmente riplasmando la vita umana.
    Con alcuni effetti che dobbiamo cogliere lucidamente: da un lato la rottura di legami sociali essenziali, con l'allentamento delle strutture tradizionali di solidarietà sociale, fino all'emersione di vere e proprie forme di solitudine involontaria di massa; dall'altro lato l'alterazione del rapporto dell'uomo con l'ambiente naturale fino al punto di generare fenomeni radicalmente nuovi e potenzialmente devastanti come il cambiamento climatico.
    È dentro questo scenario di mutazione radicale che dilagano quell'incertezza e quello spaesamento oggi così diffusi nell'opinione pubblica. Le persone, gli esseri umani, avvertono un mutamento profondo delle strutture sociali e delle condizioni ambientali: tutto cambia, rapidissimamente, ma in tanti non riescono ad afferrare quale sarà la direzione, lo sbocco del cambiamento. L'innovazione è radicale quanto mai nel passato, ma ad essa nessuno riesce ad affiancare l'idea di progresso, di un cammino chiaro, progressivo, in avanti. Innovazione radicale senza progresso: c'è n'è abbastanza per esporre le persone a inquietudini diffuse e a mille interrogativi anche laceranti.
    In un simile passaggio epocale emergono inesorabilmente gli interrogativi sulla collocazione degli esseri umani nella società e nella natura. È successo altre volte nel passato: ai grandi passaggi epocali è corrisposto un ripensamento della collocazione dell'uomo nel mondo.
    La straordinaria stagione dell'umanesimo italiano ed europeo - per riprendere un esempio classico - è maturata nel passaggio dal mondo medievale al mondo moderno. In quel frangente storico, un passaggio drammatico come ci stanno ricordando tanti studi e pubblicazioni recenti (ricordo per la diffusione che hanno avuto gli studi di Michele Ciliberto e Massimo Cacciari), è maturata una nuova visione dell'uomo, del suo modo di concepire la sua collocazione sulla terra e nell'universo, di pensare e praticare il lavoro, le relazioni umane, di immergersi nella storia.
    Anche noi oggi siamo dentro un passaggio epocale, di portata non dissimile a quello che, alcuni secoli fa, segnò la transizione all'età moderna. Stanno emergendo interrogativi di fondo che ci incalzano, a cui non possiamo illuderci di sfuggire. Ecco perché emerge la questione di un nuovo umanesimo.
    Non si tratta, quindi, solo di contrastare eccessi e intemperanze, neppure solo di frenare i deliri dei populismi sovranisti. Il problema è più profondo e ha carattere generale: bisogna affrontare e dare risposte positive a una trasformazione generale e globale i cui sviluppi ed esiti appaiono assai incerti.
    Il nuovo umanesimo su cui vogliamo ragionare deve rispondere alla crisi dei legami sociali ed anche alla minaccia ambientale incombente. Fenomeni come il riscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacciai, la ricorrenza di fenomeni metereologici estremi segnalano quanto è minacciato l'equilibrio uomo - natura: una nube oscura si addensa sulla stessa riproduzione della specie umana. Umanismo e naturalismo, per l'appunto, non sono più pensabili separatamente.
    Il tema, in tempi recenti, è stato posto con particolare vigore da papa Francesco quando nella sua Enciclica ci ha ricordato che "tutto nel mondo è intimamente connesso", ovvero che vi è una connessione inestricabile tra dimensione sociale, economica, demografica e ambientale.
    In discussione - ecco il punto essenziale - sotto la spinta della gigantesca trasformazione in corso, è l'idea stessa di organizzazione del lavoro, della società, del rapporto con la natura. Ovvero in discussione è il modello stesso di sviluppo. La riflessione sul nuovo umanesimo si intreccia profondamente con quella per un nuovo modello di sviluppo. Il modello di sviluppo dei paesi industrializzati non è più sostenibile sul piano economico, sociale e ambientale. Per la libertà e la dignità degli esseri umani, per la salvaguardia del nostro ambiente, per la riproduzione stessa della specie umana urge pensare e imboccare un nuovo modello di sviluppo.”
    Nel discorso tenuto durante l’Udienza al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, il 9 gennaio 2020, Papa Francesco ha affrontato il tema delle sfide educative delle nuove generazioni invitando ad elaborare nuovi modelli di sviluppo, per superare le crisi, le divisioni, le disuguaglianze e le ingiustizie che segnano la nostra epoca. In tale orizzonte, ha ricordato che i giovani sono pieni di sogni e di speranze e desiderano creare un mondo più umano; perciò “gli adulti non devono abdicare al loro compito educativo”, ma “condurre i giovani alla maturità spirituale, umana e sociale”.[2]
    Dunque, per avere uno sviluppo sostenibile nella prospettiva di lungo termine, è strategico investire sull’educazione quale strumento indispensabile per preparare le giovani generazioni. E l’invito del Papa riflette la preoccupazione che molti avvertono guardando al futuro, in particolare agli sforzi che vengono compiuti dagli organismi internazionali, i quali tentano di indicare obiettivi e di tracciare percorsi da seguire per rispondere alle sfide del presente e guidare al cambiamento.

    Gli scenari del XXI secolo

    Gli scenari complessi che caratterizzano i primi decenni di questo XXI secolo sono evidenti agli occhi dei più attenti osservatori; i giovani che vogliono mettere in gioco la propria esistenza con i propri ideali, compiendo scelte importanti, hanno certamente dinanzi a sé opzioni fondamentali con cui confrontarsi, ma queste sono inevitabilmente connesse con aspetti molto concreti e spesso problematici, riguardanti il lavoro, la professione, il guadagno, la famiglia, gli affetti, ecc. Le sfide connesse a questi ambiti rendono il giovane indeciso e insicuro nella scelta e poco incline al rischio.
    Il Rapporto OCSE[3], con il suo piano strategico per il 2030 chiamato Learning Framework, ha approfondito tali questioni, ovviamente ponendosi dal punto di vista dell’economia e dello sviluppo, e quindi dall’ottica dell’occupazione giovanile negli anni a venire[4]. E per capire quali abilità professionali si dovranno richiedere ai giovani del XXI secolo, esso fa notare anzitutto che i sistemi educativi attuali dovranno essere ridefiniti confrontandosi con un quadro di riferimento profondamente mutato, caratterizzato da un’esplosione di esigenze e di conoscenze scientifiche e da problemi sociali molto complessi.
    Da una parte, il contesto del secolo da poco iniziato continuerà a rimanere quello di un ambiente in pericolo, di una popolazione in continuo aumento con le risorse che diminuiscono, di cambiamenti climatici che interpellano la responsabilità di tutti e dei bisogni delle generazioni future. D’altra parte, nuove sfide si manifesteranno in modo più accentuato, provocate dall’interazione fra tecnologia e globalizzazione[5]. Per agire in modo efficace nel mondo futuro, dicono i commenti al Rapporto OCSE, i giovani dovranno essere innovativi, responsabili e consapevoli e a tale scopo occorrono modelli concettuali e un quadro di riferimento più aperti e dinamici, insieme ad un sistema di conoscenze che facciano da bussola per l’apprendimento, onde aiutare i giovani a navigare attraverso le proprie vite ed il proprio mondo.
    In altri termini, l’istruzione deve preparare i giovani ad impegnarsi ad agire nel mondo attraverso un approccio più attivo e dinamico. Per questo occorrono, in primo luogo, processi formativi più improntati alla trasformazione, in cui vengano rafforzati immaginazione, curiosità intellettuale, costanza di impegno, collaborazione, resilienza ed auto-disciplina.
    In secondo luogo, la realtà sempre più complessa impone la necessità di educare a sapersi confrontare con tensioni, dilemmi e negoziati. In questa società le soluzioni ai problemi nasceranno dalla capacità di ricercare equilibri tra equità e libertà, autonomia e solidarietà, innovazione e continuità, efficienza e rispetto delle regole democratiche. Sarà necessario avere persone competenti, ma che sappiano includere empatia (cioè la capacità di comprendere il punto di vista degli altri); adattabilità (cioè capacità di modificare le proprie percezioni alla luce di nuove esperienze e nuove informazioni); e fiducia negli altri e nel futuro (cioè il tema della speranza).
    In terzo luogo, occorre formare alla responsabilità. Si tratta della competenza trasformativa che porta gli individui a “pensare per proprio conto e a condividere le proprie posizioni”. I giovani vanno preparati alla capacità di considerare le conseguenze delle proprie azioni, ad un senso di responsabilità, di maturità morale e intellettuale per riflettere sulle proprie azioni e valutarle sulla base di cosa è giusto e cosa è sbagliato. E questa capacità di giudicare ha a che fare con l’etica, cioè con la capacità di rispondere alle questioni fondandosi su norme, valori, significati e limiti.
    Dinanzi a questo scenario, sono pienamente condivisibili le indicazioni fornite dal documento dell’UNESCO sugli obiettivi dell’educazione per il 2030, visti come strumenti indispensabili per realizzare uno sviluppo durevole[6]. In esso si chiede un profondo cambiamento ai processi formativi, finalizzandoli al benessere degli individui e alla prosperità delle nostre società. Si chiede, in sostanza, che i sistemi formativi aiutino: a sviluppare le competenze che rendono gli individui capaci di riflettere sui loro propri atti, tenendo conto delle conseguenze sociali, culturali, economiche e del contesto presente e futuro; che l’educazione sia di qualità e prolungata lungo tutto l’arco della vita; che i sistemi formativi puntino su una pedagogia trasformatrice che obbliga a ripensare i contenuti e i risultati.
    In altri termini, occorre fare acquisire ai giovani una serie di competenze e capacità, quali, ad esempio; sapere comprendere ed analizzare le relazioni ed i sistemi complessi; capire l’evoluzione dei possibili scenari futuri con una visione che sappia anticipare i rischi e i cambiamenti; comprendere e analizzare le norme e i valori sui quali basare le proprie azioni, sapendoli negoziare in contesti differenti e contraddittori; concepire e mettere in atto collettivamente delle azioni innovative che accrescano il livello del bene comune; saper imparare dagli altri, capire e rispettare i bisogni e i punti di vista altrui; saper rimettere in questione le norme, le pratiche e le opinioni, di riflettere sui propri valori e percezioni per poter prendere posizione.
    Sempre l’UNESCO riassume i vari obiettivi di apprendimento in tre categorie fondamentali: la sfera cognitiva (che comprende le conoscenze e competenze in materia di riflessione sui problemi esistenti); la sfera socio-emotiva (che include le competenze sociali che permettono di collaborare, negoziare e comunicare); la sfera comportamentale (relativa alle competenze riguardanti l’azione concreta).

    La sfida dell’intelligenza artificiale

    In tale contesto di cambiamenti epocali, appare, inoltre, sempre più significativa la sfida dell’intelligenza artificiale. Segreti algoritmi influiscono sulle nostre letture, deviano l’attenzione, rimpiccioliscono la visione generale, convogliano il pensiero verso concetti prefabbricati a cui l’individuo si piega incoscientemente. La prepotenza delle fake news e l’invadenza delle “bolle fittizie” della cosiddetta post-verità ne sono una chiara testimonianza. Per le suddette ragioni, non di minore importanza sono la protezione dei dati personali, la trasparenza delle informazioni, la non-discriminazione in un contesto di crescita allarmante del cyberbullismo e del “discorso di odio” (hate speech)[7].
    Non bisogna, ad ogni modo, demonizzare tout court l’applicazione delle intelligenze artificiali. Specialmente in ambito didattico il loro uso potrebbe essere d’ausilio ai tradizionali metodi di insegnamento, andando ad individualizzare l’approccio pedagogico con programmi ad hoc e proposte coinvolgenti, declinate anche in modo ludico. In alcuni paesi occidentali – come dimostrano recenti statistiche di settore – si offre come una piattaforma ideale soprattutto per le materie di carattere matematico e scientifico dove si ha grande difficoltà a reperire docenti specializzati[8].

    Ricostruire il patto educativo

    Una prospettiva interessante da considerare per la formazione delle future generazioni ci viene indicata dal ricco patrimonio della Dottrina sociale della Chiesa, attraverso la quale il magistero ecclesiale si confronta con le grandi sfide del mondo in evoluzione, fornendo principi e orientamenti di vita. Ad essa si ispira la diplomazia multilaterale e la cooperazione internazionale della Santa Sede ed accompagna la sua azione mediante le numerose istituzioni educative ed accademiche presenti nel mondo.
    Nel messaggio del 12 settembre 2019 e nell’ultimo discorso al Corpo Diplomatico, il Papa Francesco chiarisce molto bene gli obiettivi per un nuovo Patto Educativo, come risposta alle problematiche sopra citate. Li vorrei riassumere evidenziando che essi sono desunti dal pensiero sociale della Chiesa degli ultimi decenni, dal Vaticano II ad oggi, ed in particolare nelle quattro encicliche papali tra le quali si può cogliere un’intima convergenza: la Populorum progressio di Paolo VI, la Centesimus annus di Giovanni Paolo II (come pure la Sollicitudo rei socialis), la Caritas in veritate di Benedetto XVI e la Laudato si’ di Papa Francesco[9], con altri documenti del suo magistero.
    Tre sono le prospettive principali enunciate nell’enciclica di Papa Montini e poi riprese dai suoi successori. La prima prospettiva da perseguire, per costruire una nuova civiltà, nasce dalla presa di coscienza che “il mondo soffre per mancanza di pensiero” (Populorum progressio 85). Questo spunto pone il tema della verità dello sviluppo e nello sviluppo in tutte le sue dimensioni, fino a sottolineare l’esigenza attuale di promuovere una interdisciplinarità ordinata dei saperi e delle competenze a servizio dello sviluppo umano integrale.
    La seconda prospettiva è l’idea che “non vi è un umanesimo vero se non aperto all’Assoluto” (Populorum progressio 42) e anche il ricco magistero successivo alla PP si muove nella prospettiva di promuovere un umanesimo integrale. Il traguardo di uno sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini oggi è ancora davanti a noi come una urgenza inderogabile.
    La terza prospettiva è l’idea che all’origine dell’ingiustizia c’è una mancanza di fraternità (cfr. PP. 66). Paolo VI faceva appello alla carità e alla verità quando invitava le persone – specialmente chi ricopre responsabilità politiche – ad operare “con tutto il [loro] cuore e tutta la [loro] intelligenza” (Populorum progressio 82), per costruire una “civiltà dell’amore”.
    Questi tre orientamenti fondamentali – ordinare il pensiero, aprirsi all’Assoluto e sviluppare la fraternità – sui quali vorrei brevemente soffermarmi, possono stimolare le scienze pedagogiche ed i percorsi accademici per una adeguata progettualità dei saperi, capace di avviare processi che aiutino le giovani generazioni ad affrontare le sfide attuali.

    Pensare apertamente
    Cosa significa ordinare il pensiero? Anzitutto, in una società come quella attuale, con i cambiamenti epocali che incidono profondamente nell’avventura umana, divenuta planetariamente interdipendente, occorre domandarsi quale sia il divenire dell’umanità. Constatiamo, infatti, che dai motori congiunti di scienza/tecnica/economia esce un “uomo aumentato”, un uomo amplificato ma per nulla migliorato; si tratta di un uomo che viene immesso in una società governata da algoritmi, tendente a farsi guidare dall’intelligenza artificiale, con il reale rischio di diventare una macchina superficiale e banale[10]. In questo contesto occorre, con coraggio, educare le giovani generazioni a “sapere pensare” per avere la possibilità di essere liberi e creativi dinanzi alla micidiale arma informatica che può disintegrare la società, di saper pensare in modo logico per stare liberamente dentro la realtà. In particolare c’è bisogno di un insieme di saperi transdisciplinari, capaci di estrarre, assimilare e integrare le conoscenze che, purtroppo, sono ancora separate, compartimentate, frammentate. C’è bisogno di un approccio nuovo, di un pensiero complesso e ordinato, cioè capace di legare e articolare le conoscenze, e non soltanto di giustapporle [11].

    La scoperta dell’Assoluto
    La seconda prospettiva consiste nell’idea che “non vi è un umanesimo se non aperto all’Assoluto” (PP. 42). Il problema dell’avventura umana ci pone, soprattutto nelle convulsioni attuali della cultura e società, un quesito di fondo: che cos’è l’umano? Purtroppo la natura della nostra propria identità non è per nulla insegnata nelle nostre scuole e università, e dunque non è riconosciuta e recepita dalle nostre menti. Tutti gli elementi utili per riconoscerla sono dispersi in innumerevoli scienze, incluse l’arte e la letteratura. In questo orizzonte, occorre disegnare un nuovo umanesimo planetario che solo potrà nascere dall’incontro fra le diverse culture del pianeta, dalla capacità di pensare insieme unità e molteplicità, dal coraggio di affrontare le sfide immergendosi nella realtà senza paura e soprattutto dall’apertura all’Assoluto.
    A partire dalla visione antropologica maturata nel Concilio, Papa Francesco ha affermato che “educare cristianamente è accompagnare i bambini e i giovani nei valori umani presenti in tutta la realtà, e una di queste realtà è la trascendenza”. Questa dimensione verticale dell’uomo incrocia quella orizzontale ed insieme portano sui sentieri dell’incontro, della costruzione di ponti verso tutti nel rispetto, nella stima e nell’accoglienza reciproca. Tutto ciò conferma quanto già sosteneva San Giovanni Paolo II nella Centesimus annus ribadendo che “la dottrina sociale oggi specialmente mira all’uomo, in quanto inserito nella complessa rete di relazioni delle società moderne. Le scienze umane […] sono di aiuto per interpretare la centralità dell’uomo dentro della società e per metterlo in grado di capire meglio se stesso, in quanto “essere sociale”. Soltanto la fede, però, gli rivela pienamente la sua identità vera, e proprio da essa prende avvio la dottrina sociale della chiesa, la quale, valendosi di tutti gli apporti delle scienze e della filosofia, si propone di assistere l’uomo nel cammino della salvezza”[12].

    Solidarietà e fraternità
    Pertanto, è essenziale per la persona umana il fatto che diventa pienamente se stessa solo nella sua apertura al “tu”, al “noi”, poiché è creata per la relazione, per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica. Noi siamo debitori di tante cose agli altri e dobbiamo guardare agli altri superando la falsa idea di autonomia dell’uomo che non è un “io” completo in se stesso, ma lo diventa attraverso il rapporto fraterno e solidale con l’alterità, con il “noi”. Si deve partire dall’idea di fondo che l’umanità è costitutivamente incompiuta e molteplici sono le sue manifestazioni, individuali e culturali. In questo orizzonte, l’educazione è chiamata a trasformarsi, e potrà a sua volta trasformare il mondo se porrà alla base della sua progettualità il principio di “fraternità universale”, di “solidarietà”.
    In questa linea è pienamente condivisibile la missione principale dell’Agenda 2030 per l’Educazione finalizzata a non lasciare nessuno indietro (leaving no-one behind). Questo principio si struttura come un imperativo di educazione permanente affinché – oltre all’accesso per tutti – vi siano interventi adeguati durante l’intero arco della vita. Si afferma, per questo, che “tutte le fasce d’età, compresi gli adulti, dovrebbero avere l’opportunità di apprendere e continuare ad apprendere”[13]. In questo modo un’educazione aperta, inclusiva, di qualità ed equa diventa il catalizzatore per raggiungere tutti gli altri Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile[14] e consolidare una società educativa[15] che sappia essere veramente aperta e inclusiva. Ovviamente un simile compito educativo non è affidato alla sola scuola o università, ma – come viene sottolineato nella Dichiarazione di Incheon – alle diverse agenzie educative.
    Vorrei concludere ribadendo nuovamente che per preparare le giovani generazioni al futuro è necessaria un’educazione impostata sulla trasformazione. Papa Francesco denuncia la rottura del patto educativo[16] in nome di una certa rigidità esclusiva e di un neo-positivismo disumanizzante[17]. È urgente promuovere una educazione solida, fornendo ai giovani spazi di discussione e di intervento personale e, soprattutto, offrendo loro mezzi per approfondire la cultura del dialogo.
    Occorre ripensare la parabola educativa e, più in generale, i “saperi” in termini di alterità e di solidarietà e anche attraverso l’introduzione di nuovi modelli, andando al di là di una semplice organizzazione metodologica dei processi formativi basandosi su una vera e propria “rifondazione antropologica”. Un’educazione solidale ed umanizzata non si limita a elargire un servizio formativo, sia pure di grande qualità, ma si occupa dei risultati di esso nel quadro complessivo delle attitudini personali, morali e sociali dei partecipanti al processo educativo[18].
    Nel suo Messaggio per il lancio del Patto Educativo, Papa Francesco invita, senza giri di parole, a “ravvivare l’impegno per e con le giovani generazioni, rinnovando la passione per un’educazione più aperta ed inclusiva, capace di ascolto paziente, dialogo costruttivo e mutua comprensione. Mai come ora [sottolinea il Santo Padre] c’è bisogno di unire gli sforzi in un’ampia alleanza educativa per formare persone mature, capaci di superare frammentazioni e contrapposizioni e ricostruire il tessuto di relazioni per un’umanità più fraterna.”[19]
    La Chiesa sta unendo tutti i suoi sforzi affinché tale invito si realizzi avviando un processo di trasformazione sociale e culturale.”[20]

    Educazione e Valori

    Propongo alcuni spunti di riflessione, senza peraltro approfondirli; anche perché alcuni sono già patrimonio personale di ciascuno; si tratta solo di nominarli per metterli in evidenza. Ma sarà utile trarre le conseguenze di un’eventuale quanto auspicabile presa di coscienza.
    Una prima osservazione che credo da tutti condivisa: ed è che non è possibile educare senza una antropologia, ossia un modello d’uomo che si ritiene valido e perciò si pensa utile e doveroso proporre; e questo perché l’educando è proprio alla ricerca d’un modello di umanità quale struttura fondamentale per la definizione del proprio io, la lettura del mondo e la progettazione di sé. Ciò gli proviene dalla famiglia, dall’ambiente di vita, dagli influssi culturali, dalle esperienze già fatte, ma anche dalla scuola visto l’incidenza che tale esperienza ha lungo tutto l’arco evolutivo. È, dunque, compito della scuola definire un progetto d’uomo che orienti scelte educative e didattiche. Tale antropologia trova, o dovrebbe trovare, adeguata espressione nel progetto organico istituzionale (POI); che rischia però di rimanere una valida ma inefficace dichiarazione d’intenti se non passa nella viva coscienza dei docenti, per improntare, di conseguenza, le scelte anche didattiche, dato che, siamo convinti che la didassi è solo un mezzo in funzione della complessiva maturazione personale, ossia dell’educazione.
    Una seconda: ed è che la cosa più negativa, in educazione, è operare sulla base di antropologie sottaciute, ossia non esplicitate, discusse e condivise; sono antropologie implicite che ciascun docente, inevitabilmente, propone nel suo modo di essere e di operare (poiché la presunta neutralità che alcuni rivendicano è semplicemente autoinganno). Con ogni probabilità le antropologie implicite vengono a configgere tra di loro, creando nell’educando una confusione quanto mai pericolosa; egli, infatti, non possiede ancora quella capacità di discernimento e di sintesi che dovrebbero caratterizzare l’adulto; ma è proprio questo l’aiuto che cerca e che si aspetta dagli educatori. Tanto più che l’attuale mercato culturale propone di tutto e di più: si parla di homo faber, homo prometeicus, homo oeconomicus, homo ludens, homo cyberneticus, homo symbioticus, homo aestheticus (c’è, addirittura, un esponente dell’antropologia culturale che afferma: “ormai non si può più parlare di homo sapiens ma piuttosto di homo zappiens”). Ma oltre alle etichette di dubbio sapore scientifico, che peraltro designano non solo legittime accentuazioni quanto piuttosto una visione complessiva della vita e dell’umano (dato che diventano pervasive generando mentalità e stili di vita), pensiamo anche ai modelli di umanità proposti dalla cultura del relativismo, del consumismo, del nichilismo (L’ “Ospite inquietante”), dell’efficientismo, dello scientismo, del funzionalismo del tecnicismo … E c’è poi l’homo christianus, l’homo islamicus, l’homo religiosus, l’homo scepticus, con tutti i derivati di spiritualismi, dogmatismi e integrismi che tanta preoccupazione suscitano per il loro diffondersi in certe parti del mondo, soprattutto tra i giovani. Le scaffalature del supermercato, non c’è dubbio, sono piene di prodotti culturali.
    Da ogni parte provengono messaggi (espliciti o subliminali) che dicono “Questo è l’uomo” e lo dicono giocando sul fascino della felicità, della riuscita personale, del successo sociale, del futuro assicurato; ed attivando quei raffinati processi di omologazione che inceppano la capacità critica e minacciano la libertà di scelta. L’esito di tale confusione può essere la rinuncia a quel lavoro di analisi, riflessione e sperimentazione che potrebbe portare alla definizione di sé come soggetto pensante, libero e responsabile nei confronti di se stesso, degli altri e del mondo.
    Ora, non definire l’antropologia che maggiormente ci convince comporta un altro pericolo: quello del sincretismo, ossia una mescolanza di elementi che provengono da antropologie diverse; in tal modo si offrono valutazioni del reale, criteri interpretativi e prospettive di realizzazione che il più delle volte si contraddicono e si elidono. L’esito non può essere che lo smarrimento interiore; ci si consegna, allora a quel relativismo per cui nulla è vero, nulla è valido, nulla davvero conta; e l’esistenza viene governata dalla superficialità che soffoca l’interiorità compromettendo in tal modo la crescita dell’umano.
    Una terza osservazione: siamo altrettanto convinti che educare significa agire su due fronti. Anzitutto significa far sorgere e promuovere le dimensioni fondamentali della persona; che sono:
    la razionalità, cioè la capacità che ha la persona umana di conoscere ciò che è fuori di sé e, nello stesso tempo e con lo stesso atto, di tornare su di sé e sul proprio atto di conoscenza, e quindi di conoscersi come conoscente;
    l’unità-identità, per cui la persona umana unisce in sé l’infinita molteplicità dei suoi pensieri e dei suoi atti, riconoscendoli come suoi e attribuendoli a se stessa, e si riconosce come soggetto permanente nel fluire del tempo;
    l’essere-in-sé, cioè la sostanzialità, in virtù della quale la persona umana, nel suo esistere e nel suo agire, non dipende e non è condizionata dall’altro, chiunque sia questo altro; in altri termini moderni è l’«interiorità» che fa sì che il soggetto possa entrare in rapporto con l’«esteriorità», conservando la propria autonomia e la propria identità, senza diventare un «oggetto»;
    l’essere-per-sé, cioè l’essere fine di quanto nell’ordine cosmico, sociale e politico, ha la funzione di mezzo e di strumento, in quanto non ha il suo fine in se stesso.
    la libertà e la responsabilità (intese qui non come esercizio ma come strutture), poiché l’essere-in-sé e l’essere-per-sé fanno sì che la persona sia padrona di se stessa, capace di determinarsi liberamente e autonomamente, di proporsi da sé i propri fini, di dominare il mondo fenomenico in cui si trova e di trasformarlo secondo la sua volontà, mostrando in tal modo di non essere una parte in esso, ma di trascenderlo; libertà non assoluta, ma responsabile, cioè rivolta alla ricerca e al compimento del bene per sé e per gli altri.
    l’individualità, per cui ogni persona è una novità, una realtà assolutamente inedita, che non ha l’equivalente in nessun’altra persona né può essere sostituita da nessun’altra.
    Ma su queste strutture di base s’innesta l’incontro con l’altro fronte, quello dei valori, proprio quelli che “riempiono” di contenuti le varie dimensioni della persona. Ciò avviene grazie ad un processo di
    conoscenza,
    apprezzamento,
    sperimentazione,
    scelta
    e convalida
    fino a che emerge un valore cardine che raggruppa tutti gli altri per omogeneità e congruenza, vincolandoli a sé; è allora che i valori incontrati diventano “convinzioni” nel senso etimologico del termine ossia un legame interiore che dà unità e solidità a quella che ormai possiamo chiamare una “personalità”. Diceva Romano Guardini: “Certo, (il giovane) lo "diviene" (qualcuno e non solo qualcosa) a contatto con l'oggetto, cioè imparando ... Ma come diviene tale? Mediante la graduale conquista di un ordine interiore: man mano che il giovane diviene una forma strutturata, via via che si forma in lui un centro interiore, un punto di partenza unitario dell'agire e un punto di sintesi dell'esperienza, un criterio di discernimento del vero dal falso” (L’educazione). E questo è tanto più importante in quanto, ci si dice, siamo immersi e portati da una società liquida (Bauman) la cui caratteristica principale è proprio la “perdita del centro” sociale e culturale, e quindi, per riflesso, del centro interiore.
    Una quarta osservazione: tanti sono i modi attraverso i quali l’educando incontra i valori. Ma non si può escludere, di certo, il rapporto con gli educatori. Il processo, infatti, di identificazione (più accentuato nell’infanzia, nella preadolescenza e nella prima adolescenza, ma efficace anche nella adolescenza matura quando ben autorevole è la figura dell’educatore) mira non tanto a “copiare” materialmente linguaggi, stili, abitudini di vita di questo o quell’insegnante, quanto a “saggiare” i valori dei quali egli è portatore e che lo presentano come una personalità matura, tanto più se è positiva la relazione tra educatore ed educando. Ciò mette in gioco la figura stessa dell’educatore.

    Tre sono i compiti che gli si affidano:
    nominare i valori, e questo in forza non solo dell’esperienza personale ma della ricchezza culturale di cui è portatore;
    testimoniare i valori, il che non significa nascondere o attenuare difficoltà resistenze e dubbi; anzi, dato che vero educatore è colui che si pone come partecipe dell’avventura e compagno di viaggio di chi vive la fatica di approdare ad una qualche maturità;
    far esperire i valori, poiché essi non sono idee astratte ma “beni” che attengono alla vita per cui è solo sperimentando che si può saggiare “validità in sé” ed “utilità per me” fino alla personale appropriazione. E questo avviene non solo tra le pareti dell’aula ma in quell’ambiente educativo fatto di proposte che intendono assumere il più ampio vissuto dei nostri studenti per significarlo alla luce, appunto, dei valori.
    Ma ecco che ritorniamo alla antropologia. Siamo sicuri che le parole che pronunciamo suonano univoche agli orecchi dei nostri ragazzi? Quando diciamo “è vero che …” intendiamo tutti la stessa cosa? O quando diciamo “è giusto che …” o anche solo quando diciamo “è razionale che …”, “è umano che …”? Usiamo le stesse parole ma forse non intendiamo gli stessi contenuti. Ora, sui valori di fondo, dovrebbe esserci un accordo, altrimenti non facciamo che aumentare la confusione impedendo o affaticando proprio quel processo di maturazione che diciamo di voler promuovere. Sui valori di fondo, dico; salvo poi quelle specificazioni e quelle declinazioni personali che affermano la legittima diversità da persona a persona e che costituiscono una ricchezza per l’educando proponendo modelli plurimi e diversificati.
    E non è che tale accordo si tramuti in plagio ossia stampaggio della personalità secondo clichés prestabiliti. Di fatto il soggetto avrà tutto l’agio di confrontare, sperimentare, comprovare o smentire quanto gli è stato proposto, e la molteplicità di esperienze alle quali oggi un giovane va incontro gli offrono tante - forse eccessive - opportunità.
    Ma la cosa che più mi preoccupa è pensare che un allievo esca dalla nostra scuola senza potere o saper rispondere, con sufficiente chiarezza, ai tre fondamentali quesiti che caratterizzano una personalità, ossia:
    “chi sono”,
    “chi posso essere”,
    “chi voglio essere”.
    Questo denuncerebbe una inconsistenza interiore che, quasi certamente, lo consegnerà alla dispersione interiore, esponendolo peraltro a qualsiasi genere di cattura esteriore, con gravi esiti su quel bene essenziale che è la libertà della persona.
    Quando, l’anno scorso, proponevo di riflettere sui contenuti (non solo testi ed autori, ma stili di pensiero, logiche mentali, letture del reale) intendevo appunto proporre di interrogarci sui valori che offriamo ai nostri studenti; perché è ovvio che tali scelte obbediscono a ciò che onestamente riteniamo importante e più importante di altre cose. E l’allievo non fatica ad intuire quello che davvero conta per noi: quello è il valore.
    Ma esiste una sufficiente concordia tra di noi? Ecco la domanda che mi permetto di rivolgere con l’auspicio che possa essere accolta e produrre una qualche ricerca, riflessione o confronto. Sono convinto che il vantaggio potrà essere enorme anzitutto per noi dato che ciascuno potrà fruire della sensibilità e dell’esperienza dell’altro arricchendo in tal modo la propria competenza educativa; ma ancor più per i nostri ragazzi se a loro offriremo un riferimento più chiaro e sicuro.[21]
    È proprio in questo contesto in cui risuona la voce di Papa Francesco invitando ad un nuovo patto educativo.

    Per un nuovo patto educativo che educhi alla solidarietà universale

    “Ricostruire “un patto educativo globale” che ci educhi alla “solidarietà universale” e a “un nuovo umanesimo”, al fine di affrontare le sfide di un mondo in “continua trasformazione” e “attraversato da molteplici crisi”. Questo è l’appello lanciato da Papa Francesco a tutti gli operatori del campo dell’educazione e della ricerca e alle “personalità pubbliche che a livello mondiale occupano posti di responsabilità e hanno a cuore il futuro delle nuove generazioni”, in vista di un incontro su questo tema previsto inizialmente per il 14 maggio 2020 in Vaticano e posposto, a causa del Covid-19, per il 15 ottobre 2020.
    In un momento di estrema frammentazione, di estrema contrapposizione, come quello che stiamo vivendo, c'è bisogno di unire gli sforzi, di far nascere un’alleanza educativa, per formare persone mature capaci di vivere nella società e per la società. Serve un patto educativo globale che ci educhi alla solidarietà universale, a un nuovo umanesimo. Cerchiamo insieme di trovare soluzioni, avviare i processi di trasformazione, senza paura.
    Quello che sta a cuore è educare giovani alla fraternità, per imparare a superare divisioni e conflitti, promuovere accoglienza, giustizia e pace. Per generare questo cambiamento di mentalità su scala planetaria c’è bisogno che tutti i responsabili dell’educazione delle giovani generazioni siano disposti a sottoscrivere un Patto Globale.

    Costruire il futuro del pianeta
    L’invito del Pontefice è a unire gli sforzi per rinnovare il dialogo “sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta” e creare “un’ampia alleanza educativa per formare persone mature, capaci di superare frammentazioni e contrapposizioni e ricostruire il tessuto di relazioni per un’umanità più fraterna”. Un’alleanza, spiega il Papa, “tra gli abitanti della Terra e la ‘casa comune’, alla quale dobbiamo cura e rispetto. Un’alleanza generatrice di pace, giustizia e accoglienza tra tutti i popoli della famiglia umana nonché di dialogo tra le religioni”.

    Educazione contro rapidàcion
    Un patto che per Francesco passa innanzitutto attraverso l’educazione, che nei nostri tempi si sta scontrando con un cambiamento epocale, segnato da quella che il Papa chiama rapidàcion. Una “rapidizzazione” culturale, in cui la digitalizzazione “imprigiona l’esistenza nel vortice della velocità tecnologica” e cambia continuamente punti di riferimento, generando nuovi linguaggi che scartano “senza discernimento, i paradigmi consegnatici dalla storia”. In questo contesto, prosegue il Papa citando l’enciclica Laudato Si’, “l’identità stessa perde consistenza e la struttura psicologica si disintegra di fronte a un mutamento incessante che contrasta con la naturale lentezza dell’evoluzione biologica”.

    Il villaggio dell’educazione
    Questo cambiamento, ricorda il Papa, ha bisogno di un “cammino educativo che coinvolga tutti” perché, come recita un proverbio africano, “per educare un bambino serve un intero villaggio”. Ma dobbiamo costruirlo questo villaggio. Tutti insieme. Per educare i bambini, per educare il futuro.
    Dobbiamo fare in modo che in questo villaggio nasca una convergenza globale per un’alleanza tra gli abitanti della terra e la casa comune, affinché l’educazione sia creatrice di pace, di giustizia. Sia accoglienza tra tutti i popoli della famiglia umana, nonché dialogo tra le loro religioni. Un “villaggio dell’educazione”, appunto, dove “nella diversità, si condivida l’impegno di generare una rete di relazioni umane e aperte” in un terreno che, afferma Francesco citando il Documento sottoscritto lo scorso febbraio ad Abu Dhabi con il Grande Imam di Al-Azhar, “va anzitutto bonificato dalle discriminazioni con l’immissione di fraternità”.

    Rimettere la persona al centro
    Per far sì che si realizzi questa convergenza globale “tra lo studio e la vita; tra le generazioni; tra i docenti, gli studenti, le famiglie e la società civile con le sue espressioni intellettuali, scientifiche, artistiche, sportive, politiche, imprenditoriali e solidali”, il cammino comune del “villaggio dell’educazione” deve muovere tre passi fondamentali:
    - Innanzitutto “avere il coraggio di mettere al centro la persona”, dando “un’anima ai processi educativi” e trovando, secondo una “sana antropologia”, altri modi di intendere “l’economia, la politica, la crescita e il progresso”.
    - Poi bisogna avere “il coraggio di investire le migliori energie con creatività e responsabilità”.
    - Infine, è necessario avere “il coraggio di formare persone disponibili a mettersi al servizio della comunità”, “come Gesù si è chinato a lavare i piedi agli apostoli”.

    NOTE

    [1] Ferruccio Capelli, “Per un nuovo umanesimo”, Ambiente, diritti, etica. Laboratorio n. 5 "Con uno sguardo umano", 28 settembre 2019 in https://www.casadellacultura.it/930/per-un-nuovo-umanesimo
    [2] Discorso del Santo Padre Francesco al Corpo Diplomatico Accreditato presso la Santa Sede per la presentazione degli auguri per il nuovo anno. https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2020/january/documents/papa-francesco_20200109_corpo-diplomatico.html
    [3] La sigla OECD sta per Organisation for Economic Co-operation and Development.
    [4] Il Convegno internazionale si è tenuto a Roma il 19 settembre 2017 sul tema: “Quali skills per i giovani del XXI secolo? Cosa può fare la scuola italiana?”
    [5] Cf. M. STEVENSON, Il quadro di riferimento OECD 2030 per l’apprendimento, relazione al Convegno TREELLE sopra citato.
    [6] UNESCO, L’éducation en vue des objectifs de développement durable: Objectifs d’apprentissage, UNESCO, Parigi 2017
    [7] COUNCIL OF EUROPE, Unboxing Artificial Intelligence: 10 Steps to protect Human Rights, CoE, Strasbourg 2019.
    [8] Artificial Intelligence Market in the US Education Sector 2018-2022, Technavio, Toronto 2018.
    [9] Mi limito, per brevità, alla corrispondenza tra queste due encicliche, senza prendere in considerazione un’altra importante enciclica sociale, la Sollicitudo rei socialis, di Giovanni Paolo II, pubblicata nel 1987 in occasione del XX anniversario della Populorum progressio.
    [10] Cf. E. MORIN, Prefazione al volume di M. CERUTI, Il tempo della complessità, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018, VII-X.
    [11] Ibid.
    [12] Giovanni Paolo II, Centesimum annus, 54
    [13] D. PAUL, World Education Forum 2015 Adopts Incheon Declaration on Education for All by 2030, International Institute for Sustainable Development, Winnipeg 2015
    https://sdg.iisd.org/news/world-education-forum-2015-adopts-incheon-declaration-on-education-for-all-by-2030/
    [14] Si veda UNESCO, Education 2030. Incheon Declaration and Framework for Action for the Implementation of SDG 4, UNESCO Paris, 2017.
    [15] Cf. E. Faure, Apprendre à être, UNESCO-Fayard, Paris 1972, 184 e ss.
    [16] “Si è aperta una frattura tra famiglia e scuola, il patto educativo oggi si è rotto; e così, l’alleanza educativa della società con la famiglia è entrata in crisi.” Papa Francesco, Catechesi (20 maggio 2015): L’Osservatore Romano, 21 maggio 2015, p. 8
    [17] Cfr PAPA FRANCESCO, Discorso ai partecipanti al Congresso Mondiale promosso dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica, 21 novembre 2015
    [18] Cf. CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Educare all’umanesimo solidale …, op. cit., n. 10.
    [19] PAPA FRANCESCO, Messaggio per il lancio del Patto Educativo, 12 settembre 2019.
    [20] Intervento di Mons. A. Vincenzo Zani, “Sfide educative e formative: preparare le giovani generazioni per il futuro”, alla Fondazione Centesimus Annus – Pro Pontifice. https://www.centesimusannus.org/wp-content/uploads/2020/02/6.-Paper-by-H.E.-Msgr.-Angelo-V.-ZANI.pdf
    [21] Cfr. Conferenza di Giannantonio Bonato, 2012.


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