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    Immaginare una nuova fede popolare tra i giovani (libro "Scommettiamo nell'educazione")


    CSPG, Scommettiamo nell'educazione, Elledici 1988

     

    Immaginare una nuova fede popolare tra i giovani
    Pino Scabini
    (pp. 131-138)

    «Ah, se si fosse lasciato fare agli uomini di Chiesa!... Un popolo cristiano, ecco che cosa avremmo fatto, tutti assieme. Un popolo di cristiani non è un popolo di colli torti. La Chiesa ha i nervi solidi, il peccato non le fa paura, al contrario. Lo guarda in faccia, tranquillamente, e persino, secondo l'esempio di Nostro Signore, lo prende a proprio carico, se lo assume. Quando un buon operaio lavora come si conviene sei giorni alla settimana, si può bene concedergli una ribotta il sabato sera.
    Guarda, voglio definirti un popolo cristiano definendo il suo opposto. Il contrario di un popolo cristiano è un popolo triste, un popolo di vecchi. Mi dirai che la definizione non è troppo teologica. D'accordo. Ma ha di che far riflettere le persone che sbadigliano alla Messa della domenica. Certo che sbadigliano! Non vorrai che in una misera mezz'ora per settimana la Chiesa possa insegnar loro la gioia! E anche se conoscessero a memoria il catechismo del concilio di Trento, probabilmente non sarebbero più allegri» (G. Bernanos, Diario di un curato di campagna).

    Un popolo di cristiani con il segreto della gioia

    L'appassionato scrittore francese non è un biografo di don Bosco e nemmeno un «pastoralista». Ma non si può negare che, nella pagina citata e giustamente nota, rende un'indiretta testimonianza al carisma di don Bosco, a quella promozione di fede popolare che si pone tra la cura élitaria e l'abbandono a se stesse di intere generazioni giovanili.
    Nel testo di Bernanos sono presenti realistiche constatazioni, come la noia di alcuni praticanti, e un'indicazione di grande rilievo quando cristallizza nella gioia il frutto di una tenace opera della Chiesa che s'immerge nel mondo dell'uomo. La gioia, la «beatitudine» è il sigillo di un autentico cristianesimo, è il gigantesco segreto dei cristiani che «strappa dal cuore di Adamo il sentimento della sua solitudine».
    È proponibile, oggi, nelle tanto cambiate situazioni sociali, culturali e ecclesiali, la via della fede popolare? Lavorare per «fare dei buoni cristiani» è traducibile in una terza via che esorcizzi un disimpegno odierno piuttosto ampio nella pastorale giovanile, senza imboccare strade che appaiono percorribili soltanto ad alcuni?
    Forzando un tantino i termini, si potrebbe pensare a una fede evangelica che porti a maturità i germi di una nuova religiosità giovanile quale emerge da non pochi segnali. È, forse, il sogno segreto di tanti operatori pastorali che non rinunciano a sperare. Non c'è realizzazione che non si alimenti della speranza che, nel suo insieme, richiede revisioni, ricerca, punti d'appoggio e lunga pazienza; non c'è nulla di più realistico della speranza.

    UNA COMUNITÀ CRISTIANA PELLEGRINA E «POPOLARE»

    Condizione primaria di un onesto impegno pastorale, orientato a lievitare le nuove generazioni verso un cammino corale, sembra essere quella radicale conversione al progetto di Cristo sulla sua Chiesa, riproposta con forza dal Vaticano II, e finora solo intuita e anche amata ma ostacolata da molteplici resistenze, soprattutto interiori.
    Nel disegno di Cristo, la Chiesa appare «pellegrinante», così che «nei suoi sacramenti e istituzioni, che appartengono all'età presente, porta la figura fugace di questo mondo, e vive tra le creature, le quali sono in gemito e nel travaglio del parto sino ad ora e sospirano la manifestazione dei figli di Dio... Prosegue il suo pellegrinaggio fra le difficoltà del mondo e le consolazioni di Dio per svelare al mondo con fedeltà, anche se sotto ombre, il mistero del Signore» (LG 48 e 8).
    Siamo lontani, in questa ottica, da una concezione di Chiesa che si vuole perfetta, detentrice di tutti i valori umani, depositaria di ogni segreto di riuscita umana, la «Chiesa dei perfetti», così tenacemente avversata dal padre Congar e non recepita nel Vaticano II.
    Nella realtà, è una concezione di Chiesa tutt'altro che scomparsa; essa resiste nei fatti e nelle aspirazioni di qualcuno, con il risultato di sbarrare le porte di accesso alla maggioranza di quelle «creature che sono in gemito e vivono nel travaglio del parto».
    La comunità cristiana in tal modo non è «casa comune», e si ritrova ad essere clericale, movimentista, ecc.
    L'alternativa da costruire è nel progetto di una comunità ecclesiale pellegrinante, frutto, oltre che dello Spirito del Signore, dell'impegno e, prima ancora, dello stile di vita dei suoi membri: cristiani pellegrini, compagni di viaggio con i soggetti della storia umana.
    L'antico testo di A Diogneto ne presenta i tratti distintivi: «Abitando nelle città comuni, come a ciascuno è toccato, e uniformandosi per quanto concerne l'abbigliamento, il vitto e il resto della vita quotidiana, mostrano il carattere mirabile e straordinario del loro sistema di vita. Abitano nella loro patria, ma come stranieri, partecipano a tutto come cittadini e tutto sopportano come forestieri; ogni terra straniera è loro patria e ogni patria è terra straniera».
    La pregnanza del testo dispensa, qui, dallo sviluppare il senso, lo spessore, le esigenze dell'essere pellegrini e stranieri. Tornano utili invece alcune sottolineature che vogliono portare a cogliere importanti conseguenze.
    Prima dei contenuti, appare necessario preoccuparsi del soggetto e dei soggetti di una fede, che chiamiamo popolare.

    Un dono per la comunità dei credenti

    Soggetto pieno di essa è in via prioritaria una comunità ecclesiale autenticamente popolare.
    La fede, nel suo originale intreccio di mistero e di responsabilità umana, non è avventura di isolati, di solitari; in via ordinaria, e fatto sempre salvo il mistero di Dio, passa di generazione in generazione, si tramanda e comunica come un fatto vitale, ha bisogno di un grembo accogliente e oblativo che si identifica con una comunità di fede.
    In sede storica si può affermare che il carisma di un santo - nel nostro caso di don Bosco - si comunica al naturale destinatario che è in primis la comunità ecclesiale e, in essa, a quanti l'accolgono con particolare amore. Chi propone e offre, oggi, una fede popolare non è tanto un singolo o un gruppo, quanto piuttosto un'autentica comunità ecclesiale che tradisce la sua vocazione-missione sia quando abbandona in mezzo alla strada coloro che le sono affidati, sia quando presumesse di discriminare tra «buoni» e «cattivi».
    Essere «buon cristiano» è diritto nativo di tutti, sgorgante dal mistero di Dio che chiama tutti a salvezza «non individualmente e senza alcun legame tra loro ma costituendo un popolo che riconosca Dio nella verità e santamente lo serva» (LG, 9).
    A ben riflettere, c'è una singolare affinità tra la Chiesa, popolo di Dio pellegrinante, e il popolo di uomini e donne di ogni tempo.
    Non c'è popolo di Dio se non è pellegrinante; non è popolo e non è «beato» se non diventa di Dio.
    È sufficiente questo per indicare il primo elemento di una pastorale giovanile che voglia tenersi lontana da tentazioni di disimpegno e di potenza: una comunità ecclesiale con la bisaccia del pellegrino, pronta a mescolarsi con tutti sulle strade della vita e a «sporcarsi le mani» nel costruire il Regno di Dio con tutti i frammenti, quali sono le generazioni che si succedono nel tempo.

    FEDE EVANGELICA, ESSENZIALE, INTEGRALMENTE UMANA

    Il contenuto della bisaccia è immediatamente conseguente, e porta nel cuore di una ricerca appassionante ma non facile: la qualità della fede che si vuole giustamente «popolare».
    La condizione giovanile, considerata in se stessa e nelle sue esigenze storiche, quali si mostrano oggi, è una necessaria coordinata che, ben indagata, offre preziose indicazioni agli operatori pastorali.
    Ma da sola non basta; la fede ha - per così dire - una sua struttura che non consente a nessuno di adattarla più di tanto. Dimensione soggettiva e dimensione oggettiva della fede sono inscindibili.
    1. I giovani, intanto, non sono ancora dei «maturi»; la sollecitudine paolina di dare ai neonati in Cristo, o poco più, un latte conveniente e non un nutrimento solido, di cui sono incapaci (cf 1 Cor 3, 1-3), va considerata fondamentale.
    L'acuita e talora smisurata soggettività della cultura contemporanea di cui i giovani sono i più sensibili testimoni e i non volontari eredi, orienta, per esempio, a non dare nozioni a chi chiede valori; a non pretendere subito pratiche religiose da chi cerca spasmodicamente sincerità e modelli di vita, con il rischio di sentire le pratiche come una gabbia; a non pigiare l'acceleratore sull'emozione con chi ne ha in eccesso, ecc.
    2. La condizione giovanile odierna sembra esigere dalla pastorale un vero culto dell'essenzialità, tutt'altro che estraneo, anzi propriamente appartenente alla struttura della fede.
    Con una non neutrale accentuazione di contenuti, la fede è descritta nel Vaticano II (DV, 5) come un «abbandonarsi dell'uomo tutto a Dio liberante» («totum libere se committere Deo»), come un'obbedienza liberante che non prescinde dall'ossequio dell'intelligenza e della volontà, ma ha il suo punto di forza in un rapporto integrale, in una «parola tra amici» e in «un intrattenimento reciproco che invita e ammette alla comunione con Dio» (DV, 2).
    E poiché la parola di Dio si condensa in Cristo, Verbo eterno che illumina tutti gli uomini, vedendo il quale si vede anche il Padre, l'alleanza tra uomo e Dio, la fede, s'incentra nell'«essere in Cristo» che, con eventi e parole intimamente connessi tra loro, svela e testimonia in modo efficace e quotidiano che «Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte, e per risuscitarci per la vita eterna» (DV 4; cf anche 2).
    3. La fede essenziale è dunque quella evangelica. Evangelica perché si nutre dell'evangelo («Noi predichiamo Cristo potenza di Dio e salvezza di Dio... Cristo crocifisso» (1 Cor 1, 23-24) e perché è evangelizzante, portatrice di quella buona notizia che ogni persona attende.

    Il mistero della croce di Cristo

    In questo nucleo fecondo, il cuore è rappresentato dalla croce di Cristo. È mistero, come s'usa dire e come si deve dire. Con l'ingenua fiducia che -come accadde nella vita di Maria - nulla è impossibile a Dio.
    Alla luce della croce di Cristo meglio si comprende che più che l'ansia di convertire, la comunità ecclesiale e i suoi operatori/educatori devono coltivare la sollecitudine di mostrare se stessi come salvati per grazia, come coloro «nei quali Dio racconta se stesso e la sua incessante opera» (P. Evdokimov).
    E devono invitare a essere pellegrini insieme.
    Camminando insieme, portando i pesi gli uni degli altri, spezzando il pane, avviene la conoscenza reciproca e, più ancora, la «conoscenza» decisiva.
    «Se tu custodisci la croce di Cristo, insieme con Cristo custodisci il mistero di Dio e custodisci in verità e profondità la vita del fratello. Danziamo insieme la gioia della croce del Signore» (L. Serenthà, Danzare la vita).

    FEDE EVANGELIZZANTE, MISSIONARIA, SEGNATA DALLA CARITÀ

    Dalle osservazioni fatte finora circa una fede essenziale, non si deduce che si opta decisamente a favore di un primo annuncio, riservando a tempi successivi la catechesi. Se così fosse, si tratterebbe di una schematizzazione indebita.
    Si vuole solo osservare che molteplici ragioni (esistenziali, teologiche, culturali) orientano verso la comunicazione della fede mediante una forte concentrazione sull'essenziale, sul nucleo profondo del mistero cristiano. Cosí sembra aver maggiori possibilità la proposta di una fede che abbiamo chiamato popolare.
    Del resto, è noto che nell'area delle scienze bibliche si distingue tra kérigma e didascalia, e nel Codice di Diritto Canonico si distingue ugualmente tra sostanza della fede e dottrina cristiana.
    Nel kérigma (e sostanza della fede), che va proposto sempre «integralmente e fedelmente» (can. 760), è presente l'evento cristiano, realizzatosi nella Croce (morte e risurrezione) con tutti gli scorci che comporta sulla protologia (creazione, peccato, promessa), sull'escatologia (compimento della salvezza nel mondo e nelle persone), e sullo stile della vita nuova, personale e comunitaria, di chi vive Cristo nella sua Chiesa.
    La didascalia (e dottrina cristiana) va sempre proposta «in modo conforme alla convinzione degli uditori e adattata alle necessità dei tempi» (can. 769), e comporta l'esplicitazione e la contestualizzazione della fede nella cultura in cui si vive.

    Senso per la vita nuova in Cristo

    È chiaro, dunque, che l'«evangelium Dei» e la «doctrina Ecclesiae» sono inscindibili, ma ciò non ostacola l'accentuazione del nucleo solido e profondo quando si tratta di mostrare il mistero di Cristo alle nuove generazioni nel loro insieme.
    Più si penetra nel nucleo centrale della fede cattolica, più se ne percepisce la sua valenza umanistica e universale, il positivo contributo al potenziamento degli stessi valori umani e razionali universalmente accessibili.
    Nello sviluppo necessario dell'annuncio essenziale va data la preferenza ad alcuni aspetti che appaiono basilari in rapporto a problemi vivi che le nuove generazioni sentono in modo particolare.
    Tutti questi problemi confluiscono nella domanda di senso che il giovane continuamente pone come esigenza vitale; senso e significato scaturiscono poi da un'interiore correlazione che passa tra elementi disparati di cui si alimenta la vita quotidiana (si pensi a contemplazione e azione, a pratiche religiose e «riti» feriali dell'esistenza, appartenenza ecclesiale e impegni laici della politica e del servizio all'uomo, ecc.).
    Come favorire, dunque, l'acquisizione di senso e la capacità di correlazione tra ciò che è propriamente «umano» e ciò che originariamente specifica la vita nuova in Cristo?
    Limitandoci ad accenni e senza approfondimenti, daremmo la preferenza ai seguenti aspetti.
    La gratuità, innanzi tutto, come decisione radicale di vivere nell'amore e con amore, spendendosi tutto nel servizio mediante il dono di sé, distaccato in profondità dagli interessi umani, e senza dissolversi in questo servizio mediante quel silenzio interiore orante che ne è il fondamento. Gratuitamente si riceve, gratuitamente occorre dare.
    Fare della vita quotidiana, poi, un culto gradito a Dio (cf Rom 12, 1-2), anzi il vero culto cristiano che nei riti liturgici trova sorgente e compimento.
    Si tratta di vivere il lavoro, l'amicizia e l'amore umano, la propria corporeità e la piena delle emozioni, il tempo libero e il servizio sociale, nella dimensione sacerdotale, profetica e regale di cui parla il Vaticano II (cf LG 10-13 e 34-36); la terminologia va decodificata, ma la realtà del contenuto va assunta in pienezza,mediante solidi itinerari di fede che sono antitetici a interventi occasionali, emotivi e pasticciati.
    Si aggiunga una liberante assunzione della «vita del mondo», della storia umana come «luogo» scelto da Dio per la liberazione e la promozione umana.
    L'impegno nel presente da parte dei cristiani chiede cultura e competenza, riducendo ogni giorno il tasso di ignoranza che accompagna le nuove (e vecchie) generazioni; soprattutto chiede la conoscenza della meta e l'ansia di raggiungerla.
    Il cammino nel mondo, nella storia è anche cammino verso il Regno; il ritmo dei passi è anche condizionato dal desiderio della meta ultima. L'assenza di una dimensione escatologica è una delle grandi lacune della mentalità corrente.
    Infine, uno stile, un'attrezzatura personale per camminare come pellegrini. Si tratta di saper «vivere per strada» e di essere «contemplativi sulla strada» (M. Delbrel)
    Al di là delle espressioni gergali, è la ricerca del gusto (sapienza) del tempo, delle cose e delle persone nuove; è la conquista per sé di quello spazio motivante dello spirito che è la preghiera, condizione necessaria per capire la giustezza di dover arrivare, ogni tanto, al silenzio del mondo e dei suoi rumori per percepire quella voce della Parola che parla anche con le tecniche più avanzate; è la decisione di accompagnarsi insieme con tutti, anche con coloro che non sanno che la storia è stata una volta per tutte redenta.
    La proposta di essere «poveri», umili e non violenti, amanti della «giustizia» s'incontra allora con una esigenza interiore e non appare più estrinseca.

    IL LIBRO E IL PANE: CHE ALTRO?

    Nella bisaccia del pellegrino non c'è posto per molte cose né per le sofisticate ma parziali novità delle mode correnti.
    A somiglianza del pellegrino russo, conviene mettere nella bisaccia non altro che il Libro e il Pane. Affinché l'anima consumistica delle generazioni odierne non si ritenga offesa da una cosí ridotta quantità di alimenti disponibili, occorrerà sprigionare tutte le ricchezze che essi contengono.
    È il compito - s'è detto - di una comunità cristiana che possiede anima e stile dei pellegrini, che «guarda a Lui, diventando raggiante» cioè al Cristo della Croce, dove tutto l'amore, tutta la potenza liberatrice e tutta la tenerezza di Dio si personificano e diventano «compagni di vita».
    S'è detto ancora che, anziché indulgere a schegge preziose e a monili decorativi, va data la preferenza a un dono essenziale, imperituro: il nucleo del mistero di Cristo, del lieto vangelo.
    È amare donando se stessi nel servizio gratuito e sommamente concreto che si può chiamare «volontariato» cristiano.
    La carità è perfezione della realizzazione umana (cf GS 38); del resto molti ritengono che oggi «Dio ci parli attraverso l'amore del prossimo e per il prossimo. Forse la espressione più alta di religiosità è quella di certi gesti quotidiani, nella convivenza dei nostri simili» (E. Olmi). Almeno cosi sembra sentire quella larga parte di giovani che saranno adulti nel Duemila.
    Giovani straordinariamente complessi, come è complessa la società in cui vivono. Non osano dirsi cristiani, ma si sentono tutti profondamente «aspiranti cristiani».
    Hanno diritto a una fede popolare che ne faccia una parte preziosa di un popolo in cammino.


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