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    Pietro Stella


    A
    questo punto conviene portare lo sguardo sul terreno della mentalità religiosa e dell'esperienza intimamente spirituale di don Bosco. Eludere infatti un'esplorazione di questo campo potrebbe portare a escludere dalla ricostruzione storica qualcosa che non è secondario per la comprensione di don Bosco e delle esperienze che si rifanno a lui in Italia e altrove nel mondo.

    Attorno al 1840 approssimandosi al sacerdozio scelse per la sua vita un motto che non era inconsueto tra gli ecclesiastici di allora: «Da mihi animas, coetera tolle». Da prete fece comporre quella scritta su un cartellone che collocò incorniciato davanti al proprio tavolo di lavoro. In tempo non precisato il riquadro venne sostituito con un altro in cui si leggeva: «caetera» anziché «coetera»; ed è il cartello che ancora oggi si vede a Valdocco fra altri cimeli nelle camerette da lui abitate negli ultimi anni di vita. L'espressione era tratta dal libro della Genesi (Gn 14,21) e nel suo contesto letterale era la risposta data dal re di Sodoma ad Abramo che in occasione di una razzia aveva liberato lui e i suoi: «Dammi gli uomini –disse il re –; tieniti il resto». Il senso allegorico che vi assegnava la tradizione esegetica medievale e la religiosità chiericale moderna era ben diverso; e don Bosco certamente amava indicare questo senso a quanti lo interrogavano nella sua stanzetta: «Signore, dammi le anime, prenditi tutto il resto». È questa, ad esempio, la spiegazione che diede a Domenico Savio, quando gli si presentò come allievo nel novembre 1854. «Da mihí animas» non era un proposito, così come il motto «ad maiorem Dei gloriam et salutem animarum» di Ignazio di Loyola e dei gesuiti. Era piuttosto una preghiera giaculatoria, una piccola «saetta» lanciata a Dio dall'interno del proprio cuore. Ma riassumeva anche un universo mentale ed era il nucleo profondo di un modo di pensare che stava alla radice delle proprie scelte vitali: il senso di Dio e dell'uomo.
    Quello di don Bosco è ovviamente il Dio personale della tradizione cristiana. Gli appellativi divini che aveva abituali erano: Creatore, Signore, Bene infinito e soprattutto Padre; e usava aggiungere forme aggettivali che ne evidenziavano le proprietà divine: l'amore infinito, la bontà per essenza, l'eterna misericordia del buon Dio verso le sue creature. Stando alle testimonianze di coevi, la preghiera che recitava con particolari modulazioni di voce era proprio il Padre nostro, cioè quella appresa nell'infanzia e che da secoli era in sintesi per i fedeli un richiamo alla vita e al mistero di Cristo.
    Nel suo motto sacerdotale il termine «anima» richiamava il lessico teologico e catechistico che da secoli proponeva l'uomo come un composto di anima e di corpo, di spirito e di materia. La catechesi, la predicazione, la spiritualità avevano radicato in concreto nell'immaginario collettivo della cattolicità occidentale l'ansia per le sorti dell'anima dopo la dissoluzione del composto umano: il corpo, destinato a ritornare cenere; l'anima dopo la morte, destinata a comparire davanti a Gesù Cristo per essere giudicata e ricevere la sentenza finale: essere accolta in paradiso, assegnata alle fiamme purificatrici del purgatorio o destinata alle pene eterne dell'inferno. Catechesi cattolica e dottrine protestanti erano concordi nel precisare che nessuno al mondo era in grado di sapere con certezza se si era in stato di grazia e quale era il proprio destino eterno. Le distinzioni e i conflitti dottrinali erano su altri punti. Don Bosco si colloca ovviamente nell'alveo della religiosità cattolica. La teologia della salvezza allaquale in concreto s'ispira da sacerdote è quella suggerita da sant'Alfonso de Liguori, le cui opere spirituali e pastorali furono diffuse in edizioni stereotipe dall'intraprendente editore Giacinto Marietti. Dalle Massime eterne alfonsiane derivano certe espressioni tipiche della catechesi di don Bosco ai giovani: «Considera, o figliuolo – si legge nel Giovane provveduto –, che questo tuo corpo, quest'anima tua ti furono dati da Dio senza alcun tuo merito creandoti a sua immagine»; c'è lui che interloquisce, il giovane (che legge o ascolta), l'anima e il corpo come entità distinte donate dalla bontà dí Dio creatore. Il rigore teologico si dissolve in una diffrazione di elementi che tendono a suggerire una sorta di visione drammatica o poetica della vita. Sulla scorta di sant'Alfonso don Bosco prosegue: «Devi altresì considerare, che se salvi l'anima tua, tutto va bene, e goderai per sempre; ma se la sbagli, perderai anima e corpo, Dio e Paradiso, sarai per sempre dannato». La preghiera giaculatoria «da mihi animas» si rivela il concentrato massimo di una soteriologia e di una prassi pastorale che don Bosco tende a esplicare in tutta la sua vita; mentre la seconda petizione del motto – «caetera tolle» – esprime la relativizzazione di tutto il resto del vissuto proprio e altrui in rapporto al disegno essenziale e al progetto di vita fondamentale. Varianti dell'ansia di salvezza sono altre asserzioni che pure si leggono nel Giovane provveduto e in altri libri di don Bosco, ad esempio: «Chi prega certamente si salva; chi non prega, si danna».
    Sull'antropologia teologica che vede in chiave positiva il creato come opera di Dio e l'uomo fatto a sua immagine si riflette sinistra e inquietante l'idea del peccato. Don Bosco tende a definirlo, più che un disordine (secondo il pensiero teologico di Tommaso d'Aquino) una rivolta della creatura contro il creatore e signore di tutto. «Non serviam» è il richiamo biblico che attinge da scritti devoti di sant'Alfonso, come le Massime eterne e l'Apparecchio alla morte, per indicare in termini drammatici la rivolta degli angeli seguaci di Lucifero e quella dell'uomo a cominciare dai protoparenti. Nei discorsi pedagogici insisteva sulla necessità dell'assistenza a motivo della «mobilità giovanile». In chiave religiosa pone l'accento piuttosto sulla cronica inclinazione al male provocata dal peccato originale e accentuata da quello personale: «Siccome una tenera pianta – scrive nel Giovane provveduto – sebbene posta in buon terreno dentro un giardino, tuttavia prende cattiva piega e finisce male, se non è coltivata e per dir così guidata fino a certa grossezza; così voi, miei cari figliuoli, piegherete sicuramente al male se non vi lasciate piegare da chi ha cura d'indirizzarvi». Sotto questo profilo il pensiero pedagogico religioso di don Bosco, segnato di cautele e di moderato pessimismo, sembra riecheggiare quello ben noto anche in Italia di Charles Gobinet (educatore e scrittore nella Parigi di metà Seicento) e di scrittori ispirati a Port-Royal, come Pierre Cofitel e Charles Rollin. Nell'intento di suscitare avversione al peccato don Bosco passa a descriverne le conseguenze come forme di abbrutimento («iumentis comparatus est»), secondo stereotipi della predicazione popolare: oscuramento dell'intelletto (vale a dire incapacità di cogliere il vero bene), corruzione della mente e del cuore, condizione di ripulsa agli occhi di Dio. Talvolta confidava che ascoltare certe confessioni era per lui come sentire il fetore nauseabondo del peccato.
    In coerenza con questo registro di lettura don Bosco ha viva l'idea di Gesù Cristo come colui dal quale viene la salvezza. Alfonso de Liguori nei suoi scritti riferendosi a Cristo usa alternativamente l'appellativo di Redentore e di Salvatore. Don Bosco, in linea con gli schemi soteríologici che ha più radicati, propende quasi sempre a quest'ultimo, indicando Gesù Cristo con le espressioni: «il nostro Salvatore», «il nostro divin Salvatore».
    Altri temi religiosi gravitano attorno all'idea di Chiesa, intesa come «congregazione» dei fedeli istituita da Cristo stesso. Oggi alla luce della dichiarazione del Vaticano II sulla libertà religiosa e il rispetto fiducioso delle coscienze (7 dicembre 1965) è possibile rendersi conto di quanto siano datate certe tematiche ecclesiologiche dell'Ottocento fatte proprie da don Bosco. Anche in questo settore il motto che riassume la sua idea di Chiesa è un'affermazione di san Cipriano ripetuta da sant'Agostino: fuori della Chiesa non c'è salvezza («salus extra Ecclesiam non est»). In sant'Agostino al termine «chiesa» è affidato un contenuto complesso; indica il mistero di comunione dei giusti entro il corpo mistico di Cristo, entro il quale anche la preghiera del singolo è espressione corale di glorificazione divina; indica d'altra parte la realtà esteriore delle varie comunità dei fedeli sotto la guida del proprio vescovo, il quale a sua volta è unito con gli altri nell'ecumene ortodossa e cattolica. A distanza di secoli, sulla scia delle Controversiae antiprotestantiche di Roberto Bellarmino, sulla definizione mistica della Chiesa è prevalsa nella catechesi cattolica quella di Chiesa come organizzazione visibile dei fedeli che sono battezzati, professano la medesima fede, usufruiscono di tutti e sette i sacramenti istituiti da Cristo e riconoscono il romano pontefice come successore dell'apostolo Pietro nel governo universale della Chiesa stessa. Era una definizione che di fatto offriva lo spunto a letture ambigue per quanto concerneva l'obbedienza ai vescovi, al papa e ai sovrani sia in materia religiosa sia in materia politica.
    D'altra parte l'espressione «extra Ecclesiam nulla salus» dava adito a letture restrittive per quanto concerneva il problema o consolatorio o angosciante della propria salvezza eterna. Nel periodo in cui polemizzava contro i valdesi con libri come Avvisi ai cattolici (1850), Il cattolico istruito nella sua religione (1853), Conversione di una valdese (1854) don Bosco adoperava formule molto rigide: soltanto entro la Chiesa cattolica visibile e solo professando obbedienza al papa si avevano veramente i mezzi di grazia e perciò la certezza morale di essere nella vera Chiesa, cioè nell'«unica arca di salvezza». Solo più tardi, quando venne superato in Italia da parte dei cattolici il timore di una protestantizzazione di massa, don Bosco introdusse nei suoi scritti formule catechistiche più duttili: anche chi era fuori della obbedienza al papa, se era in buona fede aveva gli aiuti divini necessari per salvarsi. Negli anni Settanta e Ottanta tuttavia si alternano insistenze rigide e formulazioni più duttili nei suoi discorsi e negli scritti che pubblica in prima edizione (per esempio: Massimino ossia incontro di un giovanetto con un ministro protestante sul Campidoglio, 1874) o ripubblica in edizioni rivedute e ampliate (per esempio: Il cattolico nel secolo, trattenimenti famigliari di un padre coi suoi figliuoli intorno alla religione, 1883). Ed è da supporre che anche in lui – così come nei protagonisti dell'espansione missionaria in epoca di riforma e controriforma –l'ansia per la salvezza delle anime abbia contribuito a motivare l'impegno nelle opere educative e pastorali più varie in Italia, in Europa e altrove nel mondo. Anche per don Bosco potrebbe essere applicato con le dovute variazioni lo schema interpretativo (ispirato a Michelet) che vede nei moti rivoluzionari animati dalle masse popolari una doppia faccia della medaglia: istanze tradizionali finiscono per sfociare in sbocchi sociali che hanno il timbro della modernità. Così in don Bosco: quadri ideologici e modelli spirituali di antica tradizione sono alla base di iniziative e di nuclei dottrinali che sfociano nella modernità. Tra certe forme del suo pensiero religioso tradizionale e il suo agire è individuabile un certo scarto e una certa aporia: rigidezze dottrinali e pratiche in materia ecclesiologica convivono in lui con un comportamento civile per nulla scostante con cristiani riformati e con anticlericali allorché spera di ricavare un qualche bene in ordine alle sue aspirazioni religiose supreme o
    anche solo in ordine a utilità sperabili in favore degli oratori. «Quando si tratta di salvare un'anima – usava dire – sono pronto a togliermi il cappello anche davanti al diavolo».
    Oltre che l'ecclesiologia, le tematiche della morte, del giudizio divino e dell'inferno connesse alle strategie pastorali in ordine alla confessione sacramentale rivelano in don Bosco una mentalità di transizione e ancora piuttosto legata al passato. Nel corso dell'Ottocento parlare di morte ai giovani, far leva su di essa per indurre a certe scelte aveva ancora una notevole efficacia. Non era infatti cambiato molto il tasso di mortalità giovanile rispetto ai tre secoli precedenti. In un'accolta di cento-duecento giovani era facile prevedere che í morti sarebbero stati in media due, tre o quattro ciascun anno. All'inizio di ogni anno già negli anni Cinquanta don Bosco prese l'abitudine di narrare alla comunità riunita un suo «sogno» predittivo sugli eventi dell'anno intrapreso; tra le predizioni c'era anche quella sui giovani che sarebbero stati carpiti dalla morte; don Bosco lasciava intendere che ne conosceva il volto, il nome, la data del decesso suscitando negli uditori l'impressione che sí trattava veramente di un vaticinio e il sentimento che tutti dovevano tenersi preparati al giudizio e alla sentenza finale.
    La strategia pastorale del timore posta in atto all'Oratorio e negli altri istituti salesiani aveva il suo momento culminante nei giorni (tre all'incirca) dedicati agli esercizi spirituali in preparazione alla confessione sacramentale e alla comunione pasquale. Secondo la prassi assodata da secoli e praticata in esercizi spirituali ignaziani e in sacre missioni popolari, le prediche sulla morte, sul giudizio e l'inferno precedevano il giorno fissato per la confessione auricolare. Scopo dei predicatori era di suscitare in tutti per lo meno il timore di una morte che giungesse a colpire mentre si era in stato di peccato mortale e perciò meritevoli della condanna alle pene eterne. Ma c'era una ciclicità più frequente. Ciascun mese la paura della morte e dell'inferno era tenuta desta nel giorno dedicato al cosiddetto «esercizio mensile della buona morte». I traumi che potevano essere provocati hanno avuto nel primo dopoguerra del Novecento un testimone eccellente nello storico Jean Delumeau (nato nel 1923). Tredicenne, rimasto orfano di padre, fu collocato nel Patronage Saint-Pierre di Nízza e aggregato agli altri giovani proprio nel giorno in cui ci si raccoglieva per fare l'esercizio della buona morte. Delumeau ricorda l'angoscia che gli si scatenò in quell'occasione nell'ascoltare la preghiera litanica della buona morte, con l'enunciazione scandita da un lettore e l'invocazione corale della comunità riunita in chiesa: «Quando i miei piedi immobili mi avvertiranno che la mia carriera in questo mondo è presso a finire, misericordioso Gesù, abbiate pietà di me. Quando le mie mani tremole e intorpidite non potranno più stringervi, Crocifisso mio bene, e mio malgrado lascierovvi cadere sul letto del mio dolore, misericordioso Gesù, abbiate pietà di me. Quando i miei occhi offuscati e stravolti dall'orror della morte imminente fisseranno in Voi gli sguardi languidi e moribondi, misericordioso Gesù, abbiate pietà di me...». Alla preghiera litanica inserita già nella prima edizione del Giovane provveduto (1847) i salesiani avrebbero poi aggiunto una preghiera «per quello di noi che sarà il primo a morire». Erano accenti lugubri e sentimenti di ansia che affondavano le loro radici in ciò che don Bosco stesso, don Cafasso, Leonardo Murialdo, la massa del clero italiano dell'Ottocento attingeva alle Massime eterne alfonsiane, all'Apparecchio alla morte dello stesso sant'Alfonso e in opere dedicate agli esercizi ignaziani (quelle per esempio del gesuita lombardo Carlo Antonio Cattaneo del primo Settecento, ma ancora ristampate a fine Ottocento), in altre attinenti il tema specifico della buona morte (quelle ad esempio, del gesuita piemontese del primo Settecento Antonio Giuseppe Bordoni). Queste tematiche, già per se stesse lontane rispetto a quelle prospettate dalla mentalità del Settecento illuminista e dell'Ottocento borghese, erano contemperate negli oratori di don Bosco con alcuni accorgimenti distensivi: una buona merenda e una ricreazione prolungata in cortile a conclusione dell'esercizio mensile della buona morte; e il sollievo della coscienza tranquilla alla vigilia gioiosa della pasqua. Al confronto di queste strategie pastorali appaiono più moderne altre teologie e altre esperienze; tra queste, anche quella che è attestata nel libretto sulla Preparazione alla morte in un ritiro di otto giorni di Pasquier Quesnel (edito in italiano anche in Piemonte nel secondo Settecento). Quesnel, esponente di primo piano del movimento giansenista tra Seicento e Settecento, ma anche ispirato alla scuola del cardinale Pierre de Bérulle, si fondava sulla ecclesiologia del Corpo mistico e sviluppava in quel libretto motivi di speranza affettuosa nel sentimento di ritrovarsi finalmente dopo morte uniti a Gesù Cristo nella beatitudine eterna.
    Quelli praticati all'Oratorio in occasione dell'esercizio della buona morte non erano a ben vedere soltanto espedienti bene o male accostati a un metodo di vita costrittivo e disumanizzante, perché tale nel complesso non erano né la persona di don Bosco né la vita oratoriana. Soprattutto negli anni del seminario a Chieri e poi dalle dottrine morali e spirituali ispirate agli scritti di Alfonso de Líguori don Bosco aveva potuto assimilare l'antropologia pessimista dell'agostinismo moderno (ispirato a scritti di sant'Agostino contro Pelagio). Tale antropologia era tuttavia temperata da elementi che provenivano dall'umanesimo devoto e che ben rispondevano alle esigenze dell'allegra festività oratoriana. Dall'Introduzione alla vita devota di Francesco di Sales aveva potuto attingere il richiamo a una vita cristiana che non doveva consistere in lunghe preghiere e in penitenze estenuanti, ma nella tensione di amore verso Dio e nel pieno compimento dei propri impegni quotidiani. All'Oratorio aveva fatto propria un'esortazione di Filippo Neri riportata nella Vita scritta dal Bacci e rimbalzata in svariati opuscoli destinati ai giovani: «Saltate, schiamazzate a piacimento, purché non facciate peccati». Nel Giovane provveduto tra le «astuzie del demonio» indica quella dí far immaginare che la vita cristiana sia per se stessa triste e imponga di stare «sempre lontani da' piaceri». Don Bosco forniva una replica tutto sommato astratta e di parte, ma la cui forza persuasiva poteva venire dall'esperienza viva dell'Oratorio: «Noi vediamo che quelli, i quali vivono in grazia d'Iddio sono sempre allegri, ed anche nelle afflizioni hanno il cuor contento. Al contrario coloro che si danno a' piaceri vivono arrabbiati e si sforzano onde trovare la pace ne' loro passatempi, ma sono sempre più infelici: Non est pax impiis». E si richiamava all'esempio di alcuni santi più familiari alla conoscenza dei suoi giovani: «Chi più affabile e più gioviale di S. Luigi Gonzaga? Chi più lepido e più allegro di S. Filippo Neri?».
    Il Giovane provveduto – ricordiamolo – uscì in prima edizione nel 1847. Gli eventi del '48 rivoluzionarono lo statuto civile che reggeva la vita religiosa fino allora fondata sull'accordo fra trono e altare e la posizione marginale dei culti religiosi non cattolici. La concessione dei diritti civili e della libertà di culto a tutti i cittadini posero le premesse perché Torino diventasse il primo laboratorio di un cattolicesimo in regime di libertà di opinioni e di religione. L'impegno religioso promosso da don Bosco doveva confrontarsi anzitutto con l'anticlericalismo popolare provocato dalla linea reazionaria adottata dall'arcivescovo Fransoni o anche scontrarsi nel contempo con il paventato proselitismo dei valdesi dopo le speranze ridestate in essi dalle leggi in loro favore. I fatti del '48 incrinarono in qualche modo tra l'altro l'immagine di Luigi Gonzaga. Il Gesuita moderno di Vincenzo Giobertiaveva diffuso dei coevi membri della Compagnia di Gesù un'immagine pesantemente negativa sotto il profilo religioso e politico; e tra i fatti traumatici del '48 si ebbe l'espulsione dei gesuiti dagli Stati sardi. San Luigi era stato gesuita e nella Compagnia di Gesù aveva vissuto i suoi ultimi anni di vita. Quelli appunto ai quali s'ispirava la pratica delle «Sei domeniche in onore di san Luigi» promossa da don Bosco nei suoi oratori. Il culto a san Luigi e la sua festa nel mese di giugno rimasero tuttavia un punto fermo nella vita oratoriana. Don Bosco avvertiva nondimeno l'esigenza di proporre modelli di vita cristiana e anzi di santità, vale a dire di eroismo cristiano, più vicini ai suoi giovani, più rispondenti alla vita che conducevano, selezionati magari tra i giovani stessi che frequentavano i suoi oratori. Nel 1854 ripubblicò nelle «Letture cattoliche» le Sei domeniche e la novena in onore di san Luigi Gonzaga (già edite in prima edizione nel 1846 e inserite nel Giovane provveduto del 1851) premettendovi anche una vita breve di san Luigi (elaborata con ímprestiti da quella classica del padre Virgilio Cepari e dagli Esercizi per ciascun giorno dell'anno del gesuita Jean Croíset). Lo stesso anno inserì nella collana delle «Letture» una riedizione dei Cenni sulla vita di Luigi Comollo, il suo compagno di seminario, morto chierico e al quale del resto aveva fatto riferimento più volte nel Giovane provveduto. L'anno successivo pubblicò tra le «Letture cattoliche» un opuscolo dal titolo: La forza della buona educazione. Vi narrava una vicenda che poteva essere quella di una famiglia proletaria a Torino negli anni a cavallo del '48: una popolana madre di quattro bambini; suo marito falegname dedito al vino e irreligioso; il loro figlio maggiore, Pietro, avviato a otto anni al lavoro minorile in una fabbrichetta di zolfanelli e poi in una di cotone. Grazie alle cure materne, Pietro fece la prima comunione con fervore, si mantenne buon cristiano nonostante i cattivi esempi dei compagni di lavoro e divenne un frequentante dell'Oratorio di Valdocco. Giovane maturo, venne sorteggiato per il servizio militare, inviato in Sardegna e poi in Crimea nel piccolo esercito che si batté alla Cernaia. Dalla Sardegna e dalla Crimea mandò lettere alla madre che ne attestavano l'integrità morale, l'attaccamento alla famiglia e all'Oratorio. Una vicenda insomma di vita quotidiana che mediava alcuni messaggi cari a don Bosco: la possibilità di coerenza cristiana da parte dei giovani in qualsiasi condizione di vita, incluso il «servizio alla patria» come soldato, dove è «cosa rara trovare chi ritorni dal servizio militare colla santità di vita ed onestà di costumi con cui partì dalla casa paterna».
    Il 9 marzo 1857 morì quindicenne a Mondonio (in provincia di Astí) Domenico Savio, allievo studente a Valdocco dal novembre 1854 fino alla malattia che nei primi mesi del '57 lo costrinse al rientro in famiglia. Avuta notizia del decesso don Bosco sollecitò testimonianze sulla vita del ragazzo. Poté così raccogliere un discreto numero di scritti sulla cui base elaborò la Vita del giovanetto Savio Domenico pubblicata nel 1859. Alla Vita di Domenico fece seguire i profili di altri due allievi dell'Oratorio: il Cenno biografico di Michele Magone (1861) deceduto nel 1859 e la biografia di Francesco Besucco (1864) deceduto nel 1862. Don Bosco aveva di mira due scopi: presentare modelli di giovani e inoltre la bontà dei metodi educativi praticati nei suoi istituti. Soprattutto alla Vita di Domenico Savio si può dire intese affidare í suoi due messaggi. I momenti salienti della Vita erano costituiti dalla narrazione della crisi di fervore e di entusiasmo provati dal ragazzo al sentire una predica (tenuta da don Bosco) sul tema: Dio ci vuole tutti santi; «è facile riuscirvi; è un gran premio preparato in cielo a chi si fa santo». Il ragazzo – narra don Bosco – fu talmente preso dal primo punto del discorso, da appartarsi dal gioco, quasi che la rinunzia all'allegria effervescente fosse un postulato della santità. Insomma in forma narrativa don Bosco riproponeva il tema tradizionale delle false idee di santità radicate nella mentalità popolare; che cioè oltre ai santi patroni protettori e ai santi terapeuti erano da considerare con l'aura di santità coloro che pregavano a lungo o che si maceravano in penitenze, avevano il carisma delle profezie e il dono dei miracoli. Nella metafora della Vita don Bosco esplicitò il modello di santità giovanile che intendeva proporre. Accortosi – narrava –del mutato comportamento del ragazzo, intervenne per chiarirgli che null'altro doveva fare che il proprio dovere quotidiano. Domenico si reinserì nel gioco, al punto da dire a un compagno da poco entrato all'Oratorio: «Qui facciamo consistere la santità nello star molto allegri». Don Bosco completava il suo modello descrivendo del ragazzo la pratica della confessione e comunione, la fondazione di un'associazione (la Compagnia dell'Immacolata), il fervore nella preghiera (fino a rimanere assorto in chiesa vicino al tabernacolo, ignaro che gli altri ragazzi erano già a mensa). Edizioni successive della Vita aggiunsero alcune grazie straordinarie (in prevalenza, guarigioni da malattie) attribuite all'intercessione del giovane Savio. Il confronto della Vita con la documentazione che don Bosco aveva raccolto e che conservò mostra la selezione che ne fece nell'intento dí mettere ín evidenza del ragazzo un certo tipo di operato che più gli interessava; lasciando nell'ombra forme di religiosità che non erano meramente incentrate sui sacramenti, sul culto mariano e sui doveri di studente. Tra le testimonianze scartate ci fu quella di un coetaneo (Giusto 011agnier) il quale dichiarava di avere recitato più volte insieme a Domenico una preghiera a sant'Aventino per essere liberati entrambi dal mal di testa. Il modello era così compiuto; virtualmente predisposto per un'eventuale causa di beatificazione. Come tale sarebbe stato accolto negli ambienti ecclesiastici – non solo italiani – nel corso dell'Ottocento e del primo Novecento. Rispetto a san Luigi Gonzaga il Domenico Savio di don Bosco offriva le caratteristiche di un ragazzo di ambiente studentesco, proprio mentre in Italia e altrove aumentava la domanda d'istruzione umanistica e il movimento cattolico in clima liberale sosteneva l'organizzazione di scuole di netta impronta confessionale. Non è inopportuno aggiungere che in definitiva per don Bosco la «vera allegria» (cioè l'allegria nella sua pienezza) era da intendere come l'espressione naturale dello stato di grazia e della coscienza tranquilla. Altrettanto è da dire dell'amorevolezza che dichiaratamente don Bosco nell'opuscolo sul Sistema preventivo caratterizza nella sua compiutezza come espressione di carità secondo il detto paolino: «Caritas patiens est, benigna est...» (1 Cor 13,4). Si tratta di schemi mentali che modulano l'intero agire di don Bosco e che perciò sono da tenere presenti per la loro concreta rilevanza storica.
    Un'attenzione particolare merita il ruolo di Maria SS. nell'immaginario religioso e nella spiritualità di don Bosco. E ciò, anche per la ragione che il culto a Maria a partire dagli anni della rivoluzione francese venne a intrecciarsi con la politicizzazione di cui furono oggetto alcune devozioni cristologiche come quella al Cuore di Gesù in connessione con il senso di attaccamento assoluto alla Chiesa e di fedeltà devota al papa suo capo visibile. Come nella «devozione» al papa, così nel culto devoto a Maria SS. si può già dire che don Bosco, di fronte alle allusività politiche, di fronte alle contaminazioni del mero discorso religioso dovette affrontare il disagio di chi trovava difficile discernere tra la portata politica di certi eventi e la lettura religiosa che egli intendeva darvi in modo netto.
    Già nel triennio democratico a fine '700 il senso di difesa della Chiesa proprio nell'area di Castelnuovo d'Asti era giunto a coniugarsi con i sentimenti controrivoluzionari della popolazione rurale. Negli anni della fanciullezza di don Bosco non era estinta la memoria delle «armate cristiane» fedeli alla Chiesa e alla casa regnante, perciò antifrancesi e antigiacobine. Il linguaggio controrivoluzionario inseriva nel proprio discorso gli elementi più vari della religiosità tradizionale. Il senso del peccato portava a includere tra le offese di Dio e a enfatizzare in chiave religiosa e politica la ghigliottina, il regicidio, i massacri dei mesi del Terrore, la profanazione di edifici sacri, le violenze e gli atti sacrileghi compiuti dalle soldatesche dell'armata francese in Italia. Si pensava a fatti di questo tipo quando si chiedeva perdono al Cuore di Gesù offeso dai peccati degli uomini o quando s'implorava l'aiuto potente di Maria SS. La rappresentazione della Chiesa come la barca con Cristo dormiente sulla chiglia e con san Pietro al timone alimentava la fiducia in una speciale protezione celeste sul papa e su tutta la comunità cristiana. L'espressione «le forze dell'inferno non prevarranno» portava a immaginare le imprese rivoluzionarie come un'aggressione delle forze infernali permessa da Dio, cui sarebbero seguiti imprevedibili ma sicuri «trionfi». La cerchia dei cattolici che avevano aderito agli esperimenti democratici e poi alle istituzioni napoleoniche nutriva il convincimento che la religiosità e la Chiesa nulla avevano a temere; il culto a Cristo e a Maria rimanevano intatti entro il regime di libertà di culto; nell'immaginario della religiosità controrivoluzionaria si era piuttosto inclini a ritenere che si era in tempi nei quali la potenza divina si sarebbe rivelata mediante interventi soprannaturali di Maria SS.
    La religiosità mariana di don Bosco germina in questo clima. Eppure, stando ai ricordi da lui lasciati, appare tutta imperniata attorno a quanto c'era di più tradizionale e di meno legato ai grandi eventi politici: la recita dell'Angelus e del rosario a Morialdo; il sogno della Signora che gli insegna come comportarsi con i coetanei rissosi e che gli annunzia: «A suo tempo tutto comprenderai»; le devozioni mariane in santuari locali, come quella della Madonna del Castello a Castelnuovo o delle Grazie a Chieri; la devozione all'Addolorata a Castelnuovo e poi alla Concezione Immacolata che, come abbiamo notato, diviene fondamentale e caratteristica nell'Oratorio di Valdocco fin dai primordi. La devozione a Maria è anche per don Bosco garanzia di benedizioni terrene e di salvezza eterna. Nel Giovane provveduto assicura: «Se sarete suoi devoti, oltre a colmarvi di benedizioni in questo mondo, avrete il paradiso nell'altra vita», perché, come recita la liturgia, vale per Maria SS. il detto biblico: «Qui elucidant me vitam aeternam habebunt». Don Bosco insomma ama coniugare il discorso mariano con il tema della salvezza, così come sant'Alfonso de Liguori e la tradizione popolare avvalorata dalla religiosità tridentina antiprotestantica.
    Ma dopo il '48 e soprattutto tra il '54 e il '55, nella temperie del dogma dell'Immacolata concezione e del dibattito di leggi soppressive di enti ecclesiastici, lievita proprio a Torino la politicizzazione del culto a Maria Immacolata. L'immagine che la rappresentava vestita di bianco con il piede sulla testa del serpente diabolico, era utilizzata dal partito clericale come simbolo di quel che sarebbe avvenuto: chi insidiava la Chiesa simboleggiata da Maria presto o tardi sarebbe finito sconfitto da eventi imprevisti che erano in realtà il frutto di interventi soprannaturali. Tra 1'8 dicembre 1854 e il maggio 1855 i festeggiamenti religiosi per la proclamazione del dogma si mescolavano a Torino con l'emozione che suscitavano le notizie sul dibattito delle leggi soppressive proposte dal Rattazzi. Nel santuario di Maria SS. Consolata, cuore della religiosità collettiva torinese, il 25 marzo, festa dell'Annunziazione, tra la folla che gremiva le navate stava anche la principessa Clotilde, primogenita di Vittorio Emanuele II. Dal pulpito il predicatore del giorno, l'oblato di Maria Vergine Vincenzo Gregorio Berchialla, rivolgendosi agli uditori e commentando in senso mariologico il testo della Genesi «inimicitias ponam inter te et Mulierem», ebbe modo di perorare contro i coevi «nemici» della Chiesa e del papato in termini allusivi che portavano a evocare i frangenti politici e certe pagine di giornali: «Voi intendeste d'onorar la Immacolata e Maria e di smentir solennemente le calunniose voci di quelli che combattono la santa vostra religione, e dicono esser ormai disperata la causa del cattolicísmo e della Sedia di Pietro». All'Oratorio di Valdocco sono quelli gli anni di Domenico Savio. Stando alla documentazione che si conosce, don Bosco dopo la definizione dogmatica tende a fare assumere alla devozione verso l'Immacolata un significato più intimo, meno percosso dai sussulti politici e sociali. A tu per tu con i giovani, sottolinea piuttosto il simbolo dell'immacolatezza in ordine a un affinamento della coscienza religiosa e morale.
    Una prova della cura di don Bosco a sterilizzare le connotazioni politiche di fatti religiosi è individuabile nella vicenda del titolo Auxilium christianorum da lui scelto nel 1863 per l'erigenda grande chiesa a Valdocco a uso dei giovani e del quartiere. Il titolo era già conosciuto a Torino, dove esisteva alquanto esangue una confraternita di Maria SS. Ausiliatrice eretta presso la chiesa di San Francesco da Paola già a metà Seicento. Ma a rilanciarlo dopo le prime annessioni e la proclamazione del Regno d'Italia fu l'eco di una recente apparizione mariana e dei fatti taumaturgici che ne erano seguiti. Il 19 marzo 1862 aveva ricuperato improvvisamente la salute un giovane che si era rivolto a un'immagine della Madonna in una chiesetta semidiroccata alla Fratta di Castelrinaldi presso Spoleto. Si sparse anche la voce che un bambino in quel medesimo luogo aveva avuto alcune apparizioni della Vergine. La chiesetta divenne presto un luogo di attrazione di fedeli che pregavano e chiedevano grazie. L'arcivescovo di Spoleto, mons. Giovanni Battista Arnaldi, intervenuto sul posto ed emozionato dal concorso di folla, volle dare all'evento un titolo e un significato. Era il segno – proclamava – che Maria SS. sarebbe intervenuta in soccorso del papa, proprio mentre incombevano gli ultimi assalti al dominio temporale pontificio; il titolo più conveniente da dare all'effigie mariana era quello di Auxilium christianorum, la cui festa (24 maggio) era stata estesa a tutta la Chiesa da Pio VII, reduce dalla prigionia e dalle malversazioni sofferte in Francia. Nelle sue relazioni e sui libretti che le divulgavano le simbologie mariane ed ecclesiologiche venivano intrecciate a quelle papali con allusioni ambivalenti religiose e politiche. La Vergine a Spoleto – scriveva testualmente mons. Arnaldi –pareva dicesse: «Io, chiamata in aiuto, schiacciai la testa a tutte le antiche eresie, Io la schiaccerò ancora a questa» (vale a dire all'eresia moderna che con i suoi tentacoli insidiava i diritti e i poteri spirituali e temporali del papato). «La Madonna – aggiungeva –, della quale questo santo pontefice proclamò l'immacolato concepimento, vuole ad ogni costo salvarlo e condurlo al più splendido trionfo». Nel settembre 1862 mons. Arnaldi lanciò l'idea di un grande tempio da erigere in luogo della chiesetta diroccata. A Torino i giornali cattolici si fecero portavoce delle relazioni inviate dall'arcivescovo e del progetto di chiesa. Dal 1863 al 1867 «L'Armonia» prima, «L'Unità cattolica» dopo pubblicarono lunghi elenchi con i nomi degli oblatori di offerte da ogni parte d'Italia e le motivazioni di grazie ricevute per intercessione della Madonna di Spoleto. Mons. Arnaldi fu rinchiuso per qualche tempo entro la rocca di Spoleto sotto l'accusa di vilipendio allo Stato; come l'arcivescovo di Torino, Fransoni, come altri vescovi che in quei medesimi anni erano stati allontanati dalle loro sedi perché avevano protestato contro le annessioni, Arnaldi veniva ormai onorato dal partito clericale con l'aureola del martirio. In questi frangenti don Bosco inoltrò all'amministrazione cittadina torinese la proposta del titolo Auxilium christianorum per la chiesa
    erigenda. Nonostante prevedibili riserve, ottenne l'assenso, anche perché tra la classe amministrativa, così come ín Corte, prevaleva il moderatismo e la ricerca di quanto poteva servire a sanare fratture tra la popolazione. Alla posa della prima pietra (27 aprile 1865) intervennero: un figlio del re, Amedeo duca d'Aosta, il sindaco marchese Emanuele Luserna di Rorà e il prefetto Costantino Radicati Talice. La banda dell'Oratorio accolse l'arrivo di Amedeo di Savoia con il suono della marcia reale. Come abbiamo ricordato, Amedeo, Eugenio di Carignano, Tommaso duca di Genova, Maria Elisabetta di Sassonia e la principessa Margherita di Savoia accettarono anche di far parte della commissione della lotteria organizzata nel 1864 e conclusa nel 1867. Intanto, nella mobilitazione della beneficenza e dell'opinione pubblica si fu ben attenti a stemperare ogni allusione politica anche allorché erano riferiti i nessi del nuovo santuario torinese con la mariofania di Spoleto. Vari libretti di don Bosco e di altri, come Maria Ausiliatrice col racconto di alcune grazie, La Nuvoletta del Carmelo, L'arca dell'alleanza, La città di refugio, La madre delle grazie..., resoconti di favori e di grazie editi sul «Bollettino salesiano» documentano come per la coscienza religiosa comune il titolo Ausiliatrice era un po' come equivalente a Consolatrice, Madonna delle Grazie o del Soccorso; era un titolo o un'invocazione che nei tempi recenti – come scriveva don Bosco – aveva rivelato la sua particolare efficacia. Don Bosco stesso non usa fare distinzioni. Esorta a chiedere all'Ausiliatrice qualsiasi grazia per l'anima in ordine a fini intrinsecamente religiosi e per il corpo, per sé o per altri, per le necessità dei popoli e per quelle della cristianità e del papa. La raccolta e l'attestazione di grazie ricevute per intercessione dell'Auxilium christianorum onorata a Torino esprimeva insomma prevalentemente i temi più radicati della devozione tradizionale urbana e rurale: guarigioni da malattie, scampati pericoli, grandine scongiurata, buoni raccolti. Nel 1869 don Bosco fondò l'«Associazione dei devoti di Maria Ausiliatrice» rimarcando il senso devoto tradizionale della devozione. Un trapasso a forme associative più in sintonia con la mentalità moderna l'avrebbe compiuto pochi anni più tardi lanciando l'unione dei cooperatori salesiani, resa possibile dal clima liberatorio formatosi dopo la fine del potere temporale dei papi. Intanto il titolo di Maria Ausiliatrice si radicava e si affermava condizionando tutta la pietà e il linguaggio di don Bosco, gravitando attorno al santuario di Torino e all'immagine viva data dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, le suore che allargavano al campo femminile l'esperienza dell'approccio educativo e religioso tipicamente donboschiano.
    Però quando agisce in forza delle radici più profonde della propria devozione mariana, don Bosco dimentica quasi il titolo di cui si era fatto promotore. Nel 1867, ad esempio, si trovò in angustie perché qualcuno aveva denunziato a Roma la sua operetta dal titolo Centenario di S. Pietro apostolo e fu assalito dal timore di una eventuale condanna all'Indice. In un momento di prostrazione, forse a tarda notte, con mano pesante tracciò due semplicissime parole in calce al memoriale dí difesa elaborato dall'allora amico mons. Lorenzo Gastaldi: «Maria aiutatemi». Non «Maria Immacolata», non «Maria Ausiliatrice», ma semplicemente: «Maria aiutatemi». Poi riprendendosi e ricordandosi del titolo preferito, con mano più leggera e più attenta premise: «Ausiliatrice». Così oggi leggiamo sotto la scrittura nitida e ordinata del Gastaldi questo trittico angoloso e goffo, che non è un capolavoro di calligrafia, ma di intensa religiosità: «Ausiliatrice Maria aiutatemi». E sul letto di morte non è l'appello all'Immacolata o all'Ausiliatrice che gli viene sulle labbra, ma quella di Madre, ripetuto più volte: «Madre, Madre... Maria Santissima, Maria, Maria...».

    (Fonte: DON BOSCO, il Mulino 2001, cap. V, pp. 71-90)


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