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    oratorio triani

    Centro Ambrosiano 2022 - pp. 144 - € 14,00

     

     

     

    GLI AUTORI

    Paolo Alfieri
    Ricercatore senior in Storia dell'educazione presso l'Università Cattolica di Milano. I suoi principali interessi di ricerca vertono sulla storia dell'educazione popolare cattolica, sulla storia dell'educazione fisica scolastica e sulla memoria scolastica. Ha pubblicato tre monografie e numerosi articoli o saggi in riviste scientifiche o volumi collettanei in Italia e all'estero.

    Paola Bignardi
    Pedagogista, già presidente nazionale dell'Azione Cattolica Italiana, è stata coordinatrice dell'Osservatorio Giovani dell'Istituto Toniolo.

    Luca Bressan
    Vicario episcopale per la Cultura, la Carità, la Missione e l'Azione Sociale nella diocesi di Milano. Insegna Teologia pastorale presso il Seminario Arcivescovile di Milano e dal 2003 è professore ordinario presso la Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale.

    Alessandra Carenzio
    Ricercatrice in Didattica e Pedagogia speciale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università Cattolica di Milano, insegna Tecnologie dell'istruzione e dell'apprendimento e didattica e educazione mediale. Nella stessa Università, svolge attività di formazione e ricerca presso il CREMIT – Centro di Ricerca sull'Educazione ai Media, all'Innovazione e alla Tecnologia. Tra gli interessi: la media education, il rapporto tra schermi, scuola e famiglia, la cultura digitale nei contesti educativi e pastorali.

    Rossano Sala
    Docente ordinario di Teologia pastorale e Pastorale giovanile presso l'Università Pontificia Salesiana di Roma, direttore della rivista «Note di pastorale giovanile», Consultore della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi, Segretario Speciale della XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi dal tema "I giovani, la fede e il discernimento vocazionale".

    Sergio Tramma
    Ordinario di Pedagogia generale e sociale presso l'Università di Milano-Bicocca; in particolare, si occupa del rapporto tra educazione e contemporaneità e delle trasformazioni degli ambienti educativi informali. Tra le sue ultime pubblicazioni: Sulla maleducazione, Cortina, Milano 2020; L'educazione sociale, La terza, Roma-Bari 2019.

    Pierpaolo Triani
    Ordinario di Pedagogia generale e sociale presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore; coordinatore scientifico del Corso di alta formazione "La qualità dell'educare negli oratori"; membro del Comitato scientifico dell'Osservatorio Giovani dell'Istituto Toniolo.

    NOTA PER LA LETTURA
    Pierpaolo Triani

    Il presente volume nasce da un'occasione di confronto culturale, testimonia un processo, indica un orizzonte.
    L'occasione è stata la giornata di studio, organizzata dall'Arcidiocesi di Milano, dalla Fondazione diocesana per gli Oratori Milanesi, dal Dipartimento di Pedagogia e dalla Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, che si è tenuta 1'11 novembre 2021 presso la sede universitaria di Largo Gemelli 1.
    Questa giornata ha preso spunto dal centenario della morte del cardinal Ferrari, figura fondamentale per la storia degli oratori milanesi, per porre al centro il tema dell'attualità pastorale dell'oratorio, con l'intenzione di compiere un esercizio di rilettura del passato, di interpretazione dell'oggi, di sguardo verso il futuro. Come ha ricordato nel suo intervento la professoressa Polenghi, direttrice del Dipartimento di Pedagogia,

    l'idea di ricordare questo anniversario con una giornata di studio sull'oratorio è senz'altro lodevole, non soltanto per rendere omaggio all'opera di Ferrari a favore di questa importante istituzione formativa, così tipica della diocesi di Milano, ma soprattutto per rilanciare la pastorale oratoriana senza dimenticare le sue radici storiche.

    I lavori sono stati caratterizzati da un'articolata riflessione a più voci, alla quale hanno portato il loro contributo S.E. monsignor Delpini (Arcivescovo di Milano), S.E. monsignor C. Giuliodori (assistente generale dell'Università Cattolica del Sacro Cuore), Domenico Simeone (preside della Facoltà di Scienze della Formazione), Simonetta Polenghi (direttrice del Dipartimento di Pedagogia), don Mario Antonelli, don Stefano Guidi, Paolo Alfieri, Pierpaolo Triani, don Rossano Sala, Paola Bignardi, monsignor Luca Bressan, Sergio Tramma, Caterina Gozzoli, Antonello Riva, Matteo Lancini, Alessandra Carenzio.
    Diversi di questi contributi, appositamente rivisti e arricchiti, sono raccolti nel presente volume che intende, attraverso la pluralità dei suoi interventi, testimoniare un processo che tocca più dimensioni.
    La giornata di studio e il testo danno credito, infatti, in primo luogo della collaborazione che da alcuni anni è in atto tra la diocesi di Milano, la FOM, gli Oratori delle Diocesi Lombarde (ODL) e l'Università Cattolica del Sacro Cuore, in particolare con il Dipartimento di Pedagogia e la Facoltà di Scienze della Formazione. Si pensi, al riguardo, ai lavori che hanno portato nel 2015 alla pubblicazione del volume, curato da S. Polenghi e P. Alfieri, Gli oratori ambrosiani nel Novecento. Educazione e pastorale giovanile nella Chiesa di Milano, pubblicato da Vita e Pensiero e, più recentemente, all'attivazione del corso di alta formazione "La qualità dell'educare negli oratori", di cui si sono già svolte due edizioni, realizzato grazie alla collaborazione tra la Formazione Permanente dell'Università Cattolica e ODL. Questa collaborazione tra realtà ecclesiali e mondo universitario vede, inoltre, anche l'attivo coinvolgimento di alcuni docenti e ricercatori dell'Università degli Studi Milano Bicocca.
    In secondo luogo, testimoniano un processo di sinergia culturale tra gli studi teologici pastorali e le scienze umane, accompagnato anche da una crescente attenzione della ricerca sociale, in particolar modo quella pedagogica, verso le pratiche e le forme educative della comunità cristiana, soprattutto quel contesto specifico e peculiare che è rappresentato dalla realtà oratoriana.
    Infine il volume, già a partire dal suo titolo (che riprende quello della giornata di studio) indica un orizzonte di lavoro segnato dall'impegno di lasciarsi interpellare dal presente e di aprirsi al futuro, continuando a investire sul desiderio di costruire contesti educativi capaci di accogliere le persone, favorire il loro incontro con la proposta cristiana, promuoverne lo sviluppo integrale.
    È facile constatare come, anche nel nostro Paese, il rapporto con la dimensione della trascendenza, l'appartenenza al cattolicesimo, la dinamica ordinaria delle comunità cristiane, siano segnati da forti cambiamenti che stanno disegnando un volto diverso di Chiesa. Il tempo della pandemia, con le sue molteplici conseguenze relazionali, sociali, culturali, economiche, sta contribuendo a mettere a nudo anche nelle realtà ecclesiali diverse criticità e non è un caso che la Chiesa italiana, in sintonia con la Chiesa universale, abbia scelto di avviare un cammino sinodale che parta innanzitutto dall'ascolto delle persone e della realtà.
    Di fronte a uno scenario così complesso si può essere presi da un atteggiamento di chiusura oppure si può scegliere di vivere il presente mantenendo alto lo sguardo progettuale e investendo sull'educazione. Porre al centro la tematica dell'oratorio significa scegliere con intelligenza, creatività e responsabilità un orizzonte di apertura, nella consapevolezza che il compito educativo, come hanno ricordato, durante la giornata di studio, diversi interventi riprendendo papa Francesco, richiede una alleanza, un patto tra le persone e le istituzioni di un determinato territorio.
    In conclusione, prima di lasciarvi alla lettura, mi sia permesso di esprimere il mio sincero grazie alle tante persone che hanno contribuito alla giornata di studio e alla realizzazione del volume. Un grazie particolare a don Stefano Guidi che ha seguito attentamente ogni passo.

    PREFAZIONE
    Mario Antonelli
    Vicario episcopale della diocesi di Milano, presidente della FOM

    L'oratorio è profezia che si rinnova; e rinnova, come ai tempi del cardinal Ferrari. La profezia – e l'oratorio davvero non fa eccezione – riguarda sempre, insieme, il popolo di Dio nel suo sì altalenante all'alleanza di amore e il mondo con i suoi no anche ostinati al desiderio di Dio.
    La profezia rianima la speranza malata della comunità cristiana, cantando un futuro nuovo di unità, libertà e letizia che si annida come promessa nell'oggi di fiacchezza e di stenti.
    La profezia contesta leggerezze e mediocrità e deviazioni che affliggono un popolo che dovrebbe camminare nella santità di Dio e invece traccheggia zoppicando, chiudendo l'orecchio e indurendo il cuore.
    La profezia consegna lo smarrimento e il lamento alla memoria delle meraviglie divine che hanno scandito la storia dell'educare con intelligente passione alla vita di figli e alla cura della polis.
    «Profezia che si rinnova», l'oratorio rianima, contesta, fa memoria. Con la sua novità vorrebbe suscitare stupore e accendere domande in un mondo dove il dire/fare l'esistere si svolge ormai in grammatiche etiche e sociali che non conoscono il nome di Dio, almeno per come viene pronunciato e rappresentato negli spazi ecclesiastici. Rinnovandosi come "casa", "chiesa", "cortile" e "campo", l'oratorio profetizza la novità buona di quel nome, per tutti; in una grammatica non alternativa, ma differente, che sprigiona il profumo di quel nome dicendo le parole della prossimità, degli affetti, dello studio, della famiglia, della natura... della comunità di Gesù. Lì, bambini, ragazzi, giovani si ritrovano ad avere visioni; e la comunità cristiana, con i suoi anziani, torna a fare sogni.

    INTRODUZIONE
    Mario Delpini
    Arcivescovo di Milano

    Perché è opportuno fare degli oratori un argomento di studio? Molte cose sono cambiate in questo tempo. Il cambiamento non è, di solito, una rivoluzione sconvolgente, ma è piuttosto una evoluzione. Certamente l'esperienza della pandemia ha costituito un trauma: l'oratorio, come tutte le istituzioni, è stato coinvolto. Un trauma richiede sempre un periodo di riabilitazione. La ripresa delle attività ordinarie, per quanto possibile, può rendere più saggi e incisivi, se impariamo da quanto è successo.
    Il trauma della pandemia ha forse, però, soltanto enfatizzato una evoluzione che è in corso da molto tempo. Raccogliamo la sfida di pensare, studiare, confrontarci. Ci chiediamo: come sono gli oratori oggi? In che senso gli oratori sono la «profezia che si rinnova»?
    Alcuni fenomeni sono macroscopici: la diminuzione del clero giovane, il mutamento che segna la popolazione giovanile, l'evoluzione della forma storica della parrocchia ambrosiana.
    La parrocchia ambrosiana si è sempre caratterizzata e riconosciuta in questo modo: vicino alla chiesa c'è la casa parrocchiale, dove abita il parroco, e, più o meno vicino, c'è l'oratorio dove abita il vicario parrocchiale. Questo modello è rimasto radicato nel nostro territorio per molto tempo e ha caratterizzato le nostre comunità. È certamente così che il cardinal Ferrari ha immaginato l'oratorio: un prete "giovane" dedicato ai giovani in ogni parrocchia. Ma i preti giovani oggi sono pochi e non possono essere in ogni parrocchia. Questo è un primo fatto macroscopico.
    Un secondo fatto macroscopico è la diminuzione dei ragazzi che frequentano l'oratorio. In generale, la popolazione giovanile lombarda è ridotta di numero, quindi gli oratori non sono più affollati di ragazzi, adolescenti, giovani rispetto un tempo. Anche se l'esperienza estiva costituisce una forma singolare di partecipazione popolare ancora numericamente significativa, la pandemia ha ridimensionato pure questo spazio. Il fenomeno è, però, più antico e profondo: la popolazione giovanile non solo è diminuita, ma si disperde in molti altri luoghi, soprattutto nelle città. Quindi gli oratori sono meno frequentati.
    Un terzo fatto macroscopico è il complicarsi delle esigenze, delle pretese, delle normative. In questo tempo, incide molto la normativa per le opportune cautele, allo scopo di prevenire la diffusione del virus. Più in generale, la normativa riguarda tutti gli aspetti della vita dell'oratorio, per prevenire gli abusi, per prevenire gli incidenti, per rispondere alle attese. Sono esigenze e pretese espresse sia dai genitori sia dalle istituzioni pubbliche. I genitori, ad esempio, affidano i ragazzi all'oratorio con molte cautele e con molte richieste di rassicurazione. La vita è diventata più complicata sia per necessità legittime sia per pretese più o meno discutibili.
    Ci sono quindi buoni motivi per ripensare e studiare l'oratorio.
    Ma perché l'oratorio, almeno nella sua forma ideale, è una profezia?
    "Profezia" è una parola che la Chiesa, in nome di Dio, ci consegna. Ci vengono così restituiti un simbolo e un'immagine. La profezia da un lato è sempre una promessa e dall'altro sempre una contestazione.
    L'oratorio è, dunque, una profezia perché è qualcosa di promettente per il contesto in cui siamo ma anche perché reagisce a questo contesto, sotto forma di contestazione.
    Quali sono quei fattori che indicano l'oratorio come elemento promettente e insieme critico?
    Un primo aspetto semplice che rende l'oratorio constatazione o aspettativa consiste nell'affermare che esso non è "proprietà privata" del prete giovane della parrocchia, ma è piuttosto lo strumento educativo della comunità e, quindi, deve coinvolgere tutta la comunità. Tra l'altro, la diminuzione del numero dei preti permette o esige questo coinvolgimento complessivo della comunità adulta, della comunità educante, della comunità parrocchiale. Così l'oratorio è, da un lato, promettente perché esprime la corresponsabilità educativa, dall'altro è anche segno di un principio critico nei confronti del clericalismo.
    Un altro aspetto profetico dell'oratorio è la sua accessibilità. L'oratorio è aperto a tutti. Questo vuol dire che non è selettivo e non impone un rigore discriminatorio. Vi riconosco la profezia della "Chiesa dalle genti" tradotta per i ragazzi, gli adolescenti e i giovani. L'apertura a tutti è promessa e contestazione di quella tendenza alla privatizzazione che "ammette solo gli iscritti". Se non ti iscrivi (alla società sportiva, al corso eccetera) non puoi entrare, non sei nessuno. In oratorio l'apertura è universale.
    La partecipazione all'oratorio è poi gratuita, cioè non si chiede alcuna quota d'ingresso, se non a sostegno di specifiche iniziative. La gratuità è una forma tipica della sollecitudine cristiana per l'educazione. Mentre le scuole paritarie, che dipendono dall'autorità ecclesiastica, devono far pagare le rette per poter sopravvivere, in oratorio l'accesso è gratuito, segno di contestazione contro una società in cui tutto si può avere, purché si abbiano i soldi per pagare.
    Questo accesso universale non è, però, arbitrario ma segue delle regole. L'oratorio si caratterizza per un'accoglienza che ha le sue regole, talvolta scritte in progetto dagli oratori. Pensiamo, ad esempio, allo Statuto che ci ha lasciato il cardinal Ferrari nel 1904 che ha regolamentato la vita degli oratori e ne ha determinato la storia. Gli oratori si sono sempre dati delle regole, condividendo la proposta di un progetto. L'oratorio non è un parco pubblico ma un luogo regolato grazie a un progetto educativo da sottoscrivere e promuovere. Questo progetto, almeno idealmente, è comprensivo: non è un accumulo di frammenti che frantuma il tempo dei ragazzi, spinti e attratti da molteplici attività e diversi luoghi, ma punta a una formazione unificante della vita, cercando di coordinare i diversi elementi che la compongono. La faticosa frammentazione del tempo è voluta più dai genitori che dai ragazzi, questo è un dato. L'oratorio cerca di reagire a questa tendenza alla frantumazione che talvolta non fa che complicare la vita dei ragazzi.
    Infine, l'oratorio si caratterizza come profezia perché chiede di pregare. In oratorio si propone il riferimento a Dio e si promuove la cura per la vita spirituale, andando contro la tendenza a ridurre la preghiera alla forma del "privato". Sembra quasi che, se uno prega, debba pregare da solo. Invece in oratorio si prega e si impara a pregare insieme.
    La presenza di ragazzi di altre religioni impone certamente un'attenzione e un rispetto, ma rimane la prospettiva di educare a una preghiera insieme per cui, ad esempio, si troverà il modo di far pregare i musulmani come musulmani, ribadendo che il tema della spiritualità e della manifestazione della fede non è un aspetto privato.
    Ci sono, dunque, alcuni tratti che rendono l'oratorio una profezia. Come questi - enunciati come ideali - vadano declinati in un "oggi" così complicato è una scommessa da verificare e accogliere.

    Postfazione
    DOPO UN SECOLO IL DESTINO DELL'ORATORIO IN UN MONDO (E UNA CHIESA) CHE CAMBIA
    Luca Bressan

    Lo sguardo di questa mia riflessione è quello della teologia pratica, il cui compito nei confronti della forma sociale dell'oratorio è di cogliere come dentro questa forma, questa organizzazione sociale visibile si celi, anzi, lavori in un modo potente l'esperienza cristiana della fede sia nella sua dimensione individuale sia nella dimensione comunitaria.
    Prenderò in considerazione, innanzitutto, due "fotografie". La prima è quella dell'oratorio così come era immaginato nello Statuto che il cardinal Ferrari ha voluto, che è un vero e proprio programma di azione pastorale; la seconda fotografia riguarda l'oratorio così come ce lo stiamo immaginando in questo momento di forte evoluzione anche dopo la pandemia. Il confronto tra le due fotografie ci permetterà di cogliere differenze, i colori appunto anche parecchio distanti, e proprio queste differenze consentiranno di capire che cosa c'è in gioco dal punto di vista delle esperienze cristiane, e quali quindi sono le consegne che ci vengono date; quale sia la visione che si prospetta. Cercherò, perciò, di delineare quale compito sia affidato, nel forte cambiamento in atto, dentro la Chiesa e le sue forme, a una forma così situata, così anche ben delineata e locale come quella dell'oratorio.

    Accendere l'immaginazione

    Partiamo dalla prima fotografia, dentro il mito: se si prende in mano lo Statuto degli Oratorii Maschili della città di Milano, questo libretto del 1904, si rimane stupiti dalla lucidità dell'analisi che viene fatta anche se non vi si trovi, osserveremmo oggi, nessun dato statistico. Si rimane colpiti dalla lucidità del pensiero, dalla sinteticità e dalla capacità, di quelle poche parole, di situarci.
    Il primo dato importante è che lo Statuto degli Oratorii colloca la Chiesa del tempo: siamo appunto agli inizi del XX secolo, dentro un'identità che si è fatta tradizione. Viene citata la figura di san Carlo con la sua scuola domenicale di dottrina e viene ricordato anche il nome del primo riformatore dell'idea e della pratica di san Carlo, ovvero Federico Borromeo, con la sua felice intuizione di estendere questa scuola della dottrina cristiana a tutto il giorno domenicale, immaginando per i più volonterosi e disponibili anche un momento pomeridiano intessuto di ascolto e di attività educative. Nasce così l'oratorio.
    Torniamo al nostro libretto, consapevoli di un primo grande guadagno: ci sentiamo collocati in una tradizione che si sviluppa dentro la storia, che assume la memoria per lasciarle portare frutto nel presente, non avendo paura di modificare il traditum, anzi, con la sicurezza che il rinnovamento ci consentirà di vedere dimensioni di quanto trasmesso sino a questo momento rimaste un po' celate.
    In questa prospettiva, lo Statuto del 1904 con molta lucidità si colloca dentro l'asse della tradizione per avere energie, perché agli estensori sta a cuore il riuscire a vedere in modo sereno e oggettivo il momento di fatica che l'oratorio sta vivendo. L'arcivescovo Andrea Carlo Ferrari non si nasconde il dato di realtà: c'è bisogno di mettere mano all'oratorio in ragione dei cambiamenti in atto. Siamo infatti, per Milano, nel periodo della nascita dell'urbanesimo, dell'industrializzazione, dello sviluppo di una cultura che pone domande nuove, che indeboliscono le forme tradizionali della vita cristiana e delle pratiche di fede. La Chiesa sente andare in crisi il suo modo tradizionale di annunciare la fede, di predicare, di formare.
    Occorre, quindi, fare lo sforzo di tornare alle origini, di ricomprendere come ridire oggi le intenzioni che stanno alla base dell'istituzione oratoriana. È quello che il cardinal Ferrari ci consegna con lo Statuto. Perché c'è bisogno di questo strumento? Per capire che dietro le pratiche della dottrina cristiana e poi dell'oratorio voluto da Federico Borromeo c'è un'intenzione che non si coglie più, che non riesce più a essere detta e vissuta nel presente. La questione è seria: come tornare a cogliere quell'intenzione originaria, l'intenzione che fonda le pratiche? Altrimenti le pratiche da sole non stanno in piedi.
    Tutti possiamo comprendere quanto sia vera, anche dopo un secolo, questa intuizione del cardinal Ferrari. È la stessa intuizione che ci ha riuniti qui, tutti insieme, oggi. Il lavoro che sta alla base dello Statuto è proprio questo: cercare quell'intenzione che ci permetta di adeguare le pratiche al tempo, alla cultura e alla società mutate, di oggi. Lo Statuto del 1904 mostra la sua volontà di respirare la cultura del tempo quando parla di organizzazione del lavoro, ma non solo. Tutto il testo stesso, assumendo uno schema culturale che è valido anche per noi oggi, viene pensato secondo la forma di uno scritto che ha come scopo l'organizzazione di un corpo sociale: vengono enunciati in modo chiaro gli obiettivi, sono chiare le azioni e anche i soggetti che le devono svolgere, e tutto ciò è detto proprio in questo ordine. Non ci sono prima i soggetti e poi si cercano le azioni e gli obiettivi, ma al contrario: si parte dall'intenzione; si capisce quali sono gli obiettivi che l'intenzione vuole raggiungere, sostanzialmente la formazione dei giovani; da questa intenzione si deducono le azioni compresa la ginnastica, che è una scoperta del tempo, per arrivare alla fine ai soggetti.
    Una scrittura così organizzata ci invita in modo naturale a superare il livello della superficie, alla ricerca di ciò che sostiene tutto il progetto. C'è un non visibile nella scrittura del testo che ne regge tutta l'organizzazione, che fa da regia, che accende la nostra immaginazione.
    Lo potremmo descrivere così: il cardinal Ferrari immagina l'oratorio come un dispositivo educativo integrale. Se si guarda attentamente, l'oratorio viene messo al centro di una serie di nodi, di azioni che esso deve intercettare e legare tra di loro. Si parla di scuola, di formazione, di recupero per chi fa fatica, di lavoro, e si mostra come queste nuove condizioni chiedano nuove modalità di azione. E così, agli inizi del Novecento, si impara che l'oratorio può rimanere aperto la sera, nei giorni feriali. Si parla di una forma fisica che è importante promuovere e coltivare, si parla anche di problemi di cibo, di nutrimento. Si immagina effettivamente l'oratorio come quello strumento che permette a ogni giovane che lo abita di intrecciare le tante dimensioni della sua crescita, dando loro un orientamento e un ordine, che permette di andare oltre la superficie.
    Immaginare l'oratorio come dispositivo educativo integrale è davvero un'operazione intellettuale originale e innovativa. Significa pensarlo come un luogo in cui, agli inizi del XX secolo, si possa riproporre quell'esercizio di incarnare la fede dentro la storia, che era stata l'intenzione all'origine dell'oratorio borromaico. L'oratorio deve cambiare per continuare l'incarnazione della fede dentro la storia e, perciò, vengono presi i tre elementi che dicono lo specifico del tempo (1. l'istruzione religiosa, che allora era espulsa dall'istruzione laica; 2. la formazione scolastica, perché senza tale formazione non c'è capacità di capire la fede; 3. l'educazione del corpo nelle sue varie dimensioni, sia la cura corpo attraverso la ginnastica, sia la valorizzazione del corpo attraverso il lavoro) per inserirli nella struttura classica dell'oratorio (la preghiera e le pratiche di pietà, il gioco come strumento di legame sociale, l'interazione con gli altri).
    Uno sguardo allo Statuto del 1904 con gli strumenti della sociologia attuale, quindi un pensiero di un secolo dopo, direbbe che il beato cardinal Ferrari immagina l'oratorio come uno strumento o, meglio, uno spazio di ordinazione simbolica: chi entra in quello spazio, senza che lo debba decidere in modo esplicito, si trova immerso in una serie di legami, azioni, attività, che strutturano la sua vita, che le danno una direzione, che imprimono un orientamento valoriale e di senso. Vale la pena sottolineare ancora una volta come sia lo spazio in sé a innescare questa operazione. Non occorrono agenti esterni, ordini o comandi. È sufficiente stare in quello spazio e l'operazione di ordinazione simbolica si accende da sé. Il singolo rimane incredibilmente libero: decide lui cosa assorbire e cosa no, spesso compiendo questa scelta anche in modo non conscio.
    Questa intuizione che anima lo Statuto del cardinal Ferrari sarà presente anche nella vita dell'oratorio del dopoguerra. Gli anni Cinquanta dei nostri oratori sono dei grandi spazi di ordinazione simbolica; ugualmente lo è, nello stesso periodo, il seminario minore, pensato come uno spazio di ordinazione simbolica ben specializzato.
    Prima di chiudere questo nostro esercizio di rilettura dell'oratorio immaginato dal cardinal Ferrari, per nutrire a nostra volta l'esercizio di rilettura della forma attuale di questa istituzione, è utile puntare l'attenzione sulla figura che fa da snodo, da perno di tutto lo spazio oratoriano. Una figura che il cardinal Ferrari prende dalla tradizione precedente, soprattutto da Federico Borromeo, e conserva: la centralità, il ruolo chiave della figura del padre, del generatore. È questo il ruolo del presbitero, del prete, figura visibile, che con la sua presenza dà corpo e incarna la figura invisibile ma altrettanto reale di Dio, che è il Padre della storia. Così l'oratorio, che lo si voglia o no (la parola, infatti, non è scritta esplicitamente nello Statuto), diventa il luogo in cui un giovane scopre la propria vocazione. L'oratorio è quello spazio che, ordinandola simbolicamente e orientandola nella direzione della fede cristiana, abilita il giovane a riscoprire la vita come la risposta a una chiamata, dando realtà a quella relazione personale con Dio che tutti cercano. Uno spazio che fa vivere con realismo la propria condizione di figli di Dio: questa è la potenza dell'oratorio immaginato dallo Statuto del 1904.

    Le urgenze del presente

    Dopo centoventi anni, dove siamo? La teologia pastorale, sempre in dialogo con le scienze sociali e pronta ad ascoltare le sue ricerche, ci ricorda quanto sia necessario in epoche di cambiamento conservare il coraggio del realismo, tenendo sotto controllo le tante emozioni generate, che ci rendono astratti, staccati dal reale. Sia le emozioni negative e pessimiste - che ci portano a dire: «Non c'è più futuro per l'oratorio; è tutto finito, non funziona niente» - sia quelle ingenuamente ottimiste - che ci portano ad affermare: «In fondo, l'oratorio se la cava bene, non è come altre dimensioni della Chiesa, lui si che ce la fa!». Occorre, invece, effettivamente vedere: che cosa oggi di tutta questa struttura funziona; in che modo, e come, la trasformazione culturale dentro la quale l'oratorio vive cambia anche il funzionamento e modifica il suo essere spazio di ordinazione simbolica.
    La prima cosa che stupisce dell'oratorio attuale, rispetto al disegno immaginario del cardinal Ferrari, è che esso viene sempre meno descritto e vissuto come un luogo, uno spazio totale, un dispositivo educativo integrale. Piuttosto si tende a vederlo come una serie di servizi: all'oratorio ci si va per fare qualcosa, soprattutto man mano che si cresce con l'età. La differenza la si intuisce subito: se io vado in un oratorio per svolgere una funzione, è diverso il carico di attesa simbolica con cui varco quel cancello e metto in gioco la mia identità. Sarà difficile, ad esempio, che la mia attesa simbolica sia così profonda da permettere a quello spazio di interrogarmi sul futuro che sto costruendo, sulle scelte di vita che intendo compiere. Un simile risultato lo dobbiamo al cambiamento culturale in atto, ma anche al fatto che l'oratorio è stato involontariamente indebolito dalla Chiesa stessa, in seguito all'eccessiva specializzazione dei legami e delle simboliche ecclesiali (l'educazione alla fede è diventata un capitolo a sé, come tutto quanto riguarda l'ambito della carità).
    È vero che in questi ultimi decenni siamo tornati a uno sguardo integrato, a pensare l'iniziazione cristiana e anche l'educazione alla fede come un momento di vita oratoriana; ma tutti gli ultimi decenni del XX secolo vedevano, invece, questi momenti in parallelo. Oppure consideriamo l'altra grande frattura, tra ciò che è aiuto, carità, attenzione al prossimo, intervento e sostegno, rispetto a quella che è la vita oratoriana. La specializzazione delle pratiche ecclesiastiche ha indebolito la capacità dell'oratorio di rimanere spazio di ordinazione simbolica, ha ristretto il campo di funzionamento antropologico delle pratiche che in oratorio venivano vissute.
    Un secondo aspetto che ci colpisce, nel confronto tra queste due figure, è la forte evoluzione della istituzione scolastica. A inizio XX secolo la pedagogia oratoriana riusciva ancora a costruire confronti e paragoni con l'analoga dimensione della scuola. Oggi il mondo della scuola e della formazione ha fatto passi da gigante e si è organizzato in direzioni molto diverse, percorrendo strade che l'oratorio non riesce più a intercettare.
    Nel frattempo, ci siamo accorti che i bisogni ai quali voleva rispondere il dispositivo educativo integrale del cardinal Ferrari sono rimasti tutti, anche se sono cambiati in alcune caratteristiche. Provo a richiamarne qualcuno.
    Innanzitutto, il dilagare delle dipendenze, in tutte le varie forme. Se l'istituzione voluta dal cardinal Ferrari intendeva porsi come scudo a salvaguardia delle devianze in cui poteva cadere un giovane, oggi la situazione si è semplicemente inasprita. In secondo luogo, il fenomeno, mimetico, del branco. Si tratta di un modo di spegnere il pensiero quando si è insieme, per non accorgersi della debolezza della propria identità, della solitudine dei legami spezzati. L'oratorio del 1904 intendeva porsi come argine a questo fenomeno immaginandosi come uno spazio "casa", organizzandosi come uno spazio di ordinazione simbolica capace di ricostruire quel contesto familiare che per parecchi giovani non era possibile vivere. Oggi questa necessità si è semplicemente moltiplicata.
    In terzo luogo, un ulteriore bisogno che possiamo rilevare nelle sue trasformazioni: il debito di risorse e di energie per vedere il futuro. Colpisce, al riguardo, nelle ultime indagini sugli adolescenti, svolte anche durante la pandemia, non solo in Italia ma anche a livello europeo, la constatazione della fatica che essi fanno a vedere il futuro. Abbiamo spesso dei giovani che si concentrano principalmente su se stessi perché non hanno strumenti per aprirsi, rischiando di cadere in questo modo in un circolo vizioso narcisistico; ma allo stesso tempo la concentrazione su di sé li porta a costruire di se stessi un ritratto negativo, tanto che alcuni studiosi ritengono stiamo vivendo in un'epoca di un narcisismo triste, così riassumibile: mi specchio per dirmi che non mi piaccio.
    Se spostiamo lo sguardo alla dimensione ecclesiale, anche qui possiamo constatare quanto i bisogni siano rimasti praticamente intatti. L'oratorio, dicevamo, è uno spazio di ordinazione simbolica che permetteva a una persona in modo molto naturale di scoprire la vita come risposta a una chiamata. Era, dunque, uno strumento per rispondere a una domanda cristiana fondamentale: la scoperta della propria vocazione. Oggi l'oratorio non riesce più a essere vissuto in questo modo, non • riesce più a essere questo dispositivo, perché in un molto più generale in tutte le forme della esperienza cristiana possiamo registrare lo stesso difetto di funzionamento: non riusciamo più a incarnare la fede, a dire in forme pratiche e quotidiane la realtà della nostra esperienza con il Dio di Gesù Cristo. Abbiamo le due forme pratiche di vita cristiana, i due sacramenti che edificano la Chiesa (come giustamente ci ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica) che sono il matrimonio e l'ordine sacro, che non sanno più parlare alle nuove generazioni. Facciamo molta fatica a realizzare luoghi che permettano ai ragazzi, agli adolescenti e ai giovani di capire la credibilità e la realtà, la concretezza di queste forme; siamo in un momento di afasia vocazionale molto forte.
    La maggior parte delle vocazioni al presbiterato nella nostra diocesi fino alla metà degli anni Novanta del XX secolo veniva dagli oratori. In quegli anni, solo una parte minoritaria di candidati proveniva da percorsi individuali. Proviamo a leggere la situazione del nostro seminario oggi: il calo numerico degli ingressi sostanzialmente corrisponde al fatto che dalla vita parrocchiale ordinaria, dagli oratori, non viene quasi più nessuno; è rimasto invece quasi immutato il gruppo di persone che maturavano la loro vocazione in percorsi individuali. Una simile trasformazione inciderà anche sulle forme future dell'oratorio. Nei prossimi decenni, infatti, cambierà moltissimo la figura del clero che, ad esempio, non avrà vissuto nell'età giovanile un'esperienza oratoriana, e quindi si confronterà con questa istituzione dall'esterno, senza vederne in modo immediato la logica educativa integrale (il suo essere un "dispositivo") che contiene.
    Le fatiche che sta conoscendo l'istituzione oratoriana ci permettono di comprendere, infine, una ulteriore crisi dei processi di incarnazione della fede cristiana, ovvero la crisi dei tempi e dei ritmi. Come ci mostrava chiaramente lo Statuto del cardinal Ferrari, l'oratorio era quel dispositivo che permetteva di cogliere ancora meglio la differenza qualitativa della domenica come spazio della festa rispetto agli altri giorni. Una simile percezione del tempo non riusciamo più a viverla oggi, anche se ne sentiamo un bisogno grandissimo. Mi permetto di far cogliere con un esempio una riflessione che meriterebbe ben altro sviluppo. Recentemente ho partecipato a un convegno sull'importanza delle cure palliative nell'ambito dell'accompagnamento delle persone malate e sofferenti, organizzato dall'Università degli Studi di Milano. In quel contesto il Rettore, introducendo il convegno, esprimeva il suo personale assenso a questo modo di riorganizzare le cure mediche, sottolineando quanto sia importante reintrodurre nel quotidiano la percezione sacrale dei luoghi soglia della vita, come la morte. Altrimenti, l'unico rito che effettivamente funziona non sono più le liturgie (come quelle cristiane), ma forme più light and easy (come l'aperitivo consumato insieme). La cultura sta elaborando nuovi riti per cercare di supplire alla mancanza di ritmi sacrali che scandiscano il quotidiano, ridonandoci il senso della vita. Se non c'è il senso della morte non c'è più senso alla vita, ma entrambi questi sensi chiedono di essere elaborati attraverso riti e spazi di ordinazione simbolica, come la domenica celebrata nell'oratorio.

    Grammatiche per il presente

    Che cosa deduciamo da questa seconda fotografia? Che urgono grammatiche per il presente ovvero che abbiamo bisogno di ripensare un nuovo statuto, una nuova pedagogia che permetta all'oratorio di tornare a essere quello spazio di ordinazione simbolica della vita delle persone che era così come lo immaginava il cardinal Ferrari.
    Lo possiamo fare, a mio parere, ispirandoci, come ha fatto appunto il cardinal Ferrari, alla logica della santità. Proviamo a pensare una pedagogia ispirata a san Francesco d'Assisi; alla sua capacità di non accontentarsi, di pensare e vivere in grande; pensiamo a quanto sia importante avere luoghi che insegnino a riapprendere e a ridire i significati delle emozioni nell'incontro con l'umanità dell'altro. Francesco, che non voleva abbracciare il lebbroso perché provava repulsione, scende da cavallo, lo abbraccia e come dicono sia lui nel testamento sia il suo primo biografo Tommaso da Celano, «imparò a chiamare il dolce amaro e amaro il dolce». In altre parole, imparò a costruire una nuova grammatica delle proprie emozioni, codici diversi per comprendere e vivere il reale proprio a partire dalla fede che desiderava incarnare.
    Se non torniamo a insegnare queste grammatiche fondamentali, ha ragione Jean Baudrillard: vivranno e vinceranno le strategie fatali cioè l'obeso, l'osceno e il tragico. [1] Provate a pensare a papa Francesco, che non a caso ha assunto il nome del santo di Assisi: ci mostra come sia possibile costruire nuove grammatiche per dire la fede dentro il reale di oggi consegnandoci il concetto di "ecologia integrale". Si tratta di convertire il nostro rapporto con il mondo, con il creato, superando i nostri stili e anche tante pratiche pastorali precedenti. Ma lo si può fare senza urlare, come fanno alcuni, contro gli altri, usando un tono che non accende polemiche (e proprio per questo non attira i media), ma vuole generare nuovi comportamenti, nuovi stili di vita. Attualizzando in questo il messaggio di un santo, san Francesco. Si può cambiare il mondo rendendolo più ecologico partendo da se stessi e da processi di rialfabetizzazione, anziché usare l'ecologia come un campo di battaglia in cui creare gli stessi legami di potere e di violenza che si vuole superare (vedi a Glasgow la polemica di Greta Thunberg contro Barack Obama).
    Il rischio di oggi è di cadere in un processo generalizzato di ricerca e di accusa del colpevole, che ci vede tutti al tempo stesso vittime e carnefici. Come spiega in modo lucido Didier Fassin, "punire" è diventata una passione contemporanea. [2] Proprio per queste ragioni la seconda regola pedagogica da promuovere è l'imparare a ricoltivare l'empatia, cioè a riaccendere una razionalità che mi permetta di vedere come si può vivere in modo diverso i conflitti, come si possa incontrare e ascoltare l'altro, cercando di costruire un senso del noi.
    C'è poi un terzo elemento. Siamo tristi, tutti sentiamo nostalgia e non sappiamo dove ancorarci, quando ci manca l'esperienza dell'essere generati, dei legami di generazione. Torniamo anche in questo caso all'esperienza fondamentale di san Francesco, l'evento delle stimmate: non sono una forma di ascesi che Dio impone a lui; piuttosto sono il modo con cui, in un momento in cui Francesco si sente come morto (per il distacco vissuto dai suoi confratelli che non lo seguono nella sua radicalità), Dio gli si presenta come Padre, riconoscendolo come figlio e dandogli in questo modo energie e una visione per abitare in modo diverso la sofferenza e la situazione che si è creata. Sembrerebbe paradossale, ma anche la sofferenza può diventare strumento per scoprire il dono di essere generati; purtroppo oggi ci mancano luoghi e dispositivi per poter contemplare e apprendere verità così imponenti.

    La forza della visione: la locanda e il destino dell'oratorio

    È quindi utile, per tirare le fila di questa breve riflessione, chiedere energie e strumenti a quello strumento linguistico generatore di futuro che è la visione, l'immaginazione. Dove attingere questa forza, da quale immaginazione lasciarci ispirare? Ritengo che l'ultima enciclica di papa Francesco, Fratelli tutti, contenga una visione molto generatrice per il pensiero che stiamo sviluppando. Mi riferisco all'assunzione e alla declinazione che fa in quel testo della parabola del buon samaritano. Chiediamoci: qual è, se dovessimo collocarci dentro questa parabola, il compito dell'oratorio? Qual è il suo destino?
    Penso sia quello di essere locanda; anche il buon samaritano alla fine ha bisogno di una istituzione, oltretutto strana perché, se ci pensiamo bene, mischia la logica del dono con la logica economica. Il samaritano lascia del denaro al padrone della locanda perché assistesse l'uomo raccolto in strada, chiedendo però di assisterlo come aveva fatto lui, con attenzione e cura. La locanda, quindi, descrive una realtà che è all'opposto di un mondo chiuso; uno spazio che si configura come un ponte in grado di legare tra loro logiche anche molto diverse. Declina insieme vocazione e professione; fa vedere come sia possibile assumere un elemento estraneo, come è appunto il povero malcapitato della parabola, dentro uno spazio organizzato per fini diversi e che risponde a logiche altrettanto differenti, e per di più riuscendo a modificare questo spazio. Ci ricorda il processo dell'incarnazione del Figlio di Dio dentro la storia: vi entra, abita logiche estranee, e funziona come un principio riordinatore, riorganizzando quegli spazi secondo logiche e finalità nuove. Ripensare l'oratorio come la locanda della parabola è la visione che ci viene consegnata come compito.
    Per declinare seppur brevemente la visione vorrei mettere in luce alcuni aspetti. In primo luogo, non bisogna lasciarsi spaventare dalla richiesta di trasformazione anche radicale. È normale che all'oratorio venga chiesto di cambiare, in un mondo che sta cambiando in tutto. Altrimenti sarebbe l'unica istituzione a restare fissa, e a finire ai margini. L'oratorio deve sentirsi in questo mood di una conversione chiesta a tutte le istituzioni ecclesiali. Una conversione che risponde a una logica che ormai ci è chiara: assumere la sfida di incarnare la fede come sfida culturale.
    Una pista, per dare ulteriore concretezza a questa visione, potrebbe essere quella di declinare questo cambiamento sul modello delle "comunità ermeneutiche" [3] uno spazio che consente a chi lo abita di assumere una nuova grammatica di interpretazione della storia, una grammatica che attinge alle esperienze originarie della nostra fede. Una comunità ermeneutica, che è addirittura "sacramentale", [4] ovvero una comunità che non si accontenta di rifarsi a un passato che è una memoria morta, ma è in grado di dare vita a questo passato, rendendolo generatore di esperienze che permettono di cogliere il "qui" e "oggi" della fede cristiana.
    Si tratta, in un certo qual modo, di rivivere oggi l'esperienza che già si viveva nell'oratorio di san Filippo Neri: condivido la lettura degli Atti degli Apostoli perché il racconto ascoltato e assimilato diventi la sorgente che fa nascere in questi giovani lettori l'intuizione di nuove forme per dare carne alla fede cristiana. Dobbiamo tornare a questo. Che non significa riempire gli oratori di gruppi biblici, quanto piuttosto trovare le forme perché quei racconti vengano spezzettati dentro la cultura e il quotidiano di oggi. Come appunto abbiamo intuito, è riuscito a fare per i suoi tempi il cardinal Ferrari.
    Una simile logica generativa può apparire in qualche esperienza una sorta di "eresia del presente" (per rifarci a un concetto caro a Michel de Certeau [5]: riesco così tanto a immergermi nella cultura attuale da dar vita a forme di annuncio della fede così diverse dal passato da apparire appunto eretiche, estranee alla tradizione. Porto due esempi di questo ripensamento molto creativo, che ci aiutino a pensare. Il primo è quello di uno spiritual coffee di Londra, aperto in questo caso dalla Chiesa anglicana, in un quartiere in cui sostanzialmente nessuno partecipava più alla liturgia domenicale. I giovani hanno pensato di aprire questo spazio di confronto e di discussione che è diventato famosissimo. Il secondo, invece, è quello di una parrocchia in Germania, che per ridare vita a spazi ormai frequentati pochissimo ha pensato di trasformarli in quello che per noi è un ostello. Costruendo, però, in questo spazio un regolamento che ha assunto parecchi elementi della vita cristiana nel ritmare la vita degli ospiti presenti. L'accento non va posto tanto sullo slittamento da ambiente ecclesiale a semplice ostello, ma sull'operazione inversa: ha immaginato di riportare la gente a vivere il tempo domenicale ovvero ciò che di più identitario abbiamo (l'affermazione dei martiri di Abitene «sine dominico non possumus»), dentro un contesto molto ordinario e con una forte frequentazione giovanile.
    Questo è il momento in cui accendere la fantasia e la creatività e dire a tutti: non dovete copiarvi, non occorre continuare a ripetere quanto già fatto, perché ci permette di sentirci sicuri in un'epoca in cui cambia tutto. Ogni realtà, ogni presenza cristiana dovrebbe interrogarsi: qual è lo specifico, quel è il legame da cui si può partire per immaginare questa incarnazione nuova della fede oggi in questo contesto?
    Arriviamo alla conclusione: qual è il destino dell'oratorio? Perché Milano ha ancora bisogno dei suoi oratori? Perché senza gli oratori, quelli che sono stati e quello che rappresentano ancora oggi, come Chiesa mancheremmo di un tassello importante nella capacità che abbiamo di farci prossimo, di vivere il farsi prossimo, ovvero di incarnare la fede, con tutte le fatiche del caso, nelle trasformazioni dell'oggi.
    Così l'oratorio è lì a interrogarci e a dire: perché non mi aiuti a tornare all'intenzione originaria in modo che anche tu, Chiesa, comunità, possa tornare alla tua intenzione originaria?

    NOTE

    1 Cfr. J. BAUDRILLARD, Le strategie fatali, Feltrinelli, Milano 2011.
    2 D. FASSIN, Punire. Una passione contemporanea, Feltrinelli, Milano 2018.
    3 L.S. MUDGE, Rethinking the Beloved Community. Ecclesiology, Hermeneutics, Social Theory, University Press of America, 2001.
    4 M. MCCAUGHEY, Church as Hermeneutical Community and the Place of Embodied Faith in Joseph Ratzinger and Lewis S. Mudge, Peter Lang, 2015.
    5 M. DE CERTEAU, La debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo, Vita e Pensiero, Milano 2020.

    INDICE

    Nota per la lettura
    Pierpaolo Triani

    Prefazione
    Mario Antonelli

    Introduzione
    Mario Delpini

    La riforma degli oratori milanesi negli anni del cardinal Ferrari
    Paolo Alfieri

    Un oratorio per crescere
    Pierpaolo Triani

    I dinamismi giovanili della fede. Sui fondamentali dell'esperienza oratoriana
    Rossano Sala

    Il volto femminile degli oratori
    Paola Bignardi

    L'oratorio in "un mondo grande e terribile"
    Sergio Tramma

    Vita di oratorio e media digitali
    Alessandra Carenzio

    Postfazione
    Dopo un secolo il destino dell'oratorio in un mondo (e una Chiesa) che cambia
    Luca Bressan


    T e r z a
    p a g i n A


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