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    Essere salesiani

    educatori oggi

    Prospettive formative

    Carlo Nanni 

    Educare cos’è?

    La gente ci conosce e ci caratterizza per due cose: giovani e educatori. Le attese nei nostri riguardi hanno questa circoscrizione di campo: “voi salesiani siete educatori e sapete stare con i giovani”. Non ci si chiede di essere luminari di scienza o grandi predicatori o grandi politici o manager e imprenditori o attori o registi o altro: ma di essere educatori; e per i giovani. Questo lo capiscono subito tutti e questo tutti ci richiedono.
    Ma educare cos’è?
    Educare non è trasmettere, imbottire di nozioni il cervello, addestrare come un cavallo da corsa o fabbricare dei “giocattoli” perfetti e funzionanti come un orologio svizzero. Educare è risvegliare, suscitare, promuovere, stimolare.
    Certamente è anche offrire, nutrire, corrispondere. Specie a quelli che sono i bisogni fondamentali di ogni persona, dalla nascita alla morte: il bisogno di identità, di essere, di crescere, di vivere in salute fisica, pischica, mentale e spirituale; il bisogno di essere riconosciuto e di riconoscere, di essere amato e di amare, di essere apprezato e di apprezzare (lo diciamo: cosa è una vita senza amore, senza buone e belle relazioni?); il bisogno di sentirsi e essere effettivamente inserito nel mondo, in comunità di vita, di poter operare e lavorare e partecipare; il bisogno di senso, vale a dire di vedere che quello che si è, si pensa, si vuole, si fa, si pone in un quadro ideale e valoriale per cui vale la pena operare e persino sacrificarsi; e infine il bisogno di pienezza, integralità, infinità di vita (come anche mostra la recente enciclica di papa Benedetto, “Spe salvi”): per intenderci quello che faceva dire a sant’Agostino: “il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te” (Confessioni, I,1); o quello che vediamo spesso nei giovani che non sono mai contenti e che pare vogliano chissà che cosa, la luna, l’infinito!
    Gli educatori e le educatrici non si possono sostituire a coloro con cui sono in relazione educativa: i giovani non sono un terreno da colonizzare e tanto meno sono un complemento di noi educatori e della nostra azione (pensate alla ambiguità di chiamarli “destinatari”, quasi fossero semplicemente il complemento di termine del nostro agire o dei nostri propositi e intenzioni educative, per quanto nobili o grandi e belle possano essere). Come dovrebbe essere in ogni relazione interpersonale, l’educare è un gioco dinamico e interattivo tra persone, per quanto piccole o umanamente fragili o “disgraziate” essere possano essere. È sotto il segno del rispetto per l’alterità, libertà e dignità personale.
    Certo non è una relazione di coppia o semplicemente amicale: è una relazione di aiuto, cioè che sorge come risposta all’appello, implicito o esplicito (quella che chiamiamo “domanda di formazione”, a tutti i livelli della vita personale). Per questo viene incontro, media, stimola, propone, offre cultura, istruisce, addestra, evangelizza e catechizza. Il fine, l’intenzione di fondo, è la formazione delle capacità fondamentali della vita personale (individuale, di gruppo, comunitaria, collettiva), in modo da essere persone coscienti, libere, responsabili e solidali, e vivere una vita umanamente degna, nel concreto della vicenda storica comune, partecipi della comune vita sociale e allo stesso tempo aperti alla trascendenza e a una visione religiosa della vita.
    In questa linea l’educazione non può ridursi a sola formazione culturale o a istruzione e formazione di competenze (vale a dire a modi di operare efficienti ed efficaci): queste cose sono necessarie per essere persone sane, istruite, capaci di affornatare la vita e le sue difficoltà. E, inoltre, è formazione di tutta la vita (e come oggi si aggiunge, per tutta la vita e in tutte le condizioni e forme di vita). Anche un’evangelizzazione, una catechesi, una spiritualità, che voglia essere educativa, non potrà mai essere né un indottrinamento, né una pesante trasmissione del pur grandissimo “patrimonium fidei”, ma vera comunicazione, dove il rispetto, il dialogo, il confrontro, la reciprocità hanno come “messaggio” qualificante la comunicazione che non solo informa, ma realizza una vita umanamente degna, “di fronte a Dio e di fronte agli uomini”

    Cosa tenere in conto?

    In questa relazione interpersonale (di gruppo e/o comunitaria) non semplice, che è l’educare, occorre tener conto: 1) anzitutto le persone dei giovani così come sono e dove sono, come singoli e come generazione (già la “vecchia” pedagogia ricordava che per insegnare la matematica a Pierino, occorreva conoscere Pierino); 2) e non in astratto ma nel loro contesto storico attuale e nel loro concrete movenze attuali (la riforma scolastica Gentile, pur interessante, non funziona più perché i giovani di oggi non sono e non vivono come i giovani dei tempi di Gentile); 3) e hanno possibilità materiali e tecnologici, impensabili solo qualche decina di anni fa: computer, telefonini, internet...; non si può educare senza far conto non solo della globalizzazione e delle offerte del mercato mondializzato, ma anche e in primo luogo dell’attuale sviluppo scientifico e tecnologico, che tanto permette e influisce, nel bene e nel male, nella crescita dei giovani e nella vita e cultura di tutti (ne dovremo riparlare); 4) ma sarà da tener in conto anche lo sviluppo delle scienze dell’educazione, delle nuove conoscenze relative alla sviluppo mentale, conoscitivo o di quello emozionale e affettivo, dei nuovi metodi di educazione (come ad esempio il cooperative learning, i laboratori espressivi e di sviluppo della creatività, della corresponsabilizzazione nei gruppi dei pari o nelle iniziative del territorio, della media education o, come altri suggeriscono, della “edu-comunicazione”, ecc.); 5) sarà da fare i conti con le pratiche educative odierne, che nel bene e nel male, realizzano le relazioni e i processi educativi, spesso cariche di angoscia, di “mammismo” o all’opposto di assenza educativa (per cui spesso l’educare è un remar contro certe mode pedagogiche o certe pratiche educative comuni); 6) infine, si potrà e si dovrà far conto delle tradizioni educative cristiane, tra cui quella salesiana, che, pur nelle più o meno ampie “cadute di stile” – sia nella memoria delle “buone pratiche” sia nelle idealità “carismatiche” fondative – possono offrire all’azione educativa utili riferimenti e servire, per così dire, da “piattaforma di lancio” per un’azione educativa formativamente significativa,

    Metterci il cuore

    In linea con questa tradizione carismatica salesiano si comprende come la “cura” della buona relazione educativa rap¬presenti l’impegno e lo sforzo di aggiornamento più notevole di chi vuole educare secondo il siste¬ma preventivo.
    Don Bosco scoprì ben presto l’estrema impor¬tanza del buon rapporto educativo, ancor prima di aver chiaro il suo programma, il “sistema educativo”. Forse a sue spese. Lui che dai primi anni della sua vita ebbe a crescere senza padre, sentì probabilmente dentro di sé quanto fosse dura tale assenza. Fin da ragazzo intuì la gravità dell’at¬teggiamento distante dei sacer¬doti, specie in ordine all’educa¬zione alla fede dei ragazzi e dei giovani. L’alto tasso di abbando¬no di molti di essi lo spinse ad un precoce progetto di vita per sopperire a tale aspetto negati¬vo. Il suo primo apostolato fu proprio un tentativo di vincere questa distanza relazionale nel¬la catechesi, facendo il saltim¬banco. E da giovane sacerdote scelse ben presto come suo modo di vita il raggiungere i giovani a rischio, di avvicinarsi ai lontani, di dar vita non solo ad una relazione ma ad un sistema relazionale di aiuto dei giovani poveri, “pericolosi e pericolanti”, delle classi popolari (cioè di tutti coloro che maggior¬mente avevano da sopportare la carenza o la man¬canza di una relazione personale bella e buona, oltre che di successo).
    Nella migliore tradizione educativa salesiana il rapporto educativo è stato contornato da accenti caldi (amorevolezza, amicizia, paternità, fiducia, affetto, accoglienza, assistenza, compagnia dura¬tura anche oltre i tempi propriamente educativi). Ma è stato pure caratterizzato dalle intenzioni di un amore esigente, che spinge ad incarnare i valo¬ri, traducendoli in impegni e “senso del dovere”; che inizia ben presto alle responsabilità; che rinforza positivamente gli impegni sulla via della crescita e del bene; che stimola ad “essere di più” insieme con gli altri. Perciò anche quando c’è da correggere, lo fa “proattivamente”: usa lo stesso errore, lo sbaglio, l’atto di indisciplinatezza, il conflitto come via “educativa”. L’intervento disciplinare non è fatto in funzione punitiva, ma come momento di presa di coscienza individuale e di gruppo, come ristabilimento di un “ragionevole ordine” per l’utilità comune e come stimolo alla riassunzione personale di responsabilità e della propria compartecipazione attiva al bene “comune”. Il tutto è pensato e voluto all’interno di una “famiglia” educativa e secondo uno “spirito di famiglia”.
    La convinzione di don Bosco (ma era comune tra i santi educatori e le sante educatrici del suo tempo) si riferiva alla idea che ultimamente “l’educazione è cosa di cuore e Dio solo ne è il padrone”) (MB XVI, 447).
    Un inno latino a don Bosco, testo di R. Uguccioni e musica di L. Lasagna, proclama che “il Signore gli ha dato sapienza e prudenza grande e una «latitudine di cuore» ampia come le sabbie immense sulla spiaggia del mare”.
    Un po’ di quel cuore è richiesto ad ogni educatore che voglia educare secondo il sistema preventivo.

    Educare con il cuore di don Bosco ... e come Gesù maestro

    In questa linea, la strenna del 2008 invita a “educare con il cuore di Don Bosco”. Con ciò – come ha scritto lo stesso Rettor Maggiore, P. Chàvez, commentandola – si intende dire che l’educatore, deve “coltivare prima e far sgorgare poi dall’interno del proprio cuore ragione, religione, amorevolezza, facendo dell’amorevolezza la punta di diamante, l’attuazione pratica di quanto religione e ragione propongono. Si tratta di vivere il Sistema Preventivo, che è una carità che sa farsi amare (cf. Cost. SDB 20), con una rinnovata presenza tra i giovani, fatta di vicinanza affettiva ed effettiva, di partecipazione, accompagnamento e animazione, di testimonianza e proposta vocazionale”.
    Cosi facendo, credo che ci si mette – educativamente – nella linea di Gesù Maestro. Egli nel suo agire ha prioritario il “farsi prossimo”, il venire incontro, il voler instaurare una relazione di “salvezza”, facendosi “buon samaritano”, liberando dal male, sostenendo la sofferenza, condividendo attese e speranze dei suoi interlocutori (pur non nascondendosi, magari, le loro stesse “cattive coscienze” e i loro “pensieri perversi”). Accoglie le persone così come si incontrano e si presentano (e con le loro movenze e provocazioni). Attraverso appropriate domande e dinamiche di dialogo spinge a esplicitare questo “orizzonte di salvezza”. Quando non c’è chiusura preconcetta, verso i suoi interlocutori, mostra atteggiamenti e comportamenti di comprensione più che di condanna, senza tuttavia che ciò significhi necessariamente “giustificazione” di parole, idee, prospettive, comportamenti. Ma sempre c’è l’indicazione/proposta di “un oltre” e di “un di più” positivo e di bene, che si esprime variamente, da un minimo di vita buona ad un massimo di radicalità evangelica, a seconda delle persone con cui Egli è in rapporto e dei loro “talenti”, ad esempio in termini di “non peccare più”, di “fa anche tu lo stesso”, “fa questo e vivrai”, “venite e vedrete”, “vendi tutto, dallo ai poveri”…; ma anche in corrispondenza con le esigenze “oggettive” del Regno (“pregate il Signore della messe”, “vieni anche tu a lavorare nella mia vigna”, “vieni e seguimi”, “andate e predicate il Vangelo ad ogni creatura”, ecc.).

    Risvegliare e fecondare il cuore educativo e il proprio “da mihi animas”

    Pertanto, la prima “cura formativa” per il salesiano educatore che voglia essere “padre, maestro e amico” dei giovani sarà quella di risvegliare e coltivare il proprio cuore e la “passione educativa” – per dirla in termini salesiani – ridare senso e forza al proprio “da mihi animas” secondo cui si è venuta consolidando la originaria spinta ad essere educatori e salesiani.
    Si tratta in fondo di rinnovare la propria e comunitaria intenzionalità educativa, rinvigorirla se necessario, certamemente da contemperare, componendo la spinta temperamentale di attratività o repulsione (l’eros), l’affetto e il sentimento amichevole (la philia), la dedizione amorevole (la cura genitoriale) e l’amore (l’agape) in un fecondo e buon intervento educativo: “volendo bene, volendo il bene, volendolo bene e facendolo bene”, per dirlo con una fomula sintetica che io ho ripreso da don Pietro Gianola.
    Educare e educare bene non vengono da sé sono da qualificare e riqualificare: non solo a livello di competenze e di buone tecniche operative, ma a livello di atteggiamenti fondamentali. L’educare fa riferimento e si basa su un solido quadro personale di virtù etiche teologali, individuali e comunitari.
    Propensioni naturali e dono di grazia, vanno accudite e rafforzate: questo è il nucleo forte della formazione continua dell’educatore salesiano. Per lui l’educare è insieme un dato/dono (in tedesco “Gabe”), un compito (in tedesco “Aufgabe”), ma anche una dedicazione impegnata (in tedesco “Hingabe”), costantemente da rinnovare e migliorare.
    Già don Bosco – ce lo ricordano le Costituzioni Salesiane al n.82 – ammoniva “chi non ha fondata speranza di poter conservare, col divino aiuto, la virtù della castità nelle parole ,nelle opere e nei pensieri, non professi in questa Società, perché sovente si troverebbe in pericolo”
    C’è, inoltre, certamente da vincere l’ “usura” quotidiana, le cadute nell’ “atonia” nell’apatia, nel senso di svuotamento,di appiattimento, di tristezza, di scoramento, che prendono anche le migliori “vocazioni” innamorate e appassionate. Lo stress e il burn-out attacca anche i missionari più dedicati e più lanciati nell’apostolato. Cadute di speranza possono succedere anche a chi ha inteso seguire da vicino il Signore, e camminare secondo la radicalità del suo Vangelo, come ci ricorda la vicenda evangelica dei due anonimi discepoli di Emmaus.
    Contro-misure e momenti di ristoro e di “restaurazione” umana, fisica, psicologica e spirituale sono necessari per tutti. La tradizione dell’anno sabatico ignaziano la dice lunga. Altrimenti non c’è troppo da meravigliarsi che venga meno lo slancio evangelizzatorre e purtroppo, magari, anche la fedeltà vocazionale e il senso della vita religiosa consacrata o di quella presbiterale.
    Peraltro è la stessa concezione del cuore e della passione educativa che va approfondita, proprio in continuità con quella di Gesù e di don Bosco. Il cuore di don Bosco – come quello di Gesù – era il cuore di un educatore prete e di un consacrato religioso.
    La scelta della missione eudcativa salesiana è procedente e consegue dal “da mihi animas”. Anche per l’educatore salesiano la scelta e la missione educativa va congiunta con consacrazione religiosa (e la sua radicalità di consacrazione secondo povertà castita e obbedienza) e perchi è prete va vissuta presbiteralmente: per lui il sistema preventivo non può essere vissuto come un non credente che pure potrebbe applicarlo educando civilemente e laicamente. E nepppure come educatori credenti qualsiasi o come gli altri membri della famiglia salesiana.
    In tal senso si comprende come la cura per la formazione pedagogica si congiunge, per il salesiano, con la cura per la sua vita consacrata e (per i preti) per la sua vita presbiterale, pastorale; e ciò, sia singolarmente sia comunitariamente, dato che il “da mihi animas” e la missione educativa e l’applicazione del sistema preventivo è opera comune e comunitaria: è “salesiana”!
    Un deficit presbiterale-pastorale, una caduta dell’identità religiosa consacrata, un non vivere “in Cristo, per Cristo e con Cristo”, un non sentire più la passione per la “salvezza dellle anime”, non vivere più la passione e la voglia di liberazione di cui parla san Paolo nel capitolo ottavo della Lettera ai Romani, si ripercuoterebbe per forza di cose sulla qualità e la buona tenuta della sua azione educativa. Viceversa, resta però, che per la unità fondamentale della vita, anche la dedicazione profonda nell’educare, il sentirsi preso dall’appello dei giovani, il vivere la relazione educativa nel pieno del mistero della vita e di Dio, qualificherà e darà una forza tutta speciale alla preghiera, alla liturgia, alla predicazione, alla vita religiosa e presbiterale, all’azione pastorale, all’evangelizzazione e alla catechesi!
    È cosa che tocchiamo con mano e sperimentiamo!
    Ritornarci su, rifletterci, individualmente e comunitariamente come salesiani, come famiglia salesiana, giovani compresi: può costituire una significativa e intelligente strategia formativa, nella linea della revisione di vita (scandita dal vedere, giudicare e agire migliore) o di quella che si dice, oggi, la pedagogia de gruppi formativi di buone pratiche (e, al livello specialistico, di ricerca-azione o di ricerca-intervento).
    Nella stessa linea, riacquistano tutto il loro valore “anche” formativo la pratica della meditazione o come meglio oggi si dice il devoto ascolto della parola di Dio, la liturgia e la preghiera individuale e comunitaria.

    Uscire dal soggettivismo, dalle paure... e dall’ideologia dell’eterna adolescenza

    Ma, forse, c’è da approfondire, superare o perlomeno bilanciare anche alcuni aspetti della mentalità prevalente a livello culturale oggi e di cui in vario modo partecipiamo.

    1) Per essere educatori, oggi, occorre superare il soggettivismo ideale e valoriale: vale a dire l’io visto come centro di tutto e regola di verità e di valore (che spesso si riduce a scambiare la verità con quel che uno pensa, e il bene con ciò che a uno piace). La realtà e la sua verità, così come la trascendenza degli altri, del mondo e di Dio, viene messa a rischio. L’autorealizzazione diventa senza limite e freno, quasi una religione dell’io, che rischia di far cadere nella malattia mortale del “narcisismo” di un io senza mondo, senza tempo, senza altri, senza vita; o che va a finire in altre forme depressive o aggressive. Le stesse persone dei ragazzi sono viste solo come “espressione di sé” e l’educare come costruzione di personalità “a nostra immagine e somiglianza”. Occorrerà bilanciare questa tendenza con il “senso del fine” educativo, vale a dire una vita personale, individuale e comunitaria piena, buona, bella, grande, aperta, partecipativa, solidale per coloro con i quali entriamo in relazione educativa; con il senso del bene comune, per cui impegnarsi e aiutare ad impegnarsi a dare il proprio contributo partecipativo, collaborativo e solidale.

    2) È anche da superare una certa pratica superficiale della relazione che quasi dimentica il mistero dell’incontro e delle relazioni personali e il loro essere immerse nel mistero” della vita e della complessità delle reti relazionali personali (intra, inter personali, plurali, comunitarie, istituzionali, cosmiche, trascendentali...).

    3) In modo simile è da andare oltre e non restare irretiti nell’enfasi sull’ agire e sull’operare rispetto all’essere, tipiche di questa nostra società della prestazione e dell’efficienza, che porta a pensare e dare valore all’agire, al fare, all'avere, più che all'essere; al comportamentale più che all'ontologico; ai ruoli più che alle persone; ai processi più che ai contenuti; al mutamento e all'innovazione più che al continuo e al perdurante; più all'omologazione che all'identità originale; all'apparire più che all'essere; al presente più che al futuro; alla facciata più che alla personalità profonda dell'io e dell'altro; alla funzionalità più che al senso della relazione.
    Il condividere, la gratuità, la contemplatività, l’inattualità di certe cose pure belle e preziose, l’essere profondo personale e comunitario e umano, ne possono venire vengono facilmente oscurati o dimenticati nell’educare.

    4) È, infine, da superare e vincere e non lasciarsi irretire dall’ideologia della adolescenza e della “giovinezza perenne” (che si lascia andare alla spontaneità senza limite, all’avventura, al “come viene”, e che fa di molti adulti degli eterni bambini e dei Peter Pan incalliti che non crescono). Tale ideologia è deleteria per sé (perché impedisce di vivere e godere il bello di ogni età della vita) e perniciosa per la crescita dei giovani (che non vengono ad avere modelli di vita adulta significativa nei genitori, negli educatori, nelle persone con cui sono in rapporto: con il rischio di fughe nel “virtuale” o di identificazione con le “star” della comunicazione sociale o di permanere in una vita “bambinesca”... come quella che gli adulti ricercano a ogni costo).

    Un “fisico” da educatore

    L’educazione si basa sulla fiducia: e per questo chiede di essere “persone di fiducia” e “competenti nella relazione di aiuto” qual è l’educazione: in tal senso si richiede “autorevolezza”, non autoritarismo!
    Sta qui tutto il senso della fatica di acquisire competenze relazionali e tecniche comunicative e operative adeguate (e del “continuo” loro aggiornamento).
    Ma per questo occorre creare le pre-condizioni opportune, la “piattaforma” comunicativa, venendo incontro, stando in mezzo ai ragazzi, accogliere e farsi accogliere, saper ascoltare, saper stare al dialogo e alle sue regole, saper accompagnare e camminare insieme, avere il senso del limite; senza pretendere che sin dall’inizio e sempre i ragazzi e le ragazze siano “bravini”, “educati” o siano “a nostra immagine e somiglianza”: certo non per fissarli in questo momento iniziale ma per educare loro e la loro “domanda” (cioè aiutando a esplicitarla, farla crescere,stimolarla, collaborare a portarla alla sua forma più grande e più bella).
    A questo scopo però mi sia permesso di fare alcune annotazioni.

    1. La “partita pedagogica”
    Negli ambienti educativi di ispirazione cristiana, si parla spesso di “centralità del ragazzo” con le migliori intenzioni di questo mondo. Ma con ciò c’è il rischio di fare diventare il ragazzo l’“oggetto” delle “cure educative” di noi adulti, ossessivamente preoccupati di non far mancare a lui niente che non sia in ordine al suo “successo formativo”.
    Al centro, invece, c’è (e va posta) piuttosto “la crescita e la valorizzazione della persona”, alla cui realizzazione il ragazzo ha da essere co-protagonista cor-responsabile. L’educazione, infatti, non è tanto azione degli educatori “sugli” e “per” gli educandi. È piuttosto – come si è detto all’inizio – funzione della relazione educativa “tra” educatori e educandi, in vista della personalizzazione “competente” e della buona qualità della vita propria, altrui e comune, di tutti e di ognuno (incluso quella degli educatori!). Gli educandi non sono né oggetti, né utenti, né destinatari, ma soggetti attivi e protagonisti responsabili della crescita, E hanno da esserlo sempre più, man mano che crescono. In ogni luogo e situazione educativa.
    Di più. La relazione educativa non si chiude in una relazione dualistica e intimistica di io-tu, pur essendo fondamentale tale aspetto; e non si chiude neppure nel gruppo-squadra “auto-gasato” o “in fusione”. La relazione educativa ha le dimensioni e l’ampiezza della vita nella sua globalità. Il suo il riferimento supremo è all’umanità in tutte le modalità, personali storiche e culturali, passate presenti e future.
    L’educazione, per dirla in termini sportivi, assomiglia a una “partita pedagogica”, che trova nella comunità educativo-sportiva non solo l’ambiente e lo strumento, il “campo”, ma anche il soggetto di referenza ultimo e il fulcro promotore primo. Nell’orizzonte di tale suprema “partita” le diverse “squadre”, i diversi soggetti individuali e sociali, ognuno per quanto loro compete, interagiscono e agiscono “insieme” (come squadra, come giocatori con diversi ruoli, come arbitri, come segnalinee, come tifosi, ecc.) in vista del conseguimento del fine educativo che li accomuna.
    Agli educatori e animatori compete attivare, stimolare e promuovere, far fare pratica di libertà e di valori, sostenere e accompagnare affettivamente, orientare responsabilmente, far interagire proficuamente tutte le componenti e i soggetti della comunità educativa in collegamento con le altre comunità educative, con le famiglie e con il territorio, con la comunità ecclesiale.

    2. Educare in rete
    Oggi comunemente si afferma di “operare in rete”: anche educativamente.
    Infatti, la rete educativa per un verso può essere vista come un dato, come una realtà fattuale, in quanto indica la pluralità di soggetti, individuali e/o collettivi, impegnati in campo educativo dentro una trama di rapporti. Ma è anche un compito, una realtà da “virtualizzare”, vale a dire da valorizzare, facendo conto delle risorse e delle potenzialità che tale pluralità possiede. A sua volta ciò richiede previamente il riconoscimento di un’area comune d’impegno (che emotivamente si esprime come “passione” per una formazione integrale delle persone); il riconoscimento dello specifico (identità e autonomia) di ognuna delle parti/soggetti interessati; la coscienza e la volontà dell’educazione come impresa comune, interdipendente, collaborativa, nella libertà, diritto e solidarietà di tutti e di ognuno, e in un gioco dinamico di condivisione valoriale, convergenza operativa, differenziazione giustificativa e motivazionale, dialogo-dibattito sul nuovo, l’ulteriore e il di più. Richiede pure di mettere in comunicazione le azioni e le risorse; di mettere in comune e confrontare le analisi e le interpretazioni dei problemi educativi emergenti; di ricercare ipotesi di lavoro condivisibili; di attivare progetti insieme; di alimentare una comune cultura pedagogica; di monitorare e valutare progetti, percorsi, azioni.
    E presuppone: a livello conoscitivo, di pensare la rete, di pensare in rete, di pensarsi in rete; a livello di agire, di affrontare i problemi non in astratto ma nello loro concreta emergenza o istanza e di gestire e ricercare insieme come risolvere o comunque come ridurre la problematicità; a livello di valutazione, di badare non solo all’efficacia dei progetti e dei percorsi ma anche e in primo luogo ai significati che si intendono promuovere, avendo coscienza e curando il limite proprio e comune, e tenendo presenti i rischi e le difficoltà oggettuali (o le variabili di attuazione), relazionali e soggettive (dei singoli e di gruppo).
    In generale occorrerà arrivare a un quadro di riferimento condiviso, a una organizzazione progettuale compartecipata, e a coordinamento operativo per la promozione di processi socio-educativi integrati, magari secondo quelli che si dicono territorialmente “piani di zona” o comunque indicazioni programmatiche nazionali e internazionali.

    Alcune competenze pedagogiche di fondo

    La “partita pedagogica” e l’operare in rete, richiedono agli adulti educatori e animatori (e prima di tutto alle comunità educative) competenza e “allenamento”.
    In questo senso è basilarmente importante:

    1. “Farsi l’occhio all’educazione”, vale a dire leggere educativamente la realtà in genere, e quella giovanile in particolare, dando priorità al personale: arrivando a conoscere le persone “con il nome e cognome”; vedendo e cercando di scoprire in essi e attorno ad essi il potenziale oltre che l’effettivo (= le risorse soggettive e contestuali); leggendo persone, fatti e eventi al positivo-valoriale incoraggiante e non al negativo-deprimente e scoraggiante. In tutti, anche nei più “disgraziati”, c’è del bene – o perlomeno “un punto accessibile al bene”, come diceva don Bosco (MB V, 367). E c’è da dire dei “sì”, oltre che dei “no”, che aiutino a crescere!

    2. Farsi in uno stile di pensiero e di azione, che coniuga:
    1) il sentire, vale a dire la capacità di empatia, di condivisione, di simpatia per cogliere vissuti esperienze,tendenze,interessi giovanili;
    2) il rilevare, cogliere e comprendere educativamente eventi, risorse, movenze culturali, movimenti innovativi;
    3) l’inquadrare con idee, valori, modelli e chiavi interpretative quanto si vede e si vive;
    4) il prospettare, al fine di saper progettare, predisporre, programmare;
    5) l’operazionalizzare, cioè il saper tradurre idee, prospettive, progetti, in itinerari e modi educativi concreti, individuando, oggetti, contenuti, esperienze, attivita, strategie, tempi, alleanze, facendo internagire e collaborare persone ai vari livelli;
    6) Monitorare, valutare, verificare personalmente, insieme azioni, comportamenti, processi, tenenze, effetti.

    3. Volare alto.
    Nella Lettera a una professoressa, i ragazzi di Barbiana, guidati da don Lorenzo Milani, ricordano che nella loro scuola avevano imparato ad affrontare i problemi e aiutarsi a vicenda per risolverli: “Coi vostri ragazzi fate meno. Non gli chiedete nulla. Li invitate solo a farsi strada”.
    Baden Powell, da quell’educatore inglese, pratico e pragmatico che era, nel suo testamento ha invitato gli scout di ogni tempo di “lasciare il mondo un po’ meglio di come lo si è trovato”.
    Nell’educazione, sempre e oggi in particolare, è tempo di volare alto.
    Intendo dire che occorre porsi nella prospettiva:
    1) di una pedagogia della risposta/mediazione ai bisogni di crescita dei ragazzi, ma anche della proposta/stimolazione, valida e significativa;
    2) di una pedagogia dello sviluppo personale, ma meglio di una pedagogia del fine da raggiungere, vale a dire non pensando solo al successo personale dei singoli, ma a quello di tutti gli altri con cui si pratica l’azione educativo-formativa; e facendosi attenti ai grandi fini personali, sociali, culturali, istituzionali, ecclesiali e umani, che si vogliono e possono raggiungere con la formazione, la istruzione, la catechesi, l’evangelizzazione…
    3) di una pedagogia “a servizio” della crescita umana di ragazzi/ragazze, giovani, ma anche di una pedagogia “per il servizio”: vale a dire una pedagogia della stimolazione, del suscitamento, della vocazione/missione, che aiuta a conoscere i talenti e le risorse, proprie e comuni, e che spinge alla partecipazione e al servizio, all’aiuto reciproco, alla cooperazione, in vista di una società dal volto umano, di uno sviluppo storicamente sostenibile per tutti e ognuno, di una “civiltà dell’amore”, o, evangelicamente, in vista della “salvezza del mondo”, che ci “spinge” a camminare nella carità verso il Regno di Dio, in cui abiterà definitivamente e completamente giustizia e verità!

    Il lato personale della faccenda ... ai tempi dei “non luoghi

    Per dirla con M. Augé, molta formazione della nuova generazione avviene nei “non luoghi”, cioè nel gruppo dei pari, “sfangando la vita” con amici, negli incontri, negli happening, in piazza, al muretto, al pub, nella balera, allo stadio, con la navigazione su internet, chattando, con gli SMS…, più che nei “luoghi” , cioè nelle istituzioni basiche di vita: la famiglia, la scuola, la parrocchia, la vita sociale civile-pubblica.
    Tali “non luoghi”, specie in Occidente – ma in larga misura in tutto il “villaggio globale” del sistema sociale di comunicazione, decisamente mondializzato e globalizzato – diventano … i luoghi privilegiati di socializzazione dell’adolescenza e della gioventù; e assurgono ad una vera e propria “scuola parallela” e a una “università della vita” – come suggerisce lo stesso Rettor Maggiore – in cui si viene a conoscenza di realtà impensate, si elaborano modi di vedere l’esistenza e si fa pratica di comportamenti innovativi, non ufficiali, anzi non sempre socialmente approvati.
    Cosa vorrà dire educare in questa situazione? O per meglio dire, che margini ci sono per l’educare?
    Indubbiamente ai “luoghi tradizionali” resta il compito di aiutare a riflettere, sistematizzare, integrare, vedere il senso umano, personale e comunitario di quanto si conosce e si sperimenta nei “non luoghi” e dell’uso-frequentazioni stessi di tali opportunità formative. È inderogabile ricercare l’alleanza e non la demonizzazione di tali modi nuovi di apprendere. Farne una risorsa educativa non un danno.
    Vale anche inquesta sede il principio salesiano dell’ “amare ciò che i giovani amano, per far loro amare il vero, il bello, il giusto, ...il santo”.
    Se necesario si dovrà uscire – mentalmente e operativamente – fuori delle mura calde e “familiari” delle “case” (parrocchie, oratori, istituti…). E comunque, si sarà quasi “costretti” ad abilitarsi alla frequentazione e all’uso pedagogico delle nuove tecnologie informatiche e telematiche, e “necessitati” a partecipare all’operare educativamente in rete.
    Forse occorrerà salesianamente fare come il primo Don Bosco, quello che visitava le carceri; quello che andava per le strade e nei luoghi di lavoro a cercare i ragazzi; quello che anche dopo la istituzionalizzazione dell’Oratorio è andato a soccorrere i ragazzi appestati nelle case e nei vicoli di Torino; quello che è andato a conoscere e visitare i ragazzi di Roma; o quello che ha mandato i salesiani e le figlie di Maria Ausiliatrice missionari presso i giovani che non avevano “luoghi” per la loro buona crescita umana e sociale.
    Il primo compito dell’educatore, infatti, oggi più che mai, è quello di esserci e di non stare fuori del campo dove viene giocata la partita pedagogica, andando incontro, ricercando i giovani dove e come sono, nello loro movenze e identità non sempre previdibili e chiare: prima di ogni pur personalissima accoglienza o di una pur bella proposta educativa di altissimo livello entro le cittadelle protette dei luoghi educativi salesiani.
    Così per educare con il cuore di don Bosco, non basta rinnovarsi “nel cuore” (cioè nella intenzionalità pastorale educativa personale e comunitaria). Occorre “avere un cuore” che sa farsi prossimo dei giovani e “buon samaritano” nel loro essere “a rischio”: individuando le situazioni di disagio visibile o nascosto, le antiche e le nuove povertà dei giovani, i loro diritti/doveri, troppo spesso conculcati o impediti di svilupparsi a pieno; scommettendo sulle risorse positive di ognuno. Occorre “aver cuore” di impegnarsi “alla lunga e alla grande”, per quella "cosa buona, anzi divina e tra le cose divine, divinissima, che è l'educazione”, per dirla con le parole di don Bosco stesso (MB XIII, 629). E più globalmente vuol dire impegnarsi “di cuore” , socialmente e politicamente, per dare all’educazione uno “spazio”, dignitoso e degno: nelle cose, nei fatti e nelle idee, nelle strutture, nelle intenzioni progettuali, nei cuori.

    Conclusione

    Concludo con una parafrasi “educativa” del cap. 13 della prima lettera ai Corinzi, fatta da un anónimo insegnante e che ho trovato in Croazia.
    “Se io insegnassi con la cultura dei migliori insegnanti, ma non avessi l’amore, io non sarei che un oratore intelligente o una persona spiritosa e simpatica. Se conoscessi tutte le tecniche e avessi provato tutti i metodi migliori o se avessi una formazione che mi permettesse di sentirmi competente, ma non avessi compreso ciò che i miei allievi provano e come essi pensano, ciò non basterebbe per essere insegnante. E se io passassi molte ore a prepararmi per non essere né teso né nervoso, ma non provassi ad amare e a comprendere i problemi personali dei miei studenti, ciò non basterebbe ancora per essere un buon insegnante.
    Un insegnante è pieno di amore, di pazienza di bontà. Non fa mistero che altri si confidano a lui. Non spettegola. Non si lascia facilmente scoraggiare. Non si comporta in maniera sconveniente. Per i suoi allievi è un esempio vivente di buona condotta e ne fa volentieri riferimento.
    L’amore non si ferma mai.
    I programmi saranno sorpassati. I metodi passeranno di moda. Le tecniche verranno abbandonate. Il nostro sapere è limitato e noi non ne possiamo trasmettere che un piccola parte ai nostri allievi. Ma se abbiamo l’amore, allora i nostri sforzi avranno una forza creatrice e la nostra influenza resterà radicata per sempre nella vita dei nostri allievi.
    Ora, rimangono le tecniche, i metodi e l’amore. Ma la più importante delle tre è l’amore”


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