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    Verso la compagnia

    dei credenti: la Chiesa

    Riccardo Tonelli

    (NPG 1989-05-5)


    Sappiamo che l'esperienza di fede, come ogni decisione importante e la stessa esistenza nella salvezza, è un fatto strettamente personale.
    Accogliamo l'invito di Dio o decidiamo un uso suicida della nostra libertà in quello spazio, intimissimo e misterioso, in cui ogni uomo è solo davanti a se stesso.
    L'esperienza di salvezza, la decisione di fede, la festa della libertà, si realizzano però nel sostegno vitale della comunità ecclesiale. Essa garantisce la possibilità di una vita nella fede e rassicura la verità e l'autenticità della personale decisione.
    In questa prospettiva suggerisco un cammino di riscoperta della Chiesa. In un movimento che apre la riappropriazione della soggettività e l'esperienza dell'incontro con Gesù Cristo verso la compagnia degli altri credenti nell'esperienza di salvezza.

    VERSO QUALE CHIESA?

    Non ho intenzione di proporre una sintesi ecclesiologica, ma solo un itinerario per far riscoprire l'importanza e la funzione dell'esperienza ecclesiale nella vita cristiana.
    Il mio obiettivo può essere definito bene da due interrogativi. Si può educare al senso di appartenenza ecclesiale? Su quale immagine di Chiesa vogliamo assicurare l'appartenenza?
    Il secondo esprime la meta verso cui tende il processo; il primo sottolinea la possibilità di sostenere il raggiungimento della meta attraverso una strumentazione educativa. I due interrogativi sono reciprocamente correlati. Li affronto in due momenti successivi solo per ragioni pratiche.

    Si può educare al senso di appartenenza ecclesiale?

    In questo paragrafo affronto il primo interrogativo: si può educare al senso di appartenenza ecclesiale?
    Per rispondere devo richiamare un problema più ampio e complesso, che attraversa tutta la mia ricerca: il rapporto tra educazione e educazione alla fede. Ho ricordato in vari contesti le differenti posizioni, teoriche e pratiche, presenti nella comunità ecclesiale italiana. Esse rimbalzano sul tema che sto studiando e aprono a soluzioni molto diverse. L'evento dell'Incarnazione mi ha suggerito il criterio per scegliere nel pluralismo a ragion veduta. Come ho ricordato ormai molte volte, una pastorale d'Incarnazione riconosce l'educabilità indiretta della fede e assume, in quest'ambito, le scienze dell'educazione in profondo rispetto della loro autonomia.
    Il senso di appartenenza ecclesiale è un momento della più vasta educazione della fede. Anche su questa frontiera affermo perciò la possibilità di itinerari educativi: gli interventi non riguardano direttamente il dialogo misterioso tra Dio e l'uomo, ma le modalità concrete in cui esso di svolge.

    Educare all'appartenenza sostenendo l'identificazione
    Su questa consapevolezza si apre la mia ricerca. Convinto della possibilità di educare al senso di appartenenza ecclesiale, mi chiedo quale sia l'ambito educativo su cui concentrare gli interventi. Le scienze dell'educazione mi offrono un contributo prezioso. Esse sottolineano che l'educazione al senso di appartenenza ad una istituzione si esprime attraverso l'esperienza di identificazione che essa sa scatenare e sostenere. L'identificazione è infatti quel processo che spinge una persona a far propri valori e progetti in un vissuto affettivo sorto a causa del suo inserimento in una situazione concreta.
    L'appartenenza è come il risultato dell'identificazione: l'esito verificabile del processo che porta un giovane a considerare l'istituzione, le persone che la compongono, i valori che in essa circolano, come suo punto di riferimento decisivo per le valutazioni e per le operazioni che punteggiano la sua esistenza quotidiana.

    Condizioni per l'identificazione alla comunità ecclesiale
    Utilizzo la categoria dell'identificazione anche per la comunità ecclesiale.
    È possibile suggerire, in termini concreti, le condizioni che possono sostenere il processo di identificazione, perché il fatto è stato a lungo studiato dalla psicologia sociale.
    Si richiede prima di tutto un minimo di interazioni dell'individuo con la comunità ecclesiale a cui si vuole appartenere. Questo minimo va pensato non in termini giuridici, ma secondo le logiche della dinamica di gruppo (condivisione degli obiettivi, percezione del suo significato funzionale, accettazione delle norme e dei ruoli, esperienze di gratificazione...).
    Occorre anche la conoscenza e l'accettazione del sistema di valori, credenze e modelli che determinano la proposta oggettiva della comunità, fino a definire progressivamente in essi il personale progetto di vita.
    Questo processo comporta l'acquisizione e il consolidamento dei contributi dell'esperienza cristiana, la partecipazione affettiva ai gesti e ai riti, il riconoscimento di una funzione magisteriale, l'adozione dei modelli proposti per la soluzione dei personali problemi.
    Si richiede inoltre la percezione di essere accettato nella comunità. E questo suppone l'inserimento in una trama di rapporti né burocratici né formalizzati, un'ampia distribuzione di informazioni e di ruoli, un gruppo non troppo vasto.
    In un tempo di pluralismo, si richiede infine la capacità di armonizzare a livello personale le diverse appartenenze, per elaborare i conflitti che ne scaturiscono, integrando e controllando le differenti proposte attorno ad una appartenenza che funzioni come riferimento totalizzante.

    TRE SENTIERI PER RISCOPRIRE UNA IMMAGINE DI CHIESA

    Le condizioni che definiscono la possibilità di realizzare l'appartenenza ecclesiale non riguardano soltanto la natura teologica della Chiesa. Investono soprattutto la percezione soggettiva che una persona ha di essa, il rapporto che instaura e l'influsso esercitato su questo rapporto dal contesto culturale e sociale.
    Questo non va interpretato come disattenzione rispetto ai contenuti oggettivi.
    Comporta anzi la necessità di verificare e di autovalidare su questi parametri l'oggetto del processo di identificazione.
    Sottolinea però che senza esperienza soggettiva di significatività, difficilmente si opera identificazione di una persona ad una istituzione.
    Affiora così il secondo interrogativo: su quale immagine di Chiesa vogliamo costruire senso di appartenenza?
    La domanda può suonare anche in termini più concreti: qual è la meta verso cui tende l'itinerario?
    Rispondo indirettamente alla domanda, suggerendo tre motivi per amare la Chiesa e per accoglierla come il luogo in cui cresciamo nella vita e nella salvezza. Percorrendo questi tre «sentieri» possiamo riscoprire il dono della chiesa e ritrovare il suo progetto fondante, superando le sovrastrutture o le esagerazioni devozionali che si sono accumulate sulla sua comprensione.
    Ho scelto i punti nodali dell'esperienza ecclesiale: il suo servizio sacramentale in ordine alla salvezza, la qualità della comunione che assicura oltre le diversità, accolte e rispettate, e il sostegno all'unità nella verità. In questione c'è infatti una immagine complessiva di Chiesa.

    La dimensione della sacramentalità

    Ritroviamo il dono della Chiesa percorrendo, prima di tutto, il sentiero della sacramentalità. È la dimensione centrale della Chiesa: la sua identità. Il Concilio Vaticano II ha definito l'identità della Chiesa a partire dalla sua missione. Nei documenti conciliari, infatti, la Chiesa si autoproclama «universale sacramento di salvezza» (LG 1, 48; GS 45; AG 1): mediazione efficace ed anticipazione di quel progetto salvifico globale che Dio attua in Gesù Cristo per lo Spirito Santo, che investe tutti gli uomini e tutta la storia (LG 5; GS 22).
    Per comprendere il significato di questa prima prospettiva, dobbiamo perciò analizzare cosa significa per la chiesa esercitare una «funzione sacramentale» in ordine alla salvezza e determinare di «quale salvezza» la Chiesa è sacramento.

    La salvezza cristiana
    Molte delle distorsioni che hanno segnato i vari modelli ecclesiologici sono legate, spesso in forma deterministica, ai limiti presenti nella teologia della salvezza di un passato non molto remoto. Anche le tensioni e i contrasti che attraversano l'attuale esperienza ecclesiale hanno spesso come radice un modo di comprendere la salvezza.
    Partiamo quindi dalla domanda di fondo: in che consiste la specificità della salvezza di Gesù Cristo?
    La ricerca teologica attuale dà molte risposte.
    Una costante è determinata dalla preoccupazione di sottolineare la radicale originalità della salvezza cristiana nei confronti dei progetti salvifici intrastorici: essa è radicalmente il dono di pienezza di vita che il Padre, in Gesù Cristo e per lo Spirito Santo, comunica all'uomo, dono che lo rende partecipe di comunione definitiva con lui. La salvezza cristiana consiste quindi fondamentalmente nella liberazione dal peccato, che è la causa profonda di tutte le situazioni umane di non-salvezza, e nella novità di esistenza, che rende figli di Dio, e cioè nella comunione di vita con il Padre e con tutti gli uomini.
    La riflessione teologica si interroga, oggi con particolare attenzione, sul rapporto esistente tra questo punto terminale del processo di salvezza e le sue anticipazioni storiche.
    Tutti sono d'accordo nell'affermare un rapporto intenso tra la comunione definitiva con Dio e le anticipazioni storiche di questa novità di vita. Le posizioni si differenziano quando si cerca di precisare in che consiste questo rapporto e soprattutto quando si dà un contenuto concreto alle differenti dimensioni delle «anticipazioni storiche» della comunione definitiva.
    Gli autori che riflettono in un orizzonte attento alla dimensione culturale e strutturale, parlano di una salvezza specificata su tre livelli concentrici. Il livello superiore è determinato dalla realizzazione della comunione definitiva con Dio. Esso comporta la liberazione dal «peccato» (compreso come evento teologale) e la ricostruzione del progetto di Dio verso l'uomo e per l'uomo.
    I livelli inferiori sono costituiti dalle varie salvezze particolari che si riferiscono alle molteplici dimensioni dell'esistenza umana nel mondo. Possiamo organizzarle attorno a due che le esprimono abbastanza adeguatamente: la liberazione strutturale e la «coscientizzazione». La prima riguarda l'ambito sociale e politico e tende alla liberazione collettiva da tutte le forme storiche di alienazione. La seconda investe la sfera strettamente personale, come restituzione ad ogni uomo della sua progettualità, in modo che possa diventare costruttore cosciente e responsabile del proprio destino.
    Questi livelli si richiamano a vicenda, anche se l'uno non si esaurisce nell'altro e se il primo può essere assicurato anche quando è carente la realizzazione degli altri due.

    Il sacramento tra dono di Dio e decisione personale
    Di questa salvezza la Chiesa è sacramento.
    Anche questo tema richiede una verifica precisa per evitare il rischio di vanificare la missione della Chiesa o di enfatizzarla troppo.
    La salvezza si realizza nell'incontro tra Dio e l'uomo. Questo processo salvifico è un atto di gratuita accondiscendenza da parte di Dio e di libertà, responsabilità, decisione personale da parte dell'uomo.
    Non possiamo però immaginarlo come un intervento solo «puntuale», che investe un frammento di quella storia personale e collettiva in cui la salvezza sarebbe altrimenti assente. Dobbiamo invece non dimenticare che l'esistenza di ogni persona e la storia collettiva sono avvolti e penetrati dalla grazia dell'autocomunicazione di Dio. Questa presenza diffusa della salvezza è ormai il principio costitutivo di ogni esistenza, intimo ad ogni uomo più di se stesso. Si tratta evidentemente di una presenza che è offerta alla libertà, che costituisce la libertà stessa: accettata o rifiutata nel cammino progressivo della propria vita colloca nella salvezza o riduce alla pretesa suicida di una folle autonomia.
    Comprendendo il processo di salvezza in questi termini, possiamo pensare al sacramento secondo modelli capaci di coniugare l'iniziativa di Dio e la responsabilità dell'uomo.
    Sacramento è un segno (qualcosa visibile e verificabile, dalla parte dell'umano) in cui l'evento di salvezza (il referente divino invisibile) si fa appello ad una decisione personale, invitando ad accogliere il dono di salvezza contenuto nella manifestazione stessa.
    Il segno non ha solo una funzione significativa estrinseca rispetto al referente, ma lo contiene. Contiene e comunica però questa salvezza non in modo strumentale, ma come appello: provoca la decisione personale e la sostiene. Lo fa come concentrando in una esplosione simbolica la potenza salvifica diffusa nell'esistenza quotidiana di ogni uomo e nella sua storia.
    Nella vita quotidiana Dio è presente come offerta imprevista, come amore silente. La presenza diffusa della grazia dell'autocomunicazione di Dio è una esperienza vissuta ma non detta, percepita ma non formalizzata. Questa sacramentalità diffusa ha bisogno di esprimersi, per consolidarsi e per inverarsi.
    Nel sacramento il silenzio viene infranto e lo svelamento assicura un più ampio coinvolgimento personale.
    Questo coinvolgimento non è un puro gioco di intenzionalità, come capita nei processi simbolici che costituiscono la trama dei rapporti intersoggettivi. La tradizione cristiana afferma in modo perentorio che nei sacramenti della salvezza Dio è presente ed agisce efficacemente.
    Per questo l'autocoinvolgimento è una esperienza privilegiata dell'auto- comunicazione di Dio. L'uomo, reso attento all'appello e alla grazia dell'autocomunicazione divina in essa contenuta, in forza del sacramento che gli è stato offerto, può decidersi più riflessamente per la salvezza di Dio.

    La funzione sacramentale della Chiesa
    I sacramenti sono come una «esplosione simbolica» nella storia personale e collettiva della grazia intimissima e sempre presente nel mondo che è Dio stesso. Ricercano, sostengono la sacra- mentalità diffusa nella vita quotidiana, la rendono trasparente, e per questo la pongono più intensamente davanti alla decisione dell'uomo.
    La Chiesa è il primo dei sacramenti, quello che tutti riassume ed esprime. Gli altri collocano nella Chiesa il dono della salvezza; le danno un respiro collettivo, quasi strutturale. Per questo sono un segno di sicura speranza per la nostra esistenza.
    Il gesto della comunità che accoglie la nostra richiesta di pentimento ricostruisce, nell'oggi e per noi, l'abbraccio con cui il padre festeggia il ritorno del figlio, fuggito da casa per ubriacarsi di libertà.
    Nell'Eucaristia ci scopriamo con le nostre piccole e grandi morti quotidiane nel vortice della vittoria della vita, per il mistero della pasqua di Gesù, diventato nostro contemporaneo.

    La «difficile» comunicazione nella diversità

    Il secondo sentiero sollecita a riconoscere nella Chiesa il luogo della «comunione» (sempre un po' «difficile») tra gente impegnata per il Regno di Dio. Tre dati sono richiamati nell'affermazione: la dimensione comunitaria, il suo fondamento e la sua qualità.

    La dimensione comunitaria
    Il primo dato è pacifico.
    Come ho già ricordato, la salvezza è la costruzione nel tempo e la costituzione in definitività della comunione degli uomini con Dio e tra loro.
    La funzione sacramentale della Chiesa è perciò legata alla manifestazione e alla esperienza di una ricostruita comunione. La Chiesa può manifestare efficacemente la salvezza, perché «è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell'intima unione con Dio di tutto il genere umano» (LG 1). Opera in modo sacramentale per la salvezza, nella misura in cui favorisce l'esperienza di una comunione così intensa e sconvolgente da sollecitare ad un decisione personale per la ragione, ultima e radicale, di questa comunione.
    È vero che gli atti decisivi della vita e della fede sono sempre compiuti personalmente. La solidarietà del singolo con gli altri è però tanto profonda che ogni sua esperienza vitale non può mai essere separata dal suo essere nella comunità. La Chiesa è così il luogo di produzione e di sostegno della vita e della speranza.
    L'unità è il dono dello Spirito di Gesù. Esso preesiste all'impegno di costruire comunione, lo sostiene e lo sollecita. Ma, come la salvezza di cui è segno privilegiato, resta un compito da realizzare.
    L'unità, nella Chiesa, è come un grande sogno di futuro, collocato sempre oltre ogni sforzo e ogni traguardo raggiunto. La desideriamo con speranza operosa, perché siamo costituiti nell'unità e sappiamo di operare nello Spirito di Gesù, il fondamento dell'unità ecclesiale.

    Unità e diversità nella comunione
    Meno pacifici sono il secondo e il terzo dato.
    Coloro che si radunano, dopo la pasqua di Gesù, attorno ai Dodici, hanno la consapevolezza di formare una comunità di persone impegnate a portare avanti la causa del loro Maestro.
    Per questo confessano che Gesù è il Signore nell'impegno di realizzare «un cuore solo ed un'anima sola» e di «avere tutto in comune» affinché non ci sia più «nessun bisognoso» (Atti, 2, 42-45; 4, 32-35).
    Questa comunità si ritrova a celebrare nella «frazione del pane» la progressiva realizzazione del trionfo della Vita sulla morte, nel nome di Gesù (Atti 2, 42).
    Nell'Eucaristia essa rende grazie al Dio vivente per la pasqua di Gesù già compiuta e per quella che quotidianamente viene costruita, nell'attesa della pasqua definitiva del futuro, quando «non ci sarà più la morte» (Ap 21, 4).
    La storia della prima comunità apostolica, tutta intessuta dalla condivisione della vita e della causa di Gesù, ricorda che la Chiesa è la comunione di coloro che stanno dalla parte della vita e, nel nome di Gesù Cristo, s'impegnano perché l'abbiano in abbondanza soprattutto quelli a cui è stata violentemente tolta.
    Attorno alla causa di Gesù nasce l'unità nella comunità. Ma trova ragione, nello stesso tempo, la diversità di vedute e di azioni.
    L'unità si costruisce attorno alla condivisione di un progetto unico e fondamentale: la passione per il Regno di Dio.
    La diversificazione è la traduzione concreta di questo progetto condiviso: una diversificazione molto ampia perché gli impegni necessari sono molti e sempre differenziati, come sono differenti le espressioni concrete dell'unica vocazione e risultano diverse le indicazioni operative, mai derivabili deduttivamente dall'unica fede.
    Nella confessione dell'unica fede e nella costruzione del Regno di Dio, la comunità ecclesiale realizza sempre una «difficile» comunione.

    Il linguaggio oggettivo della fede

    Il terzo sentiero attraversa un altro terreno tutt'altro che agevole.
    L'esperienza di fede costringe il credente al coraggio di una decisione solitaria come quella dei martiri della prima era cristiana: la decisione di fede trova la propria forza in se stessa e non ha bisogno di essere sostenuta dal pubblico consenso.
    Molte volte mi sono preoccupato di collocare la persona al centro delle decisioni e delle espressioni per riconsegnare alla soggettività personale la fatica di vivere e la gioia di credere, sperare, amare.
    Collocare la persona al centro non significa però né rinunciare alla dimensione veritativa del linguaggio della fede, né tanto meno rifiutare la funzione del magistero in ordine alla elaborazione e al controllo di questo linguaggio. Il recupero dell'oggettività avviene in una doppia convergente prospettiva.

    La confessione personale di fede e la confessione ecclesiale
    La centralità della persona nella vita di fede comporta la progressiva capacità di lasciarsi misurare e giudicare da altre soggettività, riconoscendo la funzione autorevole dei testimoni della fede e della Parola, in quella comunità che custodisce la nostra debole fede, la vivifica e la rigenera.
    In questo senso, davvero, la Chiesa è il luogo della verità, nell'unità e nella carità.
    Non possiamo però immaginare il processo come un progressivo avvicinamento della personale professione di fede ad un codice già confezionato e concluso di affermazioni, e non possiamo certamente affidare al magistero il compito di controllare quale sia ancora la distanza tra la formulazione ufficiale e quella personale. In questo modello, la confessione di fede assomiglia molto all'ascolto di una bella sinfonia musicale, in una camera insonorizzata e con strumenti di registrazione raffinati. Tutto è gradevole, perché la riproduzione è perfetta...; e quando non è così, si richiede l'intervento dei tecnici per riparare i guasti.
    Per la verità e l'autenticità di ogni espressione personale, l'atteggiamento con cui il credente esprime la sua esperienza di fede segna i contenuti della sua fede ecclesiale. La decisione e l'accoglienza dei contenuti oggettivi dell'esistenza cristiana risentono perciò della frammentarietà e della differenziazione soggettiva che caratterizzano ogni conoscenza storica.
    Anche nel confronto, amorevole e disponibile, con la formulazione ufficiale della fede ecclesiale, il credente dice la sua fede con le sue parole e nella risonanza suscitata dalla sua esperienza vitale.
    La ricostruzione di un'accoglienza, rispettosa e matura, della fede oggettiva della Chiesa e della testimonianza del magistero, comporta un processo di crescita continua, dalla decisione possibile qui e ora ad una persona, verso i contenuti teologici affermati come normativi della comunità ecclesiale attuale.

    L'oggettività del Regno di Dio
    C'è poi una seconda prospettiva di maturazione, su cui procedere per orientare la soggettività verso l'oggettività di confronto e di giudizio.
    Il singolo credente e la comunità ecclesiale sono chiamate a misurarsi sul Regno di Dio.
    Come ho già ricordato in altri contesti, nell'esperienza cristiana il criterio di verifica è offerto dalla condivisione, appassionata e operosa, della causa di Gesù.
    Costruire il Regno di Dio nel tempo, verso la sua esplosione definitiva nei cieli nuovi e nella nuova terra, è un fatto fortemente oggettivo, perché vita e morte hanno un loro spessore esigente e concreto, soprattutto quando sono comprese nella prassi di Gesù. Non è verificabile con le categorie sicure con cui si valuta la congruenza di una formula scientifica. Ma il confine che divide la morte dalla vita è sempre netto e preciso, anche se va giocato nel rischio della fede e della carità.
    Ritorna come dono prezioso il servizio del magistero: la testimonianza dell'orizzonte di verità per la costruzione del Regno.
    Su questa frontiera la soggettività si spinge verso l'oggettività dell'ortodossia e dell'ortoprassi (come viene chiamato in gergo l'impegno ecclesiale di dire e far la verità).

    Quale Chiesa per l'appartenenza

    Il lettore attento, che ha percorso con amore critico le pagine precedenti, si è accorto che l'appartenenza alla Chiesa e la rivisitazione della sua immagine erano animate da un'unica grande intenzione: costruire una comunità ecclesiale capace di accoglienza incondizionata, per crescere in essa, nella festa e nel servizio alla vita.
    Di una comunità così abbiamo tutti grande nostalgia. E ci piace la Chiesa, perché è il segno, concreto e quotidiano, della solidarietà del Dio di Gesù Cristo con questo nostro sogno.
    Spesso la nostra vita non è proprio come dovrebbe essere. Cerchiamo impegno e coerenza, e ci ritroviamo a fare i conti con in nostri tradimenti.
    Nessuno però ci può strappare dall'amore alla nostra comunità. Sentiamo che ci protegge e ci sostiene. Esiste una identificazione effettiva intensa che si svolge prima dei gesti che compiamo e l'investe più nel profondo.
    In questo modo si instaura un rapporto tra credenti e comunità ecclesiale che garantisce il corretto sviluppo del processo di iniziazione cristiana, anche se per il momento non tutto è ancora perfetto.
    Ci sentiamo dentro la comunità, accolti e protetti dal suo grembo materno. Forse non conosciamo ancora tutti i contenuti dell'esistenza cristiana che la comunità propone. Forse siamo attraversati da dubbi e incertezze. Anche la traduzione dell'esperienza di fede in esperienza etica soffre di troppi tradimenti.
    Resta però il dato fondamentale: viviamo dentro la comunità.

    MOVIMENTI PER UN ITINERARIO

    Ho suggerito la meta verso cui tende l'itinerario e i sentieri da percorrere con un'attenzione privilegiata. Ora, finalmente, posso tracciare il concreto cammino verso un senso di appartenenza ecclesiale.
    La mia proposta è centrata sul gruppo ecclesiale, perché lo considero la «mediazione» privilegita, nell'attuale situazione culturale e giovanile, per maturare verso una intensa esperienza ecclesiale.
    Con questa scelta non voglio privare della possibilità di vivere una reale esperienza di Chiesa i molti giovani che non appartengono a gruppi e movimenti ecclesiali. Il problema è serio.
    Non possiamo certamente esigere l'appartenenza a gruppi come condizione indispensabile per l'esperienza ecclesiale.
    Il riferimento alla Chiesa, decisivo per ogni esistenza cristiana, è legato alla Chiesa come evento. Questo riferimento supera le diverse istituzioni in cui si realizza e corre su dimensioni che non possono essere controllate con i criteri dell'appartenenza sociale.
    L'evento della Chiesa prende carne però nelle sue realizzazioni storiche: l'istituzione ecclesiale, la parrocchia, la diocesi... Queste realizzazioni condizionano di fatto il senso di Chiesa. Lo sostengono quando sono trasparenti nella loro funzione sacramentale; lo rendono difficile, se vengono percepite poco significative o prive di quel respiro comunionale, segno privilegiato della salvezza di Dio.
    In un tempo come il nostro e con giovani trascinati su molteplici appartenenze, in genere più seducenti di quella vissuta nei confronti della comunità ecclesiale, non è certo facile arrivare alla Chiesa se non viene sperimentata come realtà vicina e interpellante.
    Per questa consapevolezza il mio itinerario è centrato sul gruppo. Lo considero un luogo privilegiato per vivere nella Chiesa e un impegno per gli educatori della fede ad assicurare esperienze di gruppo anche per i giovani «isolati».

    La prima esperienza di aggregazione

    Molti giovani vivono in situazione di disgregazione e di anonimato. Altri, invece, tendono a consumare lo stare assieme, svuotandolo di ogni significato e di ogni ragione.
    In questa situazione, non c'è molto spazio per l'esperienza ecclesiale: manca quella dimensione di comunione ricostruita e sognata che è il suo fondamento.
    Il primo movimento propone come meta il superamento di questa situazione: dalla dispersione o dalla aggregazione-senza-ragioni allo stare assieme per una causa (anche piccola), che permetta una iniziale esperienza di comunione mirata su un progetto che abbia un senso oltre il semplice consumo.
    Nella vita di un gruppo tutto può servire per iniziare il processo di aggregazione e il suo consolidamento in espressioni mature.
    Ogni suggerimento, a questo proposito, può essere dato solo a titolo di esempio.
    Lo spontaneo convergere verso esperienze in cui realizzare quel bisogno di stare assieme, molto diffuso a livello giovanile, rappresenta un primo importante passo aggregativo.
    Interessanti momenti aggregativi sono anche l'incontro attorno ad interessi (sport, musica, cultura...).
    L'educatore accorto, che crede all'educazione anche quando fa educazione alla fede, prende atto di questa trama spontanea di relazioni. L'accoglie, consapevole che essa si porta dentro già i germi di una tensione di maturazione ulteriore. Ne sostiene e sollecita il progressivo sviluppo.
    A questo livello il discorso si fa impegnativo, la passione pastorale si esprime anche attraverso l'acquisizione di una competenza professionale nell'ambito dell'animazione.

    Lavorare per costruire aggregazione
    Prima di tutto è indispensabile dare una chiara e condivisa risonanza collettiva alla ragione che ha suscitato l'aggregazione. Ogni obiettivo ha una sua germinale risonanza collettiva; spesso però essa è sepolta sotto espressioni individualistiche ed egoistiche. La vita del gruppo viene così minacciata sul nascere, perché è bloccata la convergenza verso quel senso del «noi» che costituisce la coesione di gruppo. Quando invece l'obiettivo viene riportato alla sua giusta dimensione collettiva, esso è restituito «umanizzato» ai suoi protagonisti. Ci si ritrova «assieme» proprio come condizione, felice e ricercata, per raggiungere l'obiettivo sognato.
    È poi importante far acquisire «prestigio» all'obiettivo: solo quando esso possiede un suo fascino, è in grado di raccogliere gente attorno a sé. Anche in questo ambito il servizio educativo riporta le cose alla loro verità. Troppe volte, infatti, il fascino è manovrato ad arte, come occulto principio di manipolazione culturale. Riesce difficile aggregarsi attorno ad obiettivi educativi, perché risultano svuotati di prestigio, declassati tra le esperienze non significative. Si cercano solo i sapori forti, in un ritmo crescente di obsolescenza disumanizzante.
    Il fascino può scatenare reazioni emotive o irrazionali e può generare una spirale di competitività assurda. In questo caso il gruppo diventa spersonalizzante e manipolatorio. Il compito di controllare questi processi ambivalenti ricade, come sempre, sull'educatore. Egli sa, però, che senza fascino non c'è aggregazione.
    Un altro prezioso contributo all'aggregazione è costituito dagli interventi che aiutano i membri del gruppo a deporre maschere e stereotipi.
    Il fenomeno è di esperienza quotidiana; non meno facile invece è la percezione riflessa dei disagi educativi che scatena. Il conformismo di gruppo può trascinare i suoi membri a parole altisonanti, a pretese e a gesti di grosso rilievo educativo, sotto il cui velo si mistifica invece il disimpegno e l'individualismo; altre volte scatena reazioni di difesa o innesca una ricerca affannosa di consenso.
    In tutti questi casi, l'aggregazione è minacciata nella sua qualità. Con un minimo di sapienza educativa, l'educatore può aiutare il gruppo a cercare veramente quello che dice di ricercare a parole.
    Su questa base di iniziale maturità aggregativa è possibile costruire la qualità di uno «stare assieme» per una causa (anche piccola), che riporta l'esperienza aggregativa verso la comunione ecclesiale.

    L'attenzione a «tutti» i gruppi
    Come si nota, prendo le distanze da quel modo di fare, purtroppo diffuso, che verifica l'obiettivo di gruppo sulla variabile dei suoi contenuti. E così distingue tra finalità «religiose» e finalità solo «profane». In questo modello diventano interessanti rispetto all'esperienza di Chiesa solo i gruppi con obiettivi a carattere formalmente religioso. Gli altri sono considerati tempo perso rispetto ai processi della fede o, al massimo, funzionano come propedeutici.
    Considero invece l'esperienza ecclesiale una dimensione riflessa e intenzionale, che colloca le finalità di vita in un orizzonte di preoccupazioni educative, con riferimento in progressiva esplicitazione all'evangelo di Gesù.
    Per questo mi preoccupo, nei primi movimenti dell'itinerario, soprattutto della qualità dell'obiettivo: lo cerco capace di assicurare aggregazione matura e motivata, a partire da qualsiasi spessore di contenuti.

    L'attenzione verso i giovani «isolati»
    Non vogliamo di certo tagliar fuori dal nostro cammino i giovani che vivono ai margini persino di un minimo di esperienza aggregativa. Per essi il gruppo non è la prima tappa di un itinerario verso l'appartenenza ecclesiale. È ancora una meta lontana, da conquistare.
    Con questi giovani l'intervento è tutto giocato nel sollecitare ad uscire dall'isolamento, attraverso le mille risorse che la passione educativa sa inventare.
    L'impegno non è orientato esplicitamente verso l'appartenenza ecclesiale, ma attraversa l'esistenza quotidiana, in questo nostro contesto culturale. È servizio all'uomo, consapevoli che chi vive nello sbando dell'isolamento e dell'anonimato respira morte e risulta troppo esposto ai mercanti di morte.
    Restituito alla gioia responsabile della solidarietà, scoprirà, passo dopo passo, anche la Chiesa, la grande compagnia dei figli di Dio.

    La sintonia tra lo stare assieme e la causa di Gesù

    Il secondo movimento cerca la ricostruzione, almeno germinale, di un preciso collegamento tra lo «stare assieme», la causa di Gesù e la sua confessione. Per comprendere il significato e la funzione educativa di questo movimento, bisogna ripensare, per un momento, ad alcune delle riflessioni che ho utilizzato per disegnare i sentieri verso la Chiesa.
    Al centro dell'itinerario di educazione al senso di appartenenza ecclesiale colloco la realizzazione della salvezza che Dio offre in Gesù a tutti gli uomini. Di questa salvezza la Chiesa è infatti il «sacramento», nel senso che ho ricordato poco sopra.
    Il rapporto tra salvezza e comunione è molto stretto. L'affermazione può essere considerata secondo due accezioni complementari: la salvezza di Gesù si fa, normalmente, nella comunità ecclesiale; la salvezza costruisce comunità, perché raduna in una unità ricostruita gli uomini dispersi e disgregati.
    Questo secondo significato va sottolineato, soprattutto in un itinerario che pretende di arrivare alla Chiesa procedendo sul ritmo, graduale e progressivo, dell'esperienza di gruppo.
    Molte volte, nella sua prassi salvifica, Gesù ha ricostruito i rapporti autentici e fraterni tra gli uomini, contestando le logiche che producevano separazione e eliminando le malattie corporali che la giustificavano (Mt 11,4; Lc 4, 17-21). Ha fatto così con i pubblicani e le donne di strada; così ha operato con i lebbrosi e gli indemoniati, che abitavano fuori dalla città, sepolti nelle caverne e nelle tombe. Ha ridisegnato il rapporto tra comunità e autorità, affermando il carattere funzionale dell'autorità, rispetto alla comunità (Mc 10, 42-45).
    Quelli che si erano smarriti per una ricerca insensata di autonomia (come narrano le «parabole della misericordia»: Lc 15) sono radunati per la grande festa di nozze. Gesù cerca la pecora perduta, accoglie in un abbraccio profondo il figlio che torna a casa e prepara la festa della comunione ricostruita. La Chiesa è la grande festa della salvezza: una comunione progressivamente ricostruita, come segno e inizio della ricostruzione definitiva della comunione tra Dio e tutti gli uomini.

    Un luogo di intensa esperienza di comunione
    Queste riflessioni sono importanti, in una ricerca di educazione al senso di appartenenza ecclesiale.
    Tutte le volte che viene costruito un frammento di comunione interpersonale, qualcosa della salvezza definitiva di Dio prende dimora nella storia degli uomini Nasce un frammento di Chiesa.
    La pienezza espressiva della vita ecclesiale e della salvezza non è un'altra cosa, rispetto a questa esperienza di comunione.
    La salvezza è la sua radicalizzazione in prospettiva di completamento: e la Chiesa è la sua pienezza in ordine alla consapevolezza riflessa e tematica.
    In questa logica ho formulato il secondo movimento: la scoperta che lo stare assieme e la ragione di questo stare assieme coinvolgono la causa di Gesù e la sua confessione.
    Per arrivare alla Chiesa partendo dal gruppo è indispensabile fare del gruppo un luogo dove si respiri una reale esperienza di comunione, secondo lo stile dell'evangelo, e dove questo frammento di vita nuova sia rilanciato verso un progetto più grande, che lo sostiene e lo consolida nell'orizzonte del mistero di Dio.
    Tutto questo richiede la capacità di organizzare la vita di gruppo e la sua proiezione verso l'esterno secondo modelli alternativi rispetto al ritmo spontaneo.
    E richiede la capacità di entrare dentro l'esperienza vissuta, alla ricerca delle ragioni profonde.
    Questa meta viene assicurata solo quando la «testimonianza» di qualcuno che dà le ragioni dei gesti di speranza che pone (i giovani più impegnati, adulti significativi, personaggi ecclesiali, esperienze e celebrazioni...) è accompagnata dalla preoccupazione, costante e competente, di collocare ogni persona al centro, in e attraverso il gruppo.

    La persona al centro
    Molti testi di dinamica di gruppo mettono in risalto una tendenza diffusa nei gruppi primari. Essi sono portati a creare identificazione al gruppo stesso, sognato e sperimentato come un essere vitale, capace di soddisfare ogni attesa affettiva. Per consolidare questa illusione, i membri sono disposti a sacrificare tutti i desideri e tutti i progetti.
    Alcuni gruppi cercano di superare questo modello paradisiaco e si buttano all'azione. Purtroppo, in un tempo difficile come è il nostro, è incombente il rischio di venire risopinti violentemente nel grembo rassicurante dei propri sogni.
    Il gruppo si inventa così un nuovo principio di sopravvivenza: le energie, che dovrebbero essere canalizzate nei compiti, sono invece progressivamente impegnate nello sforzo di autoconservazione. Sembra che la vita scorra tranquilla, nonostante le crisi. Si è prodotto invece solo un processo pericoloso di sublimazione: gli ostacoli non sono stati superati, ma solamente rimossi. L'atteggiamento di dipendenza è legato al tentativo di recuperare sicurezza mediante l'accettazione di dipendere supinamente da qualche leader, interno o esterno al gruppo, oppure dal proprio passato, considerato come particolarmente glorioso e affascinante.
    Attraverso atteggiamenti di aggressività si cerca di rimuovere lo stato di crisi lanciandosi contro cose e persone da cui ci si sente minacciati, oppure assumendo una reazione, dura e continua, verso l'esterno.
    La sicurezza può essere anche recuperata proiettandosi continuamente verso un domani radioso, sempre irraggiungibile, e per questo utopico. Qualche volta questo atteggiamento assume anche i toni di un idillio a sfondo sessuale.
    Basta uno sguardo sul panorama dei gruppi ecclesiali per costatare come questi rischi siano tutt'altro che remoti. Dipendenza, aggressività, utopia risuonano facilmente nell'esistenza cristiana. Sembrano le caratteristiche più raffinate del gruppo ecclesiale impegnato.
    Rileggendo le cose in termini attenti e critici, ci si accorge però che tra il modello evangelico e quello evocato da queste considerazioni c'è una profonda insanabile differenza. Nell'esistenza credente siamo sollecitati a riconsegnarci a Chi, fuori di noi, è la fonte gratuita e interpellante della nostra speranza e del nostro impegno. Nel gruppo, catturato da questi atteggiamenti sublimatori, la ragione è invece il gruppo stesso, ripiegato sulla propria storia.

    Chiamiamo per nome la Chiesa

    Il terzo movimento è mirato alla prima e iniziale scoperta della Chiesa.
    Finalmente possiamo chiamare per nome la Chiesa: la comunità dove si fa esperienza di aggregazione e di impegno è una piccola Chiesa, vicina, sperimentabile, coinvolgente.
    Non siamo ancora giunti alla piena esperienza di Chiesa: ma solo all'incontro con una realtà concreta, «mediazione» di Chiesa. È importante riconoscere che essa è già vera esperienza di Chiesa, anche se non è ancora tutta la Chiesa. Attraverso l'identificazione con questa concreta esperienza di Chiesa, nasce, viene sostenuta e progressivamente ampliata l'appartenenza alla Chiesa.
    Questa è una tappa importante del lungo e impegnativo cammino verso l'appartenenza ecclesiale. Sulla qualità del suo sviluppo viene concretamente giocata l'immagine di Chiesa che sarà presente nell'esperienza giovanile.

    Dal gruppo alla Chiesa
    Il rapporto tra «gruppo» e «Chiesa» è un rapporto molto originale. Nella visione ecclesiologica che percorre le pagine di questo capitolo, lo posso descrivere tra continuità e discontinuità. Mi spiego.
    L'esperienza aggregativa e comunionale, sperimentata in gruppo, è già una reale esperienza di Chiesa. Non solo però non è «tutta» l'esperienza ecclesiale: questo è evidente. La Chiesa è sempre «oltre» il gruppo: un dono dato alla nostra ricerca di comunione, da accogliere in disponibile obbedienza e da vivere nella trepidazione di chi manovra realtà che non gli appartengono. Vivere la Chiesa è sperimentare un frammento di quella vita nuova, che sta «oltre» la carne e il sangue. Vivere la Chiesa è incontrare, nel gesto di tanti fratelli, l'abbraccio accogliente di Dio di Gesù, che restituisce dignità e speranza alla nostra quotidiana esperienza. Ma è anche incontrare un evento esigente, che sconvolge e inquieta, perché decentra verso progetti più avanti dei nostri passi più avanzati.
    Per giungere alla Chiesa, in e attraverso il gruppo, dobbiamo certamente percorrere la strada della continuità e della convergenza. Dobbiamo però abbattere anche quella della discontinuità e della distanza.

    I criteri di ecclesialità
    Molti e interessanti documenti ecclesiali mettono l'accento su questa prospettiva. Riconoscono, con crescente gioia, che nei gruppi e nelle comunità di base viene vissuta una intensa esperienza di Chiesa. E raccomandano alcuni atteggiamenti che il gruppo è chiamato ad assumere, nel ritmo quotidiano della sua esistenza. Questi atteggiamenti offrono dei criteri di verifica: non sono cose da fare o da evitare, ma uno stile globale, su cui misurare la prassi del gruppo. In genere sono riassunti con una formula originale: i «criteri di ecclesialità» per i gruppi, i movimenti, le comunità di base.
    I «criteri di ecclesialità» sottolineano la qualità del cammino di ogni gruppo verso un maturo senso di esperienza ecclesiale.
    Ricordano prima di tutto che l'ecclesialità non può essere abbandonata alla spontaneità e alla soggettivizzazione. Va invece verificata, nella forma e nella sostanza, da coloro che nella comunità ecclesiale possiedono il ministero del discernimento, per la verità e l'unità della comunione.
    Indicano poi la direzione di questo cammino: l'ascolto della parola, la vita liturgica e sacramentale, la prassi evangelica, il confronto e il dialogo nella Chiesa locale e con i rispettivi pastori.
    Cito solo una proposta. La ricavo da un documento dell'Episcopato brasiliano: «Fedeli alle condizioni essenziali che le definiscono come chiesa, le «comunità ecclesiali di base» (CEB) hanno dimostrato grande ricchezza e creatività nel loro modo di essere e di vivere la vocazione della chiesa presente nel mondo.
    Riconoscono di essere chiamate e alimentate dalla Parola, sulla quale riflettono sotto l'azione dello Spirito in vista della conversione personale e sociale.
    Ascoltano la realtà, agiscono su di essa e cercano di trasformarla quando la situazione lo esige. Alla base di questa azione trasformatrice sta la convinzione che Dio ci parla anche per mezzo degli avvenimenti e ci chiama a costruire una società secondo il suo disegno.
    Sono legate fra loro, con la parrocchia, con la chiesa particolare nella quale si inseriscono, con la chiesa universale, mantenendo una comunione sincera con i loro pastori.
    Crescono nella coscienza del dovere missionario. Esse evangelizzano come la chiesa, la quale 'in virtù della sola potenza divina del messaggio che essa proclama, cerca di convertire la coscienza personale e insieme collettiva degli uomini, l'attività nella quale essi sono impegnati, la vita e l'ambiente concreto loro propri' (Evangelii nuntiandi 18).
    Celebrano gli avvenimenti quotidiani come segni della presenza di Dio, ponendo nell'Eucaristia la radice e il culmine del vivere fraterno.
    Esprimono la carità attraverso il servizio: servizio mutuo all'interno e servizio alle comunità umane più ampie nelle quali si trovano inserite come fermento, segno e impegno per la liberazione di tutto l'uomo e di tutti gli uomini
    Qualunque sia il cammino scelto per la loro realizzazione, esse si sforzano di riprodurre nella loro vita lo stesso mistero della chiesa. Per questo le CEB in Brasile vogliono essere: 'comunità' di fede e di culto, sacramento della presenza salvifica di Dio nella storia degli uomini» (SEDOC n. 160, aprile 1983, 989-1002. Traduzione SIAL n. 10, maggio 1983, 31-38).

    Verso la Chiesa

    Il quarto movimento sollecita verso la piena appartenenza ecclesiale. Può essere formulato così: dalla piccola Chiesa alla scoperta progressiva della grande Chiesa (la Chiesa «istituzione»: con i suoi compiti e le sue responsabilità).
    Con questo movimento sottolineo un problema serio e molto grave: il rapporto del gruppo (in cui il giovane ha imparato a riconoscere e ad amare la Chiesa) con la grande comunità ecclesiale e con il suo linguaggio. Nonostante le dichiarazioni contrarie, un gruppo, impegnato e fortemente coeso, è continuamente tentato di costituirsi come l'unico modo serio di essere Chiesa o di proporsi, più o meno consapevolmente, come il «tutto» della Chiesa. Diventa così una «chiesa parallela».
    A questa tentazione non si può reagire, come purtroppo capita, cercando un rapporto tra gruppo e istituzione solo di tipo funzionalista: il gruppo non ha nulla di specifico e di autonomo; funziona solo come «riserva di caccia» dell'istituzione. Il gruppo è così centrato unicamente sul compito verso l'esterno. La legge dell'efficienza schiaccia ogni ricerca di gratificazione.
    Se prendiamo sul serio i «sentieri» tracciati nella prima parte dell'articolo, possiamo immaginare una soluzione alternativa.
    Il gruppo, per assolvere i suoi compiti ecclesiali, deve risultare davvero «mondo vitale» per i suoi membri, luogo di intensi rapporti primari. Solo questo gruppo assicura la «mediazione» in cui i giovani vivono l'esperienza di Chiesa in un tempo di crisi e di pluralismo. Nel gruppo e attraverso il gruppo essi ricostruiscono progressivamente la loro identità cristiana. Nel gruppo elaborano un linguaggio per dire la loro fede, capace di salvare in un'unica parola la loro soggettività e l'oggettività dell'esperienza credente. Nel gruppo essi celebrano la loro vita quotidiana che si fa salvata in Gesù Cristo. Nel gruppo apprendono a riconoscere la Chiesa come progetto donato, da accogliere nella conversione e nella lode.
    Attraverso il gruppo, però, i giovani fanno esperienza di un'appartenenza ecclesiale più vasta e diversificata. Per questo, viene ricercato costantemente il confronto con le altre espressioni ecclesiali e con quelle realizzazioni istituzionali di Chiesa che rappresentano l'evento normativo di ecclesialità.
    Imparano così a superare le diverse soggettività nell'oggettività del dato ecclesiale, in una storia collettiva che fa del gruppo un frammento del gran-. de popolo dei credenti in Gesù Cristo.
    In questo modello, come si nota, l'appartenenza vitale è al gruppo, perché quando i giovani sono sollecitati a scegliere tra una doppia appartenenza al gruppo e all'istituzione ecclesiale, il conflitto si risolve facilmente con l'emarginazione della istanza più debole e meno emotivamente significativa.
    Per questo prevale e viene riconosciuto il linguaggio del gruppo per dire e celebrare la fede, anche se risulta parzialmente diverso dalle espressioni ufficiali della comunità ecclesiale.
    La comunità educatrice della fede riconosce così, contro ogni pretesa di assurdo oggettivismo, che l'atteggiamento con cui il credente esprime la sua esperienza di fede segna sempre i con tenuti della sua fede ecclesiale. Per questo esiste un linguaggio della fede, specifico per ogni persona e, soprattutto, per ogni gruppo.
    Questa stessa esperienza di fede deve però crescere progressivamente verso l'accoglienza dei contenuti oggettivi dell'esistenza cristiana, come sono documentati nella coscienza attuale della comunità ecclesiale. Il linguaggio di fede del gruppo si apre perciò continuamente verso il linguaggio comunitario della fede.
    Nel gruppo e attraverso il gruppo, ogni giovane si immerge così nella più vasta e complessiva appartenenza alla Chiesa.

    Nella Chiesa per il Regno

    L'appartenenza alla Chiesa non è fine a se stessa. I testi evangelici che si riferiscono alla costituzione dei Dodici e alla missione della Chiesa, pongono fortemente l'accento tra il momento dell'annuncio e la prassi che ne scaturisce.
    L'accoglienza dell'annuncio e l'incontro non si limitano all'accettazione intellettuale del messaggio di Gesù, ma richiedono più radicalmente la condivisione della sua vita e della sua causa. L'ho già ricordato più volte: l'appartenenza alla Chiesa comporta la condivisione operosa dell'ansia di Gesù per il Regno di Dio.
    Di qui il quinto movimento: dalla scoperta della Chiesa alla condivisione piena e appassionata della causa di Gesù: impegnati nella Chiesa per il Regno. A questo livello, la scoperta della Chiesa si fa impegno «militante» nella Chiesa per la causa di Gesù: l'esperienza ecclesiale suscita vocazioni per il Regno di Dio.
    Nell'itinerario di maturazione nella fede questa è una tappa importante: la fede ritorna alla vita quotidiana, pei una qualità nuova di vita, personale e collettiva.
    Ho sviluppato questo tema in un altro dossier (cf NPG 1989/3).


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