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    Don Bosco

    nel contesto spirituale

    del suo tempo

    Aldo Giraudo


    D
    ue principali fattori storici [1] influiscono in modo rilevante sulla spiritualità dell’Ottocento [2]. Da una parte la sensibilità romantica che pervade il clima culturale generale e si riverbera sugli indirizzi della pietà; dall’altra gli eventi di carattere socio-politico che preparano e costellano tutto il secolo XIX: rivoluzione francese, periodo napoleonico, moti liberali, guerre risorgimentali, governi anticlericali, leggi lesive dei diritti della Chiesa, soppressione delle congregazioni religiose e incameramento dei loro beni, crollo del potere temporale dei papi, sistematiche campagne di stampa denigratorie e progressiva emarginazione dei cattolici nella sfera politica e culturale.

    Queste circostanze di carattere generale hanno indubbi riflessi sulla spiritualità ottocentesca. Di conseguenza incidono sul vissuto interiore di don Bosco e motivano in parte alcune sue scelte e accentuazioni. Ma non sono sufficienti da sole a spiegare compiutamente i tratti qualificanti della sua personalità e del suo carisma, che ne fanno una delle figure più significative nel panorama della santità e della spiritualità dell’Ottocento. Per questo vanno presi in considerazione anche altri aspetti, di minore risonanza storica, ma parimenti importanti: gli ambienti in cui è stato formato, il substrato culturale e religioso popolare da cui proviene, la mentalità e gli aneliti dei ceti giovanili tra i quali svolge il suo ministero, ma soprattutto alcuni tratti inconfondibili della sua umanità e alcune vicende personali.

    Il clima spirituale del primo Ottocento

    Fiducioso nei lumi della ragione e nello sviluppo progressivo delle scienze, proteso all’esaltazione dei diritti e dei doveri del cittadino, diffidente nei riguardi della tradizione spirituale e mistica del secolo precedente, il Settecento accentua il soggettivismo fenomenologico, riduce la religione a ritualità simbolica e la spiritualità cristiana a tensione morale, sforzo virtuoso, a normatività razionale di condotta pratica. All’inizio del secolo XIX, riflettendo sugli esiti drammatici della rivoluzione e sui suoi riverberi a livello europeo, si reagisce. Il fermento rivoluzionario viene interpretato come risultato della generale corruzione del cuore, dell’oscuramento della ragione e dell’indebolimento della volontà; gli eccessi giacobini sono frutto perverso dell’orgoglio dell’uomo che si è svincolato dalla fede. Si sente quindi il bisogno di riaffermare quanto era stato offuscato o negato. Viene dichiarato il valore insostituibile, anche dal punto di vista civile e politico, della religione come fondamento del vivere civile e cemento della società. Poiché la sua eliminazione, sostiene Louis de Bonald (1754-1840), ha portato alla distruzione della società, la ricostruzione morale e spirituale dell’Europa deve partire dal recupero dei valori trascendenti ed etici del cattolicesimo, da un amore forte e ardente per la religione e la virtù. Attraverso un’attenta rilettura dei secoli precedenti François-René de Chateaubriand (1768-1848) giunge a identificare la storia della civiltà con la storia della religione e presentare le conquiste migliori dell’intelletto, dell’arte e del progresso come frutto del “genio del cristianesimo” (1802).
    Nella coscienza religiosa si percepisce la rivoluzione come incarnazione delle potenze infernali dissolutrici che assaltano la Chiesa a detrimento delle anime; le ricorrenti carestie, le epidemie, le crisi economiche e le guerre sono flagelli di Dio che punisce, chiama i popoli a conversione, sollecita il ritorno a una pratica religiosa sincera, fondata sull’interiorità e la sottomissione riverente al divino.
    Questa sensibilità suscita, già in periodo napoleonico, una prima ripresa cattolica con iniziative di formazione spirituale limitate a piccoli gruppi, come le Amicizie, che dal Piemonte si propagano in Savoia, Lombardia, Toscana, Roma e Austria, e come le associazioni giovanili promosse a Brescia dall’ex gesuita Luigi Mozzi dei Capitani (1746-1813), che incidono sulla vocazione educativa di Ludovico Pavoni (1784-1849) e dei nobili fratelli veneziani Antonio Angelo (1774-1853) e Marco Antonio Cavanis (1772-1858). Le Amicizie producono sacerdoti zelanti come Pio Brunone Lanteri (1759-1830), fondatore degli Oblati di Maria Vergine, e il teologo Luigi Guala (1775-1848) iniziatore del Convitto ecclesiastico, vivaio di pastori santi e ardenti, ambiente decisivo per gli indirizzi spirituali e le scelte del giovane don Bosco. Su di lui avranno influsso anche l’opera e gli scritti di Ludovico Pavoni e dei Cavanis. Questa ripresa spirituale tra i soggetti migliori del clero, genera, in Piemonte come altrove, un rilancio della cura pastorale per l’elevazione morale e spirituale del popolo.
    Agli albori dell’Ottocento vedono la luce operette spirituali in cui si coglie un più profondo afflato religioso. Esemplare è La via della santità mostrata da Gesù nella devozione al suo SS. Cuore (1795) di Agostino Albergotti (1755-1825) – ispirata all’Imitazione di Cristo e alla spiritualità di san Francesco di Sales – scritta in forma di affettuoso colloquio tra Gesù e il lettore, dove si afferma che la santità è una strada aperta a tutti i fedeli e consiste essenzialmente nell’“assomigliarsi a Gesù”, alle sue virtù, e nella docilità alle mozioni dello Spirito Santo, alle “vampe dolcissime del suo divin fuoco”, che muovono “con dolce violenza ad amare ed a volere amar sempre più il sommo Bene”[3]. La modalità del colloquio intimo si ritrova anche in altre operette spirituali del periodo, come Gesù al cuor del sacerdote di Bartolomeo del Monte (1726-1778) – più volte ristampato nel XIX secolo –, Gesù al cuor del giovane di Giuseppe Zama-Mellini (1788-1838) – consigliato da don Bosco stesso nel Giovane provveduto, – e Maria al cuore della giovane (1843) del lazzarista Pietro Biacheri. Sono frutto di questo risveglio anche le opere del gesuita ferrarese Alfonso Muzzarelli (1749-1813), acuto polemista, confutatore delle idee pedagogiche di Rousseau, autore di opuscoli mirati a suscitare fervore spirituale, tra i quali il Mese di Maria ossia di maggio (Ferrara 1795), che avrà immensa fortuna nel corso del secolo XIX, e l’Istruzione pratica sulla devozione al cuore di Gesù. Moltissime riedizioni lungo tutto il secolo ebbero i Documenti per istruzione e tranquillità delle anime (Torino 1785) del barnabita Carlo Giuseppe Quadrupani (1758-1807). Queste, come molte altre piccole opere di autori spirituali che reagiscono contro i “mali” e l’aridità del secolo dei lumi, portano al livello dei comuni fedeli elementi essenziali dell’ascetica, le devozioni al Cuore di Gesù, al santissimo Sacramento e a Maria santissima, attraverso meditazioni in stile semplice, stimolanti al fervore. Si inaugura così un genere letterario specifico, amalgama di istruzione religiosa, di considerazione meditativa, di affetti devoti e di proponimenti, che prenderà sempre più ampio sviluppo fino ai primi decenni del XX secolo, nel contesto della sete di cultura e di interiorità che gradatamente si afferma tra il popolo. Don Bosco, nutrito di tali “letture spirituali”, ne farà uno strumento efficacissimo della sua azione formativa, riformulandole e adattandole alle esigenze e ai gusti dei suoi giovani.
    Nella Restaurazione il ritorno trionfante di Pio VII a Roma, dopo il crollo dell’impero napoleonico, diventa simbolo del trionfo della Chiesa sulle potenze del male, grazie all’intervento straordinario di Dio. È tempo di ripresa religiosa, di sforzo per una ri-cristianizzazione della società attraverso l’azione pastorale tra il popolo. L’invito alla conversione e alla riforma dei costumi avviene soprattutto mediante la predicazione di sacre missioni, che culminano nella confessione generale e nella comunione eucaristica di intere comunità. I missionari insistono sulla contrizione del cuore, sull’esercizio giornaliero dell’orazione, sulla frequenza regolare ai sacramenti, sulla santificazione delle feste; accentuano il valore delle virtù quotidiane, dell’adempimento dei propri doveri, della temperanza e della moralità. Un sentimento religioso di pentimento e di espiazione spinge alla preghiera, alle pratiche devote. Attraggono i misteri della vita di Cristo, il culto della passione, la pratica della Via crucis e la recita comunitaria del Rosario. Nelle parrocchie viene dato maggior rilievo alla preparazione e alla celebrazione della prima comunione; si solennizza l’adempimento del precetto pasquale, con la presenza di confessori straordinari e la distribuzione di biglietti pasquali, si celebrano grandiose Quarantore.
    La pastorale parrocchiale acquista più forza, grazie alla distribuzione sul territorio di un clero meglio formato e motivato. Viene rilanciata la catechesi ai fanciulli, l’istruzione religiosa domenicale agli adulti. Si portano a nuova vita confraternite e pie unioni maschili e femminili, animate dai parroci. Si potenziano i riti tradizionali: le rogazioni, le processioni, il culto dei defunti; si introducono nuove pratiche devote, novene e tridui, mesi di Maria, coroncine. Anche nei villaggi più remoti, attraverso predicazione e ministero del confessionale, il clero promuove la vita spirituale del popolo umile; lo forma ad una pietà più sostanziosa, animata dalla carità, ispirata alla confidenza in Dio; lo sprona all’esercizio pratico delle virtù e ad una fede operativa; sensibilizza i genitori alla formazione cristiana dei figli.
    In questo clima si compie l’iniziazione cristiana di Giovanni Bosco fanciullo, sapientemente curata dalla madre, che lo avvia alla recita delle preghiere del mattino e della sera, lo prepara alla prima confessione, dà ampio rilievo alla prima comunione, creando le condizioni per far comprendere al ragazzo la portata spirituale dell’evento (MO 68-69). La sua alfabetizzazione avviene ad opera di un sacerdote maestro a Capriglio, che gli usa “molti riguardi” e si occupa “assai volentieri” della sua istruzione e cristiana educazione (MO 61). Su Giovanni Bosco ragazzo incidono anche i temi uditi nella predicazione e nelle missioni popolari: una rievocazione dei no­vissimi orientata a suscitare il senso di colpa, il proposito di conversione per non farsi cogliere in pecca­to dalla morte e la decisione di consegnarsi irrevocabilmente a Dio. Era una spiritualità sensibile al “grande affare” della sal­vezza dell'anima che, facendo leva sull’amore di Dio per l’uomo, sulla passione redentrice del divin Salvatore, ma anche sull’inesorabilità del suo giudizio, sulla coscienza della debolezza umana e della potenza della tentazione, alimentava la preghiera di supplica, insisteva sulla frequenza sacramentale, ispirava esami di coscienza e proponimenti, spingeva alla penitenza e alla mortificazione. È appunto nel contesto di una missione popolare, in cui si proclama la “necessità di darsi a Dio per tempo e non differire la conversione”, che avviene l’incontro con don Giovanni Calosso, il suo primo efficacissimo direttore spirituale, al quale l’adolescente si affida con fiducia: “Conobbi allora che voglia dire avere una guida stabile, di un fedele amico dell’anima, di cui fino a quel tempo ero stato privo. Fra le altre cose mi proibì tosto una penitenza, che io ero solito di fare, non adattata alla mia età e condizione. Mi incoraggiò a frequentar la confessione e la comunione, e mi ammaestrò intorno al modo di fare ogni giorno una breve meditazione o meglio un po’ di lettura spirituale […]. Da quell’epoca ho cominciato a gustare che cosa sia vita spirituale” (MO 71).

    Modulazioni romantiche nella formazione di Giovanni Bosco

    L’apologetica settecentesca aveva reagito contro la rappresentazione della pratica religiosa come triste, noiosa, contraria allo spirito di libertà. All’inizio dell’Ottocento la rivalutazione delle “bellezze del cristianesimo” porta ad una visione gaudiosa della vita di grazia. Nello stesso tempo, sull’onda della beatificazione (1816) e della canonizzazione (1836) di Alfonso de’ Liguori, prende più vigore il benignismo etico contro le posizioni rigoriste, e si recuperano le operette spirituali del santo, cariche di affettività, rispondenti alle leve emotive dell’età romantica. Esse aiutano a proclamare oltre alle bellezze anche le “dolcezze” della fede, a far amare e desiderare la “perfezione cristiana”, l’intimità divina, e a protendersi verso i gaudi eterni del paradiso. È un periodo in cui il sentimento religioso sente profonda sintonia coi santi che raffigurano la dolcezza di Cristo: Francesco d’Assisi, Filippo Neri, Francesco di Sales, Vincenzo de’ Paoli. La loro vita e i loro scritti vengono interpretati in prospettiva romantica. La stessa attenzione al sentimento e al cuore favorisce uno psicologismo devoto, un ripiegamento sulla propria interiorità, un costante monitoraggio della propria coscienza. Per evitare il pericolo del sentimentalismo si ribadisce l’avviso di sant’Alfonso sulla necessità di “passare alla pratica”, di tradurre il fervore in distacco effettivo del cuore dal peccato, in mortificazione dei sensi, in impegno di vita, in atti virtuosi, in opere di carità. Alcune operette del Santo, le Massime eterne, la Pratica di amar Gesù Cristo, l’Apparecchio alla morte, sono tra le pubblicazioni devote più diffuse nel secolo XIX e più amate, in tutti gli strati della popolazione.
    Gli scritti alfonsiani e la pietà affettiva che essi veicolano mantengono un fondo di austerità, che l’animo romantico riesce a temperare col recupero dell’umanesimo devoto di san Francesco di Sales. Questi esercita un fascino potentissimo nell’Ottocento, tra gli ecclesiastici e i laici. Lungo il secolo, oltre alle molteplici riedizioni delle sue opere complete, hanno enorme fortuna le versioni tascabili dell’Introduzione alla vita devota, diffuse anche tra il popolo semplice, insieme a varie raccolte di sue massime. Si ristampa anche lo Spirito di S. Francesco di Sales, di mons. Pierre Camus, nell’edizione riassunta da Pierre Collot, dalla quale emerge un ritratto amorevolissimo e dolcissimo del santo savoiardo, insieme al suo incontenibile zelo pastorale che gli faceva esclamare “Da mihi animas, caetera tolle”. Lo spirito di san Francesco di Sales pervade la vita e la letteratura spirituale dell’Ottocento e influenza grandemente gli indirizzi della pietà romantica, al pari della sua figura che diventa simbolo di ardore apostolico e di metodo pastorale per gli ecclesiastici dei nuovi tempi.
    Entrato nel seminario di Chieri, il chierico Bosco trova un ambiente esigente, tutto incentrato sull’impegno etico, sulla fedeltà scrupolosa alla regola e l’esatto adempimento del dovere, sulle quotidiane pratiche di pietà, sull’umile sottomissione. Quando domanda al professore di filosofia “qualche norma di vita”, si sente rispondere: “Una cosa sola, l’esatto adempimento de’ vostri doveri” (MO 104). Quello del seminario è uno stile di vita austero, caratterizzato da forte tensione spirituale, guidato da formatori scelti, con i quali Giovanni rimarrà sempre in buoni rapporti, nonostante le riserve sulla loro distanza dai chierici. L’ideale sacerdotale è alimentato da abbondanti letture, comunitarie e personali, da libri di meditazione sul buon prete, manualetti di pietà che nutrono gli affetti durante le visite in cappella. Il chierico Bosco preferisce opere agiografiche, bibliche e storiche [4]. I formatori insistono sul rispetto delle regole, sulla necessità di essere «docili ed ubbidienti alla disciplina» non per timore o formalità, ma per «spirito interno», «con la retta intenzione di piacere solo a Dio» [5]. Nei discorsetti ai seminaristi di mons. Chiaveroti, letti pubblicamente in refettorio, Giovanni può notare anche una forte insistenza sulla destinazione pastorale degli studi: Dio chiama un giovane allo stato ecclesiastico principalmente per un servizio di “santificazione del prossimo [...]; onde non soddisfarebbe abbastanza al suo dovere chi si contentasse di at­tendere a santificare se stesso, e punto non si curasse della sa­lute altrui”[6]. Lo zelo apostolico deve caratterizzare fin dai primi passi l'itinerario spiri­tuale dei seminaristi, motivare ogni loro azione este­riore e interiore, poiché essi sono chiamati a diventare pastori consacrati esclusivamente al proprio ministero e al popolo, idonei ad esercitare la cura d’anime, che è “arte delle arti e tra tutte la più difficile”[7]. Un buon pastore dev’essere infuocato dal desiderio di salvare i fratelli: “Che altro è infatti il pastore d’anime se non una vittima di quella carità che si deve esercitare verso Dio e verso il prossimo?”[8]. Il prete ideale presentato da mons. Chiaveroti è caratterizzato dall’olocausto pastorale: non ha sonni quieti, non ha giorni tranquilli, non ha un'ora intera per sé, tutto proteso nel suo ministero. “Vi supplico, fratelli: non avete ancora resistito fino al sangue, né avete dato la vostra vita per le pecore, come deve fare un buon pastore”[9].
    Modulazioni romantiche si colgono chiaramente nella Vita di Luigi Comollo (1844), ripubblicata con significative integrazioni nel 1854 [10]. È un documento prezioso per comprendere l’evoluzione nella sensibilità spirituale tra la prima e la seconda parte dell’Ottocento: tra il clima intensamente emotivo e fervoroso, intimistico, in cui era immerso il giovane Bosco negli anni del seminario e l’orientamento operativo, apostolico, caritativo e sociale che la spiritualità romantica prese dopo il 1848, sotto la pressione degli eventi.

    La proposta spirituale del Convitto

    Dopo l’ordinazione sacerdotale, nel Convitto ecclesiastico don Bosco trova un ambiente altrettanto impegnato, ma più aperto e sensibile alle istanze spirituali e pastorali del momento. Qui, oltre allo studio, al raccoglimento e alla preghiera, egli s’imbatte nell’esemplarità morale e spirituale dei formatori, nel loro straordinario zelo pastorale. Il rettore Luigi Guala, il ripetitore Felice Golzio, ma soprattutto il direttore spirituale Giuseppe Cafasso, come altri zelanti apostoli dell’Ottocento, sono protesi ad armonizzare intimamente “il momento contemplativo con la commozione affettiva verso il Signore, traducendo la dolcezza degli affetti in azione religiosa” e pastorale; “la [loro] elevazione a Dio in fede-carità si riversa in attività apostolica di compassione e redenzione”[11]. Scrive don Bosco dei suoi formatori: “Le carceri, gli ospedali, i pulpiti, gli istituti di beneficenza, gli ammalati a domicilio; le città, i paesi e possiamo dire i palazzi dei grandi ed i tuguri dei poveri provarono i salutari effetti dello zelo di questi tre luminari del clero torinese. Questi erano i tre modelli che la divina Provvidenza mi porgeva, e dipendeva solamente da me seguirne le tracce, la dottrina, le virtù” (MO 126). È un’esperienza determinante per la sua futura missione, che lo avvia a quell’ascesi apostolica che sarà alla base della spiritualità delle sue congregazioni.
    “La spiritualità del Convitto è fondata sulla dottrina di san Francesco di Sales e di sant’Alfonso de’ Liguori. Esso non forma alla santità per la santità come in una comunità monacale; non educa a un’esperienza mistica; non invita ad abbandonare tutti e tutto per percepirsi solo di Dio e in Dio. Si limita a rendere coscienti i giovani sacerdoti di vivere in un mondo spiritualmente sconvolto; fa costatare che dal lato cristiano c’è tutto da fare; qualifica i membri sacerdoti per un’azione incessante in favore delle anime da salvare, offrendo alle medesime un conforto d’accoglienza apostolica caritativa. Il Convitto cerca di convincere i sacerdoti che quanto essi devono proporre e richiedere ai fedeli (dottrina ortodossa, spirito di preghiera e di mortificazione, osservanza sia etica che canonica) necessariamente richiede di essere da essi esistenzialmente testimoniato. Il Convitto non inculca né ai preti né ai laici una dottrina spirituale nuova, sebbene un volontarismo ascetico virtuoso entro una pratica fedele di pietà”[12].
    L’insegnamento del Convitto, ispirato a sant’Alfonso de’ Liguori, apre don Bosco ad una visione unitaria: teologia morale, sacra Scrittura, liturgia, teologia ascetica e mistica sono innanzitutto nutrimento di vita interiore e quindi elementi funzionali al suo ministero, nel contesto storico di una società in piena trasformazione.
    Il modello di prete raffigurato nell’insegnamento e nella pratica del Convitto armonizza la visione salesiana con l’azione apostolica spirituale gesuitica. Secondo Francesco di Sales la devozione consiste essenzialmente nell’amar Dio e genera un impegno ascetico progressivo di purificazione del cuore, una pratica sempre più intensa di preghiera e di sacramenti, un diuturno esercizio di virtù. E poiché la perfezione cristiana è vocazione comune a tutti i cristiani, nella cura delle anime, il pastore deve adattare la devozione alla condizione, alle forze, alle occupazioni e ai doveri di ciascuno in particolare. L’ispirazione gesuitica aggiunge, alla devozione, l’impegno apostolico per la diffusione del regno di Dio, con instancabile dedizione e operosità, e con stile battagliero, mantenendo però sempre, in questa vita attiva, un atteggiamento interno contemplativo.
    “Su questo tronco dottrinale salesiano-gesuitico la spiritualità dell’Ottocento elabora una propria esperienza ascetica. Ritiene che data la presenza della grazia dello Spirito del Signore (Gv 15,5), sia possibile attuare da se stessi il proprio perfezionamento. Sta il convincimento che la perfezione spirituale «consiste in uno sforzo abituale della buona volontà, una tensione morale vigilante e perseverante della coscienza sopra il dominio delle proprie azioni, una attitudine normale di autogoverno, di padronanza di sé, nell’intento di unificare il complesso meccanismo psicologico dei propri istinti, delle proprie passioni, dei propri interessi, dei propri sentimenti, delle proprie reazioni interiori ed esteriori, dei propri pensieri, sotto un unico comando direttivo, l’amor di Dio e del prossimo, norma suprema e vitale della personalità cristiana»”[13].
    Sono appunto questi i tratti che connotano la figura spirituale di don Cafasso delineata efficacemente da don Bosco nella commemorazione funebre, insieme ad un ascetismo esasperato (“rigida penitenza”) orientato in funzione apostolica [14]. Ai suoi occhi il maestro rappresenta la sintesi riuscita della santità apostolica: “Pos­so dirvi che ho trovato molti [santi] che risplendettero in modo eroico chi in questa, chi in quell'altra virtù, ma credo che sia cosa ve­ramente rara trovare chi abbia unito nella stessa persona tanta sapienza, tanta pratica delle cose umane, tanta prudenza, fortez­za, temperanza, tanto zelo per le cose che tendono a promuovere la gloria di Dio e la salute delle anime, quante noi ravvisiamo nel­la persona del sacerdote Cafasso”[15].
    Altri temi, favoriti nel clima culturale e spirituale del secolo, sono quelli della Provvidenza e della misericordia divina, della confidenza e dell’abbandono in Dio, della pace interiore. A Torino san Giuseppe Benedetto Cottolengo (1786-1842) intitola la sua opera Piccola Casa della Divina Provvidenza; la marchesa Giulia di Barolo (1785-1864) fonda le suore di Sant’Anna e della Provvidenza; lo stesso don Bosco compila e pubblica un Esercizio di devozione alla misericordia di Dio (1847). L’abbandono in Dio appare uno degli aspetti caratteristici della pietà ottocentesca. È un invito che ritroviamo nelle Memorie dell’Oratorio, in varie opere di don Bosco e nel suo epistolario, sia nel senso ampio di confidente affidamento, di dipendenza spirituale e di offerta di sé, sia come fiducia nell’aiuto materiale per le concrete necessità della vita. Ma in don Bosco la confidenza e l’abbandono in Dio non sono atteggiamenti passivi, si accompagnano con una disposizione operativa, con un’intelligente ricerca di soluzioni e di opportunità, con una dedizione incondizionata alla missione ricevuta, ai propri giovani e ai confratelli.

    L’accentuazione ascetica di don Bosco

    “Don Bosco educato al Convitto ecclesiastico ad una ascesi apostolica incessante, ha ritenuto opportuno offrire i suoi chierici cooperatori una formazione spirituale differente da quella praticata nei seminari e nei noviziati. Questi formavano chierici e novizi mediante totale segregazione dal mondo, al fine di creare in essi mentalità e costumi opposti a quelli dei laici. Al contrario, don Bosco immerge i suoi chierici tra i giovani affinché con questi condividano pietà e doveri. Ritiene che la dedizione apostolica è, non solo un baluardo inespugnabile della moralità, ma sicuramente un’ascesi altamente formativa di spirito caritativo”[16].
    L’ascesi come via alla santità è proposta da don Bosco anche ai giovani: “Di quante cose adunque abbiamo bisogno per farci santi? Di una cosa sola: Bisogna volerlo. Sì; purché voi vogliate, potete essere santi: non vi manca altro che il volere”. Lo dimostrano gli esempi di santi “che hanno vissuto in condizione bassa, e tra i travagli d'una vita attiva”, ma si sono santificati, semplicemente “facendo bene tutto ciò, che dovevano fare. Essi adempievano tutti i loro doveri verso Dio, tutto soffrendo pel suo amore, a lui offerendo le loro pene, i loro travagli: Questa è la grande scienza della salute eterna e della santità”[17].
    Nella spiritualità di don Bosco, tuttavia, la lezione dell’ascetica classica viene riformulata in una prospettiva antropologica più aderente agli adolescenti e ai giovani. La sua pedagogia spirituale è mirata a proporre un modello formativo adatto ad essi, correggendo le possibili derive di una spiritualità malintesa, e riportandoli continuamente alla concretezza del vissuto quotidiano, il quale non va solo accettato, ma abbracciato con gioia, secondo il proprio stato di vita. Egli riprende e applica alla condizione giovanile la prospettiva umanistica e l’insegnamento di san Francesco di Sales. Presenta così un tipo di mortificazione “positiva”, da cui sono bandite intemperanze ed inutili rigidezze, pur rimanendo esigente poiché tutta incentrata sulle situazioni di vita, sui doveri di stato.
    Siamo di fronte ad uno dei cardini della proposta formativa del santo. Egli considera un ventaglio molto vasto di doveri, tutti quelli derivanti dalla propria condizione: “doveri di pietà, di rispetto e di ubbidienza verso i genitori e di carità verso tutti”[18]. Di conseguenza egli suggerisce ai giovani allievi non digiuni e rigidezze di propria scelta, ma “la diligenza nello studio, l'attenzione nella scuola, l'ubbidire ai superiori, il sopportare gli incomodi della vita quali sono caldo, freddo, vento, fame, sete”, superando il loro imporsi come “necessità” esterne di forza maggiore e accogliendoli serenamente “per amor di Dio”[19]. Allo stesso livello egli pone i doveri derivanti dal precetto evangelico della carità: usare “molta bontà e carità” verso il prossimo, sopportare i suoi difetti, “dare buoni avvisi e consigli”; “fare commissioni ai compagni, portare loro acqua, nettare le scarpe, servire anche a tavola […], scopare in refettorio, nel dormitorio, trasportare la spazzatura, portare fagotti, bauli”. Tutte queste cose, secondo don Bosco, vanno attuate “con gioia” e con “soddisfazione”. Infatti, “la vera penitenza non consiste nel fare quello che piace a noi, ma nel fare quello che piace al Signore, e che serve a promuovere la sua gloria”[20]. Il valore spirituale di queste situazioni esistenziali viene garantito dall’intenzione con cui le si affronta e dalla finalità che loro si assegna: “Ciò che dovresti soffrire per necessità – ricorda a Domenico Savio – offrilo a Dio, e diventa virtù e merito per l’anima tua”[21].
    Don Bosco concorda con santa Teresa di Lisieux nel prospettare la perfezione come un vivere la carità, ma in quanto ci si mostra in concreto servizievoli verso il prossimo; alieni da interessi egoistici; amabilmente sereni e fedeli ai propri impegni anche fra contrarietà e sofferenze. La mortificazione proprosta da don Bosco ai giovani è innanzitutto uno strumento ascetico e pedagogico finalizzato al dominio delle pulsioni istintuali, al controllo dei sensi, alla correzione dei difetti e alla costruzione delle virtù: “difficilmente un giovane può conservare l’innocenza senza la penitenza”[22]; “Voi spesso mi dite che io sono molto difettoso – afferma il pastorello Francesco Besucco –, per questo voglio anche digiunare”[23]. Ma il desiderio di penitenza ha, nella prospettiva di don Bosco, anche una connotazione mistica, infatti cresce in proporzione al grado di carità interiore: “Quando l'amor di Dio prende possesso di un cuore, niuna cosa del mondo, nissun patimento lo affligge, anzi ogni pena della vita gli riesce di consolazione. Dai teneri cuori nasce già il nobile pensiero che si soffre per un grande oggetto, e che ai patimenti della vita è riservata una gloriosa ricompensa nella beata eternità”[24].
    Ma c’è anche altro, ed è la prospettiva amorosa nella quale don Bosco propone l’ascesi dei doveri. Essa si radica in quel “darsi a Dio per tempo”, enunciato nel 1847 sulle pagine del Giovane provveduto, e sviluppato negli anni successivi in un “darsi tutto a Dio”, come forma essenziale (battesimale) della vita cristiana, con decisione e slancio tali da segnare un punto di non ritorno. Questa ci pare essere la prospettiva che sottostà ad ogni suo intervento formativo come obiettivo ultimo, al fine di aiutare i giovani a configurare il proprio vissuto quotidiano in tensione di carità oblativa. Egli infatti, più che a una scelta di religiosità consapevole e di coerenza morale, vuole educare al dono incondizionato di sé a Dio, amato sopra ogni cosa, che è vertice del cammino spirituale. Da tale movimento interiore scaturisce necessariamente un vissuto di carità gioioso e ardente, un intenso e sereno fervore operativo. Questa assoluta determinazione di dono, che fa entrare il cristiano in quello stato di piena obbedienza al Padre proprio del Cristo, nella condizione di servo liberamente assunta per amore, illumina di luce nuova il senso e il valore delle azioni quotidiane. Ne deriva una inedita modalità di esecuzione di esse che svela la qualità del vissuto cristiano a cui il giovane è pervenuto.
    Esemplare in questo senso è l'esperienza di Michele Magone, narrata da don Bosco: la sua conversione “franca e risoluta” genera una nuova percezione di sé e della vita quotidiana. Se prima egli si rassegna a mala pena ad abbandonare l’amata ricreazione per compiere i doveri, sentiti come un peso [25], poi lo si vede “correre il primo in que' luoghi ove il dovere lo chiama”, col desiderio di regolarsi “costantemente bene [...] con applicazione e diligenza”. In lui si verifica una decisiva maturazione interiore, accompagnata da un “totale cangiamento sì nel fisico che nel morale”, interpretata dagli educatori quale segno evidente del suo “volersi dare tutto alla pietà [...] spogliato dell'antico Adamo”[26]. Nella biografia di Francesco Besucco, don Bosco esprime in forma più esplicita l'orientamento “mistico” dell’ascesi. Egli delinea l'impegno del pastorello e la sua diligenza nei doveri come espressione della scelta di conformazione perfetta alla volontà divina: “Venne all'Oratorio con uno scopo prefìsso; perciò nella sua condotta aveva sempre di mira il punto cui tendeva, cioè di dedicarsi tutto a Dio nello stato ecclesiastico. A questo fine cercava di progredire nella scienza e nella virtù”[27]. L’aderenza al vissuto, l'intenzionalità operativa, l'intensità di impegno e la tensione alla perfezione (a “fare sempre più e sempre meglio”), che derivano da tale consapevole moto d'amore caritativo, impregnano tutto il vissuto del giovane, configurando un atteggiamento di distacco e di totalità amorosa, di kenosi e di estasi, analogo a quello descritto da Francesco di Sales come “estasi della vita e delle opere”, che costituisce il vertice del cammino di perfezione [28].
    Domenico Savio, fortemente emozionato per l’incontenibile esperienza mistica scatenata dalla predica sulla santità “che gl’infiammò tutto il cuore d’amore di Dio”, è pressato interiormente dal “bisogno” “di essere tutto del Signore”, è portato “a far rigide penitenze, passar lunghe ore nella preghiera”. Don Bosco invece lo esorta “a non inquietarsi”, a mantenere “una costante e moderata allegria”, “ad essere perseverante nei suoi doveri di pietà e di studio”, “a prendere sempre parte alla ricreazione coi suoi compagni”[29]. Nello stesso tempo lo orienta su quella santità apostolica da lui assimilata alla scuola del Convitto: “La prima cosa che gli venne consigliata per farsi santo fu di adoperarsi per guadagnar anime a Dio; perciocché non havvi cosa più santa al mondo che cooperare al bene delle anime, per la cui salvezza Gesù Cristo sparse fin l’ultima goccia del prezioso suo sangue”[30].
    Come gli altri spirituali formati nella prima parte dell’Ottocento, convinti che l’azione della grazia spinge verso un personale vissuto ascetico, fecondo di virtù morali, di operosità santa e di opere di carità, don Bosco, per quanto impregnato di sentimento religioso, di devozione affettiva, diffida dell’esperienza mistica, poiché gli pare estraniante nei confronti del dovere quotidiano e del servizio dei fratelli, una malintesa fuga mundi. Preferisce l’impegno volitivo nel bene, l’immersione nella vita, l’operosità virtuosa e allegra, la relazione amichevole e servizievole e, soprattutto, la carità apostolica: “la sollecitudine per il bene delle anime” e lo zelo per “istruire i fanciulli nelle verità della fede”, per “guadagnare a Dio” tutta l’umanità. Ma va notato che questa tensione ascetico operativa, questa propensione alla carità materiale e spirituale, all’operosità benefica secondo “il bisogno dei tempi”, questo assillo generale di impegno a beneficio di sofferenti ed emarginati, questa preferenza per il fervore pastorale e missionario – tutte caratteristiche della spiritualità dell’Ottocento – in don Bosco non si oppongono affatto all’interiore comunione con Dio; egli non trascura l’orazione d’unione semplice, anzi si protende docile alle attrattive dello Spirito Santo. “Potremmo dire che nel secolo XIX ogni santo di fatto è necessariamente mistico, giacché il suo vissuto virtuoso è radicato e fiorisce nella grazia-luce determinante dello Spirito. Ma se si bada alla coscienza esplicita che egli ha del suo stato spirituale e al come lo svolge, egli è un asceta e non un mistico. Nell’Ottocento lo spirituale si riduce e si identifica con morale-ascetico”[31].

    Preghiera, sacramenti e devozione mariana

    Il nocciolo della spiritualità dominante nel secolo di don Bosco è sintetizzato nel titolo di un volumetto di sant’Alfonso: Del gran mezzo della preghiera per conseguire la salute eterna. È questo infatti “l’atteggiamento di fondo individuale e collettivo che si riscontra nella spiritualità ottocentesca di fronte alle trasformazioni profonde che caratterizzano il secolo”[32]. Nel mondo cattolico la percezione di un’incipiente disaffezione dei ceti popolari dalla pratica religiosa, e, ancor più, gli attacchi sempre più virulenti contro la Chiesa, navicella di Pietro sballottata dalle tempeste, contro le sue istituzioni e la sua gerarchia, suscitano il ricorso all’orazione supplice ed insieme alimentano uno spirito attivo e battagliero: si rinnovano i propositi di fedeltà, si incrementa la pratica sacramentale e le devozioni, si moltiplica lo zelo pastorale, si rilancia l’azione missionaria, si mettono in opera le più svariate attività caritative, si lavora ad un profondo rinnovamento morale e spirituale di clero e laicato.
    Don Bosco si muove appunto in questo orizzonte, con attenzione ai ragazzi e alla loro formazione. Sono molte le devozioni proposte liberamente ai giovani dell’Oratorio, ma il santo “non indulge all'esuberanza devozionale tipica del cattolicesimo ottocentesco per il timore di infastidire o di stancare”[33]. La preghiera che egli promuove ha come primo obiettivo l’elevazione dello spirito, l’orientamento del cuore a Dio, l’invocazione della grazia per resistere alle tentazioni, distaccare il cuore dal peccato e crescere nella virtù. Su questa traccia sviluppa una piccola pedagogia della preghiera. Le pratiche di pietà sono via per giungere allo spirito di preghiera e insieme manifestazione di esso. Nel Giovane provveduto offre gli strumenti semplici per santificare ogni azione, fino alla conclusione della giornata, quando, “pensando alla presenza di Dio colle mani giunte innanzi al petto”, si prenderà riposo. Tutto va fatto per Dio, attendendo “diligentemente” ai propri doveri e “indirizzando ogni azione al Signore”. Luigi Gonzaga è raffigurato come modello di unione con Dio coltivata fin dall'infanzia, pervasa di tensione affettiva e di “diletto”: “bisognava che si facesse grande violenza per cessare dalla preghiera [...]. Ottenetemi, o glorioso s. Luigi, una scintilla del vostro fervore, e fate che sempre cresca in me lo spirito di preghiera e di divozione”[34].
    Egli tiene conto della sensibilità giovanile, dunque insiste sull’affettività, sull’intimità divina, sull’amicizia di Cristo, sulla tenerezza materna di Maria. È compito dell’educatore cristiano adoperarsi per “far prendere gusto alla preghiera ai giovanetti”, in modo che giungano, attraverso la pratica, allo “spirito di preghiera” e al “fervore” spirituale [35]. Per questo bisogna esercitarli al pensiero della “presenza di Dio”, Padre amorosissimo, abituarli ad elevare di tratto in tratto il cuore e la mente al Creatore, invogliarli “a conversare familiarmente con Dio” in qualsiasi luogo, come Domenico Savio, il quale, “anche in mezzo ai più clamorosi trambusti, raccoglieva i suoi pensieri e con pii affetti sollevava il cuore a Dio”[36]. Don Bosco cura gli atteggiamenti esterni (il segno della croce, la genuflessione, la compostezza del corpo [37]) e propone pratiche di pietà sobrie e piacevoli, non gravose: “cose facili, che non spaventino e neppure stanchino il fedele cristiano, massime poi la gioventù. I digiuni, le preghiere prolungate e simili rigide austerità per lo più si omettono o si praticano con pena e rilassatezza. Teniamoci alle cose facili, ma si facciano con perseveranza”[38]. Inoltre raccomanda ai giovani: “L’orazione sia frequente e fervorosa ma non mai di mala voglia, e con disturbo dei compagni; è meglio non pregare che pregare malamente. Per prima cosa al mattino appena svegliati fate il segno di santa croce e sollevate la mente a Dio con qualche orazione giaculatoria”[39].
    In perfetta sintonia con la spiritualità del suo tempo, attraverso questi mezzi don Bosco mira, per se stesso e per gli altri, al raggiungimento di uno stato interiore di amore permanente che impregni i pensieri, unifichi gli affetti, orienti le azioni. “Pregare vuol dire innalzare il proprio cuore a Dio e intrattenersi con lui per mezzo di santi pensieri e divoti sentimenti”, scrive nel Cattolico provveduto del 1868 [40]. Lo stato di preghiera, nel suo modo di vedere, non è soltanto un "grado" di orazione, perché è sempre accompagnato da una tensione di perfezione morale: distacco, sforzo di superamento e controllo di sé, padronanza, pazienza, vigilanza, fedeltà e costanza. È uno stato d’animo raccolto, in uno stile di vita modesto, concentrato sull'essenziale, laborioso e caritatevole, polarizzato dall’azione interiore della Grazia che preserva dalla dispersione dei pensieri e dalla banalità delle mode, senza nulla sottrarre alla vivacità gaudiosa dell'esistenza. Una dimensione interiore da atmosfera elevata, l'unica veramente capace di trasformare il cortile, la scuola, il laboratorio o l’ufficio in luoghi salesiani privilegiati dell’incontro col Signore.
    In tal modo il santo educatore risignifica radicalmente l’antico precetto della fuga mundi in un contesto di modernità. Grazie allo spirito di preghiera, allontanamento dal mondo ed immersione nel mondo si compongono e si armonizzano in una proiezione di offerta, in un’assunzione responsabile del vissuto nelle modalità tipiche del cristiano. Orazione, fervore apostolico e mortificazione sono sfaccettature di un unico atteggiamento di consacrazione del cuore. Proposta alta, fatta da don Bosco ai discepoli nella vita consacrata, ma anche ai ragazzi più semplici che esortava: “Coraggio adunque cominciamo per tempo a lavorar per il Signore, ci tocca patire qualche cosa in questo mondo, ma sarà poi eterno il premio che avremo nell'altro”[41].
    La sua proposta spirituale, inoltre, dà massima importanza alla pratica sacramentale: “Ritenete, o giovani miei, che i due sostegni più forti e reggervi e camminare per la strada del cielo sono i sacramenti della confessione e comunione”[42]. Don Bosco valorizza i sacramenti in prospettiva pedagogica e spirituale. L’insistenza sulla frequenza sacramentale parte dalla coscienza della fragilità umana, del bisogno di sostenere la volontà per stabilizzarla nel bene e nella virtù; ma anche dalla convinzione della potente azione trasformatrice dello Spirito Santo che, agendo nel sacramento, opera la purificazione radicale e crea condizioni interiori ideali affinché il Signore possa “prendere possesso del cuore” in modo sempre più solido. Qui si coglie il motivo della sua insistenza sulla scelta di un confessore stabile, di un amico dell’anima, al quale affidarsi con piena fiducia per essere condotti sulle vie dello Spirito. Nel rapporto confidenziale il confessore personalizza la proposta spirituale: insegna l’arte dell’esame di coscienza, forma alla contrizione perfetta, stimola il proposito efficace, guida sui sentieri delle purificazioni e degli esercizi virtuosi, introduce al gusto della preghiera e alla pratica della presenza di Dio, insegna i modi di una feconda comunione col Cristo eucaristico. Confessione e comunione frequente sono intimamente legate nella pedagogia spirituale di don Bosco. Con la confessione assidua e regolare si promuove la vita “in grazia di Dio” e si alimenta la tensione virtuosa che permette un accostamento sempre più “degno” alla comunione frequente; nello stesso tempo, attraverso la comunione eucaristica, il giovane si polarizza su Cristo e la grazia trova spazio per operare in profondità, trasformare e santificare.
    Questa preoccupazione formativa dà sostanza e senso all’alone emotivo ed affettivo del quale don Bosco impregna la devozione eucaristica. Durante l’offertorio della messa, ad esempio, egli invita i giovani ad assimilare i sentimenti di Cristo: “Vi offro il mio cuore, la lingua mia, affinché per l’avvenire altro non desideri né d’altra cosa parli, se non di quello che riguarda al vostro santo servizio”[43]. Così durante il ringraziamento alla comunione li protende verso la consacrazione di sé: “Ah potessi aver il cuore dei serafini del cielo, affinché l’anima mia ardesse mai sempre di amore per il mio Dio! […] Protesto che per l’avvenire voi sarete sempre la mia speranza, il mio conforto, voi solo la mia ricchezza. […] Vi offro tutto me stesso; vi offro questa volontà, affinché non voglia altre cose se non quelle che a voi piacciono; vi offro le mie mani, i miei piedi, gli occhi miei, la lingua, la bocca, la mente, il cuore, tutto offro a voi, custodite voi tutti questi sentimenti miei, acciocché ogni pensiero, ogni azione non abbia altro di mira se non quelle cose che sono di vostra maggior gloria e di vantaggio spirituale dell’anima mia”[44].
    Sono testi, mutuati dalla letteratura devota del tempo, ma se li leggiamo nel contesto degli sforzi formativi messi in atto da don Bosco, in particolare dello specifico modello di cristiano e di cittadino da lui promosso, acquistano una valenza particolare e ci illuminano sui meccanismi innescati dal santo educatore per il coinvolgimento interiore dei suoi giovani in ordine alla relazione con Dio e alla perfezione cristiana.
    Anche la spiritualità mariana di don Bosco ha una marcata funzione pedagogica, pur mantenendo le caratteristiche tipiche della devozione romantica e ottocentesca. Come possiamo costatare, ad esempio, nel profilo biografico di Michele Magone, la devozione a Maria santissima culmina — come dice don Caviglia — in una “pedagogia dell’adolescenza, che è dunque e soprattutto pedagogia della castità”, offerta da don Bosco ai figli più umili del popolo, “strappati alle strade, al pervertimento dei bassifondi e delle famiglie disordinate; oppure ai figli poveri della campagna, cattivi o in pericolo di divenirlo per difetto di correttivi sociali”[45].
    Don Bosco aggiunge qualcosa di più. Ci racconta che Michele, nel meditare un versetto biblico scritto su un’immagine di Maria – Venite, filii, audite me, timorem Domini docebo vos – si sentì spinto a scrivere una lettera al direttore “in cui diceva come la beata Vergine gli aveva fatta udire la sua voce, lo chiamava a farsi buono e che ella stessa voleva insegnargli il modo di temere Iddio, di amarlo e servirlo”[46]. Ecco: una corretta pedagogia mariana è in grado di far percepire l’appello interiore dello Spirito anche a un ragazzo, di indurlo a un’attività spirituale più intensa e di accendere in lui un desiderio di più alta perfezione. Nella vita di Domenico Savio, la tensione spirituale raggiunge il vertice con l’atto formale e solenne celebrato la sera della festa dell’Immacolata (8 dicembre 1854), quando il ragazzo rinnova le promesse della prima comunione e ripete: “Maria, vi dono il mio cuore; fate che sia sempre vostro! Gesù e Maria, siate voi sempre gli amici miei! Ma per pietà, fatemi morire, piuttosto che mi accada la disgrazia di commettere un solo peccato!”. Da quel momento la sua condotta e il suo spirito appaiono trasfigurati: “Presa così Maria per sostegno della sua divozione – commenta don Bosco – la morale di lui condotta apparve così edificante e congiunta a tali atti di virtù, che ho cominciato fin d’allora a notarli per non dimenticarmene”[47]. Sono espressioni rivelano la portata dinamica della devozione mariana instillata da don Bosco nei giovani: una devozione non staccata dal quotidiano, ma compenetrata con esso, capace di somministrare energie morali e spirituali per la pratica del bene, in una prospettiva di pienezza umana e spirituale che impregna la vita interiore e quella operativa.

    NOTE

    [1] Fondamentali, per comprendere la specificità di don Bosco, nel quadro più ampio della spiritualità dell’Ottocento, sono queste opere: Pietro Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. Vol II: Mentalità religiosa e spiritualità. Roma, LAS 1981; Francis Desramaut, Don Bosco et la vie spirituelle. Paris, Beauchesne 1967; Id., Jean Bosco (saint), in Dictionnaire de Spiritualité ascetique et mistique. Vol. VIII, Paris, Beauchesne 1974, coll. 291-303; Joseph Aubry, La scuola salesiana di don Bosco, in Ermanno Ancilli (ed.), Le grandi scuole della spiritualità cristiana. Roma/Milano, Pontificio Istituto di Spiritualità del Teresianum/O.R. 1984, pp. 669-698.

    [2] Molti sono gli studi sulla spiritualità dell’Ottocento, tra tutti ricordiamo: Pietro Stella, Italie: de la restauration à l'indépendance, 1814-1860, in Dictionnaire de Spiritualité ascetique et mistique. Vol. VII, Paris, Beauchesne, 1971, coll. 2273-2284; Tullo Goffi, La spiritualità dell’Ottocento. (Storia della Spiritualità 7). Bologna, EDB 1989; Massimo Petrocchi, Storia della spiritualità italiana. Vol. III. Il Settecento, l’Ottocento e il Novecento. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1979; Pietro Crespi - Gian Franco Poli, Lineamenti di storia della spiritualità e della vita cristiana. Vol. II, Roma, Edizioni Dehoniane 2000; Pietro Zovatto (ed.), Storia della spiritualità italiana. Roma, Città Nuova 2002.

    [3] Agostino Albergotti, La via della santità mostrata da Gesù nella devozione al suo SS. Cuore. Milano, Vita e Pensiero 1931, pp. 83-84.

    [4] Sulle letture del chierico Bosco cf più oltre: n. 305, p. 991; n. 309, p. 1226.

    [5] Colombano Chiaveroti, Raccolta delle lettere, omelie ed altre scritture. Torino, Ghiringhello e Comp. 1835, vol. III, pp. 221-222.

    [6] Ibid., p. 247.

    [7] Cf ibid., pp. 377-378.

    [8] Ibid., p. 414.

    [9] Ibid., p. 416.

    [10] Vedi più oltre, n. 305.

    [11] T. Goffi, La spiritualità dell’Ottocento..., p. 29.

    [12] Ibid., p. 191.

    [13] Ibid., pp. 63-64 (che cita un discorso di Paolo VI riportato sul “L’Osservatore Romano” del 4 marzo 1976).

    [14] Giovanni Bosco, Biografia del sacerdote Giuseppe Cafasso esposta in due ragionamenti funebri. Torino, Tip. G. B. Paravia e Comp. 1860, pp. 9-45 (OE XII, 359-395).

    [15] Ibid., pp. 96-97 (OE XII, 446-447).

    [16] T. Goffi, La spiritualità dell’Ottocento..., pp. 69-70.

    [17] Giovanni Bosco, Vita di santa Zita serva e di sant’Isidoro contadino. Torino, P. De-Agostini 1853, pp. 6-7 (OE V, 176-177).

    [18] Giovanni Bosco, Il pastorello delle Alpi ovvero vita del giovane Besucco Francesco d'Argentera. Edizione seconda, Torino, Tip. Dell'Oratorio di S. Franc. di Sales 21878, pp. 102-103.

    [19] Ibid., p. 101.

    [20] Ibid., p. 102-103.

    [21] Giovanni Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell’oratorio di san Francesco di Sales. Torino, Tip. G.B. Paravia e Comp. 1859, p. 75 (OE XI, 225).

    [22] Ibid., p. 72 (OE XI, 222).

    [23] G. Bosco, Il pastorello delle Alpi..., p. 58.

    [24] Ibid., p. 100.

    [25] Giovanni Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales. Torino, Tip. G.B. Paravia e Comp. 1861, p. 15 (OE XIII, 169).

    [26] Ibid., pp. 33-39 (OE XIII, 187-193).

    [27] G. Bosco, Il pastorello delle Alpi..., p. 83: è la conclusione del capitolo 18, tutto dedicato all’impegno nello studio, affrontato con con dedizione amorosa e «colla avidità di chi fa cosa di suo maggior gusto» (p. 80).

    [28] Francesco di Sales, Trattato dell’amor di Dio. A cura di Ruggero Balboni. Milano, Paoline 1989, pp. 526-533: sono i capitoli 7 e 8 del libro settimo, nei quali il santo sviluppa in modo più esplicito il tema della vita estatica.

    [29] G. Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico..., pp. 50-52 (OE XI, 200-202).

    [30] Ibid, p. 53 (OE XI, 203).

    [31] T. Goffi, La spiritualità dell’Ottocento..., p. 68.

    [32] Pietro Stella, Prassi religiosa, spiritualità e mistica nell’Ottocento, in Storia dell’Italia religiosa. Vol. III, L’età contemporanea, a cura di Gabriele de Rosa. Roma-Bari, Laterza 1995, p. 115.

    [33] Massimo Marcocchi, Alle radici della spiritualità di don Bosco, in Don Bosco nella storia. Atti del 1 Congresso internazionale di studi su Don Bosco (Università Pontificia Salesiana. Roma, 16-20 gennaio 1989) a cura di Mario Midali, Roma, LAS 1990, p. 165.

    [34] Giovanni Bosco, Il giovane provveduto per la pratica de’ suoi doveri ... Torino, Tipografia Paravia e Comp. 1847, pp. 68-70 e 82 (OE II, 248-250 e 262).

    [35] Cf G. Bosco, Il pastorello delle Alpi..., p. 113-119 (OE XV, 355-361).

    [36] G. Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico..., p. 62 (OE XI, 212).

    [37] Cf Giovanni Bosco, Regolamento per le case della Società di S. Francesco di Sales. Torino, Tipografia Salesiana 1877, pp. 64-68 (OE XXIX, 160-164).

    [38] G. Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele..., pp. 46-47 (OE XIII, 200-201).

    [39] G. Bosco, Regolamento per le case..., p. 63 (OE XXIX, 159).

    [40] Giovanni Bosco, Il cattolico provveduto per le pratiche di pietà con analoghe istruzioni secondo il bisogno dei tempi. Torino, Tip. dell’Oratorio di S. Franc. di Sales 1868, p. 87 (OE XIX, 95).

    [41] G. Bosco, Il giovane provveduto..., p. 73 (OE II, 253).

    [42] Giovanni Bosco, Regolamento dell’Oratorio di S. Francesco di Sales per gli esterni. Torino, Tipografia Salesiana 1877, p. 36 (OE XXIX, 66).

    [43] G. Bosco, Il giovane provveduto..., p. 88 (OE II, 268).

    [44] Ibid., pp. 101-102 (OE II, 281-282).

    [45] Alberto Caviglia, Il “Magone Michele” una classica esperienza educativa, in Opere e scritti editi e inediti di don Bosco. Torino, SEI 1965, vol. V, p. 162.

    [46] G. Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele..., pp. 39-40.

    [47] G. Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico..., p. 40 (OE XI, 190).

    (Fonte: Istituto Storico Salesiano, Fonti salesiane. 1. Don Bosco e la sua opera. Roma, LAS 2014, pp. XXXVII-LVII)


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