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    Il rischio della marginalità: un modo di leggere la situazione giovanile (libro "Scommettiamo nell'educazione")


    CSPG, Scommettiamo nell'educazione, Elledici 1988

    PARTE TERZA

    ALCUNI APPROFONDIMENTI

    Il rischio della marginalità: un modo di leggere la situazione giovanile
    Giancarlo Milanesi
    (pp. 77-97)

    Una delle formule usate da don Bosco per indicare i destinatari della sua opera educativa e pastorale fa riferimento ai «giovani poveri, abbandonati, pericolanti», che costituiscono un criterio di priorità rispetto all'impegno generalizzato verso tutti i giovani che don Bosco si è proposto.
    Ci si può chiedere se questa tipologia di stampo chiaramente ottocentesco è tuttora sufficiente a leggere in profondità la condizione articolata dei giovani a cui si rivolge oggi l'ininterrotta tradizione educativa che ha preso inizio e ispirazione da don Bosco.
    Per rispondere a questo interrogativo, credo sia utile ricordare quale fosse la condizione giovanile ai tempi di don Bosco e confrontarla con la realtà odierna (ovviamente restringendo il discorso al contesto italiano e/o europeo).
    Credo che ciò comporti soprattutto un'analisi di categorie interpretative e non un'esposizione comparata di dati descrittivi di tipo socio-economico; ciò che interessa qui è infatti la possibilità di una lettura in profondità della condizione giovanile, che utilizzi non tanto la terminologia donboschiana (irrimediabilmente datata e relativa al suo contesto storico), quanto la preoccupazione educativa soggiacente, che sembra ancora stimolante e produttiva.
    Nel formulare queste riflessioni mi atterrò pertanto a certe risultanze storiche che sembrano sufficientemente acquisite, e a considerazioni di tipo socio-culturale tuttora in fase di elaborazione.

    LA GIOVENTÙ POVERA, ABBANDONATA, PERICOLANTE DEI TEMPI DI DON BOSCO

    La condizione dei giovani dei tempi di don Bosco va inquadrata necessariamente nel contesto dello sviluppo politico, economico, sociale e culturale piemontese ed italiano del cinquantennio 1840-1890.

    L'Italia di metà Ottocento

    Politicamente è il periodo della formazione dello stato unitario, che si presenta come un progetto quasi esclusivo delle classi medie illuminate, di orientamento liberale e anticlericale, e che solo molto lentamente ottiene il consenso e la partecipazione delle classi popolari.
    Economicamente, pur tra gli squilibri creati dalle frequenti guerre e dalle ricorrenti crisi dell'agricoltura, si assiste allo sviluppo di una modesta industria che è dapprima soprattutto manifatturiera (tessile), a scarso contenuto tecnologico e a conduzione familiare, e che poi (dopo il 1870) si espande anche verso il settore metalmeccanico, all'edilizia, alla razionalizzazione dell'agricoltura, ma sempre con dimensioni limitate. La diffusione del trasporto ferroviario, lo sviluppo dei commerci e l'incremento dei servizi (burocrazia) completano il quadro di un'economia pur sempre fragile, di cui è sintomo il fenomeno migratorio interno ed esterno.
    Socialmente il periodo è caratterizzato da una scarsa mobilità all'interno della rigida stratificazione sociale, che, accanto alle classi medie e medio-alte (nobiltà terriera, borghesia pre-industriale, liberi professionisti urbani) vede una maggioranza rurale, proletaria e sottoproletaria, che condivide con la minoranza operaia e artigiana della città una vita di sopravvivenza che talora sfiora il livello di un autentico pauperismo.
    Solo verso la fine del periodo si notano i sintomi di un'incipiente coscienza di classe tra i lavoratori urbani e rurali, sotto l'impatto delle idee socialiste. Non esiste ovviamente uno «stato sociale», e le forme dell'assistenza sono prevalentemente private.
    Sotto il profilo culturale si registra, a livello di élites, il predominio delle teorie positiviste su cui si innestano sia il pensiero economico, sia quello socio-politico (dal socialismo utopico e anarchico trapiantato dalla Francia al socialismo scientifico importato da Germania e Inghilterra).
    Ma la maggioranza della popolazione stenta a uscire dal ghetto dell'analfabetismo e resta marginale rispetto ai movimenti culturali del tempo.

    La gioventù nella Torino dell'Ottocento

    La gioventù che don Bosco incontra a Torino fin dall'inizio della sua opera è un aggregato composito che è difficile definire con una sola categoria sociologica. Accanto alla frangia elitaria delle classi alte e medio-alte, si nota una consistente aliquota di giovani di origine urbana o rurale che sono dotati di scarsa istruzione e che si trovano occupati o semioccupati in condizioni precarie nell'artigianato, nei servizi, nella piccola industria; accanto al sottoproletariato di origine rurale e montana che è immigrato nella città e che è inserito nei processi produttivi marginali o che è in cerca di prima occupazione, si vedono anche consistenti frange di giovani «traviati» (delinquenti minorili, vagabondi, ecc.).
    A questi giovani si può difficilmente applicare la moderna categoria di gioventù, intesa come periodo artificiosamente prolungato di parcheggio in istituzioni di socializzazione che dovrebbero facilitare l'inserimento nella società. La condizione dei più è piuttosto di «negazione della gioventù», in quanto su di essi si esercita una forte pressione sociale ad assumersi precocemente i compiti adulti; questi giovani sono in realtà degli adolescenti (cronologicamente parlando), cui sono sconosciute in gran parte le condizioni di agevolazione, protezione e sostegno di cui godono i loro coetanei d'oggi. La maggioranza di essi sono poveri (nel senso materiale, economico, sociale e culturale del termine), una parte è anche abbandonata (specialmente gli immigrati), alcuni sono pericolanti (cioè già coinvolti in varie forme, più o meno gravi, di rischio e di devianza).

    La lettura di don Bosco della condizione giovanile

    Don Bosco non ha a propria disposizione categorie interpretative adatte a leggere in profondità l'identità di questo aggregato composito, un po' perché tali strumenti conoscitivi sono ancora allo stato embrionale, un po' perché egli rifugge da analisi sistematiche.
    La percezione che egli ha dei giovani (e dei loro problemi) è da un lato condizionata pesantemente dalla sua formazione intellettuale e sociale che lo porta verso una spiegazione tradizionale e quasi moralistica piuttosto che verso una analisi rigorosamente socio-economica e politica delle cause della povertà, dell'abbandono, della devianza giovanile; questi fenomeni che in un certo senso sono per lui aspetti normali anche se dolorosi, vanno riportati entro un processo di sviluppo ordinato di tutta la società.
    D'altro lato don Bosco è colpito dallo spreco delle energie, dall'urgenza delle necessità di ogni tipo, dalla frustrazione delle molte potenzialità positive dei giovani; ma non per questo si rassegna passivamente e fatalisticamente, anzi con una intuizione coraggiosa rovescia i termini del problema, scommettendo sulla promozione globale della gioventù delle classi popolari come strumento essenziale per il processo di «rigenerazione» dell'intera società. In questo egli dimostra di avere coscienza esplicita della valenza sociale e politica del suo intervento educativo, oltre che della prioritaria valenza morale e religiosa.
    In definitiva, il modo di leggere la condizione giovanile adottato da don Bosco evidenzia alcune sensibilità che vanno riprese anche nell'affrontare i problemi della generazione giovanile contemporanea:
    - una fedeltà totale alla situazione, cioè un'attenzione globale a tutto l'insieme delle condizioni culturali, economiche, socio-politiche del tempo;
    - una capacità e una volontà di risposta globale, finalizzata, gerarchizzata ai bisogni e alle istanze dei giovani;
    - una fiducia illimitata nelle capacità dei giovani delle classi popolari, degli strati umili, di assumere ruoli protagonisti nel processo di autorealizzazione come pure nel moto di promozione globale della società in cui sono stati inseriti.
    È su questi metri di valutazione che possiamo ora riferirci nel prosieguo della nostra riflessione.

    ALCUNE SCELTE DISCRIMINANTI

    A chi voglia cercare di leggere in profondità la realtà giovanile contemporanea, si presentano oggi diverse ipotesi interpretative che non sono del tutto indifferenti rispetto agli atteggiamenti educativi che gli adulti assumono nei riguardi della gioventù.

    Entità sociale identificabile o realtà composita?

    Una prima scelta discriminante è quella che si riferisce alla gioventù come ad una entità sociale ben identificabile, dotata di caratteristiche obiettive e soggettive che la configurano in termini di strato, gruppo, classe; oppure come ad una realtà composita che è articolata in piccole identità collettive, quando non sia disciolta nelle singole identità individuali.
    Ovviamente le due rappresentazioni attribuiscono ai giovani modi di agire alquanto diversificati; nel primo caso la gioventù, soprattutto quando si ipotizzi la presenza di una coscienza collettiva, diventa soggetto storico rilevante, capace di elaborare progettualità propria e di gestire il potere sociale; nel secondo invece avrebbe più peso l'ipotesi dell'irrilevanza sociale della «condizione» giovanile, emergendo in suo luogo l'arcipelago delle diversificate soggettività che richiede un approccio individualizzato e che tende alla privatizzazione delle tematiche giovanili.
    In questi ultimi anni si è verificata una chiara propensione verso la seconda interpretazione, dopo anni di sforzi intesi a legittimare la plausibilità dei giovani come una nuova classe sociale, come interlocutore sociale emergente, come forza-guida del cambiamento sociale alternativa rispetto alle forze fin qui egemoni. Il nuovo orientamento rispecchia l'obiettiva difficoltà di trasferire i problemi generazionali a tutta la società, come del resto documenta il fallimento del tentativo di ridurre la nascente complessità della società (e della condizione giovanile) entro schemi unitari e semplificati.
    In sostanza si può dire che oggi facciamo sempre più fatica a parlare di gioventù, dei giovani, di condizione giovanile, se partiamo dall'idea dell'esistenza di una realtà omogenea su cui si possono fare discorsi precisi e sistematici; il fatto è che la realtà giovanile si è fatta sempre più sfuggente sia per la relativa mutevolezza delle condizioni di vita e della soggettività giovanile, sia per la persistente frammentazione delle appartenenze sociali e delle esperienze individuali e collettive.
    D'altra parte non è agevole fare i conti con una realtà sfuggente, poiché si rischia ad ogni momento di cadere nella psicologizzazione radicale di ogni vissuto giovanile, perdendo di vista il raccordo essenziale che esiste tra la frammentazione di fatto esistente all'interno della condizione giovanile e la disarticolazione presente nell'insieme della società.
    Fenomeni come l'accentuata mobilità sociale (ingrossamento dei ceti medi, ridimensionamento degli strati popolari, produzione di nuove marginalità...), l'ingovernabilità persistente dei sottosistemi economico, politico, sociale; la moltiplicazione e il rimescolamento delle appartenenze, la fragilità degli ancoraggi e delle legittimazioni del quadro dei valori, la precarietà dei percorsi che consentono di raggiungere l'identità e la auto-realizzazione personale, vanno tenuti presenti quando ci si voglia addentrare nel panorama frastagliato della condizione giovanile.

    Quale approccio alla lettura della condizione giovanile?

    Una seconda scelta discriminante è offerta dal tipo di approccio che si vuole adottare nella lettura della condizione giovanile.
    Indubbiamente gli anni '60 e '70 avevano accreditato come prioritaria un'analisi di tipo socio-politico, che presupponeva un ribaltamento delle interpretazioni precedentemente accreditate sulla condizione giovanile. Si era passati infatti da una concezione biopsicologica dell'adolescenza e della giovinezza (come fenomeno riconducibile agli squilibri propri della maturazione pubertaria) ad una concezione socio-antropologica che ne sottolineava l'origine sociale e che faceva della gioventù una variabile dipendente del sistema sociale.
    Conseguenza logica di questa impostazione teoretica era la richiesta apparentemente paradossale dell'abolizione dell'adolescenza (!), onde evitare le conseguenze negative prodotte dal suo prolungamento artificioso.
    Al di là dello scopo scopertamente provocatorio della proposta, va rilevato che essa conteneva un'istanza utopica di un certo interesse. L'abolizione dell'adolescenza implicava infatti il rifiuto del suo carattere «naturale» (dato invece per scontato da secoli di letteratura scientifica e divulgativa), anzi includeva un'esplicita denuncia dell'uso ideologico della stessa concezione naturalistica dell'adolescenza, e intendeva andare oltre, ponendo fine alla convinzione errata della necessaria dipendenza e irresponsabilità dell'adolescente e proponendo un'anticipazione generalizzata dei ruoli adulti di partecipazione, decisione, produzione a tutti i livelli.
    Oltre al fatto che permangono non poche perplessità circa la realizzabilità pratica su larga scala del progetto di abolizione dell'adolescenza (e che dire delle giuste denunce provenienti dal Terzo Mondo che lamentano la condizione di non-adolescenza, di non-gioventù della maggior parte degli adolescenti e dei giovani?), va aggiunto che i presupposti che sostengono questa proposta sembrano oggi meno convincenti, proprio per la mutata situazione e collocazione dei giovani entro la società.
    Il passaggio anticipato verso l'esercizio dei ruoli adulti implica infatti una maturità che la generalità degli adolescenti non è in grado di raggiungere (almeno nella società complessa) negli anni che stanno a ridosso della pubertà: né, d'altra parte, l'assunzione anticipata di tali ruoli è garanzia contro il rischio di manipolazione e sfruttamento, fenomeni che, quando vi sono, si presentano molto meno provvisori e molto meno superficiali di quanto lo siano presso i giovani.

    Un sistema articolato di approcci

    Queste ed altre perplessità riportano il problema alle sue dimensioni iniziali: è davvero produttivo, ai fini della comprensione della condizione giovanile, subordinare tutti gli approcci a quello socio-economico-politico? O, detto con altre parole, è utile «sciogliere» totalmente le tematiche individuali (biopsicologiche) in quelle collettive, senza residui e senza dubbi? O non è il caso, ormai, di fronte alla frammentazione della condizione giovanile, di ripensare un nuovo sistema articolato di approcci alla condizione giovanile, che consenta di ridefinire i rapporti tra livello di analisi individuale e collettivo, tra storia e sociologia, tra tipologia e biologia, con maggiore flessibilità e articolazione?

    I GIOVANI «POVERI»

    Se è difficile adottare scelte univoche nella lettura globale della condizione giovanile, è altrettanto complicato districarsi nel dedalo delle numerose categorie analitiche che si utilizzano per comprendere segmenti particolari del vissuto giovanile. Il problema si ripresenta puntuale quando si voglia rileggere, come nel nostro caso, categorie tradizionali con l'aiuto di categorie nuove. È il caso della gioventù «povera, abbandonata, pericolante». Ha ancora senso parlare dei giovani in questi termini nella società italiana che si avvia verso il 2000? Quale spessore quantitativo e qualitativo ha questa tipologia nel contesto della società complessa e postindustriale?
    Un certo numero di ricerche condotte negli ultimi anni in Europa e in Italia hanno richiamato la persistente attualità del problema della povertà anche in quelle aree caratterizzate da elevato sviluppo economico nelle quali si credeva che la povertà fosse ormai scomparsa. Il merito fondamentale di tali ricerche non è, però, quello di avere richiamato l'attenzione su un fenomeno che la coscienza collettiva prevalente preferiva considerare irrilevante, bensì quello di avere problematizzato il concetto stesso di povertà, collocandolo nel nuovo quadro delle condizioni di vita dell'Europa e dell'Italia.
    In altre parole, le ricerche sottolineano il carattere relativo del concetto di povertà, proponendo criteri variabili per la sua definizione teorica e pratica: così, ad esempio, è considerata povera la famiglia il cui reddito complessivo sia del 50% inferiore al reddito medio della popolazione di riferimento.
    Non è che un criterio quantitativo; ed infatti oggigiorno si tende a parlare di «nuove» povertà in termini più qualitativi, sottolineando gli aspetti non solo economici della povertà, ma anche quelli culturali, morali, psicologici, ecc. È un discorso più ampio, che include considerazioni più specifiche su temi di grande attualità: la divaricazione tra società produttiva e riproduttiva, il processo di produzione di nuove marginalità, la crisi del «Welfare State», ecc. È dentro questi fenomeni che può collocarsi la gioventù «povera».

    Società produttiva e società riproduttiva

    Un primo fenomeno rilevante è la crescente divaricazione tra società produttiva e società riproduttiva, che è l'effetto delle trasformazioni in corso nel mondo capitalista ormai proiettato verso la fase postindustriale.
    La crescente razionalizzazione del sistema produttivo, cioè l'applicazione sistematica dell'elettronica e dell'automazione ed una più rigida divisione del lavoro sia all'interno di un sistema produttivo sia all'interno dei rapporti internazionali tra diversi sistemi, provocano la polarizzazione della società in due tronconi non comunicanti.
    Da una parte la società produttiva, il polo «forte» del sistema, caratterizzato da crescenti tassi di sviluppo e sempre più autonomo nei suoi processi di integrazione; dall'altra la società riproduttiva, la cui caratteristica sarebbe quella di provvedere solo alla ricostruzione delle condizioni materiali e sociali della propria sopravvivenza e alla soddisfazione dei bisogni più urgenti.
    Caratterizzerebbero questa società economie di pura assistenza e puro autoconsumo, integrate da spezzoni di attività produttiva funzionale, legati alla società produttiva da una logica di interdipendenza asimmetrica e, allo stesso tempo, precaria, instabile e frammentaria.
    In questa società troverebbero posto, accanto alle povertà tradizionali, diversi gruppi, ceti, strati in nuova povertà (proletariato marginale, lavoratori dipendenti non qualificati, strati in via di mobilità discendente, handicappati fisici e psichici, ecc.).
    La divaricazione tra società produttiva e società riproduttiva tende dunque a legittimare l'alto livello di selettività che l'innovazione tecnologica è in grado di introdurre in tutte le forme di vita associata; il nuovo povero è in realtà l'escluso dalla capacità di esercitare il controllo (cioè di conoscere ed utilizzare) sulle nuove conoscenze tecnico-scientifiche. In .questo senso la nuova povertà si identifica quasi totalmente con la marginalità economica e sociale, e si esprime non solo in termini economici ma anche culturali e psicologici.

    Le dimensioni della nuova povertà

    Un secondo aspetto del problema è la quantità e la qualità della nuova povertà/marginalità prodotta dalla polarizzazione società produttiva/riproduttiva.
    Se consideriamo la condizione di marginalità come esclusione dalla società produttiva e confinamento in quella riproduttiva, dobbiamo ritenere che questa condizione ha caratteri di relativa permanenza solo pergruppi ben identificabili di giovani, mentre per la generalità è da considerarsi solo un rischio diffuso ma transitorio che coincide con la dipendenza forzata e prolungata.
    Basta ricordare la marginalità (e la correlativa povertà economica e/o culturale, morale e psicologica) che viene dalla disoccupazione, dall'emigrazione, dalla devianza, dalla «diversità» socialmente inaccettabile, dalle diverse forme di analfabetismo elettronico, ecc.
    In particolare sembra rilevante, entro queste forme di marginalità/povertà giovanile, il fenomeno non infrequente della interiorizzazione della cultura della marginalità, cioè dell'accettazione più o meno consapevole della marginalità e della povertà come destino insuperabile e come condanna sociale. Facilitata da ideologie varie di segno nichilista, tale interiorizzazione preoccupa per le gravi conseguenze che essa può produrre a livello di identità individuale e collettiva, anche se il fenomeno non può dirsi di massa.
    È in questi casi che la marginalità non può essere considerata una risorsa educativa, cioè una molla da far scattare per suscitare reazioni consapevoli e atteggiamenti alternativi, ma è da combattere come fattore di disgregazione della personalità individuale e della stessa condizione giovanile. Per questo è difficile ipotizzare la nascita di un nuovo protagonismo giovanile a partire dalle reazioni alla nuova condizione di marginalità/povertà, se non si eliminano le situazioni reali di alienazione materiale e morale, e non si aiutano i giovani con supporti educativi a reinterpretare e combattere la marginalità. Altrimenti il vissuto del marginale/povero tende a esaurirsi in pratiche di compensazione, che per lo più si manifestano nel consumismo privato, senza incidere nella qualità reale della vita.

    Crisi dello stato di benessere

    Un terzo aspetto problematico è rappresentato dalla crisi del «Welfare State» (o stato sociale) e dalle conseguenze che essa produce.
    È fuori di dubbio che l'avvento del Welfare State ha contribuito a creare nella società occidentale un clima di maggior sicurezza sociale ed ha avviato a soluzione non pochi problemi concernenti l'assistenza pubblica. Ma, allo stesso tempo, il Welfare State non ha potuto sottrarsi a certe contraddizioni e a certe prevaricazioni.
    La più evidente sembra essere l'espropriazione pressoché totale del diritto degli individui di definire i propri bisogni e il senso fondamentale della vita, come pure la pretesa di definire unilateralmente e di imporre i percorsi adatti a soddisfare tali bisogni. Naturalmente la pratica continuata di queste espropriazioni e pretese allenta a lungo andare il controllo degli individui, e facilita da una parte lo sviluppo elefantiaco dello stato sociale (cioè il gonfiamento artificiale del sistema bisogni/servizi) fino ai limiti della disfunzionalità del sistema sotto il profilo finanziario e gestionale, e dall'altra legittima atteggiamenti di dipendenza, di clientelismo e di passività che sono esattamente il contrario del concetto di partecipazione sociale.
    Quando sia ormai cristallizzato nei processi descritti, il Welfare State diventa paradossalmente un fattore di produzione e di strutturazione di povertà nel contesto tipico delle società ad alto livello di sviluppo; da una parte, elevando la soglia dei bisogni la cui soddisfazione definisce la qualità della vita, contribuisce ad allargare l'area dei poveri, cioè di coloro che non sono in grado di soddisfare autonomamente tali bisogni; dall'altra, esaltando il principio dell'assistenzialismo, favorisce il permanere dei poveri nella loro condizione di sostanziale dipendenza.
    Si costituisce cosi una categoria di nuovi poveri, che viene definita in base alla frustrazione di bisogni socialmente indotti: si tratta ovviamente di una povertà sostanzialmente soggettiva, che non per questo è meno problematica per chi se ne ritiene colpito.
    Rientrano in questa categoria tutte le povertà definibili in termini di consumo inferiore allo standard socialmente prescritto (vestito, mezzo di trasporto, vacanze, ecc.) o in termini di prestazioni sociali non corrispondenti ai livelli attesi (istruzione, qualifica professionale, relazioni sociali significative...).
    In questa prospettiva, la povertà soggettiva derivata dalla logica e dalla crisi del Welfare State investe una larga area giovanile, specialmente in quegli strati meno fortunati da un punto di vista economico e culturale.
    Si può dire che le diverse radici delle nuove povertà giovanili spesso si intersecano e si sovrappongono, dando origine a situazioni in cui povertà oggettiva e soggettiva, marginalità e dipendenza, diversità e alienazione si trovano variamente combinate, e formano tipologie inedite e perciò quasi inesplorate.

    I GIOVANI «ABBANDONATI»

    La categoria dell'abbandono sembra godere di minore elaborazione teorica e pratica nel contesto della società occidentale ad alto sviluppo tecnologico.
    A prima vista il fenomeno dell'abbandono pare caratterizzare soprattutto le aree di sottosviluppo del Terzo Mondo, nel quale i «ragazzi della strada», i «menores abandonados», i «meninos da rua», ecc. sono sotto gli occhi di tutti, a milioni, nelle periferie delle grandi città.
    Eppure fenomeni di abbandono, spesso aggravati da altre forme di violenza più attiva, sono presenti anche nella nostra società.

    Abbandono come indifferenza

    La premessa culturale dell'abbandono mi pare già evidente nell'atteggiamento generalizzato di indifferenza che caratterizza questa società. Parlo di indifferenza nei riguardi dei bambini, degli adolescenti, dei giovani, ma anche più in generale di indifferenza come rifiuto ad assumere chiare opzioni di valore, di fronte alle numerose contraddizioni della vita quotidiana nella società complessa.
    In effetti l'indifferenza verso la gioventù, espressa emblematicamente attraverso il calo dei tassi di nuzialità e di natalità, è la conseguenza logica di una crisi di fiducia verso la vita, verso il futuro, verso ciò che è nuovo e diverso. Si direbbe che l'indifferenza è l'atteggiamento obbligato di una società che, avviandosi ad un rapido invecchiamento, si ripiega nevroticamente su se stessa, senza speranza.
    La caduta di attenzione verso i giovani, che è la premessa di varie forme di abbandono, non è dunque espressione di situazioni culturali contingenti, ma è comportamento-spia di un vero cambiamento antropologico in atto nella nostra società: l'indifferenza produce abbandono proprio perché implica la crescente insignificanza dei giovani in questa società, protesa a garantire la qualità della vita degli «esistenti» e degli «aventi potere», contro i rischi o le minacce di altri pretendenti-alla-vita.

    Quali forme di abbandono?

    La fenomenologia dell'abbandono è purtroppo consistente quantitativamente e qualitativamente anche nella società del benessere.
    All'origine vi è, già nelle famiglie, una premessa generale che prelude a varie forme di abbandono; ed è la carenza di quegli atteggiamenti di positiva scelta del figlio da parte dei genitori, che a me pare uno dei fondamenti di ogni predisposizione autenticamente educativa.
    È tutta da dimostrare la tesi secondo cui il ridotto numero di nascite è ampiamente compensato da una precisa «scelta» del figlio; motivazioni «altre» sembrano ancora incidere sulla regolazione della natalità, lasciando intravvedere componenti e interessi spesso egocentrici.
    E dunque l'abbandono futuro è reso possibile dall'attuale «non scelta». Ma più specificamente si mettono in evidenza forme di abuso, abbandono, violenza sui nuovi nati.
    È stato notato che la gran parte degli abusi nascono da un rapporto distorto tra adulti e bambini; il figlio è oggetto di un calcolo (anche economico, ma più spesso psicologico) che sta a monte delle motivazioni reali che inducono a «programmarlo» (calcolando ad esempio il tempo in cui averlo, predeterminando il sesso, ecc.). Cosí il figlio assume spesso il valore di un investimento, è oggetto di considerazioni strumentali, è considerato un oggetto posseduto; in altre parole è sempre, in qualche modo, nel rischio di mercificazione nelle mani del padre-padrone o della madre-padrona.
    Se da un lato la sua nascita è programmata, dall'altro essa è temuta, proprio per l'eccesso di attese di cui essa è gravata; le preoccupazioni per il figlio sono cariche di ansia, proprio perché spesso le attese possono essere frustrate o deluse.
    Il senso del «possesso» giustifica spesso le azioni e gli atteggiamenti che configurano una vasta gamma di abusi che vanno dalla violenza all'abbandono.
    La violenza fisica è di solito il segno più evidente della non accettazione che prelude all'abbandono o che mette le premesse per la fuga da parte del figlio.
    Le cronache ricorrenti degli ultimi anni hanno documentato abbondantemente la casistica raccapricciante della violenza fisica di ogni genere sui bambini e sugli adolescenti.
    Solo in Italia si parla di 15.000 casi di maltrattamenti gravi all'anno, ma le stime degli esperti fanno salire la cifra a quantità ben più alte (fino a 10-20 volte di più).
    La «sindrome del bambino picchiato» si verifica dunque con frequenza molto rilevante anche nel caso in cui il bambino sembrava oggetto di cure e attenzioni speciali.
    Non meno rilevanti sono i casi di abuso e di sfruttamento sessuale, che in Italia sono stimati nella misura di 15-20.000 all'anno; di cui il 45% è rappresentato da rapporti incestuosi che nella maggior parte dei casi restano sconosciuti alle pubbliche autorità.
    È comprensibile il danno psichico e morale che queste esperienze infliggono all'adolescente, impedendo la progressiva e serena educazione sessuale di cui ha bisogno la persona in età evolutiva.
    Ma il capitolo forse più consistente dell'abbandono è dato dalla trascuratezza fisica e affettiva.
    La fenomenologia su questo punto è piuttosto articolata: carenze di alimentazione appropriata, mancanza di cure per lo sviluppo fisico, trascuratezza delle malattie infantili, assenza di profonda comunicazione tra adulti (genitori) e figli, precoce affidamento (con relativa delega educativa) a istituzioni preposte alla socializzazione ma generalmente incapaci distabilire rapporti che non siano cristallizzati in un ruolo, eccessiva esposizione a strumenti di socializzazione impersonali (mass-media, TV), precarietà e saltuarietà dei rapporti con i genitori (vedi il caso dei bambini con la chiave al collo), pressioni esercitate per una assimilazione precoce dei ruoli adulti (cioè liquidazione dell'infanzia, cui corrisponde spesso l'infantilizzazione dell'adulto).
    Questi ed altri aspetti problematici si trovano oggi molto spesso concentrati nelle famiglie, relativamente numerose, che sperimentano la vicenda della separazione e del divorzio, non raramente percepite e vissute dai figli in modo gravemente traumatico.
    Infine, non sono rari i casi di abuso psicologico, anche in famiglie normotipo, che sono sintomo evidente di abbandono incipiente: mi riferisco ad esempio ai ricatti emotivi/affettivi, alle forme di permissivismo indiscriminato che configurano effettivamente il quadro dell'abbandono educativo, all'autoritarismo che sbocca nella negazione dell'identità e dell'autonomia, il mantenimento in una situazione di forzata dipendenza, i tentativi di plagio, il non riconoscimento continuato delle capacità e delle risorse presenti nel bambino.
    E in più bisognerebbe aggiungere tutte le «non-risposte», le incertezze, le mediocrità, la deresponsabilizzazione, l'inadeguatezza che spesso caratterizza il comportamento educativo di molti adulti e genitori.

    Alcune conseguenze

    È appena il caso di sottolineare il collegamento che esiste tra l'abbandono effettivo, anche precoce, che si verifica nell'infanzia, e il sentimento di abbandono che si viene radicando da quell'età in poi, producendo una serie di effetti che si manifestano soprattutto nell'adolescenza e nella giovinezza, e che sono di grande rilievo per il discorso educativo.
    Alcuni sono effetti negativi per gli stessi giovani; accenno solo al problema del suicidio che nel breve periodo è in aumento in molti paesi industrializzati, al fenomeno della morte precoce di adolescenti (spesso per incuria e per mancanza di attenzione educativa), alle diverse forme di fuga e di reazione, che sono spesso comportamenti di pura compensazione all'abbandono (mi limito a ricordare l'alcool, la droga, il vagabondaggio).
    Altri sono effetti che si riversano anche sulla società in modo preoccupante: in questa fattispecie vanno elencati soprattutto i comportamenti violenti o che implicano l'uso strumentale della violenza, che sembrano in aumento tra i minori, soprattutto nei settori della violenza contro le persone e contro il patrimonio.
    Il collegamento con la sindrome di abbandono va ricercato in questo caso, come in quello della droga e dell'alcool, nel significato prevalentemente simbolico che il comportamento vuol esprimere; infatti vi è in esso un'implicita richiesta di comunicazione, un bisogno di autovalorizzazione che l'abbandono ha vistosamente negato, un ingenuo e rozzo (ma drammatico) richiamo di attenzione sui problemi giovanili che non possono essere liquidati frettolosamente con condanne e stigmatizzazioni generiche.
    Ed infine, tra gli effetti meno vistosi dell'abbandono, vanno elencati i capillari e profondi sentimenti che accompagnano questo vissuto: le sensazioni del «non essere amato» e quindi del «non saper amare», la crisi di autostima, le incertezze nello stabilire rapporti con gli altri, la paura del confronto e il rifiuto del rischio, propri di chi ha sperimentato carenze di «accompagnamento educativo».
    In una parola, l'abbandono si presenta oggi con caratteri forse meno drammatici e meno espliciti; il rifiuto clamoroso, l'infanticidio, l'aggressione premeditata sono ancora presenti nella nostra società, ma l'abbandono prende sempre più i connotati di una sottile manipolazione che passa attraverso l'indifferenza, la caduta dell'impegno educativo, l'assenza di comunicazione.

    I GIOVANI «PERICOLANTI»

    La terminologia ottocentesca utilizzata da don Bosco può essere reinterpretata oggi con una pluralità di altri costrutti sociologici.
    I giovani pericolanti corrispondono in prima istanza a quelli che sono stati chiamati ragazzi difficili, ragazzi asociali o antisociali, giovani disadattati, giovani devianti, anche se per don Bosco la condizione di «pericolo» aveva anche e prioritariamente una connotazione religioso-morale e non solo psico-socio-pedagogica.
    I «pericolanti» erano tutti coloro che già avevano evidenziato nel loro comportamento sintomi di una situazione compromessa, anche se non definitivamente strutturata in senso negativo. E perciò non solo i carcerati, i vagabondi, i piccoli delinquenti, i «discoli», ecc., ma anche tutti coloro che in qualche modo si potevano caratterizzare per condotta irregolare, discontinua, immorale, religiosamente scarsa o riprovevole.
    Pur avvertendo l'incongruenza del confronto, mi pare che oggi questa amplissima categoria potrebbe essere riletta mediante il concetto di «rischio», cui si collega, in un rapporto non necessariamente automatico, il concetto di «disagio giovanile».

    Il disagio giovanile

    È certo più agevole documentare l'esistenza di un profondo disagio giovanile nel quadro della società industriale e postindustriale di questa seconda metà del sec. XX, che non nel contesto della società ottocentesca italiana in cui don Bosco ha vissuto ed operato.
    Ciò non significa che don Bosco non abbia avvertito anche nel suo tempo un insieme di comportamenti, impliciti ed espliciti, dei giovani che rivelano una sofferenza spesso sommersa, ma non per questo meno autentica e meno sincera.
    Allora come oggi i giovani erano oggetto di una somma di inadempienze, ritardi, tradimenti, che producevano in essi una frustrazione reale delle attese riguardanti l'autorealizzazione, la soddisfazione dei bisogni fondamentali, il raggiungimento di un'identità robusta, l'inserimento da protagonisti nella vita sociale.
    Oggi in particolare le radici del disagio vanno cercate non tanto nelle difficoltà a trovar lavoro e a integrarsi nella società; vanno forse identificate nell'inadeguatezza degli atteggiamenti con cui gli adulti si relazionano alle domande problematiche dei giovani, nell'obiettiva condizione di povertà e abbandono di alcuni, di marginalità e di frammentarietà del vissuto di molti.
    Il disagio si nutre, in sostanza, della diffusa crisi delle principali agenzie di socializzazione, quali la famiglia, la scuola, la Chiesa, l'associazionismo giovanile, ciò che invece ai tempi di don Bosco si poteva riferire solo a frange minoritarie di popolazione giovanile.
    Più ampiamente risulta incisiva nel disagio la crisi generale delle istituzioni (politiche, economiche, giuridiche, ecc.) che provoca una situazione diffusa di anomia, cioè di scollamento tra il sistema dei valori e il grado di sviluppo della società, di insufficiente regolazione generale del comportamento sociale, di incerta canalizzazione dei bisogni verso mete socialmente accettabili.
    Di qui la sensazione soggettiva di angoscia, sfiducia e bloccaggio, proprio perché ci si sente frustrati nella domanda di cambiamento, di partecipazione, di responsabilità.

    Il fascino dell'irrazionalità

    Il «disagio» si ricollega per altro al «rischio», nella misura in cui tende a cercare sbocchi nell'irrazionalità anziché nella proposta e nel progetto alternativo.
    In realtà vi sono tutte le premesse nella nostra società perché il disagio recente, fin qui mantenuto sommerso e quasi privatizzato e neutralizzato entro un'ampia gamma di comportamenti evasivi e compensativi di chiaro segno consumista, possa esplodere in comportamenti devianti, carichi di significato eversivo o comunque di conflittualità sociale.
    Parallelamente si verificano le condizioni perché il disagio sia vissuto dai giovani soggettivamente come una esperienza negativa, non redimibile in comportamenti di segno reattivo e costruttivo.
    Il rischio si riassume dunque nel fascino dell'irrazionalità, che diventa ipotesi plausibile, soprattutto quando il filtro soggettivo, cioè il modo personale di dare un significato al disagio e ai suoi sbocchi, appare inquinato da una cultura-ambiente che premia gli atteggiamenti nichilisti e che è satura di propensioni alla condanna, alla stigmatizzazione, alla colpevolizzazione dei giovani.
    È in questo contesto che i giovani leggono nel comportamento irrazionale (cioè nelle varie forme di devianza auto ed etero-distruttiva) la risposta conveniente, utile, desiderabile al loro disagio, sottovalutando gli effetti personali e sociali delle proprie scelte comportamentali.
    E qui emerge in tutta la sua evidenza la stessa responsabilità dei giovani di fronte all'ipotesi del rischio dell'irrazionalità che li minaccia.
    Non si vuole qui imputare ai soli giovani il cedimento al fascino della devianza, perché le radici della loro inadeguatezza sono obiettivamente consistenti; né si vuole indulgere a forme irresponsabili di vezzeggiamento che tentano di giustificare tutto ciò che è espressione giovanile, senza criterio e senza discernimento. Si tratta caso mai di sottolineare con equilibrio e serenità le ambivalenze e i rischi connessi ad una lettura inadeguata del disagio.

    Rassegnazione alla mediocrità

    Tra gli atteggiamenti che favoriscono la caduta nel rischio voglio segnalare la rassegnazione alla mediocrità, cioè l'accettazione quasi fatalistica delle condizioni di marginalità, frammentarietà, perdita di identità, accompagnata dalla rinuncia consapevole alla progettualità, dall'allergia per le proposte utopiche, dall'inerzia che caratterizza il lungo periodo di parcheggio nelle istituzioni formative, dalla propensione verso l'effimero e il superficiale.
    Si tratta di un insieme di atteggiamenti che non sono condivisi fino in fondo dalla maggioranza, ma che ne minacciano la qualità della vita, proprio perché contengono i germi di una profonda crisi morale, impastata di relativi77a7ione dell'etica, di gregarismo opportunista, di individualismo, di cinismo pragmatista.
    Un altro atteggiamento che costituisce un fattore di innesco del rischio è la tentazione di adagiarsi in un'ingenua semplificazione della realtà. Se è vero che la società complessa evidenzia alti tassi di incomprensibilità e ingovernabilità, è altrettanto vero che è sufficiente una «riduzione» della complessità attraverso le scorciatoie delle formule miracolistiche.
    Di fronte alla complessità pare del tutto ingenuo rifugiarsi nel mito della «progettualità di basso profilo», della «gestione quotidiana della precarietà», o peggio ancora nelle varie forme di integrismo teorico e pratico.
    Il volontarismo che è implicito in queste semplificazioni pericolose della realtà non può infatti che sfociare nell'ideologia. Essa costituisce un sicuro detonatore del rischio, nella misura in cui rappresenta una visione parziale della realtà, fatta di pregiudizio e di limiti conoscitivi.
    Il ricorso all'ideologia, tipico dell'esperienza giovanile degli anni '60 e '70, è sintomo di una certa allergia verso le mediazioni culturali pazienti e complesse, che richiedono tempo e strumenti di analisi sofisticati e flessibili; è anche segno di una crisi generale di sfiducia nella ragione scientifica, che del resto è logica nel quadro di diffusa irrazionalità che abbiamo ipotizzato.

    Un rischio capillare e diffuso e il valore preventivo dell'educazione

    Infine va sottolineato che la condizione di disagio e di rischio tende a diventare capillare e diffusa nella società complessa.
    Il disagio ha radici che interessano un po' tutti i giovani: tutti possono cadere nella situazione di marginalità per un motivo o per un altro, tutti sono minacciati da forme varie di povertà e di abbandono, tutti possono essere oggetto di espropriazione culturale entro la logica del «Welfare State».
    Se ciò è vero, risulta urgente e necessaria una riflessione sulla centralità degli interventi preventivi nel quadro dell'azione educativa.
    L'intuizione donboschiana della «dimensione preventiva nell'educazione» va ora completata con l'affermazione del «valore preventivo dell'educazione», dove prevenire non è solo evitare le esperienze che possono essere durevolmente distruttive, o anticipare e accompagnare educativamente i ritmi di sviluppo della persona, ma è anche impedire la strutturazione irreversibile dei comportamenti negativi, destrutturare gli atteggiamenti pericolosi, abilitare ad affrontare rischi calcolati e a risolvere incognite esistenziali.
    La dimensione preventiva cosí intesa diventa componente essenziale della preoccupazione pedagogica, e non più o non solo amminicolo metodologico di corto respiro.
    Questa prospettiva restituisce all'impegno educativo la sua valenza sociale e politica, in quanto la prevenzione si qualifica (solo se cosí intesa) come versione moderna di quella promozione dei giovani «pericolanti» da cui don Bosco si aspettava la «rigenerazione» della società.
    Qui «promuovere» significa infatti predisporre una serie di opportunità che abilitino il giovane ad anticipare il rischio di una caduta irreversibile nell'irrazionalità, perdendo cosí le possibilità di assicurarsi i percorsi verso la realizzazione personale e il protagonismo sociale.
    Ed è un «promuovere» che diventa impensabile senza il «prevenire».

    ACCOMPAGNARE EDUCATIVAMENTE LA VALORIZZAZIONE DELLE RISORSE GIOVANILI

    La lettura della condizione giovanile «povera, abbandonata, pericolante» nel contesto della società complessa e postindustriale ci ha portati a identificare una serie di problemi e di contraddizioni che caratterizzano la vita di molti adolescenti e giovani del nostro tempo.
    E tuttavia non dobbiamo perdere di vista un fatto rilevante, che resta al di là di tutte le difficoltà obiettive e i rischi che abbiamo segnalato: ed è che i giovani costituiscono pur sempre una risorsa, quando si sappia valorizzarne le capacità e le domande educative, implicite in ogni esperienza, anche negativa.
    In un altro contesto ho analizzato come si possa ipotizzare la nascita di una nuova domanda di partecipazione-appartenenza-responsabilità a partire dalla coscienza del rischio di marginalità; di una domanda di riflessività, interiorità, personalizzazione a partire dalla coscienza della frammentarietà; di una domanda di soddisfazione dei nuovi bisogni a partire dalla coscienza di una identità espropriata.
    Si tratta di ipotesi la cui realizzazione è subordinata ad un'attenzione educativa intelligente e ad un'operosità politica efficace da parte degli adulti. È importante infatti stimolare la consapevolezza del disagio mediante la proposta testimoniale di valori alternativi e realizzabili, e allo stesso tempo creare le premesse istituzionali perché la creatività giovanile possa concretamente manifestarsi in forme di protagonismo sociale.
    Oggi queste due azioni sono vissute per lo più nella separatezza, sia per la crisi di coscienza che contraddistingue numerosi educatori non più capaci di percepire la valenza politica dell'azione educativa, sia per la banaliz7azione della politica, sempre più destituita dei suoi fondamenti etici e culturali, e perciò impreparata a svolgere una funzione educativa.
    La diffusione e la complessità dei problemi inerenti la condizione dei giovani «poveri, abbandonati, pericolanti» esigono un atteggiamento ben più articolato e profondo di quanto non fosse necessario ai tempi di don Bosco.
    Il superamento dell'assistenzialismo (e del connesso rischio di paternalismo) già avvertito da don Bosco come una premessa necessaria alla promozione dei giovani delle classi popolari, si presenta oggi come un imperativo; ma la sua alternativa non pare essere il neutralismo pedagogico, che è solo ripiegamento irresponsabile di fronte alla domanda educativa dei giovani.
    La capacità di don Bosco di farsi carico di tutta la domanda educativa dei giovani, il suo sforzo di rispondere ad essa con una proposta il più possibile completa e esauriente, la sua preoccupazione di offrire una sintesi operante tra educazione ed evangelizzazione, la sua sensibilità per le dimensioni e le valenze «laiche» della propria azione pastorale, restano un paradigma ancora valido, le cui potenzialità sono in gran parte da scoprire.


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