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    S. Giovanni Bosco,

    sacerdote di Cristo

    e della Chiesa

     Card. Anastasio Ballestrero (1988) 

     

     

     donbosco

     

     

    Al clero della Chiesa che è in Torino

    Mentre stiamo celebrando il primo centenario della morte di san Giovanni Bosco, che suscita tante manifestazioni di fervore religioso, mi sembra opportuno condividere con il clero alcune riflessioni suscitate in me da una più assidua familiarità con la vita e lo spirito di questo sacerdote eccezionale, cresciuto e vissuto nella Chiesa di san Massimo.
    San Giovanni Bosco si identifica in maniera perentoria e perfetta con la figura del sacerdote di Cristo e questa identificazione matura nel corso della sua esistenza con una progressiva penetrazione del mistero e del ministero sacerdotale a cui il Santo, fin da fanciullo, si è sentito attratto da una vocazione tanto vivida e tanto sicura.
    Ma quale il modello sacerdotale che affascinò Don Bosco nei primi anni della sua vita e lo rese tanto tenace nel perseguirne la realizzazione?
    A me sembra di poter identificare questo modello in un tipo di sacerdote che non è isolato nella tradizione spirituale del nostro Piemonte, ma che ne è piuttosto una realizzazione plenaria particolarmente splendida.
    In Don Bosco si trovano realizzati i tratti della spiritualità sacerdotale propugnata da san Giuseppe Cafasso che del nostro santo fu maestro di teologia morale e «pastorale pratica», e insieme confessore, direttore spirituale, consigliere.
    Il modello sacerdotale cafassiano realizzato da Don Bosco affonda le radici nell'humus fecondo della millenaria tradizione cattolica, rivitalizzata dalla riforma tridentina e arricchita da apporti ignaziani, filippini, vincenziani, salesiani e da tanti altri filoni minori. Tale tradizione si era radicata in Piemonte, e particolarmente a Torino, favorita dall'azione di alcuni grandi arcivescovi tra il '600 e il '700, animata dal carisma del beato Sebastiano Valfrè, dall'opera nascosta delle Amicizie Sacerdotali del p. Nicolaus Diessbah, di Pio Brunone Lanteri e del teologo Luigi Guala, stimolata infine dall'intelligente azione restauratrice dell'arcivescovo Colombano Chiaverotti.
    Nel seminario di Chieri, san Giovanni Bosco assimilò i valori che l'austero regolamento e la tradizione formativa proponevano ai giovani chierici: studio intenso, spirito di sincera pietà, ritiratezza, obbedienza impastata di fede, disciplina interiore ed esteriore.
    Nel Convitto ecclesiastico di San Francesco d'Assisi ricevette una qualificazione pastorale teorica e pratica e consolidò la sua vita interiore. I tratti salienti di questa spiritualità propugnata dal Cafasso sono: centralità del servizio divino (determinata dal dominante amore del Signore, dal desiderio di conformazione alla divina volontà, di totale disponibilità al suo servizio con prontezza, esattezza e garbo), spirito di orazione, di dolcezza e di carità, di povertà, distacco e mortificazione, di umiltà e lavoro intenso; dono assoluto di sé nella cura pastorale del prossimo, zelo instancabile per accogliere, avvicinare, cercare, animare, esortare, istruire, incoraggiare persone di ogni età e categoria, soprattutto gli umili, i piccoli, i poveri e i peccatori; tensione missionaria; dedizione senza pausa alla predicazione, alla catechesi, al sacramento della penitenza, tenera devozione mariana, senso di appartenenza ecclesiale e devozione al Papa e ai pastori della Chiesa.
    In Don Bosco tutto questo fu ulteriormente caratterizzato da una singolare vita interiore, da una donazione senza riserve al suo ministero, dall'attenzione preferenziale per i giovani e per il popolo, da una dolcezza di tratto amabile e accattivante, da fantasia e intraprendenza pastorale, dalla capacità di discernere i segni dei tempi e di intuire i bisogni del momento e i futuri sviluppi. Egli ebbe una profonda vita interiore ed insieme fu intraprendente, coraggioso, ottimista, capace di contagiare e di coinvolgere tanti nella sua opera educativa e pastorale.

    Don Bosco formatore di sacerdoti

    Appassionato della sua missione e contento di essere prete, Don Bosco era profondamente convinto dell'utilità e della necessità del ministero sacerdotale per la Chiesa e la società civile. Per questo motivo, in tempi di difficile trapasso socio-culturale, di reali difficoltà delle strutture seminaristiche diocesane e di conseguente crisi vocazionale, si preoccupò di favorire e curare in ogni modo le vocazioni ecclesiastiche.
    Aprì le porte della sua casa prima a gruppi di chierici dispersi, poi - accanto ai laboratori artigianali - iniziò a Valdocco le scuole ginnasiali. L'intento esplicito era quello di accogliere e favorire tutti quei giovani ben dotati e sinceramente motivati nella loro vocazione, che diversamente non avrebbero potuto seguire la chiamata del Signore. Prestò loro, insieme all'indispensabile aiuto economico, soprattutto un sostanzioso servizio di formazione umana e spirituale.
    Anche la fondazione dei primi collegi (dopo il 1862) fu motivata principalmente dalla preoccupazione per la cura delle vocazioni. A partire dall'esperienza di Valdocco, si assunse come primo l'impegno di rivitalizzare il seminario di Giaveno. Aprì poi un piccolo seminario tutto suo, ma a servizio della Diocesi, a Borgo San Martino (Casale). Poi puntò decisamente alla creazione di ospizi e collegi-convitto, impostati in modo tale da favorire la nascita e la crescita di vocazioni ecclesiastiche sia tra le classi povere che tra quelle medie.
    Da Valdocco e dagli altri suoi collegi, lui vivente uscirono circa 2500 sacerdoti per le diocesi piemontesi e liguri).[1] L'esempio e l'incoraggiamento di Don Bosco spinsero molti vescovi a superare indugi dovuti a problemi economici, ad aprire o riorganizzare seminari minori. Diversi Rettori impararono da lui l'utilizzo di strumenti pedagogici e spirituali, idonei alla formazione dei giovani leviti, quali l'amorevolezza e la paterna assistenza che suscitano confidenza, la frequente confessione e comunione, la pietà eucaristica e mariana.
    Singolare per i tempi, e più tardi imitata da tanti, fu la cura specifica delle vocazioni adulte con l'istituzione di seminari e scuole apposite.

    Il servizio di Don Bosco ai confratelli sacerdoti

    Don Bosco visse intensamente la fraternità e la carità concreta nei riguardi dei confratelli sacerdoti. Prestò loro aiuti molteplici: quelli tipici del ministero, quelli materiali, morali e spirituali.[2]
    Cure particolari le dedicò anche al ricupero di sacerdoti tiepidi o «indegni» con la carità più delicata, il consiglio, l'esortazione, l'incoraggiamento, l'accoglienza disinteressata.
    Nei frequenti contatti o incontri con preti,[3] specialmente quelli più giovani, sull'esempio di don Cafasso, inculcava di preferenza questi atteggiamenti e virtù che riteneva essenziali:
    * Per vocazione e missione il sacerdote deve essere «il sale della terra e la luce del mondo», quindi si impegni a «vivere una vita ardentemente interiore, per poter illuminare intorno a sé gli altri» (cf MB 5, 654 e discorsetto ai seminaristi di San Sulpizio, MB 16, 172).
    * L'amor di Dio è il segreto del successo nel ministero (cf MB 6, 895).
    * Il primo posto deve essere dato alla preghiera personale e liturgica.[4]
    * Il secondo segreto per il successo pastorale è la carità senza limiti verso i fratelli, particolarmente la cura dei piccoli, dei giovani, dei poveri e dei malati (cf MB 5, 654; 6, 895; 9, 26; 16, 292s).
    * Per il servizio di Dio e la salvezza delle anime, il sacerdote non deve risparmiarsi lavoro costante, fatiche, veglie e sacrifici, senza riguardo per il proprio corpo e la propria tranquillità, da buoni servi del Signore.[5] Ma sempre con dolcezza e carità, facendosi tutto a tutti, senza schieramenti polemici e di parte (cf MB 6, 687s).
    * Tra le virtù sacerdotali Don Bosco colloca al primo posto la castità, intesa come apertura e dono totale di sé al Signore e al prossimo, delicatezza di coscienza, di tratto e di discorso, prudenza, riservatezza e spirito di preghiera abituale.[6]
    * In secondo luogo viene la povertà, intesa come distacco, sobrietà, disinteresse, spirito di adattamento, di rinuncia. Ai suoi allievi, diventati preti diocesani, ricordava soprattutto la povertà nei vestiti, nell'arredamento di casa, nel tenore di vita (cf MB 5, 407).[7]
    * La parola e il discorso del prete, pubblico e privato, deve essere ispirato solo dalla carità, dalla bontà, dall'amorevolezza, dal desiderio di fare del bene a tutti. Nel contatto col sacerdote, tutti devono riportare solo buone impressioni e pensieri edificanti.[8]
    Questa specie di «summula» di spiritualità sacerdotale veniva incarnata da san Giovanni Bosco nella sua vita concreta e nelle situazioni concrete del suo tempo e della società in profondo mutamento.
    Non fu un prete che si lasciò paralizzare dalle situazioni instabili e mutevoli nelle quali viveva, ma fu un prete che, proprio in tali situazioni e circostanze, seppe essere puntuale ministro del Signore, puntuale testimonianza della Chiesa, e anche puntuale collaboratore di Cristo nell'annuncio del Vangelo, nell'accoglienza dei poveri e soprattutto nella predilezione per i ragazzi e i giovani.
    Questa caratteristica del suo sacerdozio, il quale dai molti interrogativi che il suo tempo proponeva si senti spinto a scrutare i segni dei tempi e a lavorare per un avvenire migliore, va sottolineata in questo santo veramente eccezionale da questo punto di vista.
    Si può sottolineare il suo ardimento, la sua intraprendenza, la sua fantasia ispiratrice di soluzioni, ma non si possono mai staccare queste qualità così appariscenti dell'uomo Don Bosco da quella ricchezza interiore sostanziata di vigorosa e rigorosa ascesi, di profondo senso di fede e anche di continua dedizione al ministero nella Chiesa.
    Questa armonia tra le doti umane e le risorse misteriose della fede e della grazia, ha caratterizzato il suo sacerdozio e lo ha reso così splendente e così fecondo. Di questa simbiosi misteriosa e prodigiosa, io vorrei sottolineare alcuni punti caratteristici che mi sembrano particolarmente illuminanti.
    Le difficoltà dei tempi non lo hanno mai fermato; la sua esortazione al «lavoro, lavoro, lavoro» proveniva dalla visione chiara delle urgenze del Vangelo, della missione della Chiesa e dalle necessità, così vive e profonde, degli uomini del suo tempo.
    Il suo «lavorare, lavorare, lavorare» non era un irrequieto attivismo, quanto piuttosto un essere trascinato e spinto dalla carità di Cristo. Nello stesso tempo, questo ritornello del «lavorare» non andava mai disgiunto in lui dall'urgenza del «pregare, pregare, pregare». In lui la simbiosi tra azione e contemplazione appariva come logica conseguenza del sacerdozio ministeriale.
    Nella sua vita non c'era posto per dualismi problematici, ma posto solo per obbedire allo Spirito, per essere travolti dalle urgenze della carità e per essere continuamente nutriti e sostanziati da una forza derivante dalla preghiera, dall'Eucaristia e che lo rendeva infaticabile, pur vivendo una misteriosa consunzione del suo essere per il bene della Chiesa e della gioventù.
    Sottolineare questo mi sembra particolarmente importante, perché non esprime solo una caratteristica personale del sacerdote Giovanni Bosco, ma mette in evidenza un'esigenza di fondo di tutto il sacerdozio, dove il ministero è la sorgente della santità e dove la santità si incarna nel ministero.
    Oltre a questa osservazione un'altra mi pare di doverne fare.
    Il suo intenso operare era vissuto con una capacità di sintonia e di amore profondo con la Chiesa del Signore. Il suo sacerdozio, che egli viveva in tempi nei quali termini come: sacerdoti intransigenti, sacerdoti liberali, sacerdoti dediti alla politica o alle faccende terrene, erano tanto diffusi e anche tanto concretamente rappresentati da porzioni del clero, san Giovanni Bosco si è sentito e ha saputo essere semplicemente sacerdote.
    Le querele politiche non possiamo dire che non l'abbiano coinvolto, ma le ha vissute da prete. Le querele sociali non possiamo dire che non le abbia sentite, ma le ha vissute e sentite da prete. Le situazioni ecclesiali, anche allora non prive di difficoltà, di contraddizioni e di problemi, hanno trovato il sacerdote Giovanni Bosco semplicemente sacerdote; dedito al Vangelo, alla missione della Chiesa, all'amore e al rispetto del Papa, questo prete così concreto, così incisivo nella storia della sua gente, è sempre rimasto essenzialmente un prete di Gesù Cristo, illuminando con la sua presenza tempi non facili neppure per la Chiesa e, in particolare, per il clero.
    Non tocca a me scrivere qui una storia a questo proposito, ma esprimere il voto e il desiderio e l'auspicio che questo aspetto caratteristico della vita del nostro santo venga ulteriormente approfondito nelle opportune sedi, mi pare doveroso.
    Ma ciò che soprattutto ha caratterizzato questo sacerdozio di Don Bosco è stata la sua dedizione alla gioventù.
    In una società in trasformazione dal punto di vista culturale, economico e sociale, la gioventù ha subìto traumi fortissimi, ha conosciuto sbandamenti paurosi ed è stata la vittima innocente di tante ingiustizie e di tanti egoismi umani.
    San Giovanni Bosco si è lasciato travolgere dall'ondata delle nuove generazioni, le ha accolte a braccia aperte, con il cuore grande, fatto simile a quello di Cristo nell'amare i piccoli e i deboli, nel difendere i poveri.
    E il suo carisma - che a volte trionfalisticamente lo ha fatto definire «il santo dei giovani» - ha conosciuto soltanto la passione ardente del suo cuore di prete, la dedizione estenuante e logorante della sua fatica di prete e anche - perché non dirlo? - è stata la sorgente delle gioie più belle della sua vita sacerdotale e della sua progressiva trasformazione spirituale in prete di Gesù Cristo.
    Questa dedizione ai giovani, vissuta in maniera impareggiabile, che ha voluto diventasse missione specifica e dominante della sua famiglia religiosa, la famiglia salesiana, Don Bosco l'ha vissuta prima di tutto all'interno della sua Chiesa, nella quale era nato, della quale era sacerdote, nella comunità cristiana dove per tanti anni ha operato in nome del suo vescovo, anche in favore dei giovani.
    Su questa caratteristica del carisma di Don Bosco tante cose sono state già dette e non è il caso che io le ripeta, ma non posso fare a meno di sottolineare che proprio nell'alveo della Chiesa diocesana, sotto l'influsso del Cafasso e anche in aderenza a situazioni diocesane che precedono Don Bosco, l'attività giovanile è stata indicata al santo come campo specifico di un carisma singolare, da cui è nata la mirabile fecondità della famiglia salesiana, ma che ha illustrato precedentemente la diocesi torinese.
    Ricordarlo soprattutto a noi, sacerdoti di questa Chiesa, non significa appropriarci di una gloria che è solo di Dio, ma significa lasciarsi interpellare per vedere se non sia davvero il momento di riconoscere questo dono di apostolato giovanile come una caratteristica che deve continuare ad animare la nostra Chiesa locale. E questo lo dico tanto più volentieri in quanto, proprio a proposito della pastorale giovanile, intorno all'opera di Don Bosco può anche essere emerso nel clero della nostra Chiesa, da allora ad ora, un atteggiamento che ha bisogno di essere ulteriormente illuminato e chiarito.
    Questo prete dei giovani, san Giovanni Bosco, in quale sintonia si è venuto a trovare con il clero torinese del suo tempo e con la diocesi a cui apparteneva?

    Rapporti di Don Bosco con il clero torinese

    Nei rapporti di Don Bosco con il clero torinese e la sua diocesi si è verificato uno sviluppo parallelo allo sviluppo pastorale di Don Bosco e allo sviluppo della sua opera.
    Pertanto in tali rapporti è necessario distinguere vari periodi. Va però detto innanzi tutto che tra il clero torinese ci sono state, per ragioni diverse, delle opposizioni all'opera di Don Bosco, fin dalle origini; ma essa si precisò e si rinforzò a mano a mano che il sacerdote di Valdocco acquisiva la sua autonomia nella diocesi. Così pure è altrettanto incontrovertibile che da parte del clero torinese non mancarono mai simpatia, aiuto e collaborazione a Don Bosco e alla sua opera.
    La forte e vulcanica personalità non poteva lasciare indifferenti. Tiittavia non è possibile quantificare oppositori e simpatizzanti; tutt'al più è possibile individuare settori del clero, gli uni più favorevoli, gli altri meno o addirittura contrari.
    Dal 1841, anno dell'ordinazione sacerdotale, al 1852, anno della sua nomina da parte dell'arcivescovo Fransoni a primo responsabile degli oratori torinesi, Don Bosco fu pienamente inserito nel clero diocesano, sia pure nel settore particolare e nuovo per Torino come era quello degli oratori. Egli faceva parte di quel giovane clero non impegnato direttamente nelle strutture parrocchiali, ma che avvertiva i nuovi problemi pastorali emergenti, conseguenza della notevole immigrazione urbana dalle campagne torinesi, di fronte alle quali la tradizione pastorale parrocchiale - prevalentemente, per non dire quasi esclusivamente sacramentaria - appariva del tutto inadeguata.
    Don Bosco, consigliato saggiamente da don Cafasso, individuò negli oratori - introdotti a Torino dal sacerdote di Druent, don Cocchi, in una delle zone più malfamate di Torino, quella del Moschino lungo il Po, nel 1840 - lo strumento più adeguato per una nuova pastorale giovanile, in particolare tra i ragazzi immigrati, abbandonati a se stessi.
    Negli anni '40 Don Bosco non fu un isolato tra il clero torinese in questa attenzione alla gioventù emarginata. Sulla scia di don Cocchi, il pioniere, sorse un drappello di giovani sacerdoti non direttamente impegnati in parrocchia che si buttarono a capofitto nell'apostolato giovanile tutto da inventare. E, attorno ad essi, in atteggiamento di attenzione e di collaborazione, un gruppo di personalità ecclesiastiche che sensibilità apostolica e cultura rendevano attenti ai nuovi problemi e ai tentativi di affrontarli.
    Prima del chiarimento operato dal decreto arcivescovile del 1852, nel settore degli oratori si distinguevano due linee, facenti capo rispettivamente a Don Bosco e a don Cocchi: quest'ultima più sensibile alle suggestioni politiche liberali e con impostazione meno apertamente religiosa rispetto a quella di Don Bosco. Con il sacerdote di Druent operavano don Ponte, don Carpano e don Trivero; con Don Bosco collaborava invece don Borel. Davano la loro collaborazione altri sacerdoti, come i cugini Murialdo, Roberto e Leonardo.
    Molto vicino a Don Bosco era don Cafasso; anche il futuro arcivescovo di Torino Gastaldi, allora canonico di S. Lorenzo, diede la sua opera nell'oratorio di Valdocco fino al 1851, quando entrò nel noviziato rosminiano.
    Paradossalmente, quando proprio a partire dal 1852, cioè dopo l'incarico ufficiale ricevuto dal vescovo Fransoni, Don Bosco accentuò gradualmente la sua autonomia rispetto alle strutture diocesane, aumentano chierici, sacerdoti e laici che si mettono a sua disposizione; matura così la congregazione salesiana, fondata nel 1859 e riconosciuta dalla S. Sede nel 1869.
    Vanno segnalati due fatti importanti circa i rapporti di Don Bosco e di Valdocco con la diocesi torinese: dal 1848 al 1863 Valdocco svolge una preziosa funzione di serbatoio di vocazioni sacerdotali e anche una parziale funzione sussidiaria nella formazione dei chierici. Infatti dal 1848 al 1863 il seminario di Torino rimase chiuso in seguito ai procedimenti disciplinari intrapresi dal Fransoni in seguito ai fatti del 1848.
    Operavano ancora gli altri due seminari filosofico- teologico di Bra e di Chieri: per la città di Torino suppliva soprattutto Valdocco.
    Il secondo fatto: dal 1860 al 1862, Don Bosco ebbe anche la responsabilità della direzione del seminario minore di Giaveno. Siccome il seminario da anni languiva, mons. Fransoni affidò a Don Bosco il compito di rilanciarlo. Così avvenne: nell'ottobre del 1861 gli allievi erano già 240; Don Bosco aveva dirottato da Valdocco parecchie decine di ragazzi nonché personale salesiano.
    Esistevano però contrasti tra il rettore locale, don Grassino, e Don Bosco circa la linea educativa; per cui, quando nel 1862 morì l'arcivescovo Fransoni, che aveva grande fiducia in Don Bosco, prevalse la linea contraria a Valdocco, che invece era appoggiata dal Vicario generale Celestino Fissore, futuro arcivescovo di Vercelli. Infatti nell'elezione del vicario capitolare (che restò in carica per sede vacante fino al 1867) a quest'ultimo fu preferito il moderato canonico Zappata. Questi non solo riaprì il seminario di Torino nel 1863, ma affidò anche al solo clero diocesano il seminario di Giaveno.
    Tuttavia, negli anni '60 e nei primi anni del '70, Valdocco continuò ad inviare molti giovani nei seminari maggiori diocesani.
    A partire dal 1867, con il ritorno alla normalità della diocesi con la nomina dell'arcivescovo Alessandro Ottaviano Riccardi di Netro, cominciarono i contrasti di Don Bosco con la curia torinese; contrasti che raggiunsero il massimo negli anni 1871-1883 con l'episcopato di Lorenzo Gastaldi, fino al 1871 in ottimi rapporti con Don Bosco.
    Qual era l'atteggiamento del clero torinese verso Don Bosco e i salesiani durante l'episcopato gastaldiano?
    Il clero che potremmo chiamare intransigente guardava con simpatia a Don Bosco. Nel contrasto che lo oppose all'arcivescovo, questo clero si schierò con Don Bosco; anzi si può anche dire che il sacerdote di Valdocco divenne una bandiera per i numerosi avversari del Gastaldi. Solo i sacerdoti liberali, liberaleggianti (ma quanti erano?) e passagliani mantennero le loro riserve verso entrambi.
    Negli anni '80, con l'avvento del card. Alimonda nel 1883, il vertice della diocesi fu certamente favorevole verso Don Bosco, la cui fama e il cui prestigio, d'altronde, erano ormai al massimo.
    Ma il clero torinese, come guardava a Don Bosco? Mancano dati anche solo approssimativi. Con fondamento si può affermare che il clero intransigente, che molto probabilmente era ormai la maggioranza e che si riconosceva nella «Unità Cattolica» di don Giacomo Margotti, guardava con ammirazione a Don Bosco.
    Per il resto si possono fare solo supposizioni.
    Questa piccola escursione di carattere storico mette ulteriormente in evidenza come Don Bosco sia rimasto una presenza significativa e incisiva nella sua Chiesa di Torino. A leggere certe vicende possiamo avere anche qualche sorpresa, ma dobbiamo renderci conto che in un contesto storico come quello del secolo scorso, tutto questo non solo ha delle spiegazioni di carattere umano perfettamente comprensibili, ma diventa anche il segno della difficoltà di vivere il mistero della Chiesa, soprattutto come oggi noi lo sentiamo.
    Il tema della comunione come quello della missione trovano in queste situazioni concrete delle validità estremamente preziose, ma pongono anche interrogativi che non appartengono soltanto ad un passato storico, ma possono avere ancora le loro risonanze in un presente cosi vicino a noi da essere il nostro tempo.

    Amore alla Chiesa e al Papa

    A questo punto penso che qualche riflessione conclusiva possa essere utile per il nostro clero.
    Prima di tutto vorrei osservare come questo sacerdote, Giovanni Bosco, abbia incarnato un esemplare amore alla Chiesa e al Papa, rendendoli ideali programmatici della propria vita. E credo che questa condotta esemplare di Giovanni Bosco debba interpellarci soprattutto per due caratteristiche manifestazioni.
    La prima è l'amore alla Chiesa quando questo amore bisogna pagarlo nelle situazioni concrete della storia. I tempi di san Giovanni Bosco non sono stati tempi nei quali l'amore alla Chiesa fosse di moda. Al contrario. Ma questo prete amò la Chiesa, dichiarò d'amarla, la difese, la servì, ne fece un ideale di vita e una bandiera d'impegno.
    Sia che si trattasse della Chiesa come realtà misteriosa che appartiene ad ogni credente, sia che si trattasse della stessa persona del Papa, la sua fu una fedeltà piena di amore, piena di fede e piena di generosa dedizione.
    L'esempio rimane attuale. Potremmo anche dire che in san Giovanni Bosco si verifica anche un altro amore alla Chiesa manifestato in modo particolarmente significativo. Non si tratta soltanto dell'amore alla Chiesa universale, di amore al Papa, ma si tratta di amore e di fedeltà alla Chiesa locale.
    La sua Chiesa madre, Giovanni Bosco l'ha amata sempre e anche nei momenti difficili, quando la comprensione non era atteggiamento facile, il santo non prese le distanze, non si rifugiò nell'universalismo della Chiesa per sentirsi estraneo nella Chiesa che lo aveva visto nascere, lo aveva cresciuto, gli aveva aperto gli spazi della carità.
    Se ci fu qualcosa da patire lo patì, ma il suo amore rimase intatto e ancora oggi ci commuove: lui non ha mai giudicato, ha sempre portato nella carità di Cristo anche quelle pene, quelle sofferenze che gli possono essere derivate da incomprensioni locali, perché per lui la Chiesa è veramente un mistero nel quale bisogna credere ed è una realtà storica che bisogna amare e servire «usque in finem».

    Fraternità sacerdotale e amicizia

    Un'altra osservazione che mi pare molto attuale è il vero culto della fraternità sacerdotale e dell'amicizia presbiterale che Don Bosco coltivò. Al di sopra di tutte le difficoltà, fu amico fraterno di molti preti e questa fraternità, vissuta con tanta generosità e dedizione, rimane esemplare e deve continuare a suscitare in noi quella comunione del presbiterio nella quale ci ritroviamo per la grazia dello stesso sacramento non per giudicarci, ma per volerci bene; non per confrontarci polemicamente, ma per confortarci nella comune fatica del ministero sacerdotale.
    E voglia Dio che l'esempio di san Giovanni Bosco da questo punto di vista trovi tra noi quell'accoglienza che fa maturare la fraternità piena dell'amicizia, la condivisione degli ideali nella partecipazione alle tribolazioni della vita, quella solidarietà per cui tutti siamo raccolti insieme da quel Signore che ci ha chiamati amici. Che possiamo essere degni di questo appellativo e che il nostro sentirci amici trovi davvero in san Giovanni Bosco una nuova ispirazione e un nuovo gaudio interiore.

    Collaborazione tra clero diocesano e religioso

    La terza riflessione che vorrei fare è che, al di là e al di sopra di tutte le difficoltà di carattere canonico, Don Bosco ha instaurato un rapporto di collaborazione profonda tra il clero diocesano e il clero religioso.
    L'esempio di questo santo è particolarmente significativo anche oggi.
    Mentre da un lato l'unità del presbiterio, tanto incoraggiata dal Concilio Vaticano II, trova sempre più consensi e sempre più attenzione, l'unità pastorale della Chiesa di Dio fa enormi progressi anche a livello della collaborazione tra il duplice clero.
    Nella nostra diocesi debbo ringraziare il Signore che, da questo punto di vista, ci sono tante cose belle già consolidate ed altre che a poco a poco emergono a vantaggio e ad edificazione del popolo di Dio. Possa questo centenario rinvigorire questa promettente realtà e rendere la nostra Chiesa particolarmente attenta e capace di esaltare l'unità del sacerdozio cattolico nella comunione della sua missione e della sua grazia.

    L'apostolato giovanile

    Ma come si fa a pensare al sacerdote san Giovanni Bosco senza accogliere l'invito pressante che viene da lui per una riconosciuta priorità della pastorale giovanile?
    Pastorale giovanile che, secondo gli ideali di Don Bosco, ancora oggi ha bisogno di formare i giovani ad essere profondamente cristiani, a dare un senso alla vita e a diventare degli onesti cittadini nella società in cui si muovono.
    Questi ideali restano ancora vivi e attuali; la realizzazione degli stessi è resa più complicata, forse, dalle mutate situazioni storiche, sociali e culturali, ma la Chiesa deve rimanere attenta in modo ostinato e pieno di amore verso queste generazioni, che non hanno una vita facile, a cui si prepara un futuro pieno di interrogativi in una società nella quale il bisogno di cristiani autentici è tanto grande e dove purtroppo c'è così poca disponibilità a farsi carico delle necessità dei giovani stessi.
    L'apostolato giovanile, attraverso la forma rinnovata degli oratori, possa diventare per la nostra Chiesa torinese un ideale da perseguire, un proposito da mantenere e anche un'esperienza da portare avanti.
    Io conto sulla collaborazione di tutta la famiglia salesiana, conto sulla collaborazione delle altre realtà oratoriane che nella nostra diocesi non sono mai mancate, perché il centenario di san Giovanni Bosco manifesti, tra le altre sue fecondità, il rinascere degli oratori maschili e femminili, splendenti davvero di giovinezza e quindi colmi di avvenire.

    L'apostolato vocazionale

    Vorrei ancora, in connessione con questo apostolato dell'oratorio, richiamare l'attenzione del nostro clero su una promozione vocazionale, che ha tanto caratterizzato l'azione di san Giovanni Bosco.
    Si è perfino potuto dire di lui che era un fabbricante di preti, ma non lo fu. Fu un suscitatore di fedeltà a misteriose vocazioni, fu un convincente apostolo della bellezza della vita consegnata a Dio per i progetti di Dio. Renda noi capaci, san Giovanni Bosco, di credere in questo miracolo del Signore nei nostri tempi e per i nostri tempi.
    Se lui ha potuto fare tanto, noi dobbiamo proporci di non essere da meno di lui. Forse, a proposito di questo apostolato vocazionale, avremmo bisogno di ricordarci più spesso ciò che il santo diceva, e cioè che la preghiera e il sacrificio devono diventare fondamento della vita del prete e della vita del giovane.

    L'apostolato dei laici

    Ancora un riflessione mi sembra di dover fare.
    San Giovanni Bosco è certamente precursore anche per un altro tipo di apostolato, a cui bisogna prestare molta attenzione. Ha saputo creare intorno alle esigenze dei suoi ideali apostolici l'interesse, la dedizione, la collaborazione e il servizio dei laici.
    Le stesse strutture istituzionali della famiglia religiosa da lui fondata hanno fatto un grande spazio ai laici. Anche in questo è stato un precursore e io credo che questo suo precorrere i tempi debba essere accolto anche da noi.
    Parliamo di promozione del laicato, parliamo di vocazione apostolica dei laici, parliamo del laicato come la componente maggioritaria della Chiesa di Dio, e va tutto bene; ma fin quando i laici non verranno, per nostra iniziativa sacerdotale, coinvolti nella missione indivisibile di Cristo Signore, la promozione del laicato sulle strade della santità cristiana e su quelle della dedizione apostolica, rimarrà una parola più o meno priva di senso e di contenuto.
    Possa il centenario di san Giovanni Bosco trovare in noi preti un'attenzione più grande a questo problema, aiutandoci a non rifugiarci nella solita scusa che i laici non rispondono e a preoccuparci un po' di più di chiederci perché non rispondono, vedendo se non sia vero che non rispondono perché non vengono chiamati con la voce giusta e non vengono avvolti dall'affiato della carità, dell'amicizia e dal convincimento profondo che il battesimo è uno per tutti e che i figli di Dio sono tutti uguali, nati dalla paternità universale e misericordiosa del Signore.

    Senso civico e collaborazione tra le varie istanze

    E vorrei chiudere con un'ultima sottolineatura che mi viene suggerita da questo prete inesauribile.
    Uomo del suo tempo, dotato di uno straordinario senso civico, presente nella società e nei problemi del suo tempo con tutta la sua generosità di uomo e con tutta la sua chiaroveggenza di prete.
    I rapporti tra Chiesa e autorità, tra realtà ecclesiale e realtà civica sono rapporti che hanno conosciuto tante combinazioni, tante articolazioni, più o meno complicate, più o meno sincere, più o meno efficaci. Il comportamento di san Giovanni Bosco rimane esemplare: nessuno lo ha mai reso reticente di fronte al Vangelo e nessuno gli ha mai impedito di essere uomo di pace, di concordia, di promozione umana di fronte a chiunque e in tutte le situazioni concrete.
    Abbiamo meno bisogno noi preti dei manuali di diplomazia o di cultura civica che di avere il cuore di Cristo e di sentirci mandati davvero ad ogni creatura. San Giovanni Bosco è stato un uomo così, un prete così: un prete per il suo tempo e per ogni tempo.
    A me pare che la celebrazione del centenario, per noi sacerdoti e pastori, possa essere davvero una circostanza preziosa per arricchirci, per illuminarci e per riaccendere dentro di noi tante audaci speranze, tante coraggiose iniziative e tanta misericordiosa pazienza, per essere sempre più nel mondo i segni della misericordia del Signore, che perdona, che redime e promuove l'uomo sempre ad essere ciò per cui lo ha creato, ad essere figlio di Dio.

    Conclusione

    E mi sia consentito un pensiero conclusivo.
    Questo prete, san Giovanni Bosco, è rimasto orfano di padre da bambino. Il Signore gli ha lasciato vicino per tanto tempo un'ammirabile mamma, mamma Margherita, ma gli ha concesso anche una intuizione inesauribile di grazia sulla presenza di Maria nella vita della Chiesa.
    La basilica che il santo ha voluto dedicata all'Ausiliatrice, non sta soltanto a testimoniare una devozione fatta grande come il suo cuore trasfigurato dalla carità, ma anche a ricordarci che ogni itinerario cristiano è aiutato da questa Madre, è sollecitato da questa presenza ed è trasfigurato da questa soavissima maternità.
    Il ricupero alla devozione alla Madonna, che era uno dei capisaldi della sua formazione, accogliamolo come messaggio di san Giovanni Bosco. Siamo nell'Anno Mariano e io credo che il santo sia particolarmente felice che il suo centenario venga a coincidere con questa celebrazione di tutta la Chiesa, che noi vogliamo vivere perché la protezione dell'Ausiliatrice, della Madre del Signore, non solo fecondi questo anno centenario, ma diventi per noi preti un motivo in più di speranza, di serena fiducia e anche di affettuosa cordialità, che renda il nostro sacerdozio più vicino al cuore di ogni uomo e più capace, al di là di ogni retorica e al di sopra di ogni declamazione, di annunziare sempre che Dio è Amore.

    Oggi, 5 giugno 1988, anniversario dell'ordinazione sacerdotale di san Giovanni Bosco
    Anastasio A. card. Ballestrero Arcivescovo di Torino


    NOTE

    [1] Cf MB 5, 411. Nel 1865 il seminario di Torino aveva 46 chierici, dei quali 38 erano stati allievi di Don Bosco; nel 1873, su 150 chierici, 120 venivano dall'oratorio di Valdocco. A Casale, nel 1870, su 40 chierici seminaristi, 38 provenivano dalle scuole di Don Bosco; nel 1904-1905 ben 3/4 dei sacerdoti della diocesi di Casale erano stati allievi delle scuole salesiane, come pure i 2/3 dei parroci della diocesi di Asti (cf MB 5, 407s).
    [2] Ricordiamo ad esempio le numerose predicazioni un po' ovunque per i paesi del Piemonte, le lunghe ore di confessionale, le visite frequenti ai parroci, ex compagni di seminario, preti malati o anziani... «Egli si prestava in favore di questo o di quel sacerdote che trovandosi in bisogno ricorreva a lui, e prestò loro valide braccia in strettezze di ogni fatta. Molto spesso si sottopose a gravi travagli per ottener loro protezione e difesa presso il Governo, i Vescovi e il Papa» (MB 5, 650).
    [3] «A questo ceto di persone soleva indirizzare qualche parola, che riguardava lo spirito sacerdotale e la santificazione delle anime, o la pratica della meditazione, dell a lettura spirituale tutti i giorni, della visita giornaliera al SS. Sacramento, dell'assiduità al confessionale, dello zelo sul pulpito. "Queste interrogazioni, attestò il teol. Reviglio, le faceva specialmente ai parroci e agli altri sacerdoti da lui avviati alla carriera ecclesiastica; come posso dichiarare di aver egli fatto verso me stesso, dandomi egli in pari tempo norme onde io disimpegnassi santamente il mio ministero"» (MB 7, 21).
    [4] In una lettera ad un sacerdote valdostano nel 1870, scrive: «Si può fare una prova: divota preparazione e ringraziamento alla S. Messa. - Ogni mattino meditazione. - Lungo il giorno visita al SS. Sacramento. - Lettura spirituale. Prego per te Maria Ausiliatrice e il buon Gesù. Fratres, sobrii estote» (MB 9, 860).
    [5] «Son prete e sebbene io dessi la vita, nondimeno non farei che il mio dovere» (MB 6, 847). «Non mi sono fatto prete per curare la salute» (MB 2, 459). «I preti devono lavorare!» (MB 2, 464).
    [6] Cf MB 5, 161 e 409. «Quando un sacerdote vive puro e casto, diventa padrone de' cuori e riscuote la venerazione dei fedeli» (MB 9, 387).
    In Don Bosco questa virtù era dominante, come attestano coloro che l'hanno conosciuto, ad es. il suo segretario don Berto: «"Io gli sono stato attorno, l'ho servito per oltre vent'anni e posso affermare che la virtù della modestia negli sguardi, nelle parole e nei tratti fu da lui portata al più sublime grado di perfezione. Il segreto che egli adoperò per raggiungere questa perfezione, fu la continua occupazione di mente, l'eccessiva fatica di giorno e di notte, e una calma imperturbabile. Da lui si diffondeva un'influenza vivificante. Io stesso posso dire che, stando vicino a lui, la sua presenza allontanava da me ogni pensiero molesto". Ciò era effetto dell'amor che gli ardeva nell'anima pel suo Signore, col quale stava sempre in intimi colloqui» (MB 7, 81s).
    [7] «Ma, oltre il vitto, i guadagni del prete vogliono essere le anime e nulla più. Si è sempre veduto che, chi cerca gli interessi temporali, ben difficilmente converte molte anime o pensa alla salute eterna di quelle che gli vengono affidate. Invece mostrami un prete al tutto disinteressato, che non pensi a far denari, ovvero a provvedere la sua famiglia e vedrai quanto bene, quante conversioni egli farà» (MB 11, 240). «Chi vuol darsi al ministero di Dio, non si preoccupi de' negozi temporali (...). Le sue fatiche sono per Dio, i mezzi per compiere la sua missione sono di Dio e quindi anche i guadagni devono essere di Dio e perciò dei poveri» (MB 13, 808).
    [8] Don Bosco ripeteva sempre: «Ogni parola del prete deve essere sale di vita eterna e ciò in ogni luogo e con qualsivoglia persona. Chiunque avvicina un sacerdote deve riportarne sempre qualche verità, che gli rechi vantaggio all'anima» (MB 6, 381). «Un prete è sempre prete, e tale deve manifestarsi in ogni sua parola. Ora esser preti vuol dire aver, per obbligo, continuamente di mira il grande interesse di Dio, cioè la salute delle anime. Un sacerdote non deve mai permettere che chiunque si avvicini a lui ne parta senza aver udita una parola, che manifesti il desiderio della salute della sua anima» (MB 3, 74s).


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