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    Salesiani, educazione e pastorale giovanile


    Intervista a Fabio Attard [1]

    (NPG 2009-08-14)


    Domanda. Lei è, dal marzo 2008, il nuovo Consigliere generale della pastorale giovanile della Congregazione Salesiana. Vorremmo farLe alcune domande nella prospettiva del Suo ruolo istituzionale e nell’orizzonte della mondialità.
    Attraverso i primi contatti di animazione nei vari continenti ha già cominciato a delineare una lettura della realtà dei giovani del mondo. Quali i tratti o i dati che maggiormente L’interpellano?

    Risposta. Sono riuscito a visitare alcune nazioni, in quattro continenti, dove è presente la Congregazione. La prima impressione, che per sua natura è sempre incompleta, è stata quella di un insieme di cose simili e dissimili allo stesso tempo. Mi spiego.
    Il fatto che all’origine di tutto c’è una persona con una esperienza ben precisa, mi riferisco a Don Bosco e alla sua esperienza carismatica, questo lato è facilmente colto. Tanto per dare un esempio: ho visitato la comunità salesiana di El Alto, a La Paz, Bolivia, a 4,100 metri e ho trovato il volto di Don Bosco non solo pitturato sui muri, ma sulla faccia dei Salesiani e quella dei ragazzi e giovani nella nostra opera. Poi, dall’altro lato, ho visitato Tuloy, a Manila nelle Filippine, un’opera per 500 ragazzi di strada, e di nuovo lì un Don Bosco vivo per il bene di tanti ragazzi e giovani che senza quella casa non solo non hanno futuro, ma neanche un presente.
    Ecco, questa è la prima impressione.
    Una seconda impressione, di carattere più riflessivo, consiste nel fatto che ho notato ciò che spesso volte noi Salesiani diciamo, senza capire pienamente che stiamo dicendo una profonda verità: il carisma di Don Bosco è un dono per l’umanità che supera tutte le barriere. Non c’è cultura, società o religione che non abbia spazio per il carisma salesiano. Forse questo lo dico perché ho dovuto viverlo come esperienza personale nei miei primi tre anni di apostolato in terra musulmana. Lì, ho visto e vissuto sulla mia pelle la bellezza di un carisma che è amico dell’umanità. Solo che adesso continuo a confermarlo nelle mie visite.
    Mi pare che questi due aspetti – un dato e un tratto – già formano una mia prima sintesi personale, che spero sia ulteriormente arricchita nei prossimi anni.
    Tutto questo non solo non toglie minimamente il fatto che ogni nazione, ogni regione e ogni continente rimane spiccatamente diverso, anzi lo presuppone. Ogni realtà sociale e culturale non perde la sua specificità rispetto alle altre quando viene in contatto con il carisma di Don Bosco. Ed è qui il «dissimile» di cui parlavo. Ed è questo che fa riflettere e contemplare come il dono dello Spirito che ci è consegnato: bisogna trattarlo con orgoglio sapienziale e cura intelligente, con impegno e allo stesso tempo con gioia, proprio perché non è un’opera umana ma un’azione dello Spirito sempre viva per il bene della gioventù.

    L’orizzonte dei giovani poveri

    Domanda. Nei vari campi in cui operano i Salesiani, quali le presenze salesiane che ritiene maggiormente significative, un segno di profezia?
    Intendiamo questo non solo come «buone pratiche», ma buoni pensieri, semi da coltivare con cura…

    Risposta. Questa è una domanda che rischia di essere mal interpretata. Vorrei dire subito che qui non si tratta di gerarchizzare, ma semplicemente di offrire una lettura che prende in considerazione i segni dei tempi con le loro urgenze, che per noi Salesiani diventano opportunità profetica.
    Ecco, allora, alla domanda rispondo decisamente: l’azione per i più poveri. Come Salesiano ho lavorato per alcuni anni con ragazzi senza famiglia, senza presente e senza futuro. Noi Salesiani eravamo l’unica loro speranza. E questa è una forte responsabilità di cui dobbiamo rendere conto a Dio.
    Ho imparato, o meglio, questi ragazzi mi hanno insegnato che non vogliono essere trattati come poveri, ma come persone. Hanno una dignità non riconosciuta, e desiderano che lo sia, perché il loro diritto ad una vita dignitosa è negato loro.
    Un particolare che chiedo sempre quando ho l’opportunità di visitare una ispettoria è di passare un po’ di tempo in un’opera per i ragazzi della strada, parlare con loro, ascoltare le loro storie. Ho potuto notare il lavoro che noi Salesiani stiamo facendo in America Latina, Africa e Asia, per i ragazzi della strada. Il lavoro per i giovani a rischio in India, e la proposta di formazione professionale per giovani poveri al mondo del lavoro in Europa, Africa e Asia Est. E questo è solo un accenno, perché la vera storia è molto più lunga, e anche molto più bella.
    In una società che non cura coloro che non ce la fanno, i drop outs, noi ci troviamo fortemente interpellati. Noi non possiamo non esserci con loro. Questi ragazzi, abbandonati nella strada, scartati dal sistema educativo, senza famiglia, non hanno nessuna colpa. È responsabilità nostra dare loro ciò di cui hanno diritto.
    Sono convinto che questo settore diventerà sempre di più il luogo della profezia salesiana ed ecclesiale.

    Domanda. Quali tipi di collaborazione la Congregazione è riuscita ad attivare con le altre istituzioni della chiesa locale sui temi che le competono, i giovani, le famiglie, l’educazione? E con le istituzioni politiche e sociali? Quali i problemi che maggiormente emergono e come sono risolti?

    Risposta. La risposta qui tiene molto in considerazione la situazione sociale e culturale nella quale i Salesiani operano. In genere, la collaborazione con la Chiesa locale è un impegno che si cerca sempre di favorire. Ho l’impressione, partendo dai miei primi incontri regionali, che questo lato non è stato sempre prioritario. Non per cattiva scelta, ma per il fatto che si era abituati a lavorare, con eroica generosità, in blocchi: vicini si, ma non necessariamente connessi.
    Ho felicemente notato, che l’invito del Rettor Maggiore di maggior sinergia con le forze locali della Chiesa stia diventando sempre di più un invito recepito e attuato. Naturalmente, la collaborazione che offriamo come Salesiani, maggiormente nei campi della educazione, formazione e promozione umana, è molto apprezzata e ricercata. In genere prende forma di animazione di settori a livello diocesano, molte volte si svolge nel settore della formazione di quadri a livello di gruppi e parrocchie.
    Per ciò che concerne la collaborazione con le istituzioni politiche e sociali si sta cercando di creare partnership e sinergie nel settore della emarginazione. Penso all’India dove il nostro contributo nel settore di giovani a rischio è apprezzato, tanto che siamo inseriti nel sistema di ricollocazione di ragazzi abbandonati o abusati. Lo stesso vale per il settore della formazione professionale, dove si sta cercando di creare sinergie con le grandi industrie: in Italia e in Spagna assistiamo a questo tipo di sviluppo come lo notiamo anche nelle Filippine e in India.
    I problemi ancora da affrontare, e non sarà facile farlo, è di portare la voce dei ragazzi e giovani poveri, là dove si prendono le grandi decisioni di politica sociale. Esiste lo sforzo nella Congregazione di far arrivare queste voci alle Nazioni Unite, all’Unione Europea. E lo stesso sforzo si sta cercando di farlo al livello nazionale. Il Congresso sul Sistema Preventivo e Diritti Umani recentemente celebrato a Roma, è una prova di come nei vari continenti i Salesiani si stanno movendo in questa direzione.
    Posso dire, anche per esperienza personale, che non è un percorso roseo, anzi è pieno di spine e di tunnel bui! I giovani poveri non costituiscono una lobby politica. È nostro lavoro continuare a «bussare» alla porta delle istituzioni politiche affinché la voce dei giovani poveri non sia dimenticata.

    Un binomio da capire e da riequilibrare

    Domanda. La modalità propria che qualifica la presenza salesiana con i giovani si sintetizza attorno alla coniugazione del binomio educazione ed evangelizzazione. C’è una lunga storia di comprensione attraverso il Magistero salesiano, e anche la decisa riaffermazione all’ultimo Capitolo Generale.
    Vuole chiarirne i termini? Come si traduce il difficile equilibrio tra i due termini, per non pensare a binari paralleli o passi successivi? E, in particolare, quale modello teorico e operativo di evangelizzazione attivare nella PG, per superare il rischio di un’educazione che non si apre mai all’evangelizzazione, quasi per improprio «rispetto» verso la libertà del soggetto?

    Risposta. È una domanda che tocca l’anima del nostro essere salesiani. Vedo tre aspetti correlatati.
    Prima di tutto, abbiamo quello del binomio educazione ed evangelizzazione. Credo che il CG (Capitolo Generale) 23 ci abbia offerto una ampia riflessione sul tema. Al CG 26 abbiamo continuato ad approfondire lo stesso cammino. Il CG 23 mi pare che offra una riflessione che sarebbe sapiente non dimenticare. Ad una lettura della situazione, troviamo una lettura della nostra origine: l’esperienza di Don Bosco. E credo che sia qui la chiave di lettura del binomio educare-evangelizzare. Don Bosco vive la sua missione di evangelizzatore dei giovani attraverso la sua esperienza educativa.
    La chiarezza dei termini non è un esercizio puramente semantico, ma un esercizio attraverso il quale riscopriamo l’intuizione originale e originaria. Se tale lettura non la si fa, finiamo necessariamente per sostituirla con una nostra lettura, che risulterà slegata dalla figura carismatica di Don Bosco. In Don Bosco troviamo una sintesi dell’uomo chiamato a proclamare la buona notizia, e questo lo fa attraverso l’incontro e la proposta educativa.
    Il secondo punto è il seguente: la chiarezza storica vale poco se non la incarniamo nel nostro oggi. Come nel caso di Don Bosco, la reale sintesi si radica e si matura dentro il cuore del Salesiano. Non sto a citare il CG 23, ma invito ad una veloce lettura di alcune sue riflessioni che mi paiono molto attuali e fresche, anche se sono state scritte 20 anni fa.
    L’equilibrio non è una tecnica che si impara, ma un atteggiamento che si coltiva. In questo senso è più difficile, ma alla lunga è anche più bello e vero. Quando è un reale atteggiamento del cuore, illuminato dalla intelligenza, il rischio di binari paralleli o passi successivi non esiste, perché il tutto è assunto come proposta integrale a livello personale, e non come un cammino meccanico, anonimo.
    Allora, e qui siamo al terzo punto, se il modello operativo e teorico non parte da una assunzione del tutto a livello personale, rischiamo di dire le cose giuste ma che non decollano. La teoria e la presentazione sistematica del nostro modello di pastorale giovanile chiedono di essere una «cosa del cuore» per essere capace di toccare il cuore dei nostri ragazzi e giovani. Ecco, allora, che sappiamo rispettare i ritmi delle persone, quando sono pronti alla proposta più esplicita della fede, ma anche alla proposta più esplicita a scoprire ciò che Dio vuole da loro.
    A questo punto non è tanto il rispetto del politically correct che conta, ma del diritto che hanno i giovani a che gli si offra un cammino che li fa incontrare Cristo, pienezza di umanità.
    Su questa scia mi piace citare il fatto che alla conclusione della sua presentazione del CG 23, don Viganò (il compianto Rettor Maggiore: 1920-1995) cita l’articolo n. 34 delle nostre Costituzioni: «Come Don Bosco, siamo chiamati tutti e in ogni occasione a essere educatori alla fede. La nostra scienza più eminente è quindi conoscere Gesù Cristo, e la gioia più profonda è rivelare a tutti le insondabili ricchezze del suo mistero».

    Domanda. Lei ha vissuto per anni in ambiente (quello musulmano) dove l’evangelizzazione come annuncio esplicito di Gesù e del Vangelo non era possibile. Non Le è sembrato che la Sua azione pastorale fosse dimezzata? Come ha tradotto in questo contesto l’esigenza e urgenza dell’evangelizzazione? Non resta un tipo di educazione… «monca»?

    Risposta. Se noi guardiamo all’azione pastorale, e cerchiamo di ridurre all’essenziale ciò che essa significa, credo che arriviamo a dire che l’essenza dell’azione pastorale è la sua capacità e forza di testimoniare l’amore di Dio come ci viene offerto da Cristo e che continua, attraverso la forza dello Spirito, ad agire in noi, e per mezzo di noi, per il bene dell’umanità.
    Da questa visione fondante di ogni azione pastorale, seguono linee varie e diversificate che rispettano la cultura, la mentalità, ma soprattutto i destinatari con le loro convinzioni, anche quelle di fede.
    Ciò vuol dire che, se andiamo subito a definire una qualunque azione pastorale solo nei suoi risvolti esterni, stiamo facendo una lettura parziale, «monca», tanto per usare le parole della domanda.
    Invece, se si parte da ciò che dà senso alla stessa azione pastorale (e per noi Cristiani questo non è un’idea ma una persona, Cristo stesso), allora ogni azione pastorale va valutata e vissuta in relazione a Lui, accettando le conseguenze pratiche che il vivere tale comando porta con sé.
    Partendo dal punto di vista personale, la mia esperienza nel mondo musulmano mi ha insegnato come vivere la mia fede, la mia consacrazione e il mio sacerdozio. Vivere in mezzo a gente che professa una fede diversa dalla mia, mi ha fatto scoprire la bellezza della mia fede, nel pieno rispetto della loro fede. Ascoltare la loro storia, vedere il loro vissuto mi ha spinto a cercare sempre nella vita spazi di convergenza, senza cadere in facili interpretazioni accomodanti. Il mio essere tra i musulmani, come quello di tanti Salesiani che continuano a vivere questa non facile missione, non bisogna giudicarlo dai risultati ma dalle finalità.
    I risultati, ai nostri occhi umani, sono nulla agli occhi di Dio. Invece, dire «sì» al Signore per testimoniare il suo amore «agapico», questo esce dagli schemi di successo ed entra nella logica evangelica, la logica della gratuità, che ancora oggi sconvolge chi non ha ancora conosciuto Cristo, o, peggio ancora, lo conosce solo partendo dalle storie e degli aneddoti medioevali.
    Mi rimane sempre impressa una riflessione di un letterato arabo, Ali Merad, che nel suo libro su Charles de Foucauld dice che per i musulmani l’imitazione di Gesù Cristo da parte dei cristiani è portatrice di un grande significato morale e spirituale.
    Nella quotidianità di questo contesto, l’azione pastorale educativa parte dallo stesso cuore, fa uso di un linguaggio che umanamente trova tutti noi sullo stesso terreno – basta dire che io tenevo lezioni sulla formazione umana, molte apprezzate dai genitori. Il segreto è la presenza continua con i ragazzi, incarnandosi nella loro storia con il suo linguaggio, e la disponibilità autentica per le famiglie, senza chiedere niente in ricambio.
    In un contesto come quello musulmano, tutto questo, insieme al fatto che siamo uomini che hanno fatto la scelta di non avere una famiglia, non avere soldi propri e, in più, sempre disponibili ad andare dove ci manda l’obbedienza – tutto questo fa pensare, fa riflettere.
    Scherzando, quando qualcuno mi domandava «ma cosa stai facendo lì?», quasi alludendo al fatto che stavo sprecando il mio tempo e le mie energie, io sempre rispondevo «sono lì per seminare le domande!»

    Domanda. Per andare sull’operativo, sui processi formativi, come riattivare nelle persone e nelle comunità questa dinamica di coimplicanza reciproca di educazione ed evangelizzazione?

    Risposta. Mi pare che la linea presa dagli ultimi Rettori Maggiori, don Viganò, don Vecchi e don Chavez, è quella di puntare sul singolo Salesiano. Perfino l’ultimo CG 26 propone lo stesso invito già al primo tema trattato, quello di ripartire da Don Bosco. Credo che qusta continua ad essere la strada da percorrere.
    Però, qui, ho l’impressione che può capitare di sottovalutare due cose. La prima è l’importanza della formazione continua. La seconda è il fatto che viviamo in una società che da noi, cresciuti nella modernità, chiede un cambio di paradigma nell’incontro coi giovani, nati e cresciuti nella post-modernità.
    Se iniziamo da quest’ultima sfida, vediamo che il più delle volte notiamo delle resistenze da parte di noi educatori, non tanto perché non vogliamo cambiare, ma perché non abbiamo sempre avuto la formazione necessaria che presuppone l’idea del cambio. Diventare Salesiano sembrava uno stato da raggiungere e non una esperienza nella quale si cresce, nella quale c’è sempre da imparare.
    Tanto per fare un esempio, che mi tocca da vicino. Dal punto di vista di valutazione morale, siamo passati da una lettura legalista, ad una che tiene conto del vissuto, in quanto spazio dentro il quale si attua il processo di valutazione morale. In questa ottica, bisogna dire che non sempre abbiamo avuto gli strumenti necessari per gestire le sfide nuove dei giovani con i quali il Signore ci fa incontrare. Il più delle volte, sembra che non viviamo nello stesso pianeta nel quale sono cresciuti e vivono i nostri giovani.
    Poi, c’è la sfida della formazione continua. Anche questo è un concetto recente. Nell’educazione percepita come esperienza verticale, una consegna del sapere, essere docente o educatore sembrava una tappa da raggiungere e non una esperienza in continua crescita. Come Salesiani, chiamati ad essere pellegrini con i giovani là dove essi si trovano, ci è richiesto un atteggiamento di «umiltà», capacità di essere in contatto con l’humus dove essi abitano, impegno per capire il loro linguaggio. E questo è un processo continuo di apprendimento per essere presenti nella loro storia.

    Sistema preventivo e pastorale giovanile

    Domanda. Nel Magistero salesiano ritorna sovente il vitale collegamento tra «Sistema preventivo» e pastorale giovanile. A parte l’evidente richiamo alle radici dell’esperienza educativa di don Bosco, dove vede e come agisce il reciproco legame?

    Risposta. «L’evidente richiamo alle radici» possiamo interpretarlo in due modi: primo, all’insegna di uno storicismo sterile. Un collegamento con il passato che risente di un romanticismo spirituale, però non contiene una prospettiva di futuro. Secondo, possiamo interpretarlo come istanza carismatica, la presenza dello Spirito che continua ad essere presente, sempre vivo e sempre nuovo. Sono del parere che il secondo modo è quello da seguire.
    Ecco allora, la seconda parte della domanda: dove e come va avanti il legame tra Sistema preventivo e pastorale giovanile?
    Sento che più scopriamo il Sistema preventivo come un fondamento della nostra identità, il contenuto della nostra spiritualità, più riusciamo ad interpretare le sfide della pastorale giovanile all’insegna di esperienza da favorire, che in questi ultimi anni abbiamo anche codificato in quadri di riferimento chiari.
    Mi spiego meglio: la connessione tra Sistema preventivo e pastorale giovanile non è una relazione consequenziale – da una si passa all’altra, basta. Al contrario, è una relazione circolare: si passa dalla ispirazione all’azione, per ritornare alle origini ispiratrici in favore di un processo sempre vivo e sempre nuovo.
    In questa logica, «il vivere», e non solo «il conoscere», il Sistema preventivo, per noi Salesiani non è una opportunità, ma l’unica via che abbiamo davanti. Se vogliamo che la nostra pastorale giovanile sia una esperienza attuale, che risponda ai bisogni attuali dei giovani, per noi vivere il Sistema preventivo è il nostro modo di essere testimoni e portatori dell’amore di Dio per loro.
    Dentro il Sistema preventivo, noi troviamo una visione antropologica ricca (ragione) che ci presenta la persona oltre le barriere culturali e religiose. Attraverso il vissuto del Sistema preventivo, veniamo in contatto con una teologia dell’incarnazione (religione) che ci porta ad identificare la storia della persona come luogo teologico, dove Dio chiede di essere scoperto dal di dentro del cuore del giovane. Nel Sistema preventivo abbiamo un ambiente di rispetto e di reciprocità (amorevolezza) che sono veicoli di crescita integrale della persona.
    Credo che il nuovo scenario della post-modernità ci stia confermando sempre più il genio del carisma salesiano: spetta a tutti noi apprezzarlo con sapienza e viverlo con intelligenza.

    Diritti umani, educazione, pastorale giovanile

    Domanda. Il recente convegno mondiale animato dal Suo dicastero ha avuto come tema «Il sistema preventivo e i diritti umani». Dunque la pastorale giovanile si interessa attivamente dei diritti umani, soprattutto dei minori. In quale modo vi sia coinvolta l’educazione appare ovvio; ma in che modo l’evangelizzazione?
    Può essere questa una piattaforma di lavoro comune con enti e istituzioni civili e politiche nel mondo intero? Non c’è il rischio di «perdere» la specificità dell’azione pastorale?

    Risposta. Iniziamo dalla fine: alla domanda se «c’è il rischio di ‘perdere’ la specificità dell’azione pastorale», la risposta è semplice: sì, il rischio c’è. Ma il rischio nell’applicazione del Sistema preventivo c’è sempre. L’immagine in cui mi viene in mente è quella di un acrobata che cammina su una corda sospesa nell’aria. È solo nella misura in cui, come educatori, manteniamo quell’equilibrio necessario, di cui abbiamo già parlato prima, che riusciamo ad evitare tale rischio, quello di tralasciare la dimensione pastorale oppure trattarla come un’appendice.
    Eccoci allora alla prima parte della domanda: l’ovvietà della dimensione dei diritti e come si coinvolge la dimensione pastorale. Qui ritorna il nucleo della risposta precedente. Il nostro operare per il bene della gioventù trova nell’amore di Dio per la sua raison d’être. Poi attiva una metodologia che rispetta la cultura, la religione e la persona, il tutto in una lettura d’insieme.
    Di fronte al dramma, anzi alla tragedia dei bambini e ragazzi cui sono negati i diritti, il nostro primo impegno è di dar loro dignità, restituire loro ciò che gli spetta per diritto, non per carità. Lo dice molto bene il Rettor Maggiore don Chavez nel suo commento alla Strenna 2008.
    Una precisazione ulteriore: per «evangelizzazione» non possiamo solo limitarci al fatto dei processi tipicamente evangelizzatori (là dove devono essere promossi, dobbiamo ovviamente farlo). Ma in situazioni di primaria necessità, di mancanza totale di tutto ciò che dice vita, umanità, quando ci sono situazioni che sono il confine tra morte e vita per l’assenza totale delle cose più fondamentali e necessarie, allora i processi di evangelizzazione si chiamano testimonianza, donazione, vicinanza, silenzio che proclama l’amore «agapico» di Cristo.
    Ecco, allora, partendo da questa lettura, la piattaforma di dialogo con le varie istituzioni civili e politiche deve trovare noi Salesiani chiari nell’identità, creativi nelle proposte e capaci di trovare gli spazi di convergenza per il bene dei giovani e dei ragazzi.
    Di più, non dobbiamo dimenticare le parole di Don Bosco nel suo testamento, che suonano oggi con una freschezza unica: «Il mondo ci riceverà sempre con piacere fino a tanto che le nostre sollecitudini saranno dirette (…) ai fanciulli più poveri, più pericolanti della società. Questa è per noi la vera agiatezza che nessuno invidierà e niuno verrà a rapirci ».

    Alcune priorità PG dallo sguardo sul mondo

    Domanda. Nel Suo compito di animazione, cosa ritiene sia più urgente e importante per migliorare l’azione pastorale ed educativa dei Salesiani, e in genere degli operatori pastorali? E, in uno sguardo «mondiale», quali le priorità di PG nelle varie aree del mondo?

    Risposta. Credo che siano due gli aspetti da curare bene, tenendo in mente tutto ciò che si è detto. La prima è quella di favorire un ambiente con una forte impronta di spirito di famiglia. Quante persone ci confidano che l’ambiente salesiano è stato per loro una scoperta, proprio per il fatto dell’ambiente familiare. Questa nostra caratteristica dobbiamo fare in modo di non perderla a causa di una lettura e di un vissuto efficientisti dell’azione pastorale. Là dove abbiamo comunità che stanno dando una bella testimonianza, si nota subito che lo spirito di famiglia è palpabile.
    Questo «spirito di famiglia» non dobbiamo confonderlo con quell’atteggiamento di compromesso che tenta di prevenire i conflitti. Lo spirito di famiglia non è assenza di ciò che divide, ma promozione, convinzione e vissuto di ciò che ci costruisce dall’interno, personalmente, e dall’esterno, comunitariamente. Si trova sempre spirito di famiglia dove si testimonia una certa maturità della vita spirituale e religiosa. In poche parole, lo spirito di famiglia non lo si inventa, ma lo si cura.
    La seconda dimensione da curare è quella capacità di saper valutare la nostra azione pastorale. Il più delle volte siamo molto bravi, e direi anche onesti, nel proporre programmi e piani di azione. Mi pare che la dimensione valutativa non ci trovi sempre così pronti ad applicarla. Qui non si parla di valutare i risultati nella logica della produzione spirituale. Si tratta, piuttosto, di vedere, alla luce della chiamata di Dio, se ciò che abbiamo deciso come frutto del discernimento lo abbiamo poi vissuto con lo stesso atteggiamento con cui lo abbiamo programmato. In poche parole: saper trovare il tempo per «contemplare» la nostra risposta all’invito di Dio.
    Per quanto riguarda le priorità di PG a livello mondiale, mi sembra che la mia lettura è ancora molto piccola. Però, nei miei incontri fino ad adesso ho colto questo: il forte desiderio che i Salesiani si sentano accompagnati, non volendo rimanere soli nelle frontiere dell’apostolato. È un sentimento molto vivo specialmente nel cuore dei giovani salesiani impegnati nella pastorale, specialmente in quella dell’emarginazione. Credo che come animatori delle comunità, delle ispettorie, facciamo bene a guardare la persona del Salesiano, il suo bisogno di essere accompagnato, accolto, ascoltato. Sembrano piccole cose, ma esse hanno la capacità di sostenere un cuore generoso per il bene di tanti collaboratori e di tanti giovani.


    NOTA

    [1] Nato il 23 marzo 1959 a Victoria, Gozo (Malta), diventa salesiano nel 1980 e sacerdote nel 1987. Si licenza in teologia Morale all’Alfonsianum nel 1988 e ottiene il dottorato nel 1999 al Milltown Institute for Philosophy and Theology di Dublino.


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