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    L'emarginazione giovanile

    in Europa

    sfida oggi

    la missione salesiana

    Juan E. Vecchi


    1. LA MISSIONE SALESIANA

    Sin dall'inizio del processo che doveva portare ad un rinnovamento di mentalità, di vita comunitaria e di lavoro pastorale, i salesiani hanno discusso con vivacità sulla propria missione e hanno cercato di definirla attraverso diversi elementi. Tra questi "il campo" (espressione "chiave" nel primo sogno di Don Bosco) in cui collocarsi, i "destinatari della missione" secondo il vocabolario degli ultimi Capitoli Generali, è stato sempre al centro di dibattiti considerati determinanti per le prospettive ideali e le conseguenze pratiche. Infatti dalle prime Costituzioni fino al testo che oggi ci guida viene riportato in primo posto tra i tratti della missione, in una costellazione, che include il servizio, o finalità della nostra azione, il soggetto responsabile e le mediazioni privilegiate.
    Nello sforzo di chiarimento del campo proprio, il confronto sulla preferenza per i giovani poveri è stato il più ricorrente e acceso, tra il massimalismo e l'interpretazione "morbida" delle raccomandazioni di Don Bosco, tra la scelta dell'educazione sistematica e quella della presenza nei luoghi del bisogno, tra una certa interpretazione della prevenzione e i progetti di ricupero, tra la considerazione della sola povertà economica e la presa di coscienza delle nuove forme di marginalità e rischio. Ne sono prova, oltre ai testi elaborati, una amplissima documentazione di archivio. In poche parole i salesiani hanno sempre ritenuto che la collocazione delle proprie forze finiva per condizionare molti aspetti della loro esperienza carismatica.
    Le differenze di valutazioni (è una mia impressione!) non hanno ancora raggiunto una convergenza soddisfacente. Il dibattito continua ancora in silenzio, data la poca propensione alla contrapposizione che caratterizza la stagione attuale.
    La preferenza per i giovani poveri come ragione di esistenza della Congregazione risale a Don Bosco medesimo che la ribadisce in ogni scritto e circostanza. Le categorie da lui adoperate "gioventù povera, abbandonata, pericolante" rimangono ancora nelle Costituzioni (C 26) come tratto della nostra identità pastorale, mentre gli studiosi cercano di esplicitare con rigore storico la portata reale che hanno avuto nella sua prassi e nello sviluppo della Congregazione (cf Braido Pietro in "Esperienze di Pedagogia cristiana nella storia ", vol II, pag. 321-343). 
    Ripercorrere tutti i testi che documentano questa laboriosa ricerca sarebbe lungo e ripetitivo, soprattutto se si prendono in considerazione anche Capitoli ispettoriali dove si esprime in forma più immediata un maggior numero di salesiani. Lo sforzo comunque evidenzierebbe che nei momenti di riflessione, anche per opera di alcuni confratelli portatori di sensibilità, la Congregazione riscopre la sua destinazione carismatica e comunitaria verso "i più poveri".
    Ma il problema per noi oggi non sono i testi. Ne abbiamo a sufficienza e li abbiamo riletti accettandoli, in adunanze precedenti. Il punto da guardare sono i progetti, la volontà e le realizzazioni che fanno vedere quanto i testi riescono a orientare la prassi.
    Proprio su questa linea faccio, a proposito dei testi, soltanto due rilievi che sembrano particolarmente illuminanti per la nostra riflessione.
    È chiaro che "i giovani più poveri", indicati come i primi e principali destinatari della missione salesiana (C 26), non sta nel testo costituzionale semplicemente accanto ad altre categorie elencate: tutti i giovani, gli operai, le vocazioni, il popolo; ma al loro centro, irradiando un significato alla cui luce si capiscono tutte le altre specificazioni del campo a cui ci sentiamo chiamati. Così come l'accenno ai giovani non si pone allo stesso livello ma come riferimento motivante del nostro impegno con gli adulti del ceto popolare.
    Perciò ogni volta che si parla della gioventù, come campo della missione salesiana, si aggiunge indefettibilmente "specialmente i più poveri". La missione salesiana ha così una definizione unitaria, non una lista i Possibilità. Muove da una scelta di campo "i giovani più poveri" che dà ragione del tipo e dell'intensità della carità pastorale che si richiede da noi e si estende ad altri cerchi più ampi con lo stesso spirito. È simile al proposito della Chiesa italiana di "ripartire" dagli ultimi. L'avverbio "più" è tutt'altro che trascurabile.
    Tra i giovani più "poveri" ha avuto inizio la nostra missione. Don Bosco non lascia di ripeterlo sia nella presentazione della Congregazione sia nelle "Memorie dell'Oratorio" sia nel suo "Testamento". Dall'incontro coi giovani poveri è nata la nostra pedagogia, con le sue caratteristiche di contenuto e metodo e con la figura di un educatore che è soprattutto Amico e Padre. Dalla situazione dei giovani poveri sono state suggerite le iniziative e programmi che attraversano la nostra tradizione: l'oratorio, le scuole di formazione professionale, l'internato-famiglia.
    La fonte ispirante è sempre lo Spirito Santo; ma la ricerca, l'incontro e la condivisione della vita con i giovani poveri sono la "circostanza provvidenziale", la mediazione indispensabile per il sorgere e concretizzarsi del nostro carisma.
    È dunque plausibile che ogni rinnovamento debba avere come fattore indispensabile il "ritorno" a questo momento fontale.
    Per questo i Regolamenti chiedono a tutte le ispettorie di rivedere la propria collocazione, confrontandosi con le povertà presenti nel proprio contesto: "Ogni ispettoria studi la condizione giovanile e popolare tenendo conto del contesto sociale in cui opera. Verifichi periodicamente se le sue opere ed attività sono a servizio dei giovani poveri: dei poveri anzitutto che, a causa della povertà economica, sociale e culturale, a volte estrema, non hanno possibilità di riuscita; dei giovani poveri sul piano affettivo, morale o spirituale, e perciò esposti all'indifferenza, all'ateismo e alla delinquenza, dei giovani che vivono al margine della società e della Chiesa " (R 1).
    Il secondo rilievo da fare è che nel susseguirsi di documenti autorevoli non c'è semplicemente una ripetizione di affermazioni e prese di posizioni; vi è, invece, un approfondimento pastorale, una lettura sempre più realistica delle povertà e soprattutto una salita di tono. Così dopo un tentativo di presentazione della condizione giovanile e un richiamo a prestarvi attenzione da parte del CG21, il CG22 "chiede a tutti i salesiani di 'ritornarÈ ai giovani, al loro mondo, ai loro bisogni, alle loro povertà... di fare la scelta coraggiosa di andare versi i più poveri, ricollocando eventualmente le nostre opere dove maggiore è la povertà (n. 6).
    "Gli ispettori con i loro Consigli e capitoli ispettoriali, nell'elaborazione e nella verifica del proprio progetto, ripensino le opere e preparino scelte operative con eventuale ricollocazione delle nostre presenze tra i giovani poveri e del mondo del lavoro" (n. 7).
    Il CG23 colloca le povertà giovanili tra le sfide lanciate oggi ai salesiani (nn. 78-82). Le sfide sono provocazioni alla nostra vocazione di educatori alla fede; ma anche opportunità reali, cariche di potenzialità rinnovatrici. Sollecitano creatività e coraggio, ma allo stesso tempo rigenerano profondamente persone e comunità.
    I giovani poveri, amati e avvicinati, ci rinnovano. "L'incontro quotidiano con loro, arricchito dai segni della presenza di Cristo, produce nelle comunità nuovi stimoli per una fede vissuta con più verità, aiuta a celebrare il Regno e la salvezza, a cercare con realismo nuovi motivi di conversione e di solidarietà, a fare della fede una realtà salvifica della storia" (n. 82).
    L'orientamento operativo che ne scaturisce propone ad ogni ispettoria che "entro il prossimo Capitolo ispettoriale individui nuovi e urgenti fronti di impegno principalmente tra i giovani che hanno maggiori difficoltà" istituendo per loro qualche presenza come "segno" del nostro andare verso i giovani più lontani" (n. 230). È una deliberazione precisa che mira a superare le incertezze a cui siamo come inchiodati per l'insufficienza delle forze e la molteplicità degli impegni.

    2. LA "SIGNIFICATIVITÀ DELLA PRESENZA SALESIANA OGGI

    La significatività è un riferimento che ha guadagnato terreno fino a diventare criterio principale di ridimensionamento, ricollocazione, ridistribuzione di energie. L'adunanza d'insieme delle ispettorie italiane con il Rettor Maggiore e alcuni dei suoi Consiglieri (1986) l'aveva preso come punto focale della riflessione per formulare scelte di fronte alle nuove situazioni e dello stato delle nostre forze. Un testo del CG23 la riprende: "Spetta alla comunità ispettoriale rivedere continuamente e riprogettare le singole opere dell'ispettoria in ordine alla significatività ecclesiale e sociale..." (CG23 227).
    La significatività è collegata alla capacità di dare risposte originali alle sfide e alle urgenze più sentite. Per essa una presenza o iniziativa proclama la novità e la forza trasformatrice del Vangelo per se stessa, anche prima dell'annuncio verbale. Il CG23 attribuisce una particolare carica di significato alle iniziative rivolte a dare ai giovani in difficoltà possibilità di vita piena e le ricollega al carattere "profetico e radicale" della vita religiosa: "Chi come discepolo di Cristo vede questa realtà con i suoi occhi e la sente col suo cuore è 'chiamato' a 'compatirÈ queste situazioni e a rendersi solidali con chi soffre. "Il carattere profetico della vita religiosa ci domanda di incarnare la Chiesa desiderosa di abbandonarsi al radicalismo delle beatitudini. Questo dono dello Spirito ci fa sensibili alla sfida della povertà" (n. 79).
    I suoi elementi, da cui si sprigiona significatività, sono: la manifestazione incondizionata della carità evangelica, la capacità di "salvare" coloro che gli uomini abbandonano alla propria sorte, il desiderio di donare vita e speranza, l'efficacia nella proposta di fede, la forza aggregante per cui persone di buona volontà si uniscono nel bene, la capacità di far maturare mentalità e rapporti nella linea del Regno. Molte iniziative sono "buone"; ma non tutte parlano con la stessa eloquenza, realismo e verità. Molte opere possono essere di qualche utilità; non tutte esprimono il Vangelo, l'amore di Dio seminato nel cuore dei credenti con la stessa immediatezza e profondità. Molti interventi appaiono accettabili, funzionali alla società in cui viviamo; alcuni sono veramente "evangelizzatori" e profetici.
    Sotto questa luce di segno evangelico il CG23 valuta la nostra presenza tra i giovani in difficoltà: "In questi ultimi anni sono nate e si sono consolidate le 'comunità di accoglienza per ragazzi e giovani in difficoltà'. Esse sono la testimonianza del 'coraggio' mai spento in Congregazione, e del valore del Sistema Preventivo. Sono punti di riferimento e di promozione della solidarietà, riscuotono l'approvazione generale, riescono a coagulare collaboratori molteplici, creano mentalità solidale nella gente e ottengono l'appoggio della società" (n. 290).
    L'impostazione della nuova evangelizzazione, quella che propone Giovanni Paolo II quella delle chiese particolari puntano sui "segni". E tutte, nella nuova temperie anche delle società sviluppate, vedono nell'identificazione della Chiesa con i poveri la manifestazione credibile dell'amore che proclama. L'offerta di senso di cui il Vangelo è fonte attraverso l'educazione alla fede e la solidarietà con gli sfavoriti conformano la significatività delle comunità cristiane e del loro messaggio.
    Anche per noi la significatività, la forza di annuncio e di testimonianza poggia sul senso e sulla solidarietà. Possiamo esprimerlo ancora con un testo del CG23: Le sfide "esprimono in maniera particolareggiata il doppio versante che la fede è chiamata a illuminare e risignificare: la persona e la società; l'identità personale e l'universale solidarietà tra gli uomini" (n. 75).

    3. LE NUOVE POVERTÀ

    C'è ancora un passo da compiere: comprendere nel richiamo alla povertà, a cui si riferiscono le Costituzioni e i Capitoli Generali, le forme più gravi di carenza ed emarginazione della società del benessere. Infatti si compatisce e si solidarizza facilmente con la miseria economica (e a ragione!), ma inconsapevolmente colpevolizziamo coloro che rimangono intrappolati nei rischi della società del benessere.
    La prima cosa è prendere coscienza che in questa società le "povertà" gravi esistono e non come "sacche" marginali e insignificanti in fase di soluzione, ma come fenomeno dilagante, organico al sistema e da esso provocato. Colpisce oggi una quantità di soggetti deboli e lo farà domani con tutti quelli che partono sfavoriti o che non vengono sufficientemente attrezzati per sopravvivere in una società complessa. Ciò viene rilevato da rigorose ricerche sulla realtà sociale attuale e sulle prospettive di un prossimo futuro. Ma per arrivare alla medesima conclusione bastano pure uno sguardo attento sulle nostre città e quartieri e l'informazione quotidiana.
    Le statistiche europee di qualche anno fa denunciavano una povertà economica che raggiungeva l'11% della popolazione e una disoccupazione giovanile media che colpiva il 20% di giovani con decisivo influsso sul comportamento, la disaffezione al sistema sociale, la demotivazione per una preparazione adeguata.
    Ma c'è un secondo dato da assumere: la povertà, il rischio o la precarietà che dir si voglia non presenta un solo volto. La precarietà economica non è sparita e non è nemmeno in recessione. Ma rappresenta solo un aspetto. Altri più gravi se ne aggiungono: l'emarginazione e l'estraneità sociale culturale, la devianza nelle forme varie, le dipendenze, la insufficienza di preparazione culturale, l'abbandono scolastico, le carenze affettive, l'insicurezza individuale e sociale, il coinvolgimento precoce nella malavita, il disorientamento esistenziale, la solitudine, il carcere. Alla radice c'è un diffuso disagio, le cui interpretazioni sono state analizzate nell'incontro europeo di Benediktbeuern, per cui non mi soffermo (cf Emarginazione giovanile e pedagogia salesiana, LDC 1987, pp. 19-33).
    Per questa molteplicità di volti e per questa diffusione strisciante la nuova marginalità è meno visibile. Si allarga in forma capillare e clandestina. Quello che appare è solo la punta dell'iceberg. La base sommersa è molto più ampia e profonda. Perciò la sua portata viene sottovalutata e "i casi visibili" vengono facilmente attribuiti a ragioni personali o fPrdliari. Incombe invece su un numero considerevole di giovani a tre livelli: come rischio prossimo, come situazione iniziale di fatto, come interiorizzazione delle sue modalità e adeguamento alle sue leggi.
    Questa molteplicità e diffusione pone alcuni interrogativi a tutti gli educatori e particolarmente ai salesiani: intervenire su un tipo particolare di povertà in linea col nostro passato, o prendere in considerazione con uguale impegno le nuove forme di povertà che sembrano più difficili da affrontare dal punto di vista educativo? Per queste ultime si possono considerare sufficienti le nostre competenze educative e pastorali, o c'è bisogno di altre competenze specifiche? Va considerato "straordinario" il nuovo profilo di alcune iniziative in area di emarginazione, o conviene assumerlo e moltiplicarlo? E ancora: poiché le diverse povertà hanno radici comuni, non sarà possibile affrontarle, in una certa misura, tutte insieme?
    Un terzo dato da valutare è che le nuove e più gravi povertà covano nella fanciullezza, ma esplodono ancora nell'età giovanile. Non si tratta più solo degli "orfanelli" o delle "famiglie povere", ai quali la società ha potuto pensare da lungo tempo, ma di adolescenti e giovani in cui le carenze educative o il fallimento dei processi di socializzazione tipici della fanciullezza e dell'adolescenza hanno spinto verso l'evasione.
    Per ciò non sono più soltanto le grandi istituzioni educative o di ricupero quelle più indicate ad affrontare il fenomeno di povertà. Emergono invece iniziative destinate ad adolescenti e giovani adulti in cui si privilegia l'accoglienza e la valorizzazione della persona, il rapporto di amicizia e corresponsabilità, la mobilitazione del territorio, la pluralità di fronti.
    Proprio su questa linea si fanno strada altre forze di chiese e di società che si qualificano per la quantità delle iniziative e per la capacità di coinvolgimento e coscientizzazione della società. Ne sono esempi le reti di comunità di accoglienza e volontariati a favore di immigranti, rifugiati e altri.
    Tutto questo pone altri interrogativi ai salesiani: il significato di "prevenzione" è rimasto immutato o presenta nuovi connotati e nuove indicazioni? Dobbiamo far influire queste nuove esigenze sulle nostre politiche?

    4. LA SFIDA DELL'ATTUALE EMARGINAZIONE ALLA "SIGNIFICATIVITÀ DEI SALESIANI

    Noi portiamo indelebile nella nostra memoria comunitaria il ricordo del "cuore" di Don Bosco che lo spingeva non solo a a rilevare, ma a sentire profondamente le situazioni di precarietà e miseria dei giovani; sovente rievochiamo la sua scelta di dedicarsi totalmente a loro di fronte ad altre proposte meno radicali; ricordiamo pure il criterio e le modalità delle sue iniziative caratterizzate dall'aderenza alle realtà e dalla capacità di coinvolgere le forze disponibili.
    Le nuove povertà trovano i salesiani ugualmente sensibili, capaci di cogliere il loro aspetto fragile per i giovani e pronti ad intervenire quanto lo fu Don Bosco con la povertà del suo tempo? La risposta positiva non è almeno da escludersi. La domanda comunque formula in maniera semplice e diretta la "sfida" carismatica.
    Per rispondervi non soltanto con un gesto esemplare ma con una nuova disponibilità comunitaria sono necessari alcuni passi.
    - Il primo è riuscire a cogliere come ispettoria e come comunità locale la portata, la profondità e le manifestazioni odierne del disagio giovanile nel proprio contesto: come rischio incombente su tutti gli adolescenti e giovani a causa delle difficoltà familiari, del sistema scolastico, dello sradicamento culturale e sociale, della concorrenza per i posti di lavoro; come fenomeno che esplode in alcune fasce identificabili in cui le vecchie povertà si sovrappongono a nuove forme gravi di emarginazione.
    Si tratta poi anche di individuare le logiche che oggi sottostanno al disagio, come la crisi di valori e di rapporti dilagante nella società, il vuoto di senso e progettualità, per cui si rende più precaria la differenza tra giovani "normali" e giovani "problematici". La difficoltà di questi ultimi hanno un carattere indicativo e sintomatico.
    Vanno superate dunque le colpevolizzazioni, la stigmatizzazione del disegno giovanile e rinnovata la fiducia di Don Bosco nelle risorse del giovane e nel suo desiderio e volontà di rifarsi.
    Se questa lettura viene condivisa si vedrà quanto ogni educatore ha oggi bisogno impellente di conoscere e trattare le diverse forme di emarginazione e come non è possibile un lavoro "normale" di educazione senza l'esperienza pedagogica di essa.
    - Ma la sfida presenta un altro aspetto molto più impegnativo: elaborare un progetto ispettoriale e nazionale per l'emarginazione giovanile con l'impiego pieno delle risorse della Congregazione.
    La storia del nostro sviluppo è conosciuta. I salesiani si sono dedicati alla gioventù bisognosa dal punto socio-economico favorendo il suo accesso ad un livello accettabile di educazione. In casi straordinari hanno assunto opere per ragazzi difficili presentate sempre come il fiore all'occhiello delle possibilità trasformatrici del Sistema Preventivo.
    Le nuove povertà li hanno colti di sorpresa, con una sensibilità generale, ma con una preparazione incompleta per leggere le manifestazioni di disagio, applicare una prassi pedagogica che va oltre la delega e il trattamento settoriale ed estrarre dal Sistema Preventivo nuove ispirazioni e conseguenze.
    Alcuni pionieri hanno intrapreso iniziative a volte inviati, a volte autorizzati dall'ispettoria, e qualche volta soltanto tollerati. Non poche realizzazioni a favore dei giovani a rischio sono nate come estensione di un'opera salesiana già consolidata.
    I risultati di questi tentativi sono stati pregevoli in vari sensi. Nel loro insieme hanno dato origine ad una presenza consistente della Congregazione nell'area dell'emarginazione. Tra le conclusioni dei seminari del 1986 si legge: "Sono evidenti gli sviluppi che l'impegno per i giovani bisognosi ha avuto nella Congregazione... settanta furono le iniziative studiate (molto più di quelle presentate al comitato di selezione!). La maggior parte di esse (fino al 90%) hanno avuto inizio tra gli anni 75 e 85. Rappresentano la continuazione di un impegno che la Congregazione aveva espresso lungo tutta la sua storia precedente in programmi adeguati ad altre forme di povertà e ad altri criteri educativi".
    Il secondo risultato è stato una sensibilizzazione generale delle comunità ispettoriali riguardo alla significatività di queste iniziative e la loro integrazione nel progetto ispettoriale non come opere "atipiche" ma in interazione con le altre presenze.
    Come conseguenza è maturata una maggior consapevolezza della complementarità arricchente tra le diverse opere. Sono nati collegamenti e collaborazioni parziali da parte delle comunità ed è cresciuta l'esigenza comunitaria nelle stesse iniziative predisposte per i giovani in difficoltà. Questo processo è tuttora in corso.
    Ma la maggior parte delle iniziative "specifiche" sono ancora legate alla permanenza nel settore di certe persone, con speranze limitate di ricambio e aumento, e dunque senza prospettiva di estensione.
    La Congregazione intanto ha parlato di ridimensionamento e ricollocazione, prendendo come punti di riferimento non solo l'adeguamento degli impegni alle risorse umane disponibili, ma anche la qualificazione pastorale e un servizio più generoso ai destinatari privilegiati.
    Sembra dunque maturo il momento di esprimere a livello ispettoriale e nazionale un PROGETTO per i ragazzi e giovani a rischio, non come un "settore" di iniziative ma come una impostazione globale del nostro servizio.
    Tale progetto comporta prendere in considerazione, in tutte le presenze, il disagio giovanile e il rischio dell'emarginazione. Ciò dovrebbe produrre modifiche nei programmi di contenuti e modalità educative, nella linea di una più attenta e aggiornata prevenzione; dovrebbe portare ad animare il territorio in vista della consapevolezza e della corresponsabilità di istituzioni e famiglie per la qualità dei rapporti e della vita. Potrebbe anche stabilire criteri per una maggior accoglienza dei ragazzi e giovani "a rischio" ai quali un programma e una comunità educativa possono tener lontani dalla devianza.
    Ma esso contempla anche comunità e iniziative specifiche, indirizzate ai giovani in difficoltà, come fattore trainante e come garanzia di realismo. Ed è da auspicarsi che aumentino seguendo l'orientamento operativo contenuto nel n. 230 del CG23.
    Si diceva a conclusione dei seminari del 1986: "L'inserimento di queste iniziative in un insieme diversificato di presenze all'interno di una ispettoria ci qualifica come apostoli-educatori dei giovani, capaci di interpretare e trattare tutte le situazioni educative in cui essi vengono a trovarsi: quelle in cui si applica la prima e più generale prevenzione, quelle in cui bisogna saper orientare ad alti impegni di, vita cristiana (gruppi, animatori, vocazioni), quelle in cui si deve adoperare, almeno in un primo tempo, una pedagogia di ricupero.
    C'è interdipendenza e vicendevole arricchimento tra le strutture e iniziative attraverso cui opera l'ispettoria. I rischi presenti in un territorio devono essere conosciuti e presi in considerazione da tutti i programmi e interventi educativi. Coloro che operano più direttamente nelle aree di rischio possono aiutare a interpretarli e prevenirli mentre ricevono dalle altre presenze appoggio e illuminazione. Sarebbe errato dunque contrapporre le iniziative, vedere nel sorgere di un tipo di presenza l'indebolimento di un altro, o semplicemente separarle. il tutto va considerato nella comunione ispettoriale in forma interdipendente e vicendevolmente fecondante".
    Il Progetto include ancora due elementi. Il primo è la preparazione del personale, nel cui corredo normale si dovrà includere la conoscenza sistematica del disagio e dei rischi giovanili e la partecipazione in esperienze educativo-pastorali per affrontarlo. A ciò vanno aggiunte specifiche qualifiche per un numero sufficiente di confratelli, come veniva auspicato nella riflessione precedente: "Va data attenzione alla competenza di coloro che operano (o opereranno) in questo settore. Non sarebbe serio addurre come motivo per non intraprendere iniziative il fatto che non si posseggono competenze specifiche e, allo stesso tempo, rimandare senza data la preparazione del personale".
    - Ma un progetto richiede soprattutto di raccogliere e riformulare la nostra prassi pedagogica seguendo le ispirazioni carismatiche già conosciute e sovente commentate, ma anche in base a quelle che emergono da un nuovo confronto con la realtà.
    Bisogna, per esempio, esplicitare e socializzare tra i salesiani i nuovi significati della prevenzione e la valenza della preventività come qualità interna dell'educazione e non soltanto come metodo pedagogico.
    La prevenzione viene considerata oggi, più ancora e con più senso che nel passato come la chiave di soluzione della marginalità. Ma ci sono istanze a cui non siamo ancora sufficentemente aperti.
    In primo luogo, il suo significato più vero e originale che è riuscire ad influire sulle radici o cause della marginalità o devianza . Non basta il contenimento degli effetti perversi, la cura di coloro che prendono il contagio e nemmeno l'attenzione ai portatori sani. Non risponde dunque alla prevenzione un azione mirata solamente a contrastare l'emergenza o a risolvere un problema o contingente. Non si fa prevenzione se non si mette in moto un processo continuo di anticipazione delle patologie sociali, se non si mobilitano nel sociale risorse capaci esse stesse di rigenerarsi come antidoto e come energie di crescita.
    Il proposito di operare sulle cause porta ad esercitare la prevenzione simultaneamente sugli individui e sulla società, sulle istituzioni, sui processi, sulle interazioni umane dentro cui si causano i fenomeni della marginalità, devianza, diversità.
    È chiaro allora che bisogna influire simultaneamente su tre livelli: quello del sostegno alle persone singole (livello più strettamente educativo), quello della maturazione della mentalità sociale, che mira a formare criteri e rappresentazioni collettive corretti dei problemi giovanili, correggendo distorsioni e fornendo interpretazioni le più obiettive possibile (livello culturale); quello degli strumenti giuridici e delle decisioni politiche che mirano a realizzare una più alta qualità di vita, ad assicurare a tutti ma particolarmente ai più deboli. condizioni di protezione e sviluppo e a orientare l'esercizio del potere al bene comune (livello politico). I tre livelli si fondono nell'azione multilaterale sul territorio.
    Questa prospettiva potrebbe non essere ancor familiare a tutti i salesiani, abituati ad una visione "individuale" dell'educazione, portati a risolvere problemi immediati e cauti di fronte al discorso "politico". Ma ormai abbiamo una certa esperienza di come si possono integrare pastoralmente i tre livelli di intervento.
    Una seconda acquisizione da non trascurare è che la forma fondamentale e più efficace di prevenzione è l'educazione. Si previene quando le persone sviluppano le propie risorse e riescono così a gestire l'eventuale proprio disagio esistenziale, a neutralizzare le cause soggettive della devianza e a superare anche i condizionamenti esterni.
    Ma l'educazione va intesa in forma piena e totale come capacità autonoma dare un senso alla vita, di progettarla, di decidere coerentemente, di superare le frustrazioni. Non bastano dunque la protezione istituzionale, il contenimento materiale degli stimoli negativi, la repressione o condizionamento dei comportamenti.
    L'educazione è piena e totale quando la si considera possibile e la si tenta in ogni fase della vita e in ogni circostanza, quando non la si abbandona dunque ai primi livelli di età o di sviluppo o ai primi fallimenti gravi del soggetto.
    Viene al caso allora ricordare che la possibilità dell'intervento educativo e la validità della prevenzione non finiscono con le prime esperienze negative del giovane. Si parla oggi, in termini molto reali e pratici, della prevenzione primaria rivolta a tutti i soggetti per i quali esiste un rischio generale di marginalità, di quella secondaria rivolta a coloro che evidenziano sintomi non definitivi di comportamenti devianti;, di quella terziaria indirizzata a soggetti che hanno già strutturato un comportamento socialmente inaccettabile e hanno interiorizzato il suo stigma. Pure nella seconda e terza situazione bisogna aiutare le persone ad arginare l'aggravarsi del male, ad impedire danni fisici o psichici irreparabili, a destrutturare i comportamenti devianti, a ricostruire il quadro di motivazioni, a proporre valori alternativi, a riacquistare il gusto della vita. E tutto ciò attraverso processi "educativi".
    È evidente la preferenza che noi salesiani abbiamo per la prevenzione primaria, dovuta ai vantaggi che offre per un sereno processo educativo, e per i momenti dolorosi, lo sperpero di energia e di tempo che risparmia al giovane. Sembrano comunque ormai superate le obiezioni all'impegno dei salesiani nelle fasi ulteriori della prevenzione, mosse a partire dalla impraticabilità del sistema preventivo con soggetti già radicati nella devianza.
    La smentita viene dall'esperienza, ma non mancano dichiarazioni autorevoli. A conclusione del CG 22 il Rettor Maggiore affermava: "La carità pastorale vissuta da Don Bosco ci stimola ad andare verso i giovani più bisognosi, verso quelli che sono in particolari pericoli, sia nel Terzo Mondo come anche nelle società di consumo. Don Bosco ci insegna che la forza educativa del Sistema Preventivo si mostra anche nella capacità di ricupero dei ragazzi sbandati che conservano risorse di bontà, e nel prevenire sviluppi peggiori quando si stanno incamminando già sulla strada della devianza" (n 72).
    - Le esigenze e possibilità odierne della prevenzione portano a risvegliare contenuti giacenti, sottolineature dimenticate della preventività come modalità sostanziale dell'educazione. Perché questa ha la forza della prevenzione nella in cui è internamente preventiva. Ma bisogna superare il concetto di sola anticipazione temporale e puntare "sulla preparazione alla vita in profondità mediante l'esercizio graduale e maturante della libertà", secondo le indicazioni del CG21 (n. 102). La preventività nell'educazione mira alla valorizzazione e all'impiego delle potenzialità esistenti in ogni persona, alla equilibrata autostima interiore. È soprattutto una pedagogia della relazione personale che si manifesta nell'accoglienza incondizionata, nell'accompagnamento amico e fraterno, nel dialogo provocato dalla vita, nella condivisione di attività, responsabilità e prove che crea comunità-famiglia. La qualità della relazione è al centro del programma e la persona è al centro della relazione. Il salesiano viene così messo di fronte a quello che lo dovrebbe caratterizzare: l'incontro con i giovani.
    Sarebbe interessante anche riesprimere tutto il contenuto dell'assistenza, togliendola dal contesto istituzionale e riportandola alla relazione che abbiamo descritto nella strada e nei luoghi di accoglienza come vicinanza, possibilità di confronto, aiuto adulto adeguato al ritmo delle trasformazioni del soggetto, fiducia nella parola, nei gesti e negli stimoli positivi.

    Conferenza ispettorie salesiane d'Italia su emarginazione e disagio
    Roma, 23-26 novembre 1991


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