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    C'è uno spazio oggi per i giovani? (libro "Scommettiamo nell'educazione")


    CSPG, Scommettiamo nell'educazione, Elledici 1988

     

    C'è uno spazio oggi per i giovani?
    Mauro Laeng
    (pp. 99.103)

    Rammento che quando ero appena studente, negli anni '30-'40, era di moda il detto «largo ai giovani!». Questo poteva significare due cose: che ai giovani non era stato fatto spazio abbastanza, e bisognava reclamarlo; oppure che i vecchi erano fuori gioco, e bisognava cambiare stile. Devo aggiungere che a questi detti veniva dato un senso particolare dal regime allora dominante.
    Molti anni dopo, quando non ero più studente ma professore all'università, risentii accenti poco diversi, gridati nelle piazze. Si voleva la «immaginazione al potere», l'autogestione scolastica, il contropotere studentesco.
    Anche quella stagione è passata, e circa un'altra generazione (la terza nella mia memoria) riaffaccia oggi le stesse istanze. Se non fossero persone diverse a chiederlo, saremmo tentati di dire che lo spettacolo è sempre lo stesso, che la moviola gira la stessa pellicola.
    Se confronto le mie personali impressioni con quello che ci dicono le biografie e le storie, il quadro si amplia assai, ma ripresenta sostanzialmente la stessa scena. Si direbbe che si tratti di una fenomenologia ricorrente, che appartiene non a un periodo circoscritto, ma alle fasi di ciclico rinnovamento della natura umana.
    È stato anche coniato un termine per definire tutto questo come «divario generazionale». In altre parole, ogni generazione vede la precedente come gravata dal passato, e sente se stessa chiamata ad avviare un nuovo corso. I vecchi amano discorrere delle loro memorie, mentre i giovani discorrono dei loro progetti. E come tutti sanno, il passato è già «avvenuto» e quindi irreformabile, mentre il futuro si dice apposta «avvenire» ed è aperto a tutte le possibilità.
    Questo è il primo fondamento del divario generazionale. E poiché la differenza è strutturale, in quanto dipende da due prospettive per forza di cose orientate in sensi opposti, è una differenza non riducibile. Tutti gli altri motivi che possono dividere gusti, preferenze, desideri, apprezzamenti sono complementari e accessori. Certo anch'essi hanno il loro peso, soprattutto in epoche di profondi e rapidi cambiamenti ma vengono comunque rafforzati e amplificati dall'orientamento di fondo.
    A ben vedere, però, nell'orizzonte contingente e mutevole, le cose non sono mai perfettamente identiche. Per esempio, vent'anni fa il giovanilismo nero o rosso avevano motivazioni in parte divergenti: che cosa abbiamo oggi? Forse un giovanilismo «grigio», o almeno «verde»?

    SPAZIO NELLA FAMIGLIA? SPAZIO NELLA CHIESA?

    La tentazione di chiamarlo grigio viene dalla constatazione diffusa (soprattutto di matrice sociologica) di una caduta di ideali, di un ripiegamento sull'utile e sul piacevole, di una ricerca di riscontri immediati come il posto sicuro, il ragazzo o la ragazza del cuore.
    I casuali gruppi che si formano a scuola, nel vicinato, nei luoghi di ritrovo sembrano caratterizzati da alcune convergenze superficiali. Il motorino, la motoretta, la motocicletta (di cilindrata crescente con l'età) sono più simboli che mezzi di trasporto. La cuffia del mangiacassette al collo è più un distintivo che un mezzo per sentire musica. Il mangiare panini o frequentare fast foods è più una identificazione di stile che un modo di nutrirsi.
    Tuttavia questa diagnosi pecca di semplicismo: e fatta dai «vecchi» rischia di perdere proprio i connotati più interessanti. Tanto per cominciare, il «grigio» è sempre più venato di verde, con il rilancio di ideali nuovi di pace, comprensione, non violenza, diritti civili, difesa delle minoranze. Fra la monotonia del quotidiano e le fughe in avanti delle utopie, i giovani avvertono ormai una dicotomia dolorosa, e si interrogano per sapere se ciò abbia senso; non basta «tirare a campare» e neppure «sognare»; si fa forte l'esigenza di «costruire».
    C'è allora per i giovani d'oggi uno spazio nella grande società: e ce n'è uno, in particolare, nella famiglia e nella chiesa? La domanda pone di fronte a due istituzioni, che hanno una struttura millenaria.
    Come può il giovane che vive la sua età nell'arco di un paio di decenni confrontarsi con siffatti giganti?
    Pare assodato che per lui c'è comunque già uno spazio ben preciso, definito, protetto. Il figlio sarà un bravo scolaro, poi uno studente, un apprendista o un lavoratore, fino a che potrà farsi a sua volta una famiglia. Il piccolo fedele sarà un catecumeno, poi un attivo cooperatore, un membro consapevole del laicato o un aspirante al sacerdozio.
    Il sistema ha funzionato tanto a lungo, che ci si stupisce che oggi manifesti qualche incaglio e difficoltà. Milioni di giovani nel mondo crescono in famiglia e trovano alimento spirituale nella chiesa senza gravi problemi: per essi la saggezza di molte generazioni è rimasta più o meno intatta. Ma altri milioni non hanno più una famiglia nel senso tradizionale, o trovano la chiesa non corrispondente alle loro aspettative.
    È vano chiedersi se per questi ultimi ci sia un posto nella famiglia: bisognerebbe prima di tutto che ci fosse «una» famiglia.
    Ed è vano chiedersi se ci sia posto in «una» chiesa che essi rifiutano.
    Per loro c'è semmai la riflessione di chi, avendo perduto certe sicurezze e certi valori, si interroga se valesse la pena di buttarli al vento, visto che sull'altra sponda c'è solo un arido deserto.
    Se non ci sono gravi problemi per le pecore che sono «nell'ovile», e non ci sono soluzioni immediate per coloro che ne sono «fuori», restano ben presenti invece i problemi di coloro che sono a mezza strada: i genitori incerti, i ragazzi disorientati.

    LE BASI DA CUI RIPARTIRE

    È di somma importanza per costoro convincersi che per «costruire» davvero un migliore domani, è importante partire da basi solide.
    Non conviene gettare la sapienza delle moltitudini attraverso i secoli che hanno creato i focolari e gli altari, la coesione attorno agli impegni della reciproca fedeltà e della reciproca carità. Piuttosto, bisogna recuperarne il significato dal di dentro.
    Si dice che l'abitudine è la tomba dell'amore: sia in senso profano, sia in senso sacro. Ritrovare ogni giorno il senso di quello che facciamo come se fosse la prima volta, vuol dire allora che è sempre mattino, che la vita ricomincia sempre nuova.
    In altre parole, il posto per i giovani nella famiglia e nella chiesa è quello che le istituzioni stesse amorevolmente provvedono per la propria continuità: ma non è quella «nicchia» prestabilita e ben custodita che qualcuno vorrebbe pensare.
    È un punto di divaricazione e di crescita, come lo è un ramo nuovo che si spinge fuori dal tronco antico: ha in sé tutte le linfe che trae dal vecchio fusto, ma tessuti verdi che si organizzano e maturano per proprio conto.
    Il modo migliore di essere giovani non è quello di beffeggiare il passato, e certo neppure quello di imitare pedissequamente i vecchi, ma di osservarli e rispettarli, per fare poi da sé, tenendo conto delle precedenti conquiste e dei precedenti errori.
    Un giudizio tagliente, un desiderio di assoluto, pongono spesso il giovane in polemica con le generazioni precedenti, le cui infedeltà ed errori sono sotto gli occhi di tutti.
    Ma ricominciare da zero è impossibile. E più tardi quelle critiche implacabili si attenueranno o si spegneranno quando l'aspra lima dell'esperienza avrà lasciato il segno anche sui non più giovani della generazione seguente, esposta al giudizio di nuovissimi nati.
    Altrettanto importante è l'atteggiamento dei più anziani: che devono rendersi conto di essere transitori, e destinati alla sostituzione entro breve tempo.
    C'è dunque spazio per i giovani? Direi che o c'è spazio per loro, per le loro ansie e impazienze ma anche per la loro generosità, o c'è il fatale declino.
    La famiglia è per natura votata al rinnovamento: esiste per questo. Ma la chiesa non è da meno: sarebbe illusione dire che essa è costruita sulla roccia di un deposito che non muta, se si dimenticasse che questa è solo una metafora.
    La continuità della chiesa è tutta affidata alla fede dei credenti, che si avvicendano nel corso delle età. Molto meglio della roccia che può infine sbriciolarsi, è una successione infinita di generazioni viventi, che durano oltre la vicenda breve, che si tramandano la speranza e l'attesa.
    In conclusione, i giovani in quanto giovani ci richiamano ad alcune caratteristiche fondamentali della vita:
    1) l'essere in «statu nascenti»; la vita si attua nella creazione incessante del nuovo, più che nella conservazione del vecchio; il giovane è forse talora incostante, ma sempre versatile e aperto; nessuno come lui capisce il messaggio della «metànoia» e del «denuo renasci»; perciò il suo cristianesimo è «catecumenale», di preparazione e di rafforzamento; non a caso la sinagoga e poi la chiesa hanno collocato in questa età la confermazione, nelle forme del «bar mitzvah» ebraico e della «cresima» cristiana;
    2) l'essere per questo in stato di attesa e di dono; è attesa di pienezza di vita, di fecondità, di creazione; l'irrequietezza giovanile è un segno positivo, se è rifiuto di passività, di stasi, di inerzia;
    3) il privilegiare la dimensione della gratuità; i giovani per lo più ancora dipendono economicamente dalla famiglia, e per tale rispetto sono «consumatori non produttori»; questo può essere un inconveniente, ma ritarda il momento della assunzione di compiti e responsabilità che abbiano come loro metro il compenso; ne segue che essi forse da un lato sottovalutano i meccanismi inesorabili dell'economia e del «mercato» con una punta di disistima che soffre di astrattismo; ma sono anche inclini a valutare le cose più per il loro valore di scambio; fra i giovani si reclutano le file del volontariato, del lavoro libero, dell'assistenza ai bisognosi, senza calcolo e senza secondi fini (neppure di proselitismo);
    4) infine, ai giovani si addice l'allegria; lo spirito lieve del gioco non si è ancora esaurito, anzi si svolge in nuove forme più complesse e sottili; la pensosità individuale, ripiegata su di sé con introspezione, trova il suo contrappeso nella espansione della gioia di gruppo, anche negli scherzi: da S. Filippo Neri a S. Giovanni Bosco questo è un tratto dominante di una pedagogia che privilegia la serenità come clima favorito dall'animo in pace con Dio e sollecito del prossimo.
    Come in una famiglia dove ci sono bambini non manca il sorriso, così nella chiesa dove ci sono giovani non manca la gioia. La gioventù perenne è la garanzia che anche la parte militante quaggiù della chiesa non ha concluso la storia, non ha terminato la propria battaglia, non ha finito la propria missione.


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